Perché si ritiene la felicità la cosa più importante in assoluto?

Aperto da Socrate78, 13 Dicembre 2017, 19:01:16 PM

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Socrate78

Come mai in genere si ritiene (molto spesso anche nella filosofia....) che la felicità come stato permanente di "beatitudine" sia la cosa più importante in assoluto? A ben guardare, anche se istintivamente verrebbe da dire che è ovvio, secondo me non è affatto così. Infatti ciò che rende l'uomo un essere mentalmente evoluto non è il grado di felicità, ma il livello di consapevolezza della realtà in cui vive: la consapevolezza, di per sé, presuppone anche un certo grado di sofferenza, quando ci si rende conto che la realtà in cui vivi è negativa, non corrisponde a ciò che giustamente tu desideri. In quanto persona ritengo di essere evoluto in quanto consapevole, non in quanto più felice. Si può fare un esempio lampante: un drogato nel momento in cui è sotto l'effetto dello stupefacente sta bene, prova sensazioni piacevoli, ma vista obiettivamente la sua è una miserevole condizione in cui egli distrugge intelligenza e consapevolezza in nome di un paradiso artificiale. Addirittura si può dire che mettere al primo posto la felicità porta a disumanizzazione e che sia un'idiozia pericolosa ricercarla a tutti i costi sempre.  Infatti se io voglio a tutti i costi inseguire un ideale di fredda serenità spacciandola per felicità, ecco che rischio di disumanizzarmi: infatti è chiaro che se io ipoteticamente giungessi a non dare più nessuna importanza alle persone non mi aspetto nulla da loro e quindi posso anche vivere più sereno, ma divento anaffettivo, arido e la mia scelta si paga con la perdita dell'umanità. La filosofia stoica, con il suo ideale di accettazione di tutto in nome della felicità, a mio avviso è un inno all'anaffettività,  all'idea del saggio come persona fredda ed indifferente a qualsiasi legame emotivo. Inoltre quando la persona inizia a maturare? Quando impara dai suoi errori, ma anche questo presuppone la capacità anche di soffrire: se l'esperienza in cui ho errato mi ha fatto star male, io giustamente non la ripeto, ma se io sono incapace di provare questo tipo di emozione ecco che l'errore non si imprime nella mia mente e io non apprendo! L'uomo nella storia ha cambiato le cose in positivo proprio quando ha provato sentimenti che etichettiamo negativi, come la rabbia e l'astio verso chi lo opprimeva, se avesse accettato tutto beatamente sarebbe rimasto schiavo L'esperienza del tormento interiore, inoltre, ha permesso che grandi poeti ed artisti producessero le loro opere migliori che ancora oggi leggiamo, apprezziamo, quindi si può dire che il loro dolore li ha resi creativi, è probabile che se fossero stati felici non avrebbero raggiunto tali traguardi. Di conseguenza si può dire che assolutizzare la felicità sia un pericoloso errore?

acquario69

Interessante..

In effetti anche secondo me andrebbe fatta una prima riflessione sull'idea che abbiamo (noi oggi) di felicita e se sia stata davvero sempre la stessa per tutti o se addirittura non vi siano state delle civiltà che non ne sentivano manco l'esigenza...sembrerebbe strano ma secondo me e' cosi, anche perché e' proprio la nostra di civiltà che ha fatto della felicita un esigenza, quindi un bisogno e un desiderio e che alla fine non poteva che diventare paranoia...e nel momento che accade questo..e' la stessa felicita a non presentarsi. 

sgiombo

Citazione 
Sì, anche secondo me pretendere di assolutizzare la felicità é un pericoloso errore.
 
Secondo me "felicità" é sinonimo di "appagamento di desideri" o di "conseguimento di obiettivi": per "felicità" si intende il fatto che le cose vanno come si vorrebbe che vadano, per infelicità il fatto che le cose non vanno come si vorrebbe che vadano.
 
