Realtà e rappresentazione

Aperto da Apeiron, 18 Ottobre 2016, 19:39:34 PM

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maral

Mi dispiace per Schopenhauer, se la citazione è corretta, perché il mondo non è una "mia rappresentazione", ma è una rappresentazione che possiamo intendere come "nostra", ossia di una collettività che rappresenta senza decidere cosa voler rappresentare o meno, attrice, non regista della sua parte.
L'oggettività, intesa come la cosa in se stessa che ci sta davanti (in ob-jectum) si presenta, alla nostra coscienza contemporanea (alla nostra rappresentazione contemporanea determinata dal presente accadere) come una mera fantasticheria, una sorta di superstizione, perché in ogni oggetto c'è il soggetto, in ogni percepito c'è il percipiente, in ogni pensato c'è il pensante, letteralmente c'è. Non ci sono quindi soggetto e oggetto separabili, se non come residuo di una volontà (sempre meno credibile) di tenerli separati, e allora non può più esserci nemmeno un dentro e un fuori, mon può più esserci qualcosa che da fuori mi arriva dentro, non può più esserci un io e un mondo che gli sta di fronte e che l'io guarda e descrive ponendosi idealmente fuori dal mondo per godere di quella visione panoramica totale che un tempo era prerogativa degli Dei e di chi in loro confidava e che, morti gli Dei, si è creduto e si crede di trovare nella Scienza, il loro più capace sostituto. Cosa ci resta allora, a parte il ricordo così nostalgicamente struggente delle antiche e superbe "onto-teo-logie"? A parte il senso di assurdo che si sente davanti a ogni pretesa di totalità? Cosa può ancora sapere il nostro sapere, oltre a sapere di non sapere? Cosa si può volere che abbia un minimo senso volere? Quale Verità oltre le verità sempre parziali e limitate, sempre contaminate e dunque sempre per tante misure false, fossero pure logicamente o matematicamente dimostrate perfettamente esatte? Cosa ci resta oltre le nostre patetiche pretese di verifica, come se verificando non interpretassimo? Che ne è della sacrosanta verità oggettiva che ci dava la certezza di un senso ideale a cui poter sempre fare riferimento stabile, che decidessimo di seguirlo o meno? Che resta di noi stessi e del mondo in cui credevamo di abitare, come si abita tra le cose consuete di tutti i giorni? Cosa resta dei fatti che si sono creduti per sempre?
Ci resta forse il senso di un gioco immenso in cui ci troviamo gettati, di cui siamo parte, in cui continuamente siamo giocati e non giocatori e la consapevolezza di esserlo insieme. Ed è proprio nel nostro stare insieme, fare insieme, confrontandoci e ascoltandosi gli uni con gli altri, ognuno per quello che è, che possiamo ritrovarci e riconoscerci; non alla luce di una grande verità oggettiva che illumina tutto il panorama ai nostri piedi, ma alla fioca e sempre incerta luce di una condivisibilità sempre rimessa in discussione che nessuno di noi ha stabilito, nessun Dio o ente metafisico, ma tutti gli enti presenti, passati e futuri, nessuno escluso, neppure il pidocchio che si nascondeva tra i riccioli della parrucca del Re Sole e di cui nessuna traccia è rimasta nella storia.
Ma anche questo senso è il gioco immenso di cui siamo parte e attori che ce lo propone giocandoci e il gioco è l'esistenza stessa, niente di più e niente di meno.

Phil

Citazione di: green demetr il 19 Ottobre 2016, 19:07:40 PMcomunque a me basta l'argomento principe contro gli scettici quello che li liquida in 2 secondi, e che per questo, dai filosofi analitici, è ritenuto volgare: lo stesso parlare di scetticismo comporta che esista qualcuno che lo sta dicendo, fine! partita chiusa punto e capo. Il resto sono illazioni. 
Non voglio deviare il tema del topic sullo scetticismo, ma, en passant, questa confutazione funzionerebbe se lo scettico fosse colui che afferma "sono scettico della mia esistenza...", ma è davvero questo l'atteggiamento portante dello scetticismo oggi o si tratta di una sua caricatura ingenua e banalizzante? E la "teoria dei tipi" di Russell non ha già risolto questa apparente contraddizione?

Citazione di: green demetr il 19 Ottobre 2016, 19:07:40 PMPER PHIL mi sa che siamo un pò fuori tema, comunque torniamo alla filosofia fondamentale, nulla c'è è un frase senza senso, se ci fosse il nulla sarebbe inesistente il concetto di essere
Non a caso, avevo preventivamente sottolineato come il beffardo Gorgia sostenga che "nulla c'è" non che "il nulla c'è"... e porre il conseguente "problema della definizione logica dell'identità vs esperienza del divenire" (auto-cit.) non è una questione irrilevante se si parla di conoscenza, di realtà e, soprattutto, di rappresentazione... proprio come nel caso dello scetticismo, si tratta di intendere la profondità e le conseguenze del problema posto: se il soggetto e l'oggetto della conoscenza-rappresentazione, sono mutevoli, "instabili" (e quindi non "neutri"), al punto che la loro stessa cristallizzazione in un'identità definita (di cui poter dire "è") risulta problematica (ecco quindi che "nulla è"  ;) ), non mi pare una questione marginale o priva di conseguenze...
 
