Perché si ritiene la felicità la cosa più importante in assoluto?

Aperto da Socrate78, 13 Dicembre 2017, 19:01:16 PM

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sgiombo

Citazione di: green demetr il 24 Dicembre 2017, 00:29:05 AM
Non volevo riferirmi alle tematiche del lutto e del suicidio.

Io mi riferivo a chi rinuncia alla ricerca della felicità.

Inoltre per essere forse più chiaro, vedo che non avete idea di cosa comporti accettare la sofferenza, la povertà e altri mali della società: che si crea una sacca di violenza, che è prima interiore personale, prima che sociale, che ne è solo il sintomo.

Dice bene Angelo quindi, perchè la gente violenta pensa infatti di essere felice, e invece la violenza è proprio la lampadina intermittente che suggerisce situazioni di sofferenza, tutt'altro che felici.

E' un bene il vostro ottimismo (perchè così lo considero) cari Apeiron e Sgiombo.

Ma evidentemente non vivete in situazioni di disagio sociale.
Citazione
Sì, io per primo ritengo di avere la fortuna di essere ottimista.

Inoltre non vivo attualmente situazioni di disagio.
Ma in passato ne ho vissute anche di gravi, sia sul piano personale - affettivo fin da bambino per traversie familiari (e su queste non credo sia il caso di soffermarmi), sia sul piano professionale (pesantemente perseguitato, leso nei miei diritti e "mobbato" da dirigenti ignoranti, incapaci, prepotenti e arroganti; giungendo a pensare al suicidio, anche se a dire il vero non "per l' immediato", cioé senza arrivare a compiere "preparativi pratici concreti", che sarebbe certo stato un salto di qualità; ma solo come extrema ratio nel caso la battaglia giudiziaria che avevo ingaggiato fosse finita in una sconfitta, probabilità di cui l' avvocato mi aveva reso edotto fin dall' inizio, date le deplorevoli condizioni della giustizia nel nostro paese e altrove; ma non essendo uso ad arrendermi senza prima combattere con tutte le mie forze, avevo accetto il rischio), sia sul piano delle mie convinzioni e ideai politico-sociali.
A questo proposito sono nato che Stalin era ancora in vita (poco meno di un anno prima che morisse) e la storia sembrava avviata ad un' inarrestabile marcia trionfale verso il progresso e una civiltà superiore e ora mi trovo in un periodo di reazione e di autentica decadenza civile di una gravità tale che la storia umana credo ne abbia conosciuti ben pochi altri simili.
Modestia a parte, quando ancora molti (anzi quasi tutti, che io sappia) a destra e a sinistra non capivano dove andava a parare la "perestroika" gorbacioviana e rispettivamente temevano o speravano un miglioramento e un ulteriore sviluppo del socialismo reale, mi ero reso conto benissimo che era in corso un pericoloso processo tendente verso disastrosi esiti controrivoluzionari; ho ancora una sorta di dossier con ritagli di giornali di allora -1986 - 1987!- soprattutto sovietici, cui avevo messo il titolo "L' inizio della fine dell' URSS?" (punto interrogativo suggeritomi dal mio ottimismo), e mia moglie ancora ricorda quegli anni come i più rabbiosi della mia vita, quelli nei quali ero relativamente più irritabile e talora perfino intrattabile; per fortuna le mie gravi traverse sul lavoro sono di un paio di decenni dopo).
Spesso dico che il mio e quello dei pochissimi miei coetanei che non si sono venduti alla reazione é "il destino di Filippo Buonarroti" (personaggio che potrebbe essere il protagonista di un' eventuale interessantissimo film sull' epoca attuale), il rivoluzionario compagno di Babeuf nella Congiura degli Eguali che, scampato per un pelo il patibolo, visse ancora per più di mezzo secolo: cinquant' anni e più di restaurazione e di sconfitte del progresso e della civiltà, durante i quali tantissimi compagni di lotta dei tempi migliori tradirono gli ideali della loro gioventù e si piegarono -spessissimo ricavandone privilegi e vantaggi personali: proprio come adesso!- al' andazzo corrente, mentre lui rimase sempre ostinatamente e fieramente un irriducibile rivoluzionario; e morì, a tarda età, proprio alla vigilia della "ripresa del cammino della storia" coi moti del '48.

