Re:I postulanti dell'Assoluto - Approfondimenti.

Aperto da atomista non pentito, 12 Settembre 2020, 21:53:49 PM

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Aumkaara

Non credo di aver capito quando dici che la Verità è una questione etica, né quando concludi che la sua ricerca porta all'inferno. Puoi spiegare cosa intendi?

bobmax

#61
Il mondo fisico, le sue leggi, la logica, i suoi principi, sono tutte cose importanti. Indispensabili per il cosmo in cui viviamo. Senza di esse saremmo perduti, sarebbe il Caos.

Tuttavia, di per se stesse non hanno alcun valore, se non di dare senso ad ogni nostra situazione di vita.

Ciò che vale, per davvero, è solo il Bene.
Ma nel mondo e nel pensiero razionale non vi è nulla che fondi il Bene assoluto.
Il Bene ha bisogno di te.
Solo tu, in perfetta solitudine, puoi far sì che il Bene sia.

È l'unica libera scelta che davvero abbiamo: affermare che il Bene è!

Tuttavia, finché c'è un io, l'affermazione del Bene, la certezza dell'Assoluto, implica la nostra discesa all'inferno.
Perché più Dio è certo e più io non ne sono degno.
All'inferno ci si autocondanna, inevitabilmente.

Finché c'è un io, figlio unigenito.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Aumkaara

Forse sono sempre stato talmente poco affine alle religioni (anche se sempre senza denigrarle se viste come simboli, e anzi cercando di conoscerle il più possibile in questo senso), che il modo in cui hai espresso i concetti sull'io mi stonano leggermente: un io visto come indegno di Dio è una visione che trovo adatta solo per un certo tipo di fedeli. Anche se non ho difficoltà a leggerlo in un modo simbolico attinente alle mie esperienze: l'io non è degno nel senso che è solo un'impressione, un oggetto mentale "facilmente" attenuabile con la sola osservazione, con la sola attenzione: cercalo, e non lo troverai. Da questo punto di vista, il Dio di cui non è degno è proprio l'attenzione. In fondo, cos'altro "crea" un mondo (sempre accompagnato da un io, più o meno elaborato e affinato) se non una certa dose di attenzione? Abbassala, e il mondo, insieme all'io, muta (si restringe, o si colora di sogni, o sfuma nel sonno più profondo), alzala, e il mondo-io diventa più trasparente, fino a sembrare sempre meno autonomo, e alla fine quasi inesistente.


Per curiosità, posso sapere che formazione, chiamiamola così, hai avuto negli argomenti filosofici o spirituali? Solo per non rischiare di confondere linguaggi con significati per te diversi rispetto ai miei.

bobmax

Il bisogno di porre delle etichette, di fissare delle appartenenze è molto diffuso. Così come la rigidità nell'interpretare i termini.
In questo modo si fissa ostinatamente il dito senza rendersi conto della Luna.
Pensare che il tema qui sarebbe l'Assoluto... ma tant'è.

D'altronde è emblematico come sfugga ai più l'assurdità di considerare l'Assoluto a prescindere dall'Etica.

La non dualità è più facile trovarla negli umili che negli eruditi.
Sebbene la non dualità sia nel cuore pulsante dell'autentica filosofia di ogni epoca.

Buona continuazione.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Aumkaara

#64
Non so se conosci Shankara: molti si lamentavano del fatto che parlasse poco o nulla di etica. Lui (o i suoi epigoni) rispondeva che quella deve essere già assodata, per poter affrontare argomenti sulla non dualità. Infatti anche alcuni insegnanti che pongono la non dualità come il massimo dell'insegnamento filosofico, danno l'etica per scontata in coloro che li ascoltano (se si tratta di un gruppo ristretto) oppure, se insegnano a platee nutrite o al mondo in generale, insegnano soprattutto etica, persino moralità (nei limiti del contesto sociale in cui hanno rispettivamente senso le varie forme di quest'ultima). Quindi concordo che l'etica sia essenziale, anche perché la non dualità si esprime meglio in un atto (che è il modo in cui si può concentrare l'attenzione di cui parlavo nel messaggio precedente), e proprio in un atto disinteressato, ovvero etico, compiuto da qualcuno che magari non sa neanche che cosa siano le filosofie sulla non dualità. È molto più efficace, rispetto a quanto si possa esprimere in una spiegazione logica e razionale. Questa rimane comunque uno strumento molto usato; persino i maestri zen che hanno per principio la non dualità e la repulsione verso gli argomenti dialettici, alla fine sono costretti a parlare in termini eruditi, in certi contesti.
Mentre il voler fissare appartenenze ed etichette è utile, come chiedevo nel messaggio precedente, solo per sapere quale linguaggio usare, mentre è ovviamente fuorviante per classificare persone o insegnamenti.