Citazione di: green demetr il 19 Ottobre 2016, 19:07:40 PMcerto l'essere è incomunicabile, ma non per questo non dovrebbe esserci, questo è il tipico errore della parte per il tutto!!!!
Non è l'errore della parte per il tutto: la comunicabilità e il dover-esserci non sono rispettivamente "parte" e "tutto"... piuttosto, sullo sfondo c'è la questione della fede metafisica nell'Essere, "semplice" forma sostantivata di un verbo; ma sulla annosa questione del divenire e dell'essere (severiniano o meno), mi sono già dilungato, abusando della pazienza di tutti, nel topic sulla "critica della conoscenza" (se non erro), quindi te la risparmio :)

Angelo Cannata

Citazione di: Apeiron il 19 Ottobre 2016, 15:31:07 PM
Parto dalla logica. Il dubbio della logica non ha senso, perchè il dubbio, il metodo del dubitare si fonda su di essa. La logica perciò è appunto apriori, altrimenti nessuna proposizione ha significato.
Se la logica è apriori, cioè se ci è impossibile uscire da essa, ci ritroviamo nella situazione che ho descritto riguardo al cervello: se, per verificare che il mio cervello non m'inganni, la sola fonte che posso consultare è il mio cervello, come posso avere fiducia in esso? Allo stesso modo per la logica: se l'unico modo per controllare che la logica non sia un inganno è usare essa stessa, come posso fidarmi di essa, e quindi come posso fidarmi quando essa mi dice che è apriori? Io e te e l'intera umanità potremmo essere nient'altro che pazzi da manicomio che si scambiano pensieri folli, incoerenti, insensati e s'illudono che invece si tratti di idee coerentissime: chi ci avviserebbe di questa nostra condizione? Chi mi assicura che la logica sia davvero "logica", cioè coerente con se stessa, armonica, non contraddittoria, visto che l'unico modo per verificarlo è usare essa stessa?

Angelo Cannata

#18
Citazionesgiombo
esso si definisce (arbitrariamente, come qualsiasi altro concetto) attraverso la negazione, come ciò che nelle stesse circostanze (di tempo e di luogo per lo meno) non è compatibile con il, non può accadere insieme al, "non essere"

Angelo Cannata
Mi sembra che così hai confermato ciò che avevo detto: per definire l'essere hai dovuto far riferimento al "non essere", il quale a sua volta non è definibile se non facendo riferimento all'essere.

sgiombo
Ovvio!
Qualsiasi concetto si definisce così: mettendo in determinate relazioni sintattiche determinati altri concetti.
Il problema è che hai messo in relazioni sintattiche non altri concetti, ma il concetto che è da spiegare. Che senso ha che io, per spiegare cos'è una mela a chi non ne ha mai vista una, gli dica che essa è il contrario di una non-mela?

Idem per la definzione di "vero" che hai dato:
CitazioneSignificato di "vero" (per definizione; cui non pertiene il dubbio o la credenza, non trattandosi di predicato): "affermazione che qualcosa é...
è una tautologia.

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 20 Ottobre 2016, 11:07:18 AM
Citazionesgiombo
esso si definisce (arbitrariamente, come qualsiasi altro concetto) attraverso la negazione, come ciò che nelle stesse circostanze (di tempo e di luogo per lo meno) non è compatibile con il, non può accadere insieme al, "non essere"

Angelo Cannata
Mi sembra che così hai confermato ciò che avevo detto: per definire l'essere hai dovuto far riferimento al "non essere", il quale a sua volta non è definibile se non facendo riferimento all'essere.

sgiombo
Ovvio!
Qualsiasi concetto si definisce così: mettendo in determinate relazioni sintattiche determinati altri concetti.
Il problema è che hai messo in relazioni sintattiche non altri concetti, ma il concetto che è da spiegare. Che senso ha che io, per spiegare cos'è una mela a chi non ne ha mai vista una, gli dica che essa è il contrario di una non-mela?
CitazioneNo, nessun problema: ho messo in relazione di negazione il concetto di "essere" con quello di "non essere", così definendoli (arbitrariamente).
Peraltro una definizione non é un predicato o giudizio, non ha senso porsi il problema se sia vera o meno (casomai se e quanto e come sia utilizzabile nel discorso).

che io, per spiegare cos'è una mela a chi non ne ha mai vista una, gli dica che essa è il contrario di una non-mela non serve a nulla.
Ma questo é un altro discorso, la definizione di "essere" é diversa dalla definizione di "mela".

Idem per la definzione di "vero" che hai dato:
CitazioneSignificato di "vero" (per definizione; cui non pertiene il dubbio o la credenza, non trattandosi di predicato): "affermazione che qualcosa é...
è una tautologia.
CitazioneNo, é una definizione!

Non dico (predico) alcunché (predicazione che potrebbe essere tautologica o meno; oltre che vera o meno; se tautologica certamente "vera" nel senso di "logicamente corretta" ma assolutamente inutile, non apportatrice di conoscenza), bensì stabilisco per definzione, arbitrariamente che cosa intendo per "vero" (in linea di principio, teorica; di fatto impiego ,"faccio mia", "accolgo" una definizione già in precedennza arbitrariamente stabilita -e convenuta- da altri).

