Realtà e rappresentazione

Aperto da Apeiron, 18 Ottobre 2016, 19:39:34 PM

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green demetr

Citazione di: Phil il 21 Ottobre 2016, 18:28:07 PM
A scanso di equivoci, vorrei precisare che aver ricordato la "profondità" dello scetticismo (che impedisce di sbarazzarsene semplicemente affermando "io esisto e non ne posso dubitare", poichè è proprio tutto il resto che il dubbio autentico problematizza, non certo la "voce dalla coscienza"), non implica affatto che, nel mio piccolo, sia un "sostenitore dello scetticismo".

Di fatto, le tre questioni che ho ricordato scomodando Gorgia, non sono esclusive dello scetticismo: identità, conoscenza e linguaggio sono temi inestricabili per ogni prospettiva filosofica... e più che metterle in dubbio, secondo me, la questione cruciale è fare i conti con la loro "relatività", il loro dipendere biunivocamente dal paradigma che le impiega (che è a sua volta basato su un approccio relativo... re-lativo, ovvero che ri-porta al suo punto di partenza, agli assiomi assunti come indubitabili, alla preferenze teoretiche, etc....).
La laboriosa sfida concettuale è probabilmente quella di barcamenarsi fra i molteplici orizzonti e le impostazioni disponibili, per provare a lanciare uno sguardo al di là di quello che scoprono e inventano le (neuro)scienze.

Si infatti se pazienti recupero le argomentazioni successive a quella che tu ritieni semplice, infatti non le ricordo, a me ripeto basta la spiegazione più semplice, non ho bisogno di ulteriori strumenti capziosi. Comunque attendi, ne scriverò.


Sulla relatività del sistema di riferimento infatti ci può aiutare la scuola analitica, in quanto pensavo che fossimo un gradino più avanti nella discussione, ne avevo gettato un primo abbozzo nel mio primo intervento.
(non so forse la questione è troppo accademica, e se non piace agli amici del forum, figuriamoci a me, che sono di idee opposte a quelle analitiche).
Comunque se non accettiamo la questione che lo scetticismo è battibile, non avrebbe senso nemmeno la argomentazione successiva. Quella che tu chiami del relativismo.






Vai avanti tu che mi vien da ridere

Apeiron

Chiedo perdono a @sgiombo e @Angelo Cannata per il fraintendimento del discorso del cervello. Attualmente ho poco tempo per leggere tutti i post e dare risposte sensate e ben fatte. Perciò in questo post cercherò di spiegare meglio il mio dilemma.

Anzitutto volevo precisare ancora una volta una cosa:
Realtà puramente oggettiva: l'oggetto in-sé indpendentemente da qualsiasi rappresentazione di uno o più soggetti. Con questo voglio dire che l'oggetto deve possedere qualità intrinseche e non solamente derivanti dall'"osservazione"/interazione col soggetto. Come dicevo nel post inziale non si può dire di conoscere la realtà in-sè se conosciamo solo come appare-a-noi. Per inciso se divento cieco tutti i colori spariscono e quindi la realtà in-sé è incolore. Il problema è che la stessa scienza potrebbe conoscere la realtà come "apparente" e come quindi derivante da come ci appare a noi.

Sembra anche che l'evoluzione della fisica ci suggerisca che una descrizione (matematicamente) esatta della realtà è completamente diversa da come come ci "appare" nella vita di "tutti i giorni". Il che potrebbe significare che l'essenza, cioè la realtà-in-sé è logico-matematica. Guarda a caso non possiamo "uscire" dalla logica e dalla matematica nei nostri studi razionali. In un certo senso questo sarebbe una sorta di "argomento" a favore del fatto che la nostra mente funziona come la realtà in-sé. Quello che però in tutto questo mi perplede è che di fatto siamo noi a conoscere queste cose e quindi ovviamente tale conoscenza dipende dai soggetti che conoscono. E quindi siamo al punto di partenza.

Concludo la prima parte di questo post dicendo che: abbiamo come la "tentazione" di asserire che qualcosa di assolutamente oggettivo c'è e che questo sia una sorta di "Logos", una sorta di "legge" dietro ai fenomeni. Il punto è che lo stesso pensiero di Logos deriva dalla nostra mente e quindi di fatto è una rappresentazione!

Vi è poi peraltro la precisazione sul concetto di "rappresentazione". Primo: la rappresentazione avviene sia a livello individuale che a livello collettivo. Ognuno di noi ha una sua "prospettiva" sulla realtà. Ciò è innegabile. Secondo: vi è anche però la rappresentazione ulteriore della rappresentazione che è data dalla nostra cultura, le nostre abitudini, i nostri legami interpersonali ecc. Ad esempio quando vedo un tavolo io lo riconosco come tale ma posso pensare ad una persona che vederebbe il tavolo come un "oggetto non identificato". Perciò sì il mondo è per così dire sia la "mia" che la "nostra" rappresentazione. In entrambi i casi quello che ci sembra "oggettivo" in realtà per gran parte è una sorta di "creazione" della nostra mente: il pensare che quello che percepiamo sia "la realtà in sé" produce "distorsioni" della nostra comprensione e quindi conduce all'ignoranza.