Ma l' uomo prova tanti diversi desideri non tutti fra loro compatibili (botte piena e moglie ubriaca), per cui la felicità può di fatto essere maggiore o minore, ma comunque é sempre relativa, limitata, parziale, mai assoluta (per nessuno le cose vanno integramente, assolutamente, al 100% come vorrebbe che andassero, ma solo più o meno parzialmente).
 
Quello della conoscenza e della verità é uno fra gli altri desideri umani, che può capitare sia soddisfatto unitamente a tanti altri o anche alla condizione che tanti o pochi degli altri siano insoddisfatti; e a seconda dei rapporti fra maggiore o minore soddisfazione del desiderio di sapere e maggiore o minore insoddisfazione di altri desideri con esso incompatibili si può esere più o meno (ma ai completamente, assolutamente!) felici.
Questo per quanto riguarda la conoscenza come fine a se stessa.
Ma la conoscenza é anche mezzo indispensabile per valutare la compatibilità o meno dell' appagamento di diversi desideri e i mezzi necessari e i prezzi da pagare per conseguire gli uni e/o gli altri. 
 
Lo stoicismo, come altre filosofie saprattutto antiche ma anche moderne occidentali (e certamente orientali; purtroppo non le conosco) non consiglia l' anaffettività aprioristica e acritica, bensì proprio l' analisi razionale dei desideri, la loro ponderazione, la valutazione critica razionale degli insiemi di desideri soddisfacibili reciprocamente alternativi e dei mezzi da usare e dei prezzi da pagare per ottenere l' appagamento degli uni oppure degli altri di essi, onde cercare fondatamente di ottenere la maggiore felicità plausibilmente possibile.
Non é facile a farsi come lo é a dirsi (concordo anche che questo presuppone la capacità anche di soffrire), ma così inesorabilmente stanno le cose.

Kobayashi

La filosofia aveva inizialmente promesso una felicità diversa da quello stato di beatitudine tanto simile all'ottundimento del fumatore di oppio di cui parla Socrate78. Una felicità più vera, diciamo così, autentica. Il che comportava la capacità di distinguere i veri beni dalle illusioni distruttive. Dunque implicava la conoscenza. 

Le cose sono cambiate dopo la condanna a morte di Socrate.
Se la polis aveva lasciato che venisse ucciso il suo cittadino più saggio, il filosofo per eccellenza, che cosa ne conseguiva?
Che era guerra aperta tra comunità e filosofo.
Da qui la necessità di mettere in piedi, da parte del filosofo, strategie difensive dirette alla realizzazione di una certa autarchia.
L'ascetismo, che prima veniva esercitato moderatamente con il fine di evitare di essere posseduti da passioni distruttive, diventava così un sistema per la riduzione al minimo dei bisogni (vedi il cinismo).

Quello stato di impassibilità così disumano è cioè una condizione difensiva. Il massimo che si può ottenere in uno stato di guerra.
Del resto quando si è in guerra quello che conta è subire meno ferite possibili...

Apeiron

Concordo in parte con @Kobayashi. Ritengo che tutte le persone in "fondo al cuore" vogliano "stare bene" e vogliano quello che è meglio per loro. Il problema è che ci sono moltissimi tipi di "benessere". Per esempio c'è il "benessere" dato dalle droghe che ha il difetto di rovinare il corpo e la mente dell'uomo ma c'è anche il "benessere" dato dall'amore del prossimo e così via. Se la saggezza antica ci insegna qualcosa... ci insegna che quella "felicità" che è veramente degna d'essere cercata è molto faticosa da "ottenere". Dobbiamo in un certo senso "meritarcela".

Per esempio l'"eudaimonia" ricercata dai greci era una "pace interiore" autentica ed era molto spesso (tra l'altro) l'obbiettivo della filosofia stessa. E in un certo senso anche nelle religioni dove è ricorrente, per esempio, l'idea di una "caduta" - compresa in modi estremamente diversi nelle varie tradizioni - da uno stato di "pace". E le religioni stesse si configurano come un "aiuto" per raggiungere quello stato di "benessere" perduto. E inoltre nel pensiero antico ricorre molto spesso l'idea che tale stato può essere "raggiunto" con molto sacrificio di sé, con molta fatica ecc.