Angelo Cannata

Citazione di: sgiombo il 20 Ottobre 2016, 11:45:50 AM... stabilisco per definzione, arbitrariamente ...
La questione che avevo sollevato era che quando usiamo il verbo essere non sappiamo mai cosa stiamo dicendo, perché è impossibile definirlo senza servirsi di esso stesso (e quindi senza incorrere in tautologie). Hai fornito delle definizioni che confermano la questione che avevo sollevato.

sgiombo

#21
Citazione di: Angelo Cannata il 20 Ottobre 2016, 13:39:54 PM
Citazione di: sgiombo il 20 Ottobre 2016, 11:45:50 AM... stabilisco per definzione, arbitrariamente ...
La questione che avevo sollevato era che quando usiamo il verbo essere non sappiamo mai cosa stiamo dicendo, perché è impossibile definirlo senza servirsi di esso stesso (e quindi senza incorrere in tautologie). Hai fornito delle definizioni che confermano la questione che avevo sollevato.
CitazioneNo, non l' ha affatto confermata:  il concetto di essere si definisce come negazione di "non essere" e viceversa.

L' "essere" si definisce (arbitrariamente, come qualsiasi altro concetto) attraverso la negazione, come ciò che nelle stesse circostanze (di tempo e di luogo per lo meno) non può darsi insieme al, non può accadere insieme al, "non essere".

Dove starebbe mai l' uso del concetto di "essere" in questa definizione del concetto di essere"?

"Omnis determinatio est negatio" (Spinoza)

Peraltro torno a ripetere che delle definizioni, non essendo predicati o proposizioni, non può dirsi (non ha senso dire) che siano tautologiche o meno.
Una proposizione o predicato può essere tautologica o meno, una definizione (di un concetto) potrà casomai essere più o meno "azzeccata" o "calzante" o "utile al discorso", preferibile a un' altra, ecc., ma non essendo un' affermazione non può attribuire (o meno) nel predicato (che non é attribuito al concetto stesso) la stessa cosa che é nell' oggetto di predicazione (sintatticamente il soggetto della frase), la quale infatti non accade.

maral

Per quanto riguarda il verbo essere si potrebbe dire che vi sono due modi per intenderlo. Il primo è quello della perfetta tautologia che si afferma quando si dice che una cosa è (ed è l'uso che ne fa Severino), Se dico che il cavallo è intendo che per qualsiasi cosa significhi "cavallo" esso è se stesso (e chiaramente non può che esserlo sempre). In tal senso la negazione dell'essere è assoluta contraddizione, in quanto non vi può essere alcuna cosa (qualsiasi cosa sia) che non sia se stessa, nemmeno un cerchio quadrato, nemmeno lo stesso contraddirsi logico.
L'altro modo con cui si intende "essere" vuole dire invece che la cosa è nel modo in cui appare e questo è il modo più frequente di usarlo e sul quale è possibile discutere (mentre nel primo caso, trattandosi di una tautologia è assolutamente indiscutibile). E' in tal senso che si può dire: "questo animale è un cavallo" e di conseguenza discuterne con chi non gli appare come un cavallo, ma magari come un ippogrifo (che cito per fare contento Sgiombo, che richiama sempre volentieri questi "animali" :)). Nel senso espresso, in cui l'essere si riferisce all'apparire, l'essere non esclude un modo di apparire diverso, nella prospettiva di un contesto che diversamente lo presenta, pur riconducendolo alla medesima astrazione.
In ogni caso comunque la cosa è ricondotta al gioco dei suoi significati, è solo significando qualcosa (ossia affermando di sé qualcosa in rapporto alle sue negazioni) che qualsiasi cosa può concretamente esistere. 
 

sgiombo

Citazione di: maral il 20 Ottobre 2016, 19:06:14 PM
Per quanto riguarda il verbo essere si potrebbe dire che vi sono due modi per intenderlo. Il primo è quello della perfetta tautologia che si afferma quando si dice che una cosa è (ed è l'uso che ne fa Severino), Se dico che il cavallo è intendo che per qualsiasi cosa significhi "cavallo" esso è se stesso (e chiaramente non può che esserlo sempre). In tal senso la negazione dell'essere è assoluta contraddizione, in quanto non vi può essere alcuna cosa (qualsiasi cosa sia) che non sia se stessa, nemmeno un cerchio quadrato, nemmeno lo stesso contraddirsi logico.
L'altro modo con cui si intende "essere" vuole dire invece che la cosa è nel modo in cui appare e questo è il modo più frequente di usarlo e sul quale è possibile discutere (mentre nel primo caso, trattandosi di una tautologia è assolutamente indiscutibile). E' in tal senso che si può dire: "questo animale è un cavallo" e di conseguenza discuterne con chi non gli appare come un cavallo, ma magari come un ippogrifo (che cito per fare contento Sgiombo, che richiama sempre volentieri questi "animali" :)). Nel senso espresso, in cui l'essere si riferisce all'apparire, l'essere non esclude un modo di apparire diverso, nella prospettiva di un contesto che diversamente lo presenta, pur riconducendolo alla medesima astrazione.
In ogni caso comunque la cosa è ricondotta al gioco dei suoi significati, è solo significando qualcosa (ossia affermando di sé qualcosa in rapporto alle sue negazioni) che qualsiasi cosa può concretamente esistere.  

CitazioneCosa volete? ci sono cinofili, ippofili, ornitofili, "gattare", ecc.
Io sono decisamente un ippogrifofilo! (E quasi quasi fondo un' ONG di "Amici degli ippogrifi" e chiedo qualche finanziamento al governo e ai privati...).

Mi sembra inutile ripetere le obiezioni già proposte non so quante volte circa il presunto necessario significare di ogni e qualsiasi cosa.


Piuttosto mi sembra utile reiterare la mia convinzione che un concetto di per sé non può essere tautologico (o meno; né vero o falso): tautologico é il predicato "un cavallo (o un da me amatissimo ippogrifo) é un cavallo (o rispettivamente uno splendido, meraviglioso ippogrifo)".
"Essere", "non essere", "cavallo", "ippogrifo", ecc., presi da soli e non sintatticamente articolati in una proposizione o predicato, non sono né veri né falsi, né tautologici, né contraddittori, né logicamente corretti.