Quindi credo di avere vissuto anche sofferenza, dolore, difficoltà, che hanno contribuito a rendere più interessante la mia vita e a farmene apprezzare e gustare ancor di più i largamente preponderanti "lati positivi".
Con tutto ciò resto convinto di essere (stato; almeno finora) decisamente fortunato oggettivamente, oltre che soggettivamente ottimista (il che é anche un' ulteriore oggettiva fortuna).

Apeiron

@sgiombo, le tue obiezioni sono certamente fondate, nel senso che sono una possibile interpretazione almeno di certi atti che vengono compiuti in certe condizioni depressive. Tuttavia rimango dell'idea che in genere si agisca per quello che si ritiene bene (anche inconsciamente, quando ad esempio ritrai la mano da un oggetto che scotta). Questo chiaramente non significa che in effetti uno cerchi di preferire il bene, sempre - in effetti è una "presa di posizione" molto forte che non sempre è fondata ma che è una posizione che è molto comune nel mondo antico e moderno tra i pensatori. Ovviamente ammetto che chi ha la "mente confusa" agisca per quello che si ritiene meglio anche se ciò in realtà è falso a causa di un fraintendimento della natura del "meglio" (tema molto ricorrente, ripeto). Mi sembra una "spiegazione" che funziona bene però capisco che in certi casi renda molto perplessi  ;) [riguardo alla parola "soffrono" sì ogni tanto mi capita di dimenticarmi parole e devo dire che con la tastiera è ancora più facile che con la penna  :)  Grazie della segnalazione]

@Green, come ben sai mi affascina il buddhismo e con esso ritengo che quasi tutta la sofferenza è puro "dukkha", ovvero qualcosa che dovrebbe essere evitato. Miseria, disagio sociale, guerre ecc per esempio non portano a nessun "bene superiore", creano solo altra sofferenza. Viceversa certa sofferenza invece porta veramente a un "bene superiore" e questa sofferenza invece è "giusto" "sopportarla".

@Angelo, idem non invidio chi dice di essere felice. Anche perchè spesso la felicità "superficiale"a differenza di quella che si prova durante (e dopo) la ricerca è qualcosa di minor "valore". La cosa "brutta" è che chi non riflette crede che chi cerca è una sorta di masochista che si crea problemi e talvolta questa convinzione viene "acquisita" dallo stesso cercatore nei momenti più bui della sua ricerca. Semplicemente chi non prova a cercare non comprende. E nella nostra società devo dire che si ha una vera e propria paura della ricerca.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Potrebbe essere opportuno precisare un inganno in cui mi sembra che spesso si cade: il fatto che molti mali possano essere trasformati in bene viene scambiato con l'idea che il male, almeno per molti versi, possa essere in sé stesso un bene. Questa è una deduzione micidiale, perché sdoganare il male significa aprire la via all'oppressione del prossimo, una volta che ci siamo persuasi che sia un giusto prezzo da fargli pagare, una medicina amara per il bene, per il progresso.

Questa distinzione tra male e bene potrebbe essere criticata, giudicata priva di senso, visto che, in una prospettiva relativista, non è possibile distinguere nettamente tra male e bene. Come dicevo prima, però, il relativismo non c'impedisce di parlare: basta parlare con coscienza di criticabilità, opinabilità. In questo senso, quando dico che il concetto di bene va mantenuto più che possibile separato e contrapposto a quello di male, non lo dico da un punto di vista oggettivo, ma come un appello alle sensibilità: io ho questo sensibilità, la ritengo utile, costruttiva, e allora faccio appello alle sensibilità altrui.

Il male può essere trasformato in bene, ma ciò non significa che esso possa essere considerato bene già in partenza. Il male è male. Se non viene trasformato resta male e produce male.

Così, ad esempio, se in occasione di un lutto o una sofferenza la mia sensibilità viene affinata, la mia spiritualità risulta approfondita, sarebbe micidiale concludere che per certi versi quel lutto o quella sofferenza siano stati un bene. Sono e restano un male. Trasformarli in bene è tutto un altro discorso, che non ci autorizza a creare confusioni micidiali.

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 23 Dicembre 2017, 16:41:37 PM
In una vecchia trasmissione di Piero Angela si vede un cieco che è persuaso di vederci (a proposito, ho visto che hanno messo su Youtube l'intera serie, che considero molto istruttiva: consiglio di vederla): l'intervistatore gli muove il microfono davanti agli occhi, il cieco non se ne accorge, ma continua ad affermare di aver acquistato almeno buona parte della sua capacità di vedere.