Ipazia

Citazione di: bobmax il 30 Settembre 2020, 08:14:15 AM
Pensare che il tema qui sarebbe l'Assoluto... ma tant'è.

D'altronde è emblematico come sfugga ai più l'assurdità di considerare l'Assoluto a prescindere dall'Etica.

La non dualità è più facile trovarla negli umili che negli eruditi.
Sebbene la non dualità sia nel cuore pulsante dell'autentica filosofia di ogni epoca.

Buona continuazione.

Grazie. Qui il tema è la postulazione aporetica dell'Assoluto, rispetto al quale la non dualità orientale e il monismo teologico occidentale sono varianti locali di una comunemente diffusa aspirazione ad un Tutto non meglio identificato, ridondante di lettere maiuscole la cui efficacia apotropaica e taumaturgica nel contrastare il dualismo etico pare piuttosto inconsistente.

Invece a me sembra che il fato degli umani sia irreducibilmente duale. Lo è archetipicamente nel doppio canale dell'ereditarieta specista per via genetica e culturale. Lo è nella condizione et(olog)ica della via culturale, immersa - solo lei - nel bene e nel male. Il dualismo etico è inesistente nella via genetico-naturalistica totalmente aldiqua del bene e del male. L'aldilà (del bene e del male) è una scommessa tutta da verificare.

Il prosieguo del discorso in altra discussione che si occupa di questioni etiche, maligne, e per necessario contrappunto, benigne.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Jacopus

La dialettica (dia) non a caso ha un pò a che fare con il diavolo (dia), ma è la dialettica a salvarci da ogni pensiero autoritario e distruttivo, solo credendo nel dialogo (dia) e non nel monologo, possiamo costruire il bene comune. Una dialettica che deve essere esercitata anche nei nostri confronti, nella nostra stessa mente. In fondo non è altro che riscoprire Socrate, cioè il fondamento di ogni conoscenza. E' l'unus ego et multi in me, che la Yourcenair mette in bocca ad Adriano, e che è uno degli atti creativi fondanti dell'Occidente.

Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Aumkaara

#67

La non dualità sarebbe una scommessa se fosse soltanto un'etichetta, applicata al fondamento del mondo o ad un Dio, su cui fondare la speranza di una migliore comprensione e quindi un migliore rapporto con esso.
Invece è, anche se secondariamente, una teoria ben delineata da certe filosofie, per noi problematiche da studiare in tutti i loro dettagli logici perché inestricabilmente legate alle forme dei linguaggi delle religiosità d'oriente; non è comunque confinata ad esse, a differenza delle teologie, a cui appartiene buona parte del monismo; che non è la stessa cosa della non dualità, anche perché, come la teologia in generale o come le filosofie che prendono le mosse dalla teologia (anche solo per distaccarsene), rimane maggiormente nel teorico e scende tutt'al più nel sentimento. La non dualità ha invece una controparte pratica più evidente (a differenza di molta filosofia moderna, che spesso si accontenta di fornire teoremi da usare per dare un significato umanistico ai risultati della scienza), e questo aspetto pratico è molto semplice da capire, anche se non da attuare: è quando l'azione è spontanea ma rimane consapevole e quindi indipendente dagli strumenti dicotomici della razionalità e dell'emotività, che potevano essere usati (e di solito vengono usati, adeguati o meno che siano) per espletare l'azione, ma che, proprio perché sono duali e difficili da usare con equilibrio, si finisce per compiere azioni non equilibrate, che lasciano solchi, e quindi cicatrici, anche nell'interiorità, che ce se ne renda conto o meno.
L'azione non duale è "gerarchicamente superiore" (ma in modo più diretto perché più simile rispetto a quanto lo sia nei confronti della dualità ragione-emozione) anche nei confronti dell'azione istintiva (che è il citato "aldiquà" degli opposti), che è altrettanto spontanea, ma mentre viene compiuta non rende consapevoli degli strumenti emotivi e razionali che potrebbero essere usati per compiere l'azione.