Il contraddirsi logico non può essere perché la logica (almeno la logica classica) é statutariamente incompatibile con il contraddirsi.
Ma un contraddirsi illogico può ben essere, ovvero accadere realmente, eccone qui appena sotto uno:

"Un ippogrifo non é un ippogrifo".

Questa é una successione di parole reale, ed é autocontraddittoria, letteralmente "un contraddirsi illogico".


D' altra parte i concetti si definiscono gli uni tramite gli altri.

E infatti i vocaboli nei dizionari sono definiti tramite altri vocaboli.

Dunque le connotazioni dei concetti non possono che essere "più o meno strettamente" circolari (il circolo é strettissimo, "a due" nel caso dei concetti più generali e astratti di tutti, "essere" e "non essere" come "condizioni reciprocamente escludentisi", ma anche qualsiasi altro concetto si definisce mediante altri concetti definiti mediante altri concetti e così via fino a trovare inevitabilmente prima o poi il concetto da definire nelle definizioni di quelli che direttamente o più o meno indirettamente lo definiscono (o in alternativa anche ostativamente: "questo é un cavallo"; purtroppo, con grande dispiacere,  non sono riuscito a trovare ippogrifi reali da mostrare... Ma comunque l' indicare é un po' diverso dal definire).

Ma non si tratta di una circolarità "viziosa", contrariamente a quella fra predicati in inferenze fallaci, proprio perché le definizioni di concetti non affermano (più o meno correttamente) qualcosa circa la realtà (non sono veri o falsi), ma semplicemente "stabiliscono" ciò che si intende considerare, pensare, ciò di cui si parla (indipendentemente da come é la realtà), e dunque hanno come unici limiti inderogabili quelli della correttezza logica (e reciproca compatibilità e coerenza semantica), non quelli della correttezza gnoseologica: non sono veri o falsi di per sé.


Esempi:
"Asiafrica" non é né vero né falso (può essere cervellotico, ridicolo, inutile, ecc. ma non falso).
"L' Asiafrica é meno estesa dell' Eurasia" é falso.
"L' Asiafrica é l' Asiafrica" é tautologico.
"L' Asiafrica non é l' Asiafrica é contraddittorio".

Phil

Non riesco a seguire bene il filo logico: se è vero che 
Citazione di: sgiombo il 20 Ottobre 2016, 15:09:02 PMdelle definizioni, non essendo predicati o proposizioni, non può dirsi (non ha senso dire) che siano tautologiche o meno.
allora questa definizione
Citazione di: sgiombo il 20 Ottobre 2016, 15:09:02 PMil concetto di essere si definisce come negazione di "non essere" e viceversa.
pur essendo un predicato ed una tautologia (x non è non-x), non è comunque una definizione?
Ciò sembra contraddire il tuo assunto secondo cui
Citazione di: sgiombo il 20 Ottobre 2016, 15:09:02 PMUna proposizione o predicato può essere tautologica o meno, una definizione (di un concetto) potrà casomai essere più o meno "azzeccata" [...] ma non essendo un' affermazione non può attribuire (o meno) nel predicato [..] la stessa cosa che é nell' oggetto di predicazione
poichè qui (riguardo l'essere) è esattamente ciò che accade: il predicato e l'oggetto di predicazione si "rimpallano" vicendevolmente in una tautologia non esplicativa... se "ogni determinazione è una negazione", è anche vero che una definizione, se vuole essere "pragmaticamente fruibile" non può essere una tautologia in cui il "definiens" ed il "definendum" sono in circolo vizioso... se dico che xyz è tutto quello che non è non-xyz, chi può capire davvero cos'è xyz? Se dico che l'essere non è il non-essere e viceversa, non spiego nè definisco nulla di cosa sia l'essere (dire che "il bene è tutto ciò che non è il male", non aiuta a definire le giuste scelte etiche...). 

Ci sono definizioni che non sono tautologie, e forse sono quelle più fertili (anche se presuppongono altri elementi esterni che siano stati precedentemente definiti...), del tipo "spiego A tramite B e C": l'acqua è l'unione di due atomi di idrogeno e uno di ossigeno (definizione approssimativa, come le conoscenze sulla chimica di chi la usa ;D ). Le pseudo-definizioni che invece sono tautologie non definiscono nulla, non comunicano (al di là del loro rapporto o non-rapporto con la realta) ma sono solo declinazioni del principio di non contraddizione (x non è non-x).

P.s. Ho scoperto oggi che su 386 lingue, ben 175 non hanno il verbo essere o un suo sostituto... non solo può essere un serio problema tradurre il celeberimmo motto parmenideo ("l'essere è e non può non essere, etc."), ma credo che la stessa "forma mentis" filosofica possa avere un'impalcatura differente; credo sarebbe interessante parlare di ontologia con qualcuno che non ha nel suo vocabolario il verbo essere...