Ora, se un cieco può essere persuaso di vederci, figuriamoci se una persona che sta anche malissimo non possa essere persuasa di essere felice. Questo mette in questione non solo l'attendibilità del parere di chi si ritiene felice, ma qualsiasi discorso sulla felicità: siamo costretti ad ammettere che non sappiamo di cosa stiamo parlando, esattamente come il cieco, che dicendo di vederci non sapeva di cosa stava parlando.
CitazioneL' esempio del cieco inconsapevole della propria patologia non dimostra che si può essere "illusi di essere felici": felici (in maggiore o minor misura, ovviamente) o si é oppure non si é .

Ci si può illudere circa una eventuale felicità futura o circa la realtà delle cause, dei motivi della propria felicità presentemente attuale, non  di quest' ultima.
Infatti "felicità" significa appagamento di desideri e aspirazioni, e questa -che sia per una corretta, veritiera oppure per un' illusoria, errata valutazione della realtà oggettiva- é una condizione soggettiva che (in maggiore o minor misura) può essere reale o non essere reale; non può apparire falsamente reale (casomai falsamente ritenuti reali ne possono essere i motivi).

Per esempio un tossicodipendente che avesse la (molto rara, di fatto) fortuna di potersi curare adeguatamente e di provvedersi costantemente la droga sarebbe realmente felice (nel suo "paradiso" falso e illusorio, oltre che "artificiale").
E questo perché le sue aspirazioni, per banali e meschine che si possano ritenere da parte di altri, per effimere e malsicure per il futuro che possano oggettivamente essere, al momento sarebbero realmente soddisfatte (= al momento lui sarebbe realmente felice).
Allo stesso modo, ammettiamo che per il cieco dell' esempio il (sapere, veracemente o meno di ) vederci realmente sia ciò a cui aspira; non ci vede realmente, ma "ciò che gli risulta -sia pur erroneamente, falsamente- accadere", ciò che realmente sa é che ci vede realmente (anche se é una conoscenza falsa, anche se non accede realmente che ci veda); in questo caso il cieco sarà (illusoriamente, falsamente vedente, ma comunque) veracemente, effettivamente, realmente felice.



Questo non significa che siamo condannati a non poter parlare di nulla: basta parlarne con consapevolezza della criticabilità di ciò che diciamo e quindi ricerca delle vie migliori di esplorazione della questione.

Che vie seguire dunque?

È chiaro che il discorso sulla felicità s'intreccia con quello sul bene, a proposito del quale ci ritroviamo rimandati al relativismo a cui in pratica mi sono appena riferito.
CitazioneV' é un indubbiamente un intreccio ma non si devono confondere i concetti:

Una persona gretta e meschina, e anche una malvagia, può benissimo essere felice se la sua grettezza, meschinità o anche malvagità sono appagate dagli eventi che vive, esattamente come può esserlo una persona magnanima e generosa se la sua magnanimità e generosità sono appagate dagli eventi che vive.

Personalmente non scambierei una (pretesa, per quanto personalmente mi riguarda) felicità nella grettezza, meschinità e men che meno nella malvagità, con un' (pretesa, per quanto mi riguarda) infelicità nella magnanimità e nella generosità: per me, come per gli antichi stoici, "la virtù é premio a se stessa"; il che significa che la mia aspirazione maggiore di tutte é la "virtù"; e se questa é appagata, a dispetto dell' inappagamento di qualsiasi altra di gran lunga minore, il mio "bilancio interiore complessivo" é un' esperienza di felicità



Ma il relativismo è un problema solo per chi ritiene che ciò che vale siano soltanto le affermazioni assolute, certe veritiere, indipendenti. Nella mia prospettiva invece ciò che vale è l'opinione che abbia l'umiltà di riconoscersi opinione.

Che vie possiamo seguire in questa condizione di esseri umani costretti ad essere umili?

Per me la via migliore è quella del cercare, che poi non è altro che un riesprimere ciò che con un linguaggio filosofico più astratto si dice divenire, di eraclitea memoria.

Tutto questo mi dice che per me il meglio da cercare non è la felicità, né il bene, ma il cercare stesso. Se sono in ricerca, se sto cercando, allora sono nel meglio delle mie possibilità, nel massimo delle mie facoltà e non ho nulla da invidiare a chi sostiene di essere felice.
CitazioneInfatti sei felice perché la tua aspirazione alla ricerca é appagata (riesci a praticarla), esattamente come sarebbe felice un delinquente che riuscisse a d appagare la sua aspirazione a delinquere (facendola franca); sia chiaro che non c' é alcun intento offensivo in queste parole, esse valgono tali e quali anche per la mia propria felicità e per quella di chiunque altro: "esattamente come" si riferisce all' essere felici, non certo ai modi e alle condizioni dell' esserlo!