Ergo si potrebbe dire che è giustissimo cercare la "felicità". Tuttavia ci sono differenti tipi di "felicità" che hanno valore differente tra di loro. E i saggi di ogni tempo hanno affermato che è "giusto" cercare la felicità di più alto valore anche se ciò causa tormenti mentali (i quali tra l'altro producono spesso opere d'arte ecc). Dunque la sofferenza è un importantissimo mezzo per raggiungere una "migliore" felicità. Viceversa ritengo abbastanza "perverso" e anti-etico avere come obbiettivo la sofferenza in-sé. In fin dei conti pensare alla sofferenza come mezzo è anche un modo per darle una giustificazione ed un significato - e questo, credo, aiuta moltissimo. [Ad esempio la produzione di opere d'arte è spesso segnata da grandi sofferenze, tuttavia la "felicità" data dall'esperienza estetica e dalla produzione artistica danno "significato" anche alla sofferenza.]
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

viator

Salve. Tipico dell'uomo desiderare ciò che non conosce. Infatti la felicità è desiderata dagli infelici, dagli insoddisfatti, dai curiosi che ancora non la conoscono. In questo modo tutti costoro desiderano appunto ciò che non hanno conosciuto mai.
Naturalmente costoro sanno perfettamente ciò che vogliono, anche se non lo conoscono. Ma non sanno come ottenerlo e - ironia delle cose umane - non sanno neppure se ciò che vogliono, una volta ottenutolo troveranno sia veramente ciò che a loro serviva.
Avete presente quanti uomini e donne sapevano benissimo quale compagno sarebbe servito loro e, una volta sposatolo, si accorsero che non era precisamente così ??.

Io invece cerco di stare il più possibile alla larga della felicità ed il più vicino possibile alla serenità.

La serenità è una condizione di soddisfacente equilibrio all'interno di una vita normalmente condotta.

La felicità invece consiste nello stato in cui risultino soddisfatti tutti i bisogni e tutti i desideri.

Nessuno la raggiunge da vivo poiché i bisogni (che solo semplicemente l'insieme di quelli detti "fisiologici") si rinnovano automaticamente mentre i desideri (che sono l'insieme delle facoltà, cioè di tutto cio che vorremmo fare una volta liberi dalla costrizione dei bisogni, e che consistono quindi semplicemente nella ricerca del piacere) ci perseguiteranno per tutta la vita a causa del nostro invincibile amore per le novità ed appunto i piaceri.

L'unica possibilità di raggiungere una felicità definitiva consiste quindi nell'eliminare in via definitiva sia i bisogni che i desideri.

A questo punto..........tranquilli !! Ci penserà la morte la quale, a questo punto, si rivelerà essere la porta d'ingresso alla felicità tanto stoltamente agognata da moltissimi. Salutoni.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

InVerno

Ultimamente è balzata alle cronache la notizia di una famiglia affetta da sindrome di Marsili, ovvero incapaci di provare dolore . Gli stessi descrivono le loro vicissitudini raccontando di essersi rotti un arto o subendo danni fisici, ma non avvertendo il dolore, non avvertendo nemmeno stimoli che gli suggerissero di interrompere le loro attività, con il risultato di "sciare con una spalla rotta".Il dolore è utile, lo ben sappiamo, diverse dottrine spirituali propongono tra i vari balocchi, in maniera esplicita o meno, di allontanare la vita del credente dal dolore, non solo quello fisico ma anche quello "spirituale", spiritualità analgesica. Ma è davvero desiderabile una vita senza dolore? E non solo quello fisico, ma anche quello emozionale? Eppure le distanze che prendiamo dal dolore sono assolute, nello stesso modo con cui vorremmo avvicinarci assolutamente alla felicità. Creiamo cosi i nostri obbiettivi intimi, inseguendo assoluti immaginari, immagini utopiche, paradisi e inferni, ci piace metterci in cammino verso l'oasi nel deserto, non verso la realtà che avrebbe, se la conoscessimo, ben poco di desiderabile o perlomeno non a sufficienza dal motivarci in molte delle nostre ben assurde e importanti azioni.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

green demetr

Credo perchè così ci hanno insegnato.