Per capire meglio il senso che volevo dare all'argomento: supponete di avere vicino uno specchio d'acqua torbido e voler capire quando l'acqua è limpida. Per farlo bisogna "tirare via" tutte le sostanze che la rendono torbida. E per fare ciò bisogna distinguere cosa è acqua e cosa non lo è.  Nel caso di questa discussione: "la realtà oggettiva" è l'acqua limpida. Le rappresentazioni sono ciò che la intorbidisce. Quindi a mio giudizio è di primaria importanza stabilire cosa non è oggettivo per capire la realtà.

Il problema è: è possibile rimuovere tutte le "impurità" o no. A mio giudizio NO, il massimo che possiamo fare è conoscere il funzionamento della nostra mente (o meglio le leggi del nostro pensiero). Questo perchè appunto abbiamo una prospettiva "nostra" e per eliminarla in "toto" dovremmo finire di essere "noi". Tuttavia si può avvicinarsi a tale situazione: conoscendo cioè le "rappresentazioni" come "rappresentazioni". In questo contesto l'empistemologia è sia una ricerca di qualcosa sia una terapia che ci libera dall'illusione di conoscere "veramente" qualcosa.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#32
@ Apeiron
Sono d'accordo con te. E' impossibile liberarsi totalmente dalle rappresentazioni, pena il liberarsi di "noi stessi". Però è possibile aver consapevolezza che le rappresentazioni sono rappresentazioni. E questo è "saggezza" (  scusate la parola desueta, fuori moda, così poco...filosofica. Cercherò di usarla il meno possibile...).
"Noi stessi" siamo la nostra rappresentazione; siamo la rappresentazione che di noi si fanno gli altri; siamo la rappresentazione che noi e gli altri facciamo di noi; siamo la rappresentazione che costruiamo su di noi confrontandola con la rappresentazione che abbiamo costruito sugli altri e siamo costruiti dalla rappresentazione che gli altri hanno costruito su di noi...
La nostra rappresentazione si riflette su molteplici specchi , posti su piani diversi, in gran parte inconsci e impersonali. Non c'è in definitiva un "noi stessi" ma solo infinite rappresentazioni di noi rimandate distorte di specchio in specchio. La consapevolezza dell'illusione rappresentativa non è "in noi", a mio parere. E' "qualcos'altro"...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

green demetr

Citazione di: Apeiron il 22 Ottobre 2016, 13:33:46 PM


Anzitutto volevo precisare ancora una volta una cosa:
Realtà puramente oggettiva: l'oggetto in-sé indpendentemente da qualsiasi rappresentazione di uno o più soggetti. Con questo voglio dire che l'oggetto deve possedere qualità intrinseche e non solamente derivanti dall'"osservazione"/interazione col soggetto. Come dicevo nel post inziale non si può dire di conoscere la realtà in-sè se conosciamo solo come appare-a-noi. Per inciso se divento cieco tutti i colori spariscono e quindi la realtà in-sé è incolore. Il problema è che la stessa scienza potrebbe conoscere la realtà come "apparente" e come quindi derivante da come ci appare a noi.


Sembra quasi che tu intenda la distinzione dei percetti come impossibile, perchè mere rappresentazioni soggettive.

Eppure per esempio proprio l'esempio da te citato dice il contrario. E cioè che effettivamente il rappresentato non può sopravvivere senza il senso dato.

Come nell'esperimento citato da Berkley del cieco che riacquistata la vista, non  distingue la sfera che aveva sino a qualche tempo prima conosciuto col tatto.

Come dire l'idea soggettiva del cieco, la sua rappresentazione è stata negata dalla realtà.

Quindi come vedi noi non siamo solo rappresentazione.

Diverso il caso nell'induismo caro Sariputra in quanto siamo abituati a conoscerlo come monismo rappresentazionale.
In cui la rappresentazione è dualista(velo di maya), e l'uno è DIO. Questione lontanissima dalla concezione occidentale, che ne vedrebbe un evidente contradizione.

Il punto rimarebbe quindi nello stabilire se il dato sensibile sia reale o immaginario.
Vai avanti tu che mi vien da ridere

sgiombo

Citazione di: Apeiron il 22 Ottobre 2016, 13:33:46 PM
 Come dicevo nel post inziale non si può dire di conoscere la realtà in-sè se conosciamo solo come appare-a-noi. Per inciso se divento cieco tutti i colori spariscono e quindi la realtà in-sé è incolore. Il problema è che la stessa scienza potrebbe conoscere la realtà come "apparente" e come quindi derivante da come ci appare a noi.

CitazioneConcordo che si può esperire (e conoscere come inieme e successioni di sensazioni fenomeniche) solo la realtà come appare (a noi, se anche noi come soggetti di tali sensazioni siamo reali) e non come é in sé (se qualcosa in sé é reale oltre le sensazioni fenomeniche che appaiono).
Della realtà in sé si può secondo me sensatamente parlare, si può ipotizzare e predicare che é reale (eventualmente anche conoscerla in qualche misura, conoscerne "qualcosa", se se ne predica veracemente; cosa comunque insuperabilmente dubbia; dunque non si può mai sapere se se ne conosce "qualcosa", non si può comunque essere certi di questa eventuale conoscenza).
Ma non si può dimostrare, né tantomeno mostrare (per definizione) che realmente accada.