Filosoficamente (con tutte le dimostrazioni logiche del caso), questa azione non duale è stata posta come sintomo di una naturale non dualità dell'esistenza, perché è stata paragonata alla condizione duale che di solito sperimentiamo, vedendo come quest'ultima a confronto sia non spontanea, non completa, formata da elementi tra loro dipendenti che, se non hanno ragione sufficiente singolarmente, non possono trovarla neanche reciprocamente (non si può dare ciò che non si ha); risulta in definitiva relativa, manchevole e quindi apparente.
Di conseguenza, la condizione non duale è stata considerata come l'unica reale, quindi come Assoluto (la maiuscola accontenta i religiosi, ma si comprende come, essendo assimilabile ad una condizione, non sia un ente). Questa resa filosofica non è solo per fare teoria, ma viene usata come esercizio per saturare la fame di concetti razionali, così come gli aspetti emotivi vengono saturati dalla religiosità di cui questa filosofia usa i simboli, a sua volta usati nelle ritualità con cui si cerca di saturare gli istinti; tutte saturazioni atte a spezzare i circoli in cui questi aspetti duali (nel caso di razionalità ed emotività) o comunque subordinati ad essi (nel caso dell'istintualità) ci imprigionano nei loro limiti, così da far compiere il "salto" verso l'azione non duale. Accompagnata spontaneamente da una cognizione altrettanto non duale, perché, mancando il nostro usuale fondarci sui due aspetti dicotomici, si attenua anche la dualità azione-percezione.

L'aspetto etico è altrettanto conseguente: non essendoci azione e valutazione duale, non può esserci azione sbagliata, per quanto alcune, nel loro apparire, possano sembrare non adeguate alle idee di certe moralità.
L'insegnamento etico invece non è direttamente necessario per l'azione non duale più di un qualunque altro ausilio razionale, emotivo-sentimentale e rituale. Ha invece particolare importanza per il vivere sociale, per il fatto che non solo noi concepiamo a mala pena l'azione non duale, e non ci fondiamo più sulla "sorella minore" di quest'ultima, l'istinto, incanalato nelle società tradizionali antiche, specialmente orientali, nel rito (non a caso il latino ritus è affine al greco ritmos e al sanscrito rta, ordine - ho fatto anche il dotto, così...), ma non riusciamo neanche ad attuare un serio tentativo di equilibrio, di per sé comunque precario, tra ragione ed emozione, su cui siamo fondati, schizofreneticamente e conflittualmente, oggi.

Il dialogo stesso ha poco senso, di per sé, per far attenuare il conflitto, al massimo è uno degli ausili suddetti, quindi uno strumento che parte dall'ignoranza, non un sintomo di conoscenza (era appunto il citato Socrate che saggiamente sapeva soltanto di non sapere, se non sbaglio): parte da un senso di dualità, come ci ricorda appunto l'etimologia della parola stessa, quindi parte dalla manchevolezza, dalla dipendenza, dalla smania di compensazione. Ha più senso l'esprimersi di un proprio monologo e l'ascolto di quello altrui, da cui far emerge un altrettanto monologo proprio e così via. Parlando, così, non per contrapporsi ma per affinarsi in base a quello che si è sentito. Ma questo è più che altro il risultato di "spiragli" di non dualità, più che il presupposto.