sgiombo

#25
Citazione di: Phil il 20 Ottobre 2016, 21:46:30 PM
Non riesco a seguire bene il filo logico: se è vero che
Citazione di: sgiombo il 20 Ottobre 2016, 15:09:02 PMdelle definizioni, non essendo predicati o proposizioni, non può dirsi (non ha senso dire) che siano tautologiche o meno.
allora questa definizione
Citazione di: sgiombo il 20 Ottobre 2016, 15:09:02 PMil concetto di essere si definisce come negazione di "non essere" e viceversa.
pur essendo un predicato ed una tautologia (x non è non-x), non è comunque una definizione?
Ciò sembra contraddire il tuo assunto secondo cui
Citazione di: sgiombo il 20 Ottobre 2016, 15:09:02 PMUna proposizione o predicato può essere tautologica o meno, una definizione (di un concetto) potrà casomai essere più o meno "azzeccata" [...] ma non essendo un' affermazione non può attribuire (o meno) nel predicato [..] la stessa cosa che é nell' oggetto di predicazione
poichè qui (riguardo l'essere) è esattamente ciò che accade: il predicato e l'oggetto di predicazione si "rimpallano" vicendevolmente in una tautologia non esplicativa... se "ogni determinazione è una negazione", è anche vero che una definizione, se vuole essere "pragmaticamente fruibile" non può essere una tautologia in cui il "definiens" ed il "definendum" sono in circolo vizioso... se dico che xyz è tutto quello che non è non-xyz, chi può capire davvero cos'è xyz? Se dico che l'essere non è il non-essere e viceversa, non spiego nè definisco nulla di cosa sia l'essere (dire che "il bene è tutto ciò che non è il male", non aiuta a definire le giuste scelte etiche...).

Ci sono definizioni che non sono tautologie, e forse sono quelle più fertili (anche se presuppongono altri elementi esterni che siano stati precedentemente definiti...), del tipo "spiego A tramite B e C": l'acqua è l'unione di due atomi di idrogeno e uno di ossigeno (definizione approssimativa, come le conoscenze sulla chimica di chi la usa ;D ). Le pseudo-definizioni che invece sono tautologie non definiscono nulla, non comunicano (al di là del loro rapporto o non-rapporto con la realta) ma sono solo declinazioni del principio di non contraddizione (x non è non-x).

P.s. Ho scoperto oggi che su 386 lingue, ben 175 non hanno il verbo essere o un suo sostituto... non solo può essere un serio problema tradurre il celeberimmo motto parmenideo ("l'essere è e non può non essere, etc."), ma credo che la stessa "forma mentis" filosofica possa avere un'impalcatura differente; credo sarebbe interessante parlare di ontologia con qualcuno che non ha nel suo vocabolario il verbo essere...
CitazioneIn sostanza credo di avere già obiettato rispondendo a Maral.
Aggiungo qualche ulteriore precisazione.
Le definizioni sono proposizioni, é vero; però non proposizioni che affermano qualcosa circa la realtà (ciò che realmente é o accade), bensì circa ciò che si intende con i concetti, in cosa consistono quelle "cose pensate" o "pensabili" che sono i significati dei concetti che usiamo, coi quali parliamo.
Non ha senso per essi il problema se siano veri o meno; certo, essendo proposizioni, devono essere (per essere realmente tali, dunque sensate e non mere sequenze casuali, insignificanti di caratteri tipografici o di vocalizzi) logicamente corrette, sensate e anche reciprocamente compatibili e coerenti semanticamente all' interno di ciascuna lingua (non si può, definendo il "cavallo" affermare che non é un sottoinsieme dell' "equino").

Però tautologico o meno, come vero o meno, può essere solo un predicato, non un singolo concetto che, di per sé, se non articolato sintatticamente in una proposizione, non dice nulla (nè di vero, né di falso, nè di tautologico, né di contraddittorio, né di logicamente corretto; é casomai la sua definizione che dice qualcosa, essendo una proposizione").

Quanto alla "circolarità delle definizioni", ribadisco anche qui quanto già obiettato a Maral: é inevitabile poiché i concetti si possono definire solo mediante altri concetti e di definizione in definizione non si può evitare prima o poi di incappare nel concetto che si intende definire; che si definisce quindi per forza più o meno direttamente o indirettamente mediante altri concetti che a loro volta più o meno direttamente o indirettamente sono stati definiti mediante esso.

Ma non si tratta di circolarità "viziosa" proprio perché non pretende di dire qualcosa circa ciò che realmente é o accade (e questo non lo si può fare utilizzando circolarmente ciò che va dimostrato per dimostrare ciò con cui lo si dimostra), ma solo di stabilire che cosa si intende, a cosa si pensa quando di pensa a un certo concetto (e, contrariamente al predicare circa la realtà, il pensiero "svincolato da esigenze gnoseologiche" ha come unici limiti e vincoli quelli logici, non quelli gnoseologici e ontologici propri della predicazione circa la realtà): le definizioni -di per sé- non sono vere o false ma solo corrette o meno e più o meno "azzeccate" ai fini del discorso (anche circa la realtà, anche per conoscere la realtà; eventualmente anche, ma non necessariamente, non solo, non di per sé; ossia non senza articolare sintatticamente i concetti che connotano in predicati).