Se divento cieco la realtà per come appare é incolore: la realtà in sé é incolore comunque.


davintro

#35
Citazione di: green demetr il 21 Ottobre 2016, 14:56:37 PMPer quel che mi riguarda la discussione si è divisa i 2 tronconi. Tra chi sostiene lo scetticismo (Cannata,Sgiombo,Phil) integralmente (ma con diverse argomentazioni), tra chi lo sostiene solo non convenzionalmente (Apeiron), e chi invece lo ritiene superabile con l'argomento del soggetto esistente (Green,Maral,Davintro). In attesa di portare altre soluzioni dei vari dualismi e monismi contro lo scetticismo, che non ricordo più, e devo andare a recuperare dal Fish. Certamente sono d'accordo con te Maral che la rappresentazione non è di dominio del soggetto, ma piuttosto dei soggetti. Ma qui apriremmo il capitolo del linguaggio (sia a livello veritativo, logico-formale che sia, sia quello descrittivo metafisico, nominalista o realista che sia). Il discorso scetticista non ha la grandezza del discorso sul Mondo, ma si intrattiene con se stesso, nella semplice ma per loro fondamentale desiderio di stabilire se la realtà esista o meno. Scrivi infatti nel secondo intervento. "In ogni caso comunque la cosa è ricondotta al gioco dei suoi significati, è solo significando qualcosa (ossia affermando di sé qualcosa in rapporto alle sue negazioni) che qualsiasi cosa può concretamente esistere." Che io parafraso nella questione della corrispondenza 1:1 tra senso e realtà. Portato nella nostra discussione su Severino, ricordo che il nostro accettava la coincidenza tra il suo "apparire" e il "fenomeno" nell'accezione continentale. Probabilmente la parola apparizione sembra qualcosa di evanescente rispetto alla parola oggettività. Ma in fin dei conti l'oggettività non riguarda il campo del filosofo, perciò a mio modo di vedere sbagli a concentrarti su quello.(Che va bene solo quando critichiamo un certo modo di fare scienza. metafisico, ingenuo etc....). Il punto è se il fenomeno possa avere la qualità trascendentale a cui Davintro allude. Mi sembra infatti di essere totalmente d'accordo con il suo intervento. Davintro però mette l'accento più sul trascendente che sul quello dell'esperienza, la qualità della regolarità del contenuto mentale. Ma su cosa sia questa trascendenza non accenna. Quindi nel caso aspetto delucidazioni. A mio parere il trascendentale è quella superficie che è direttamente a contatto con la sensorialità. Al contrario di Kant o di Husserl non credo vi siano delle celle inferiori come le facoltà o l'intenzione, che decidano per essa (la percezione). Ripeto fuor di scetticismo la percezione esiste, d'altronde anche scientificamente oggi il soggetto che prima dicevamo è riconosciuto come PROPRIOCEZIONE. Ma la propriocezione è di fatto nel tempo, e quindi nello spazio, che ne decide le regole convenzionali. (dunque è del tempo storico di cui si parla, non quello assoluto, e cioè a mio parere dell'esperienza). Infatti la propriocezione tramite NEGAZIONE assume di volta in volta il carattere di IO, io non sono più in quello spazio, ora sono in questo, e nell'accumulo degli infiniti fotogrammi, egli decide formalmente di avere una esperienza. Ossia intenzionalmente si fa soggetto. A quel punto e solo a quel punto egli giudicando come tale, come soggetto cioè, il contenuto della sua percezione, potrà decidere del fenomeno. A quel punto decide che deve esistere per forza una superficie (abduzione), e a quel punto si innesta il problema se esista la corrispondenza. Ossia senso e reale hanno carattere speculare? Poichè il mondo analitico non analizza il trascendente (kant) nè il formale, ossia il carattere di presentazione NEGATIVA del contenuto(Hegel-Heideger), appunto il significato, il simbolo direbbe Lacan. A noi non rimane che stare alla soglia del gioco. Ossia nella parte inferiore, dobbiamo cari Maral e Davintro spiegare come il reale informi del sensoriale.