Ipazia

L'unità psicosomatica, tanto del corpo individuale che sociale, è una splendida utopia, che va però calibrata a teorie più terra terra in attesa che l'era del paradiso-nirvana si realizzi (dentro di noi e intorno a noi nell'agognato Tutto). Il modello di riferimento è quello delle funzioni matematiche trascendentali, che puntano impudicamente all'infinito, dalla quali dobbiamo, a malincuore ma anche no, sezionare la parte che ci è utile per far funzionare le nostre applicazioni tecnoscientifiche nella loro area di esistenza che resta assai lontana da quel teorico, virtuale, infinito (succede sempre qualcosa prima che nol consente).

Persino i non-duali hanno dovuto modellarsi sulla coppia dualistica samsara-nirvana per teorizzare la non-dualità.

Ogni presunzione di Tutto decade di fronte alla pluralità delle coscienze individuali nel cui confronto nessuna può pretendere una superiorità epistemica a priori, ma anche si giungesse ad una coerente mente collettiva essa si dovrebbe confrontare dialetticamente con "leggi" naturali che non conoscono l'amnistia e scorciatoie azzeccagarbuglie.

La condizione umana è dialettica a prescindere da tutte le pillole afrodisiache che l'intelletto umano possa escogitare. Mentre le stelle stanno a guardare.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Aumkaara

#69
Nei momenti in cui un'azione non duale (intesa nei termini con cui l'ho meramente definita) si attua, non c'è né rammarico, né freddezza, né rassegnazione, né stoica sopportazione, né razionalizzazione, nei confronti delle "stelle che stanno a guardare", né nei confronti di quella pluralità di coscienze scalcianti per cercare una superiorità epistemica in quelle razionalizzazioni teoriche da cui di per sé non c'è uscita, scadendo così nell'abuso delle compensazioni tecnoscientifiche con tutti i danni che esso comporta, come tutti gli abusi; e non c'è neanche soggezione, e quindi neanche bisogno di dialettica, verso le leggi di natura che non acconsentono "scorciatoie e amnistie".
Anche perché, in quei momenti, non c'è neanche modo o necessità di definire o di distinguere questi enti "brutti e cattivi" (che giustamente ci appaiono così, nell'ordinaria condizione in cui siamo presi costantemente da emozioni non diverse da quelle con cui siamo nati, e che abbiamo tutt'al più intessuto con razionalizzazioni e sopportazioni da persona adulta).


In quei momenti "non duali" (rari per chi non vi si dedica abbastanza ma comunque raramente ininfluenti una volta sperimentati, e quasi impossibili da sperimentare per chi li nega a priori e non li affronta come fa un qualunque scienziato obiettivo e non dogmatico di fronte a qualunque teoria non provata), in quei momenti in cui la coscienza semplicemente arretra senza offuscarsi né distaccarsi, chiedergli di avere paura o accettazione sarebbe come andare da un leone che caccia, pieno di sangue non suo e immerso in interiora altrui, e chiedergli se ha comprensione, rimorso o sadismo, oppure sarebbe come andare da una gazzella morsa al collo, ancora viva e sana ma che non esita comunque ad accasciarsi e a non fare più resistenza, e chiedergli se ha stoicismo, rimpianto o masochismo. No, non hanno sentimenti o razionalizzazioni del genere, o comunque non si fanno sopraffare da quel poco che potrebbero avere di essi. A meno che non gli si voglia attribuire quell'antropomorfismo che hanno al massimo, un poco, gli animali domestici.


La non dualità non è niente di trascendentale quindi, ci riescono anche gli animali "selvaggi", la differenza è che loro hanno questo "stato" senza mai aver sufficientemente avuto, e quindi senza mai aver superato, gli strumenti razionali ed emotivi; strumenti attraverso cui noi sperimentiamo quelle condizioni e quelle valutazioni che hai descritto, in modo stilisticamente perfetto tra l'altro. L'altra differenza con la modalità "non duale" animale è che per un essere umano il non dipendere da sentimenti o razionalità non è sinonimo o scusa per cedere agli istinti e alle pulsioni; anzi, queste sono incredibilmente integrate in quei momenti, in un modo che non so spiegare se non come "utili servi del momento" (che solo a posteriori torna ad essere diviso in "te e me", questo e quello", ecc.), invece che "utili servi" della sola sopravvivenza fisica e delle dinamiche intra e iterspecie, come nel caso degli animali, o "utili servi" delle frustrazioni, come nel caso di quegli umani che abbandonano emozioni e ragioni solo per scendere nelle pulsioni (ed è inevitabile prima o poi, se non si cerca altro, perché restare tra emozioni e razionalità ne crea molte, di frustrazioni anche solo inconscie).
È talmente una condizione non "trascendentale", che persino alcune delle religioni meno sentimentalistiche (e per questo forse a volte poco ascoltate o capite dai fedeli, su questo aspetto) hanno compreso la relatività e l'inesattezza della citata modellizzazione duale tra samsara e nirvana; il Mahayana fa quasi un vanto di questa comprensione, nei confronti del (per lo meno apparentemente) più religioso e duale Theravada.