.


davintro

#26
Lo scetticismo si può sconfiggere attraverso il metodo cartesiano (poi ripreso per un certo aspetto e sviluppato dal procedimento delle riduzioni fenomenologiche husserliane) per il quale portando all'estremo il dubbio, questo dubbio presupporebbe l'esistenza di un soggetto dubitante, dunque pensante, dunque esistente o vivente (ma già Agostino aveva anticipato questo discorso nella polemica contro gli  Accedemici, gli scettici della sua epoca). Si potrebbe pensare che allora il campo della certezza dovrebbe essere ristretto all'esistenza del soggetto pensante e dunque rappresentante la realtà, mentre l'esistenza di una realtà oggettiva dovrebbe essere lasciata nell'oscurità, nell'arbitrarietà di qualunque pretesa di giudizio scientifico o descrizione. Ad evitare tale rischio interviene l'idea dell'intenzionalità per la quale coscienza e mondo non sono realtà dualisticamente estrinseche o separati tali che la certezza del riconoscimento della prima resterebbe indifferente a qualunque discorso sul secondo. Se la coscienza è essenzialmente intenzionalità, coscienza sempre di "qualcosa", allora non è mai chiusa in sè stessa ma correlata agli oggetti del mondo che si manifestano come contenuti dei propri vissuti. L'intenzionalità fissa una polarità "attività-passività" per cui da un lato intenzionalmente un Io si rivolge attivamente verso un mondo oggettivo attraverso prese di posizioni di tipo intellettuale, estetico, volontario, dall'altro lato questa attività trae la sua base dalla percezione, che non è solo attività dell'io percepiente, ma presupone anche una passività. Una passività per la quale la percezione di un oggetto è costantemente rifondata e modificata dalla ricezione di stimoli esterni che colpiscono l'attenzione dell'Io portandolo a rivolgersi verso contenuti che smentiscono le aspettative della sintesi anticipativa che la percezione determina. Questa possibilità che il mondo smentisca le aspettative che su di esso il soggetto si crea nel corso del flusso delle percezioni attraverso la passività delle sensazioni testimonia l'esistenza di un'alterità, un'ulteriorità del mondo che interviene nella costituzione della coscienza a partire dalla base percettiva. Diciamo che mi troverei d'accordo con il "realismo trascendentale"... la certezza del soggetto pensante può essere trasferita alla realtà oggettiva, spogliando quest'ultima dal complesso di giudizi che nell'atteggiamento comune, naturale rivolgiamo su essa, atteggiamento ingenuo in cui non tematizziamo il problema della corrispondenza tra nostra rappresentazione e realtà e pensiamo, per abitudine, che le cose oggettive coincidano pienamente con i contenuti percettivi una volta che di questi ultimi si è stata accertato un certo livello (ovviamente stabilito in modo arbitrario) di regolarità, e limitandoci alla certezza che una realtà X indeterminata comunque esiste come fattore di fronte al quale la coscienza passivamente si pone e da questa passività fondare la percezione, che essendo un vissuto immanente, soggettivo, partecipa della certezza della coscienza. "Realismo" perchè riconosce l'esistenza di questa trascendenza (trascendenza non in senso teologico, verticale, ma gneoseologico, orizzontale), ma non "ingenuo", bensì "trascendentale" perchè ci si limita ad ammetterne un'esistenza generica, sufficiente a riconoscerla come necessaria per la costituzione della coscienza soggettiva intenzionale, che la critica dello scetticismo manifesta come presenza di un'evidenza originaria, a partire dallo stadio primordiale di tale intenzionalità, la percezione, dove attività e passività, immanenza e trascendenza, si incontrano interagendo fra loro

sgiombo

Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2016, 23:33:05 PM
Lo scetticismo si può sconfiggere attraverso il metodo cartesiano (poi ripreso per un certo aspetto e sviluppato dal procedimento delle riduzioni fenomenologiche husserliane) per il quale portando all'estremo il dubbio, questo dubbio presupporebbe l'esistenza di un soggetto dubitante, dunque pensante, dunque esistente o vivente (ma già Agostino aveva anticipato questo discorso nella polemica contro gli  Accedemici, gli scettici della sua epoca). Si potrebbe pensare che allora il campo della certezza dovrebbe essere ristretto all'esistenza del soggetto pensante e dunque rappresentante la realtà, mentre l'esistenza di una realtà oggettiva dovrebbe essere lasciata nell'oscurità, nell'arbitrarietà di qualunque pretesa di giudizio scientifico o descrizione. Ad evitare tale rischio interviene l'idea dell'intenzionalità per la quale coscienza e mondo non sono realtà dualisticamente estrinseche o separati tali che la certezza del riconoscimento della prima resterebbe indifferente a qualunque discorso sul secondo. Se la coscienza è essenzialmente intenzionalità, coscienza sempre di "qualcosa", allora non è mai chiusa in sè stessa ma correlata agli oggetti del mondo che si manifestano come contenuti dei propri vissuti. L'intenzionalità fissa una polarità "attività-passività" per cui da un lato intenzionalmente un Io si rivolge attivamente verso un mondo oggettivo attraverso prese di posizioni di tipo intellettuale, estetico, volontario, dall'altro lato questa attività trae la sua base dalla percezione, che non è solo attività dell'io percepiente, ma presupone anche una passività. Una passività per la quale la percezione di un oggetto è costantemente rifondata e modificata dalla ricezione di stimoli esterni che colpiscono l'attenzione dell'Io portandolo a rivolgersi verso contenuti che smentiscono le aspettative della sintesi anticipativa che la percezione determina. Questa possibilità che il mondo smentisca le aspettative che su di esso il soggetto si crea nel corso del flusso delle percezioni attraverso la passività delle sensazioni testimonia l'esistenza di un'alterità, un'ulteriorità del mondo che interviene nella costituzione della coscienza a partire dalla base percettiva. Diciamo che mi troverei d'accordo con il "realismo trascendentale"... la certezza del soggetto pensante può essere trasferita alla realtà oggettiva, spogliando quest'ultima dal complesso di giudizi che nell'atteggiamento comune, naturale rivolgiamo su essa, atteggiamento ingenuo in cui non tematizziamo il problema della corrispondenza tra nostra rappresentazione e realtà e pensiamo, per abitudine, che le cose oggettive coincidano pienamente con i contenuti percettivi una volta che di questi ultimi si è stata accertato un certo livello (ovviamente stabilito in modo arbitrario) di regolarità, e limitandoci alla certezza che una realtà X indeterminata comunque esiste come fattore di fronte al quale la coscienza passivamente si pone e da questa passività fondare la percezione, che essendo un vissuto immanente, soggettivo, partecipa della certezza della coscienza. "Realismo" perchè riconosce l'esistenza di questa trascendenza (trascendenza non in senso teologico, verticale, ma gneoseologico, orizzontale), ma non "ingenuo", bensì "trascendentale" perchè ci si limita ad ammetterne un'esistenza generica, sufficiente a riconoscerla come necessaria per la costituzione della coscienza soggettiva intenzionale, che la critica dello scetticismo manifesta come presenza di un'evidenza originaria, a partire dallo stadio primordiale di tale intenzionalità, la percezione, dove attività e passività, immanenza e trascendenza, si incontrano interagendo fra loro
CitazioneRitengo (con Hume) che nel praticare il dubbio critico razionale delle credenze sia possibile andare "fino in fondo", essere più radicali e conseguenti di Cartesio, procedere oltre il "cogito ergo sum": ciò di cui può darsi assoluta certezza (se accadono "eventi di coscienza": pensieri e anche percezioni tipo "res extensa") sono unicamente tali eventi fenomenici, tali percezioni: la realtà constatabile ogni ragionevole dubbio finisce lì.
Che esista anche inoltre un loro "soggetto", oltre che loro "oggetti", "ulteriore rispetto ad esse non è constato (sono constate unicamente le sensazioni fenomeniche) né a mio parere dimostrabile: non c' è nulla di contraddittorio, assurdo, insensato nell' ipotesi contraria.
 