Allora la domanda che è il tema di questa discussione viene a risultare una domanda che implicitamente si riferisce alla massa, alla gente che non riflette, a persone che purtroppo il mondo ha ridotto a burattini manovrati: sono queste le persone persuase di dover inseguire la felicità, o peggio, di averla raggiunta. Anch'io sono un burattino manovrato, ma sono un burattino che cerca. La persona che dice di essere felice è colei che, a proposito di ciò su cui si ritiene felice, ha smesso di cercare, di interrogarsi; se infatti si ponesse dubbi in proposito, non potrebbe più sostenere di essere felice. Il dubbio dunque impedisce di sostenere di essere felici, ma in cambio dona la coscienza di star esercitando il meglio delle proprie facoltà.

Di fronte a questo, non ho alcuna invidia di chi dice di essere felice e non desidero affatto essere felice: desidero solo non fermarmi su nulla.
CitazioneErgo: fin che non ti "fermi" sei felice, poichè stai ottenendo ciò che desideri, esattamente come chi desiderasse "fermarsi" e riuscisse a "fermarsi" (per la cronaca: non é nemmeno il mio personale caso), che pure starebbe ottenendo ciò che desiderasse.



Ciò non significa che io neghi a me stesso qualsiasi soddisfazione o piacere concessi dalla vita: non li nego affatto, ma li vivo come parte della ricerca, la quale comprende anche momenti di sosta, di ristoro, visto che si tratta di ricerca umana.
CitazioneHai le tue aspirazioni, che per tua fortuna sono sostanzialmente soddisfatte (= sei felice).


Apeiron

@Angelo, bravo hai fatto bene a puntualizzare. Non è che il "dolore" in sé sia "positivo". Tuttavia è una sorta di "male necessario"  ;)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Citazione di: sgiombo il 24 Dicembre 2017, 10:37:44 AML' esempio del cieco inconsapevole della propria patologia non dimostra che si può essere "illusi di essere felici": felici (in maggiore o minor misura, ovviamente) o si é oppure non si é .

Ci si può illudere circa una eventuale felicità futura o circa la realtà delle cause, dei motivi della propria felicità presentemente attuale, non  di quest' ultima.
Infatti "felicità" significa appagamento di desideri e aspirazioni, e questa -che sia per una corretta, veritiera oppure per un' illusoria, errata valutazione della realtà oggettiva- é una condizione soggettiva che (in maggiore o minor misura) può essere reale o non essere reale; non può apparire falsamente reale
Si tratta di chiarire se il soggetto può ingannare sé stesso oppure no. A me sembra di sì. Il motivo mi sembra dimostrabile: la persona che dice di essere felice può anche trovarsi in una condizione psicologica che la induce a trascurare, rimuovere dalla coscienza, ciò che le dice che non è vero che è felice. Questo mi sembra che accada, ad esempio, nei fanatici delle religioni, oppure in chi è stato plagiato da guaritori impostori: il bisogno di sicurezza, di sentire di aver avuto successo, di aver raggiunto lo scopo proposto, può indurre a far finta che tutto vada bene e autoconvincersi che tutto sta andando bene. Una persona che si trova in queste condizioni dirà di essere felice soltanto perché in quel momento sta eliminando dalla propria coscienza tutto ciò che smentisce il suo bisogno psicologico di sentirsi felice.
Può accadere che lo stesso interessato riconosca, in un momento successivo, che si stava ingannando, che aveva scelto di far parlare solo una parte di sé e metterne a tacere altre. Cosa diremo ad una persona in questa situazione? Le diremo "No, non è vero, tu eri davvero felice, perché la felicità non può apparire falsamente reale"?

Angelo Cannata

Citazione di: Apeiron il 24 Dicembre 2017, 10:39:01 AM
Non è che il "dolore" in sé sia "positivo". Tuttavia è una sorta di "male necessario"
La parola "necessario" mi suona pericolosa. Necessario per chi? Gli Americani possono ritenere che sganciare bombe in un paese sia un male necessario per esportare democrazia.
Preferirei dire:

qui ed ora questo male mi sembra inevitabile; però continuerò a fare di tutto per cercare in ogni momento, se possibile, di evitarlo, perché potrei sbagliarmi.