L'ammissione di un livello di trascendenza, o se si preferisce di di ""autonomia" del reale la considero a partire appunto dal carattere di passività che la percezione, livello basico della coscienza umana, porta con sè. Il complesso dell'orientamento percettivo non è la produzione creativa di un Io ma si costituisce in relazione all'apprensione passiva di stimoli sensibili provenienti da un mondo esterno. Se una persona proveniente dagli anni '40 o '50 venisse catapultata nella nostra epoca e poi osservasse camminare per strada davanti a lui, di spalle, una persona con dei capelli lunghi, i suoi schemi associativi lo porterebbero a percepire, cioè effettuare una sintesi anticipativa dell'immagine di una donna, perchè il suo contesto esperienziale di origine ha prodotto nella sua mente lo schema associativo "capelli lunghi-donna, capelli corti-uomo", schemi regolanti il decorso della sua percezione del mondo, aventi una provenienza culturale. Se poi la persona davanti a lui si girasse all'indietro e mostrasse al signore proveniente dal passato un volto maschile, il signore dovrebbe da qual momento in poi operare una modifica, una riformulazione degli schemi percettivi, facendo saltare l'equazione "capelli lunghi-donna". Ma a questo risultato il signore proveniente dal passato, la sua soggettività pensante, non ci sarebbe mai arrivato da solo, è stato necessario l'intervento di una realtà oggettiva, l'oggetto "corpo umano estraneo", che mostrando di sè nel decorso temporale delle percezioni lati diversi costringe il soggetto percepiente a modificare i propri schemi interpretativi. Non è cioè idealisticamente il soggetto ad applicare categorie e schemi validi aprioristicamente al di fuori dell'esperienza all'oggetto, ma è l'oggetto che con una sorta di intenzionalità "al contrario" interviene sulla mente soggettiva, che può apprendere nuovi lati, nuovi modi d'essere della realtà quanto più resta passiva nella ricezione degli stimoli sensibili con cui gli oggetti richiamano l'attenzione dell'Io. Questa è trascendenza. Questa riformulazione degli schemi associativi percettivi, che nel corso della nostra esperienza vitale è costante, è del tutto disfunzionale in relazione alla condizione di attività e creatività dell'Io nei confronti del mondo. La libera e creativa attività soggettiva, che trova più che nella conoscenza, nella volontà il suo livello di massima espressione, troverebbe la necessità di riformulare costantemente i propri schemi mentali un impaccio, una scomodità, una "perdita di tempo", piuttosto che intervenire sul mondo siamo costretti intervenire su noi stessi. Dunque tale necessità non può essere posta spontaneamente, naturalmente dal soggetto, ma imposta dai nostri limiti ontologici nei confronti di un'alterità che ci limita e ci impone costantemente di "rientrare in noi stessi" per adeguare i nostri strumenti percettivi e intellettuali ai fini dell'apprensione dei modi d'essere degli oggetti. Questo non è realismo ingenuo, ma critico poichè l'autonomia degli oggetti non viene affermata a partire da un'abitudinaria e ingenua constatazione della regolarità del presentarsi degli oggetti alla nostra coscienza, ma alla luce di una deduzione dall'ammissione di un'evidenza originaria, la nostra coscienza soggettiva. E se l'origine dell'attività intenzionale della coscienza è la percezione, e questa a sua volta si relaziona all'oggetto percepito tramite degli schemi associativi che l'Io percepiente non inventa arbitrariamente ma costantemente forma a partire dagli stimoli che gli oggetti nel loro manifestarsi a noi ci comunicano, allora occorre ammettere che la nostra soggettività cosciente è resa possibile dall'incontro con un' oggettività ulteriore che interviene su di noi. Quest'ulteriorità non è come prenserebbe una realista ingenuo ed estremo separata ed estranea alla nostra rappresentazione, alla nostra esperienza soggettiva, eppure al tempo stesso non si esaurisce nella rappresentazione in quanto ha il potere in ogni momento di modificarne le regole o gli schemi. Cioè, proprio il primato epistemologico, non o almeno non ancora, ontologico della soggettività conduce coerantemente a riconoscere un'alterità che con tale soggettività interagisce e si relaziona all'insegna della reciprocità

Apeiron

Citazione di: green demetr il 22 Ottobre 2016, 21:08:12 PM
Citazione di: Apeiron il 22 Ottobre 2016, 13:33:46 PMAnzitutto volevo precisare ancora una volta una cosa: Realtà puramente oggettiva: l'oggetto in-sé indpendentemente da qualsiasi rappresentazione di uno o più soggetti. Con questo voglio dire che l'oggetto deve possedere qualità intrinseche e non solamente derivanti dall'"osservazione"/interazione col soggetto. Come dicevo nel post inziale non si può dire di conoscere la realtà in-sè se conosciamo solo come appare-a-noi. Per inciso se divento cieco tutti i colori spariscono e quindi la realtà in-sé è incolore. Il problema è che la stessa scienza potrebbe conoscere la realtà come "apparente" e come quindi derivante da come ci appare a noi.
Sembra quasi che tu intenda la distinzione dei percetti come impossibile, perchè mere rappresentazioni soggettive. Eppure per esempio proprio l'esempio da te citato dice il contrario. E cioè che effettivamente il rappresentato non può sopravvivere senza il senso dato. Come nell'esperimento citato da Berkley del cieco che riacquistata la vista, non distingue la sfera che aveva sino a qualche tempo prima conosciuto col tatto. Come dire l'idea soggettiva del cieco, la sua rappresentazione è stata negata dalla realtà. Quindi come vedi noi non siamo solo rappresentazione. Diverso il caso nell'induismo caro Sariputra in quanto siamo abituati a conoscerlo come monismo rappresentazionale. In cui la rappresentazione è dualista(velo di maya), e l'uno è DIO. Questione lontanissima dalla concezione occidentale, che ne vedrebbe un evidente contradizione. Il punto rimarebbe quindi nello stabilire se il dato sensibile sia reale o immaginario.

Non capisco l'obiezione  :D

Quello che volevo dire io è: supponi di avere davanti un tavolo. Lo vedi, lo tocchi ecc. Lo descrivi come "ruvido, con quattro gambe, color marrone...". Il problema è che queste proprietà che tu affidi al tavolo in realtà non sono strettamente parlando del tavolo, cioè di un oggetto indipendente da te, ma del "tavolo rappresentato". A questo punto se uno ti chiedesse: "ok ora però dimmi cosa è un tavolo usando proprietà che non dipendono dalla presenza di un osservatore" cosa gli diresti?  La mia tesi è esattamente questa: nulla. Potresti pensare poi in realtà a questo ragionamento: così come per migliorare le osservazioni controllo lo strumento di misura, allo stesso modo per migliorare la conoscenza oggettiva del tavolo analizzo me stesso. Ma anche qui ci sono due problemi. Primo se anche conoscessi meglio me stesso quello che potrei dire è come rappresento il tavolo . Secondo: analizzo me stesso secondo la "mia" prospettiva. In sostanza non si esce da se stessi.