 
E nemmeno mi sembra dimostrabile la tesi husserliana circa l' intenzionalità: chi mi dice, come mi si dimostra che la coscienza è essenzialmente intenzionalità, coscienza sempre di "qualcosa", e dunque non è mai chiusa in sè stessa ma correlata agli oggetti del mondo che si manifestano come contenuti dei propri vissuti?
L' ipotesi contraria, che la coscienza esaurisca la realtà non essendo intenzionalità verso "qualcosa" di diverso da essa (ma semplicemente essendo "qualcosa" di fenomenico e basta" che esaurisce la realtà), che sia chiusa in sè stessa e non correlata ad alcun oggetto del mondo non presenta nulla di contraddittorio, assurdo, insensato.
Il fatto che la percezione di un oggetto è costantemente rifondata e modificata indipendentemente dalla volontà percepita è ipotizzabile non contraddittoriamente, sensatamente anche senza postulare la passivaricezione di stimoli esterni che colpiscono l'attenzione di un io portandolo a rivolgersi verso contenuti che smentiscono le aspettative della sintesi anticipativa che la percezione determina: nulla impedisce che ciò accada senza attività oggettiva e passibità soggettiva, che "accada e basta", che "la realtà sia tutta lì".
 
Dunque secondo me solo "indimostratamente né "mostratamente", solo arbitrariamente, letteralmente per un irrazionale, gratuito atto di fede si possono superare il solipsismo (e anzi un ancor più radicale scetticismo) e si può credere che, oltre alle sensazioni fenomeniche immediatamente evidenti nel loro accadere, esistano anche soggetti ed e oggetti di esse (che, se esistono, poiché sono pensati, poiché li si intende, come reali anche indipendentemente dalle sensazioni, anche allorché non accadono sensazioni fenomeniche, allora non possono essere della stessa natura, fenomenica, non possono essere costituiti da sensazioni, bensì "di altra natura" non sensibile, non apparente -non fenomeni- ma solo pensabile, congetturabile –noumeno-).
 
Per quel che mi riguarda, una volta fatta questa (che io ritengo invece una) scelta (irrazionale, arbitraria) di credere all' esistenza di soggetti e oggetti delle sensazioni fenomeniche, sostanzialmente concordo con quanto esponi come "realismo trascendentale" nel senso che è necessario spogliare la realtà oggettiva dal complesso di giudizi che nell'atteggiamento comune, naturale rivolgiamo su essa, atteggiamento ingenuo in cui non tematizziamo il problema della corrispondenza tra nostra rappresentazione e realtà e pensiamo, per abitudine, che le cose oggettive coincidano pienamente con i contenuti percettivi una volta che di questi ultimi si è stata accertato un certo livello (ovviamente stabilito in modo arbitrario) di regolarità, e limitandoci alla certezza che una realtà X indeterminata comunque esiste come fattore di fronte al quale la coscienza passivamente si pone e da questa passività fondare la percezione, che essendo un vissuto immanente, soggettivo, partecipa della certezza della coscienza. "Realismo" perchè riconosce l'esistenza di questa trascendenza (trascendenza non in senso teologico, verticale, ma gneoseologico, orizzontale), ma non "ingenuo", bensì "trascendentale" perchè ci si limita ad ammetterne un'esistenza generica, sufficiente a riconoscerla come necessaria per la costituzione della coscienza soggettiva intenzionale.
Ma senza ammettere da parte mia che la critica dello scetticismo manifesta questa reltà trascendente i fenomeni (noumeno) come presenza di un'evidenza originaria, a partire dallo stadio primordiale di tale intenzionalità, la percezione, dove attività e passività, immanenza e trascendenza, si incontrano interagendo fra loro.

green demetr

Per quel che mi riguarda la discussione si è divisa i 2 tronconi.