Apeiron

Citazione di: Angelo Cannata il 24 Dicembre 2017, 11:10:03 AM
Citazione di: Apeiron il 24 Dicembre 2017, 10:39:01 AMNon è che il "dolore" in sé sia "positivo". Tuttavia è una sorta di "male necessario"
La parola "necessario" mi suona pericolosa. Necessario per chi? Gli Americani possono ritenere che sganciare bombe in un paese sia un male necessario per esportare democrazia. Preferirei dire: qui ed ora questo male mi sembra inevitabile; però continuerò a fare di tutto per cercare in ogni momento, se possibile, di evitarlo, perché potrei sbagliarmi.

Complimenti, Angelo  ;)  hai ragione... con "necessario" intendevo proprio questo! nel senso che potrei appunto pensare che non sia "inevitabile"!

Una tipica insidia delle comunicazioni scritte  ;)

Buon Natale a tutti!
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 24 Dicembre 2017, 10:53:11 AM
Citazione di: sgiombo il 24 Dicembre 2017, 10:37:44 AML' esempio del cieco inconsapevole della propria patologia non dimostra che si può essere "illusi di essere felici": felici (in maggiore o minor misura, ovviamente) o si é oppure non si é .

Ci si può illudere circa una eventuale felicità futura o circa la realtà delle cause, dei motivi della propria felicità presentemente attuale, non  di quest' ultima.
Infatti "felicità" significa appagamento di desideri e aspirazioni, e questa -che sia per una corretta, veritiera oppure per un' illusoria, errata valutazione della realtà oggettiva- é una condizione soggettiva che (in maggiore o minor misura) può essere reale o non essere reale; non può apparire falsamente reale
Si tratta di chiarire se il soggetto può ingannare sé stesso oppure no. A me sembra di sì. Il motivo mi sembra dimostrabile: la persona che dice di essere felice può anche trovarsi in una condizione psicologica che la induce a trascurare, rimuovere dalla coscienza, ciò che le dice che non è vero che è felice.
CitazioneCerto, concordo.
Ma in questo modo é (realmente) felice (molto probabilmente si tratta di una felicità molto "precaria", effimera, destinata a venir meno col probabile venire al pettine prima o poi dei nodi della realtà che il soggetto in questione ignora o circa i quali si illude; ma  comunque al momento é una reale, autentica, non illusoria felicità, sebbene fondata sull' illusione).

Illusori, falsi sono i motivi della felicità, reale é quest' ultima (pensa alle considerazioni di Giacomo Leopardi sulla maggior felicità dei primitivi, con le loro mitologiche illusioni, rispetto ai moderni, con le loro vere conoscenze).



Questo mi sembra che accada, ad esempio, nei fanatici delle religioni, oppure in chi è stato plagiato da guaritori impostori: il bisogno di sicurezza, di sentire di aver avuto successo, di aver raggiunto lo scopo proposto, può indurre a far finta che tutto vada bene e autoconvincersi che tutto sta andando bene. Una persona che si trova in queste condizioni dirà di essere felice soltanto perché in quel momento sta eliminando dalla propria coscienza tutto ciò che smentisce il suo bisogno psicologico di sentirsi felice.
Può accadere che lo stesso interessato riconosca, in un momento successivo, che si stava ingannando, che aveva scelto di far parlare solo una parte di sé e metterne a tacere altre. Cosa diremo ad una persona in questa situazione? Le diremo "No, non è vero, tu eri davvero felice, perché la felicità non può apparire falsamente reale"?
CitazionePotremmo dirgli (ma sarebbe un' inutile "girare il coltello nella piaga", dal momento che già se ne sarà reso amaramente conto) che, purtroppo, la sua felicità reale, fondata sull' illusione, si é rivelata effimera e ha lasciato posto a un' infelicità altrettanto reale ma che potrebbe rivelarsi ben più salda e duratura, essendo fondata sulla conoscenza vera di come stanno le cose realmente.

sgiombo

Citazione di: Apeiron il 24 Dicembre 2017, 12:17:21 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 24 Dicembre 2017, 11:10:03 AM
Citazione di: Apeiron il 24 Dicembre 2017, 10:39:01 AMNon è che il "dolore" in sé sia "positivo". Tuttavia è una sorta di "male necessario"
La parola "necessario" mi suona pericolosa. Necessario per chi? Gli Americani possono ritenere che sganciare bombe in un paese sia un male necessario per esportare democrazia. Preferirei dire: qui ed ora questo male mi sembra inevitabile; però continuerò a fare di tutto per cercare in ogni momento, se possibile, di evitarlo, perché potrei sbagliarmi.