P.S. Non avrei dovuto dire che la realtà è incolore. Ma che: il concetto di "colore" non si può applicare alla realtà-in-sé. La realtà non è né colorata nè incolore (cioè senza colori, il paradosso logico non c'è perchè la domanda stessa "la realtà è colorata?" è insensata - per dirla alla Wittgenstein: il linguaggio è andato in vacanza). Ho il vago sospetto che questo ragionamento porti a dire che la realtà è ineffabile, cioè oltre i concetti: tuttavia il concetto di ineffabilità è contraddittorio... o forse no https://aeon.co/essays/the-logic-of-buddhist-philosophy-goes-beyond-simple-truth
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

green demetr

Citazione di: Apeiron il 25 Ottobre 2016, 14:01:04 PM
Non capisco l'obiezione  :D

Quello che volevo dire io è: supponi di avere davanti un tavolo. Lo vedi, lo tocchi ecc. Lo descrivi come "ruvido, con quattro gambe, color marrone...". Il problema è che queste proprietà che tu affidi al tavolo in realtà non sono strettamente parlando del tavolo, cioè di un oggetto indipendente da te, ma del "tavolo rappresentato". A questo punto se uno ti chiedesse: "ok ora però dimmi cosa è un tavolo usando proprietà che non dipendono dalla presenza di un osservatore" cosa gli diresti?  La mia tesi è esattamente questa: nulla. Potresti pensare poi in realtà a questo ragionamento: così come per migliorare le osservazioni controllo lo strumento di misura, allo stesso modo per migliorare la conoscenza oggettiva del tavolo analizzo me stesso. Ma anche qui ci sono due problemi. Primo se anche conoscessi meglio me stesso quello che potrei dire è come rappresento il tavolo . Secondo: analizzo me stesso secondo la "mia" prospettiva. In sostanza non si esce da se stessi.


sì ma questo tuo, sembra un rappresentazionalismo monista. l'obiezione che ti pongo è che il cieco che ha riacquistato la vista può analizzarsi fin che vuoi da dentro, ma di fronte al senso dato, è costretto ad ammettere che realtà è disgiunta dalla sua percezione.
Ossia che essa pretende come direbbe Berkley sempre nuovi punti di vista.

Non esiste dunque IL (quello unico soggettivo monista) punto di vista dell'osservatore, per cui è necessario una sintesi (in antitesi alla pluralità di visioni, che ci consegni l'idea di oggetto unitario. Come noi lo conosciamo, una sfera che si fa vedere in quel modo, e una sfera che si fa toccare in quel modo. Noi la chiamiamo sfera solo per comodità, per sintesi appunto.

Noi non analizziamo il punto di vista, ma l'insieme dei punti di vista dati.
La sintesi appunto, come nel caso da Kant in poi.