Ovviamente uno specchio per le allodole (che noi siamo).

Certo che se la reazione a questo infimo stratagemma, è la convinzione che il dolore faccia maturare....allora non vivete certo nelle periferie milanesi.

Mi pare l'altra faccia dello stesso medaglione con cui ci abituano a pensare agli unicorni: quando invece la gente soffre in una maniera che faccio sempre più fatica ad accettare.

Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????
Vai avanti tu che mi vien da ridere

sgiombo

Citazione di: green demetr il 22 Dicembre 2017, 22:08:31 PM

Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????

Personalmente (salvo in caso di morte di persone decisamente malvage e spregevoli) spero che sia stata una vita complessivamente felice, che chi l' ha vissuta sia stato contento di viverla e la rivivrebbe se -per assurdo- dipendesse da lui.
Così come spero di morire a mia volta deliberatamente (per mia scelta libera da costrizioni estrinseche alla mia propria intrinsecamente deterministica volontà) consapevole che un' ulteriore sopravvivenza mi procurerebbe con ogni probabilità più dolore che felicità, dicendo a me stesso di esserne (stato) contento e che se -per assurdo- dipendesse da me la rivivrei, con tutte le tremende e meravigliose sofferenze e i dolori che ha comportato e con tutte le piacevolissime gioie e tutta la felicità che (parimenti) l' hanno arricchita e resa interessante e assai degna di essere vissuta, come credo sia (stata) finora di fatto.

Ma ovviamente spesso la vita e la morte sono ben diverse da così, di tutto ciò non v' é alcuna certezza, lo si può solo sperare.
E per questo, se ne avessi la possibilità, non farei un altro figlio, esponendolo inevitabilmente al rischio dell' infelicità (oltre che alla speranza della felicità) complessiva senza il suo (logicamente impossibile) preventivo consenso.

Ulteriore considerazione (ringrazio GreenDemetr per la stimolante domanda)

E se vedo morire un infelice o un malvagio penso che per lo meno la sua infelicità o la sua malvagità hanno fine.

(Probabilmente ho la fortuna di essere di temperamento ottimistico).

Apeiron

Citazione di: green demetr il 22 Dicembre 2017, 22:08:31 PMCredo perchè così ci hanno insegnato. Ovviamente uno specchio per le allodole (che noi siamo). Certo che se la reazione a questo infimo stratagemma, è la convinzione che il dolore faccia maturare....allora non vivete certo nelle periferie milanesi. Mi pare l'altra faccia dello stesso medaglione con cui ci abituano a pensare agli unicorni: quando invece la gente soffre in una maniera che faccio sempre più fatica ad accettare. Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????

1) No, credo che sia per il fatto che naturalmente ci aspettiamo qualcosa di "positivo", come dice Simone Weil: "C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male."

2)il dolore può far maturare se ha un "significato"... Di certo non tutto il dolore e non tutta la sofferenza hanno significato.

3) spesso le persone però per un dolore con "significato"

4) Socrate (la filosofia?) è anche una terapia e da significato alla sofferenza grazie alla convinzione che la ricerca della verità, della virtù, del bene ecc siano obbiettivi per cui vale la pena soffrire ;)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

sgiombo

Citazione di: Apeiron il 23 Dicembre 2017, 11:40:29 AM
Citazione di: green demetr il 22 Dicembre 2017, 22:08:31 PMCredo perchè così ci hanno insegnato. Ovviamente uno specchio per le allodole (che noi siamo). Certo che se la reazione a questo infimo stratagemma, è la convinzione che il dolore faccia maturare....allora non vivete certo nelle periferie milanesi. Mi pare l'altra faccia dello stesso medaglione con cui ci abituano a pensare agli unicorni: quando invece la gente soffre in una maniera che faccio sempre più fatica ad accettare. Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????