Complimenti, Angelo  ;)  hai ragione... con "necessario" intendevo proprio questo! nel senso che potrei appunto pensare che non sia "inevitabile"!

Una tipica insidia delle comunicazioni scritte  ;)

Buon Natale a tutti!
CitazioneMa talora può anche accadere e talora purtroppo effettivamente accade che l' infelicità non sembri essere a chi la prova superabile (e perfino che non la sia effettivamente, in realtà); e allora l' unica soluzione ragionevole é il suicidio, come male minore ovvero come bene relativo (alla vita ritenuta, a torto o magari anche a ragione, irrimediabilmente infelice).

Irrimediabilmente la vita (in generale, complessivamente intesa; e ancor più e a maggior ragione la vita autocosciente) é per certi aspetti meravigliosa e bellissima, per altri orrenda e cattivissima.
Se si vuole "guardare in faccia la realtà", bisogna riconoscere che questo é in generale inevitabile (pur essendo spesso superabili, e dunque da cercare ad ogni costo di superare, magari a costo di durissimi sacrifici, condizioni particolari concrete di infelicità).

D' altra parte ogni concetto umanamente pensabile é inevitabilmente relativo: non potremmo avere coscienza del bene se non avessimo coscienza del male, né del "bello" senza il "brutto", della "gioa" senza il "dolore", della "felicità" senza l' infelicità", ecc. 
C'é una sorta di profonda "saggezza elementare" nel mito mesopotamico (poi ebraico e cristiano, ma probabilmente in parte frainteso e deformato in queste ultime accezioni) del peccato originale e della perdita del "paradiso terrestre" (alquanto indifferente piuttosto che buono, non avendosi colà e allora "conoscienza del bene e dl male"), in seguito all' assimilazione del frutto "dell' albero della conoscenza del bene e del male": parafrasi a mio avviso straordinariamente trasparente del passaggio dell' umanità dall' animalità inconsapevole di se stessa e della propria vita all' autocoscienza, dalla "storia naturale" alla cultura o "storia umana").

Socrate78

Inoltre io credo che la felicità o l'infelicità non dipendano da ciò che ci accade, ma da come interpretiamo i fatti secondo il nostro giudizio. Soffriamo perché formuliamo, istintivamente, un giudizio negativo su un determinato fatto. Ad esempio se scopriamo che un falso amico ha sparlato di noi e ci ha diffamato la reazione quasi universale è provare delusione, sofferenza, ma scoprire questo è proprio così negativo? Nient'affatto, anzi, può essere visto come un bene poiché ci apre gli occhi su quella persona ed è meglio scoprirlo piuttosto che continuare a condividere la vita con un soggetto che può sempre farci del male senza che noi lo comprendiamo. Secondo me se ci allenassimo a vedere gli aspetti positivi anche nel male saremmo certamente più vicini alla felicità, molte cose "negative" diventerebbero meno terribili di quanto ci appaiono. 

Angelo Cannata

Sì, molte cose negative diventerebbero meno terribili, ma si verifica anche l'opposto, cioè molti mali di cui non ci accorgevamo ci risulteranno molto più gravi e quindi ne soffriremo molto di più.

In tutto questo, sembra che il bilancio complessivo sia negativo, come insegna Dante nel purgatorio: "il perder tempo a chi più sa più spiace", oppure anche il proverbio "Il riso (= la felicità) abbonda nella bocca degli sciocchi".

In questo senso è possibile aumentare la felicità soltanto adottando interpretazioni più impoverite. Quanto più useremo interpretazioni intelligenti, critiche, aperte, tanto più saremo infelici.

C'è da aggiungere però che le interpretazioni intelligenti forniscono in aggiunta due strumenti contro l'eccesso di infelicità: la critica di sé stesse e una certa maggiore, più profonda, consapevolezza anche di ciò che è positivo, costruttivo, incoraggiante.