Vai avanti tu che mi vien da ridere

green demetr

Citazione di: davintro il 23 Ottobre 2016, 18:16:10 PM

L'ammissione di un livello di trascendenza, o se si preferisce di di ""autonomia" del reale la considero a partire appunto dal carattere di passività che la percezione, livello basico della coscienza umana, porta con sè. Il complesso dell'orientamento percettivo non è la produzione creativa di un Io ma si costituisce in relazione all'apprensione passiva di stimoli sensibili provenienti da un mondo esterno. Se una persona proveniente dagli anni '40 o '50 venisse catapultata nella nostra epoca e poi osservasse camminare per strada davanti a lui, di spalle, una persona con dei capelli lunghi, i suoi schemi associativi lo porterebbero a percepire, cioè effettuare una sintesi anticipativa dell'immagine di una donna, perchè il suo contesto esperienziale di origine ha prodotto nella sua mente lo schema associativo "capelli lunghi-donna, capelli corti-uomo", schemi regolanti il decorso della sua percezione del mondo, aventi una provenienza culturale. Se poi la persona davanti a lui si girasse all'indietro e mostrasse al signore proveniente dal passato un volto maschile, il signore dovrebbe da qual momento in poi operare una modifica, una riformulazione degli schemi percettivi, facendo saltare l'equazione "capelli lunghi-donna". Ma a questo risultato il signore proveniente dal passato, la sua soggettività pensante, non ci sarebbe mai arrivato da solo, è stato necessario l'intervento di una realtà oggettiva, l'oggetto "corpo umano estraneo", che mostrando di sè nel decorso temporale delle percezioni lati diversi costringe il soggetto percepiente a modificare i propri schemi interpretativi. Non è cioè idealisticamente il soggetto ad applicare categorie e schemi validi aprioristicamente al di fuori dell'esperienza all'oggetto, ma è l'oggetto che con una sorta di intenzionalità "al contrario" interviene sulla mente soggettiva, che può apprendere nuovi lati, nuovi modi d'essere della realtà quanto più resta passiva nella ricezione degli stimoli sensibili con cui gli oggetti richiamano l'attenzione dell'Io. Questa è trascendenza. Questa riformulazione degli schemi associativi percettivi, che nel corso della nostra esperienza vitale è costante, è del tutto disfunzionale in relazione alla condizione di attività e creatività dell'Io nei confronti del mondo. La libera e creativa attività soggettiva, che trova più che nella conoscenza, nella volontà il suo livello di massima espressione, troverebbe la necessità di riformulare costantemente i propri schemi mentali un impaccio, una scomodità, una "perdita di tempo", piuttosto che intervenire sul mondo siamo costretti intervenire su noi stessi. Dunque tale necessità non può essere posta spontaneamente, naturalmente dal soggetto, ma imposta dai nostri limiti ontologici nei confronti di un'alterità che ci limita e ci impone costantemente di "rientrare in noi stessi" per adeguare i nostri strumenti percettivi e intellettuali ai fini dell'apprensione dei modi d'essere degli oggetti. Questo non è realismo ingenuo, ma critico poichè l'autonomia degli oggetti non viene affermata a partire da un'abitudinaria e ingenua constatazione della regolarità del presentarsi degli oggetti alla nostra coscienza, ma alla luce di una deduzione dall'ammissione di un'evidenza originaria, la nostra coscienza soggettiva. E se l'origine dell'attività intenzionale della coscienza è la percezione, e questa a sua volta si relaziona all'oggetto percepito tramite degli schemi associativi che l'Io percepiente non inventa arbitrariamente ma costantemente forma a partire dagli stimoli che gli oggetti nel loro manifestarsi a noi ci comunicano, allora occorre ammettere che la nostra soggettività cosciente è resa possibile dall'incontro con un' oggettività ulteriore che interviene su di noi. Quest'ulteriorità non è come prenserebbe una realista ingenuo ed estremo separata ed estranea alla nostra rappresentazione, alla nostra esperienza soggettiva, eppure al tempo stesso non si esaurisce nella rappresentazione in quanto ha il potere in ogni momento di modificarne le regole o gli schemi. Cioè, proprio il primato epistemologico, non o almeno non ancora, ontologico della soggettività conduce coerantemente a riconoscere un'alterità che con tale soggettività interagisce e si relaziona all'insegna della reciprocità


Per me la trascendenza non può venire dal "DAS DING" alias l'oggetto prima che si dia alla percezione.
La tua teoria della sintesi passiva husserliana oggi va molto di moda.

Di certo concordiamo fortemente sul carattere di sintesi, ci discostiamo su quale sia il ruolo del percetto, passivo come nella tua teoria, o attivo come nella teoria classica dell'idealismo da Kant in poi.

Per noi metafisici essendo la trascendenza Dio (un Dio inconoscibile sia chiaro) la sintesi non potrà essere che epifania dello svolgimento del mondo storico reale. (Hegel)

In Husserl o in te sembra quasi ribaltato il procedimento per cui è lo scontro dialettico col reale, a determinare il valore della sintesi, e non quello esperenziale.
E per cui appunto l'esperenziale è questo scontro cieco con la Natura in fin dei conti.(


excursus
certamente non ne nego la potenza antimetafisica, e di certo funziona bene contro certe presunzioni della tecno-scienza, rimane il fatto che questo reale a me puzza di metafisico, nè più nè meno che come prima
fine excursus

Il realismo ingenuo si discosta da noi in maniera maxima perchè ritiene il valore della sintesi non a livello di sintesi rappresentazionale, bensì meramente esperenziale. Il lato vincente di quella mossa è che possono fare a meno di entrare nel dibattito formale di tutta la fenomenologia del 900 fino agli epingoni dell'oggi.

Il lato debole è che non intendono più il lato storico-culturale come hai ben scritto tu.

Vai avanti tu che mi vien da ridere

sgiombo

Citazione di: Apeiron il 25 Ottobre 2016, 14:01:04 PM


P.S. Non avrei dovuto dire che la realtà è incolore. Ma che: il concetto di "colore" non si può applicare alla realtà-in-sé. La realtà non è né colorata nè incolore (cioè senza colori, il paradosso logico non c'è perchè la domanda stessa "la realtà è colorata?" è insensata - per dirla alla Wittgenstein: il linguaggio è andato in vacanza). Ho il vago sospetto che questo ragionamento porti a dire che la realtà è ineffabile, cioè oltre i concetti: tuttavia il concetto di ineffabilità è contraddittorio... o forse no https://aeon.co/essays/the-logic-of-buddhist-philosophy-goes-beyond-simple-truth
CitazioneLa realtà fenomenica di un vedente senza grosse patologie della visone (perfino quella di un daltonico) é colorata (anche, fra l' altro, oltre ad esempio che profumata, caratterizzata da suoni e rumori e da aspetti tattili -morbida, ruvida, calda , fredda- ecc., salvo patologie dei rispettivi organi di senso e vie e centri nervosi).

La realtà fenomenica di un cieco non é colorata.

Della realtà in sé (se esiste, cosa indimostrabile; che personalmente credo) non ha senso parlare in termini di qualia sensitivi di qualsiasi genere (nemmeno "interiori" o "mentali": non é nemmeno soddisfatta o insoddisfatta, allegra o triste, né costituita da nozioni, concetti, ecc., oltre a non essere colorata, calda o fredda, profumata, ecc.).