Phil

@Aumkaara

Per come la "vedo", fra i dualismi logico-concettuali che danno forma sia all'empirico che alla teoresi, c'è una «via di mezzo», che è perlopiù una via di fond(ament)o, che ha nel vuoto (sunyata) il suo alveo. "Sotto" il linguaggio, sotto la convenzionalità, sotto "i mezzi-abili"(upaya), sotto il chatuskoti, sotto il soggetto che afferma "io" (affermando così l'alterità dell'Altro in quanto non-io), c'è l'assenza (non l'essenza) del "comune vivere", visione della vita che esige tutto ciò che sovrasta tale assenza-vuoto. Pensare il/al comune vivere può significare sospendere/accantonare il pensare tale assenza-vuoto, ma non viceversa (ovvero ciò è dualistico solo se lo si pensa a partire dal pensiero convenzionale, mentre pensando a partire dall'assenza-vuoto, non c'è dualità; come samsara-nirvana suppongo siano dualistici solo guardati dal samsara, ma non viceversa, narrazioni "popolareggianti" a parte).
Cercare di stabilire un ponte fra tale assenza e la necessità pragmatica della convivenza (sociale, culturale, etc.) è il gesto che, "demagogicamente", giustifica l'antico appello alla valenza soteriologica della non-dualità (compromesso teorico eccessivamente sbilanciato verso le esigenze psicologico-mondane). Dopo duemila anni di lento disincanto, oggi è possibile guardare a tale vuoto (dove semplicemente ed essenzialmente, non c'è appunto nulla da "vedere") senza intravvederci il segnaposto della "salvezza" o dell'"illuminazione" o il fondamento di un'etica (che invece è molto più sovrastrutturale di tale vuoto). Data un'occhiata al vuoto di fondo, non resta che, memori di quanto sia (s)fondata la pienezza che ci circonda, tornare a "coltivare il nostro giardino" (come constatava candidamente il noto personaggio di un libro).

Aumkaara

#71
Non credo tu abbia detto una sola parola su cui io potrei essere in disaccordo, Phil. Sono riuscito a comprendere anche il modo buddista con cui hai parlato, anche se è un linguaggio che conosco leggermente meno di altri, comunque simili.
Io però sto evitando i termini "specialistici", perché essi "dall'esterno" sembrano frutto solo di costruzioni teoriche, che postulerebbero paradisi artificiali differenti da altri solo per una maggiore sottigliezza intellettuale. Il punto era proprio quello di sottolineare con espressioni "normali" (anche se purtoppo, nel mio caso, non sintetiche) che non si tratta di niente di elevato in senso utopistico (se dei momenti del genere li ha avuti uno qualunque come me, e, pur se saltuari, hanno influenzato la vita spontaneamente, senza più molti sforzi, come non potrebbe fare una costruzione mentale troppo artificiosa, allora vuol dire che sono alla portata di tutti, potenzialmente), né in senso soprannaturale.
Anzi, chi vuole, li veda come un qualunque "prodotto" mentale al pari di altri (se proprio volete vedere la connessione mente-neuroni come se la prima fosse l'escrezione dei secondi). Ma che non per questo debbano essere considerati inattuabili o inutili, come se la visione conflittuale fosse la più universalmente vera (se fosse così, non ci sarebbero equilibri fisici ed ecologici, che invece avvengono persino da soli, anzi, per "aiutarli" quando noi li alterniamo, basta non intromettersi ulteriormente in essi), o come se l'unica alternativa fosse l'istintualità, in cui l'unico modo per non trovarvi stordimento o follia è quello di soffocare (invece di integrare) razionalità ed emozioni in favore di una società rituale arcaica.