È per questo che la persona più intelligente preferisce la consapevolezza, l'intelligenza, nonostante da ciò derivi una diminuzione del ridere e festeggiare (dico diminuzione, non azzeramento, altrimenti ci sarebbe qualcosa che non va, qualcosa di patologico): perché la persona intelligente, anche quando non è felice, tuttavia vive, percepisce, dentro di sé, delle ricchezze e delle profondità che trova di gran lunga preferibili a ciò che lo sciocco chiama felicità, anche perché non essere felici non significa necessariamente essere infelici: può anche significare, ad esempio, trovarsi in profonda e serena contemplazione di un'esperienza, un paesaggio, un'opera d'arte. Ad esempio, penso che a molti sia accaduto che, ascoltando una musica o leggendo un romanzo, si percepiscano delle profondità che l'autore di quell'opera riesce a trasmetterti, profondità che non suscitano propriamente felicità, ma piuttosto piacere di navigare in significati che dolcemente di avvolgono, ti abbracciano, ti trasportano e senti che stai conoscendo cose di cui prima non avresti neanche potuto immaginare l'esistenza.

È questo che mi fa pensare che i marziani, cioè mondi del tutto sconosciuti, inesplorati, inimmaginabili, esistono davvero, ma si trovano sotto i nostri occhi, vicini, raggiungibili, si trovano nell'arte, nel camminare dello spirito, nel crescere, senza alcun bisogno di scomodare energie fantasiose di tipo New Age, o la fisica quantistica, o esoterismi di ogni sorta, che poi sono cose che hanno tutte in comune lo stesso difetto: non sono altro che metafisica, cioè tentativo di oggettivare i luoghi della felicità in modo da sentirli padroneggiabili, raggiungibili senza impegnare un crescere della propria soggettività.

davintro

a mio avviso non ha senso concepire mete esistenziali alternative alla felicità, se si indica con questo concetto quella condizione di sommo appagamento esistenziale nel quale la persona vedrebbe pienamente esauditi e concretizzati tutti suoi più fondamentali profondi desideri ed auspici (certamente irraggiungibile nell'imperfezione di questo mondo). In questo senso la ricerca della felicità andrebbe posta come un "trascendentale", l'elemento necessario ed inevitabile che giuda ogni pulsione ed ogni agire di un essere, e non un'opzione fra le tante. Ciascuno di noi persegue differenti valori, e la felicità è il vissuto che sorge in noi nella coscienza della realizzazione di tali valori, la felicità non è un valore accanto gli altri, ma ciò che ne accompagna la realizzazione di essi, qualunque essi siano. Non ha senso contrapporre o considerare un'alternativa fra la ricerca della felicità, ad esempio, all'amore per la verità e la conoscenza. Chi desidera dedicare la sua vita al sapere porrà la ricerca della felicità come condizionata da tale valore, cioè la conquista di un livello massimo di conoscenza, in quel caso la conoscenza sarebbe ciò che rende felici. Così come non ha senso contrapporre la felicità alla virtù. Piuttosto la felicità andrebbe visto come quel sentimento concomitante alla coscienza di aver agito secondo virtù, cioè quel senso di soddisfazione nel vedere di aver contributo alla realizzazione del proprio ideale di Bene. Occorrerebbe arrivare a dire che un virtuoso non felice di essere tale, o di agire come tale, che vede il suo perseguire la virtù in termini prevalentemente di sacrificio non andrebbe considerato veramente come "virtuoso", dato che il suo agire non coinciderebbe con le sue intenzioni profonde, intenzioni, fondate sui nostri valori, dovrebbero una volta realizzate darci quel senso di appagamento dato dalla constatazione della coerenza fra la realtà e questi valori. La felicità è immorale solo quando malvagie sono le intenzioni il cui esaudimento la determina. L'errore sta nell'identificare i desideri il cui esaudimento produce felicità solo come intenzionati all'acquisizione di beni e valori superficiali, legati alla sfera del mondo sensibile, esteriore, non comprendendo che, accanto a un livello di piacere superficiale, che accade nell'immediatezza del contatto dell'Io con gli stimoli esteriori, esiste un livello più profondo, per il quale il piacere segue alla realizzazione di valori spirituali che sono il correlato oggettivo dei sentimenti soggettivi che sorgono dal nucleo profondo della nostra personalità, quel livello di sensibilità assiologica più profondo, costante, che caratterizza l'individualità al di là delle varie contingenze inerenti le mutevoli situazioni in cui ci troviamo a vivere.

Angelo Cannata

In base a questo tuo ragionamento sul virtuoso non felice di essere tale, Gesù, visto che mentre gli piantavano i chiodi non si dimostrava felice, non può essere considerato uno veramente virtuoso.