Apeiron

@sgiombo

Rispondo brevemente a te. L'unica realtà di cui abbiamo esperienza è quella fenomenica. Su questa ha senso parlare e costruire concetti. Sono d'accordo con te: il cieco ha una realtà fenomenica incolore, il vedente colorata. Il noumeno non è nè colorato nè senza colore in quanto il concetto di colore è provo di senso per il noumeno.

Il problema è questo: visto che non possiamo parlare del noumeno perchè non abbiamo nessun criterio per dare significato alle nostre proposizioni , ne segue che tutti i concetti che facciamo su di esso sono privi di senso. Quindi è "ineffabile" (se c'è). Ora per dire che una cosa è "ineffabile" devi parlare di essa. Ma dell'ineffabile non si può parlare (cioè non si possono produrre concetti sul noumeno, visto che nessun linguaggio può descriverlo). Ma allora "il noumeno è ineffabile" è una proposizione priva di senso! Ergo: o la "logica normale" non si può applicare perchè il noumeno "trascende" la logica ("misticismo" nel senso di Wittgenstein) oppure non vi può essere il noumeno.

Siccome il realismo secondo cui "esiste una realtà esterna, oggettiva" mi pare una prospettiva "sensata" (cioè "ragionevole") è alquanto singolare che alla fine si sviluppa questo problema. Il problema della filosofia di Kant, di Wittgenstein, di Berkeley, di Hume, del Buddha, dei Vedanta ecc è proprio che pur essendo "capolavori" (per lo meno per certi aspetti) sono tutte inconsistenti. TUTTAVIA se si può abbandonare la logica "classica" allora hanno certamente una speranza.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Apeiron

@green demetr

Non capisco il tuo punto di vista  :D  Rispondi a questa domanda: esiste qualche proprietà che è indipendente da ogni punto di vista?
Se sì riesci a formulare un linguaggio/dei concetti... su di essa?

P.S. Non sono un "monista" anche se non nego che quel tipo di filosofia mi affascina parecchio (es: Advaita Vedanta)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Duc in altum!

**  scritto da Apeiron:
CitazioneIl problema è questo: visto che non possiamo parlare del noumeno perchè non abbiamo nessun criterio per dare significato alle nostre proposizioni , ne segue che tutti i concetti che facciamo su di esso sono privi di senso.
Come privi di senso? ...io più leggo da Kant sul noumeno, più comprendo che se avesse avuto fede, sarebbe stato facile per lui identificarlo con lo Spirito Santo.
Il noumeno è lo Spirito Santo, giacché non esiste un fenomeno nell'Universo che non dipenda da Lui.
"Solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso;
allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell'evoluzione".
(Benedetto XVI)

sgiombo

Citazione di: Apeiron il 25 Ottobre 2016, 19:41:26 PM
@sgiombo

Rispondo brevemente a te. L'unica realtà di cui abbiamo esperienza è quella fenomenica. Su questa ha senso parlare e costruire concetti. Sono d'accordo con te: il cieco ha una realtà fenomenica incolore, il vedente colorata. Il noumeno non è nè colorato nè senza colore in quanto il concetto di colore è provo di senso per il noumeno.

Il problema è questo: visto che non possiamo parlare del noumeno perchè non abbiamo nessun criterio per dare significato alle nostre proposizioni , ne segue che tutti i concetti che facciamo su di esso sono privi di senso. Quindi è "ineffabile" (se c'è). Ora per dire che una cosa è "ineffabile" devi parlare di essa. Ma dell'ineffabile non si può parlare (cioè non si possono produrre concetti sul noumeno, visto che nessun linguaggio può descriverlo). Ma allora "il noumeno è ineffabile" è una proposizione priva di senso! Ergo: o la "logica normale" non si può applicare perchè il noumeno "trascende" la logica ("misticismo" nel senso di Wittgenstein) oppure non vi può essere il noumeno.

Siccome il realismo secondo cui "esiste una realtà esterna, oggettiva" mi pare una prospettiva "sensata" (cioè "ragionevole") è alquanto singolare che alla fine si sviluppa questo problema. Il problema della filosofia di Kant, di Wittgenstein, di Berkeley, di Hume, del Buddha, dei Vedanta ecc è proprio che pur essendo "capolavori" (per lo meno per certi aspetti) sono tutte inconsistenti. TUTTAVIA se si può abbandonare la logica "classica" allora hanno certamente una speranza.

CitazioneNon capisco l' ultimo capoverso e come si possa conciliare con i primi due.
Se il realismo secondo cui "esiste una realtà esterna, oggettiva" ti pare una prospettiva "sensata" (cioè "ragionevole"), allora anche tu parli (sensatamente) del noumeno e ne affermi l' esistenza reale.
Di "esterno alla realtà fenomenica cosciente" (alla propria esperienza fenomenica cosciente di ciascuno (ammettendone altre oltre la "proria immediatamente percepita"; cosa indimostrabile; che credo) non può esservi che una realtà in sé non apparente (non fenomenica) ma solo congetturabile (noumeno), mentre qualsiasi cosa sia fenomeno è (questa è una sorta di sinonimia) "appartenente alla (a una) esperienza cosciente, sensibile".