Ipazia

Citazione di: Phil il 02 Ottobre 2020, 12:51:33 PM
Pensare il/al comune vivere può significare sospendere/accantonare il pensare tale assenza-vuoto, ma non viceversa (ovvero ciò è dualistico solo se lo si pensa a partire dal pensiero convenzionale, mentre pensando a partire dall'assenza-vuoto, non c'è dualità; come samsara-nirvana suppongo siano dualistici solo guardati dal samsara, ma non viceversa, narrazioni "popolareggianti" a parte)

Suppongo siano dualistici anche visti dalla parte degli illuminati quando li teorizzano. Quando li vivono non fanno storia universale, aldilà dello stato estatico racchiuso nella loro mente. Maieutico certamente come ogni farmaco mentale che si rispetti. Un farmaco più elitario che popolareggiante. Potendoselo permettere.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Aumkaara

Viene da chiedere: cosa c'entra la storia con l'universale, o il fatto che essa sia influenzata o meno da ciò che di universale colgono solo alcuni? Si mette in dubbio che uno stato "estatico" possa riflettere l'universale, e sia invece solo un farmaco, un costrutto senza connessioni con altro, però dovremmo aspettarci che sia la storia, la collettività, a cogliere qualcosa di più stabile e integrale? O che comunque niente abbia valore se non è essa a coglierlo? O forse il suggerimento è che ci sia una scissura assoluta sempre e comunque tra ciò che cogliamo (individualmente o collettivamente) e una qualche universalità?

Phil

Citazione di: Ipazia il 02 Ottobre 2020, 13:48:48 PM
Suppongo siano dualistici anche visti dalla parte degli illuminati quando li teorizzano. Quando li vivono non fanno storia universale
Il dualismo è infatti teorico, ovvero deriva dalla teorizzazione, non dallo sguardo sul/dal vuoto; nel momento in cui vengono teorizzati «samsara» e «nirvana» si parla il linguaggio convenzionale (Nagarjuna), che è quello che appunto «sospende/accantona»(autocit.) il punto di vista dal/del vuoto.
Il primo passo per "fare storia universale" è infatti parlare il linguaggio convenzionale-dualistico, quello più diffuso sulla Terra, grazie al quale siamo qui a parlare e dare un (non?)senso a teorie di tremila anni fa (il che, storicamente, non sarà "universale", ma non è nemmeno insignificante, fosse anche solo per motivi psico-antropologici più che gnoseologici).
Come dire: per me-utente, l'Ipazia-utente è dualisticamente differente da Ipazia-persona, o meglio, da X (vero nome dell'utente Ipazia), ma per Ipazia-persona/X non c'è differenza "ontologica" fra il suo esser-persona e il suo esser-utente, lei è quindi fuori del dualismo Ipazia/X. Quando X sta nel piano convenzionale del forum, lo fa in quanto Ipazia-utente ma senza scissione dal suo essere Ipazia-persona (non c'è per lei dualismo), invece per gli altri utenti il dualismo delle due Ipazie è un dualismo inevitabile: non sanno nemmeno se "Ipazia" siano in realtà più persone, o un bot, o la vera Ipazia che scrive dall'al di là (come potrebbe ironizzare Jean...).
Restando in questo parallelismo (parziale, non perfettamente simmetrico al tema, ma spero renda l'idea) l'Ipazia-persona è "illuminata" (circa il suo essere X non-duale), tuttavia quando parla con i non-illuminati usa come «abile mezzo» (espediente funzionale) il dualismo Ipazia-utente/Ipazia-persona (che per lei non sussiste) per spiegare loro che tale dualismo può essere risolto/dissolto, perché convenzionale ma non "reale" (e l'obiettore di turno potrebbe rimproverarle che lei stessa si sta basando su tale dualismo, parlandone... al che lei potrebbe rispondere con questo stesso messaggio).

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