È da precisare che, secondo le narrazioni evangeliche, Gesù scelse di sua volontà di morire in croce, poiché poteva sottrarsi ad essa, sapeva di potersi sottrarre, sapeva cosa lo aspettava, ma non fece nulla per sottrarsi, anzi, si comportò in modo da provocare attivamente la rabbia degli accusatori contro di lui.

Paolo Borsellino, certamente non sprizzava felicità nel momento in cui diceva "Siamo dei cadaveri che camminano", ad indicare la piena consapevolezza di essere destinato a venir ucciso dalla mafia. Anche lui quindi non può essere considerato uno veramente virtuoso.

davintro

Citazione di: Angelo Cannata il 26 Dicembre 2017, 22:23:54 PMIn base a questo tuo ragionamento sul virtuoso non felice di essere tale, Gesù, visto che mentre gli piantavano i chiodi non si dimostrava felice, non può essere considerato uno veramente virtuoso. È da precisare che, secondo le narrazioni evangeliche, Gesù scelse di sua volontà di morire in croce, poiché poteva sottrarsi ad essa, sapeva di potersi sottrarre, sapeva cosa lo aspettava, ma non fece nulla per sottrarsi, anzi, si comportò in modo da provocare attivamente la rabbia degli accusatori contro di lui. Paolo Borsellino, certamente non sprizzava felicità nel momento in cui diceva "Siamo dei cadaveri che camminano", ad indicare la piena consapevolezza di essere destinato a venir ucciso dalla mafia. Anche lui quindi non può essere considerato uno veramente virtuoso.

per quanto riguarda il dolore fisico, siamo in un'ottica di "al di là del bene e del male". Il provare dolore fisico come ad esempio quello che può aver provato Gesù sulla croce è un fenomeno che la vittima subisce al di là del suo libero arbitrio, indipendentemente dai valori personali, dai quali invece dipende il piacere e il dolore a livello spirituale. Quindi il dolore fisico che si può subire come conseguenza di un agire virtuoso non ci rivela nulla dello spessore morale (cioè spirituale) della persona, ma semplicemente che questa persona non è un angelo, un puro spirito, ma ha anche un corpo, mentre la moralità è una realtà tipicamente spirituale. La spiritualità entrerebbe in causa invece nel l'esempio di Borsellino, e posso certamente immaginare che la coscienza di essere, come disse testualmente, "un morto che cammina", non gli provocasse alcun piacere, anzi sofferenza e profonda tristezza. ma questo non esclude o diminuisce in alcun modo la sua virtù, testimoniata dal piacere o felicità di sapere di contribuire al perseguimento del valore della legalità tramite il suo impegno antimafia. In quel caso assistiamo a un conflitto di valori: da un lato l'impegno per la legalità, dall'altro la sua vita e la sua famiglia. Anche la propria vita rappresenta certamente un valore positivo, e dunque la sofferenza nel vederla a rischio non è affatto indice di immoralità, al contrario, è coscienza del valore positivo della propria esistenza nonché dell'amore verso la propria famiglia, che certamente soffrirà profondamente la mancanza. Ogni azione che compiamo implica sempre questo conflitto fra i valori, per il quale la coerenza con alcuni di essi porta a sacrificarne altri, meno importanti evidentemente, ma comunque rilevanti. E questa rilevanza fa sì che il loro sacrificio provochi tristezza nel soggetto, ma una tristezza meno forte della soddisfazione che ci dà l'essere coerenti con i valori interiormente più importanti per noi, che sono poi quello che ispirano le decisioni concrete. Borsellino non era certamente un masochista a cui faceva piacere morire, ma la sua amarezza nulla toglieva alla soddisfazione interiore, dominante che provava nell'andare fino in fondo ai propri doveri di uomo di stato e di legge, soddisfazione che era più forte della tristezza, probabilmente non a livello emotivo-superficiale, ma a livello più profondo, perché altrimenti avrebbe agito diversamente, avrebbe rivelato una diversa gerarchia valoriale personale anteponendo la propria vita all'esercizio del proprio dovere. E solo in quel caso avrebbe avuto un senso cogliere uno sminuimento (anche se certamente umano e comprensibile) della caratura morale dell'uomo. L'agire morale costituisce un ambito complesso in cui entrano in gioco motivazioni contrastanti, per il quale la stessa linea d'azione chiama in in causa diversi fattori che determinano diversi riscontri sentimentali, e ogni valutazione presuppone un atteggiamento analitico che distingua questi singoli fattori.

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