Tra chi sostiene lo scetticismo (Cannata,Sgiombo,Phil) integralmente (ma con diverse argomentazioni), tra chi lo sostiene solo non convenzionalmente (Apeiron), e chi invece lo ritiene superabile con l'argomento del soggetto esistente (Green,Maral,Davintro).

In attesa di portare altre soluzioni dei vari dualismi e monismi contro lo scetticismo, che non ricordo più, e devo andare a recuperare dal Fish.

Certamente sono d'accordo con te Maral che la rappresentazione non è di dominio del soggetto, ma piuttosto dei soggetti. Ma qui apriremmo il capitolo del linguaggio (sia a livello veritativo, logico-formale che sia, sia  quello descrittivo metafisico, nominalista o realista che sia).

Il discorso scetticista non ha la grandezza del discorso sul Mondo, ma si intrattiene con se stesso, nella semplice ma per loro fondamentale desiderio di stabilire se la realtà esista o meno.

Scrivi infatti nel secondo intervento.

"In ogni caso comunque la cosa è ricondotta al gioco dei suoi significati, è solo significando qualcosa (ossia affermando di sé qualcosa in rapporto alle sue negazioni) che qualsiasi cosa può concretamente esistere."

Che io parafraso nella questione della corrispondenza 1:1 tra senso e realtà.

Portato nella nostra discussione su Severino, ricordo che il nostro accettava la coincidenza tra il suo "apparire" e il "fenomeno" nell'accezione continentale.

Probabilmente la parola apparizione sembra qualcosa di evanescente rispetto alla parola oggettività.

Ma in fin dei conti l'oggettività non riguarda il campo del filosofo, perciò a mio modo di vedere sbagli a concentrarti su quello.(Che va bene solo quando critichiamo un certo modo di fare scienza. metafisico, ingenuo etc....).

Il punto è se il fenomeno possa avere la qualità trascendentale a cui Davintro allude.
Mi sembra infatti di essere totalmente d'accordo con il suo intervento.

Davintro però mette l'accento più sul trascendente che sul quello dell'esperienza, la qualità della regolarità del contenuto mentale.

Ma su cosa sia questa trascendenza non accenna. Quindi nel caso aspetto delucidazioni.

A mio parere il trascendentale è quella superficie che è direttamente a contatto con la sensorialità.
Al contrario di Kant o di Husserl non credo vi siano delle celle inferiori come le facoltà o l'intenzione, che decidano per essa (la percezione).

Ripeto fuor di scetticismo la percezione esiste, d'altronde anche scientificamente oggi il soggetto che prima dicevamo è riconosciuto come PROPRIOCEZIONE.

Ma la propriocezione è di fatto nel tempo, e quindi nello spazio, che ne decide le regole convenzionali. (dunque è del tempo storico di cui si parla, non quello assoluto, e cioè a mio parere dell'esperienza).

Infatti la propriocezione tramite NEGAZIONE assume di volta in volta il carattere di IO, io non sono più in quello spazio, ora sono in questo, e nell'accumulo degli infiniti fotogrammi, egli decide formalmente di avere una esperienza. Ossia intenzionalmente si fa soggetto.

A quel punto e solo a quel punto egli giudicando come tale, come soggetto cioè, il contenuto della sua percezione, potrà decidere del fenomeno.

A quel punto decide che deve esistere per forza una superficie (abduzione), e a quel punto si innesta il problema se esista la corrispondenza.

Ossia senso e reale hanno carattere speculare?

Poichè il mondo analitico non analizza il trascendente (kant) nè il formale, ossia il carattere di presentazione NEGATIVA del contenuto(Hegel-Heideger), appunto il significato, il simbolo direbbe Lacan.
A noi non rimane che stare alla soglia del gioco. Ossia nella parte inferiore, dobbiamo cari Maral e Davintro spiegare come il reale informi del sensoriale.
Vai avanti tu che mi vien da ridere

Phil

Citazione di: green demetr il 21 Ottobre 2016, 14:56:37 PMPer quel che mi riguarda la discussione si è divisa i 2 tronconi. Tra chi sostiene lo scetticismo (Cannata,Sgiombo,Phil) integralmente (ma con diverse argomentazioni)
A scanso di equivoci, vorrei precisare che aver ricordato la "profondità" dello scetticismo (che impedisce di sbarazzarsene semplicemente affermando "io esisto e non ne posso dubitare", poichè è proprio tutto il resto che il dubbio autentico problematizza, non certo la "voce dalla coscienza"), non implica affatto che, nel mio piccolo, sia un "sostenitore dello scetticismo". 

Di fatto, le tre questioni che ho ricordato scomodando Gorgia, non sono esclusive dello scetticismo: identità, conoscenza e linguaggio sono temi inestricabili per ogni prospettiva filosofica... e più che metterle in dubbio, secondo me, la questione cruciale è fare i conti con la loro "relatività", il loro dipendere biunivocamente dal paradigma che le impiega (che è a sua volta basato su un approccio relativo... re-lativo, ovvero che ri-porta al suo punto di partenza, agli assiomi assunti come indubitabili, alla preferenze teoretiche, etc....). 
La laboriosa sfida concettuale è probabilmente quella di barcamenarsi fra i molteplici orizzonti e le impostazioni disponibili, per provare a lanciare uno sguardo al di là di quello che scoprono e inventano le (neuro)scienze.

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