Kant, Berkeley e Hume (purtroppo Buddha e il Vedanta non li conosco per nulla e Wittgenstein pochissimo) cercano appunto di "elucubrare" qualcosa di sensato (e i primi due, in modi e su fondamenti molto diversi, secondo me si illudono di averne conoscenza certa) sul noumeno.
 
Secondo me il noumeno pur non potendosi ovviamente esperire, può essere oggetto di ipotesi indimostrabili ma sensate, per quanto ovviamente caratterizzate da un inevitabile "oscurità" (anche metaforica) e vaghezza (da qui l' abbondante uso di virgolette da parte mia nel parlarne).
 
Seconde me sono ipotesi che possono spiegare i seguenti fatti (essi stessi indimostrabili):

a)  l' intersoggettività (corrispondenza biunivoca, non uguaglianza: nessuno può "sbirciare nelle altrui esperienze coscienti" per verificare se i relativi fenomeni –esempio: il Monte Bianco visto da me e il Monte Bianco visto da te- siano uguali o meno a quelli della propria) delle componenti materiali ("extensae") delle diverse, reciprocamente trascendenti esperienze fenomeniche coscienti (che è una conditio sine qua non della -possibilità della- conoscenza scientifica vera), attraverso la corrispondenza di tutte e ciascuna per l' appunto con la (medesima) realtà in sé (in alternativa bisognerebbe ammettere fra di esse una sorta di, a mio parere ancora più vaga ed oscura, leibniziana "armonia prestabilita");

b)  la corrispondenza biunivoca fra determinati eventi neurofisiologici cerebrali (in determinati cervelli; per lo meno indirettamente, e comunque potenzialmente nell' ambito delle esperienze fenomeniche di "osservatori"; per esempio del mio cervello nella tua esperienza cosciente) e determinate esperienze coscienti di "osservati" (per esempio della mia esperienza cosciente) e viceversa, secondo quanto sempre più ampiamente e fondatamente appurato dalle moderne neuroscienze, soprattutto mediante l' imaging neurologico funzionale (ma già fondato su antiche e "grossolane" osservazioni anatomopatologiche risalenti a Broca, Wernicke anche a prima): in un certo senso si può dire che gli stessi "enti ed eventi in sé" sono "fenomenicamente percepiti dall' esterno" come (corrispondono biunovocamente a) determinati eventi neurofisiologici (per esempio del mio cervello nella tua esperienza cosciente) e "fenomenicamente percepiti dall' interno" come (corrispondono biunovocamente a) determinate evenienze di determinate esperienze coscienti, materiali e mentali (per esempio della mia esperienza cosciente; e viceversa).

green demetr

Citazione di: Apeiron il 25 Ottobre 2016, 19:43:30 PM
@green demetr

Non capisco il tuo punto di vista  :D  Rispondi a questa domanda: esiste qualche proprietà che è indipendente da ogni punto di vista?
Se sì riesci a formulare un linguaggio/dei concetti... su di essa?

P.S. Non sono un "monista" anche se non nego che quel tipo di filosofia mi affascina parecchio (es: Advaita Vedanta)

Non è difficile se ci pensi. Mettiamo che ogni senso ha un punto di vista, innegabile, soggettivo, eppure ogni punto di vista sensoriale, è slegato dagli altri.  8)

E nel contempo, qui le idee cominciano a farsi ostiche, il mix di 2 sensi, udito e vista per esempio, crea un altro punto di vista slegato. Per ciò quando vedi una porta che sta per sbattere, è come se ascoltassi quella porta mentre ancora il suono non è pervenuto.

Insomma la rappresentazione non è mai soggettivamente assoluta ma è in continua rimessa in discussione con la realtà. con il noumeno.

Perciò stesso per inferenza, esattamente come diceva Hume possiamo azzardare che esista una realtà esterna slegata dal nostro punto di vista sensoriale.

Questo significa che possiamo conoscere il fenomeno NON il noumeno, che rimane come una necessità sullo sfondo.

(correggo così anche sgiombo per quel che riguarda Kant).

NB

con monismo non intedevo quello dell'advaita. che ripeto è un altro mondo. ma quello della coincidenza tra cervello e mentale.


Citazione di: Duc in altum! il 25 Ottobre 2016, 21:36:36 PM
**  scritto da Apeiron:
CitazioneIl problema è questo: visto che non possiamo parlare del noumeno perchè non abbiamo nessun criterio per dare significato alle nostre proposizioni , ne segue che tutti i concetti che facciamo su di esso sono privi di senso.
Come privi di senso? ...io più leggo da Kant sul noumeno, più comprendo che se avesse avuto fede, sarebbe stato facile per lui identificarlo con lo Spirito Santo.
Il noumeno è lo Spirito Santo, giacché non esiste un fenomeno nell'Universo che non dipenda da Lui.

Probabilmente però lo pensava, non essendo conoscibile tramite il fenomeno, Kant nella critica del giudizio pensa sia conoscibile come trascendente, tramite la categoria del bello e del sublime.

In fin dei conti è figlio non solo della nuova scienza newtoniana, ma anche del suo ambiente luterano.

Su questa trascendenza e la lotta tra sintesi attive classiche, e passive contemporanee rimando al mio excursus relativo alla posizione di davintro.
Vai avanti tu che mi vien da ridere

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