1) No, credo che sia per il fatto che naturalmente ci aspettiamo qualcosa di "positivo", come dice Simone Weil: "C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male."

2)il dolore può far maturare se ha un "significato"... Di certo non tutto il dolore e non tutta la sofferenza hanno significato.

3) spesso le persone [soffrono*] però per un dolore con "significato".

4) Socrate (la filosofia?) è anche una terapia e da significato alla sofferenza grazie alla convinzione che la ricerca della verità, della virtù, del bene ecc siano obbiettivi per cui vale la pena soffrire ;)

________________
*  Credo ti sia rimasto "nelle dita sulla tastiera"; un tempo si sarebbe detto "nella penna".


  • Concordo in pieno, salvo che con la citazione di Simon Weil.
  • Infatti purtroppo accadono anche suicidi per disperazione: la nostra irresistibile attesa di "qualcosa di positivo" ha dei limiti, più o meno ampi a seconda delle esperienze personali vissute da ciascuno; e capita purtroppo anche che questi limiti vengano superati dall' infelicità e dalla disperazione.

Apeiron

Citazione di: sgiombo il 23 Dicembre 2017, 14:52:36 PM
Citazione di: Apeiron il 23 Dicembre 2017, 11:40:29 AM
Citazione di: green demetr il 22 Dicembre 2017, 22:08:31 PMCredo perchè così ci hanno insegnato. Ovviamente uno specchio per le allodole (che noi siamo). Certo che se la reazione a questo infimo stratagemma, è la convinzione che il dolore faccia maturare....allora non vivete certo nelle periferie milanesi. Mi pare l'altra faccia dello stesso medaglione con cui ci abituano a pensare agli unicorni: quando invece la gente soffre in una maniera che faccio sempre più fatica ad accettare. Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????
1) No, credo che sia per il fatto che naturalmente ci aspettiamo qualcosa di "positivo", come dice Simone Weil: "C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male." 2)il dolore può far maturare se ha un "significato"... Di certo non tutto il dolore e non tutta la sofferenza hanno significato. 3) spesso le persone [soffrono*] però per un dolore con "significato". 4) Socrate (la filosofia?) è anche una terapia e da significato alla sofferenza grazie alla convinzione che la ricerca della verità, della virtù, del bene ecc siano obbiettivi per cui vale la pena soffrire ;) ________________ * Credo ti sia rimasto "nelle dita sulla tastiera"; un tempo si sarebbe detto "nella penna".


  • Concordo in pieno, salvo che con la citazione di Simon Weil.
  • Infatti purtroppo accadono anche suicidi per disperazione: la nostra irresistibile attesa di "qualcosa di positivo" ha dei limiti, più o meno ampi a seconda delle esperienze personali vissute da ciascuno; e capita purtroppo anche che questi limiti vengano superati dall' infelicità e dalla disperazione.

Uno compie certi atti perchè pensa che la non-esistenza sia meglio della vita stessa, i.e. cerca di evitare il male. Ergo compie quel gesto cercando di realizzare il "bene".
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

In una vecchia trasmissione di Piero Angela si vede un cieco che è persuaso di vederci (a proposito, ho visto che hanno messo su Youtube l'intera serie, che considero molto istruttiva: consiglio di vederla): l'intervistatore gli muove il microfono davanti agli occhi, il cieco non se ne accorge, ma continua ad affermare di aver acquistato almeno buona parte della sua capacità di vedere.

Ora, se un cieco può essere persuaso di vederci, figuriamoci se una persona che sta anche malissimo non possa essere persuasa di essere felice. Questo mette in questione non solo l'attendibilità del parere di chi si ritiene felice, ma qualsiasi discorso sulla felicità: siamo costretti ad ammettere che non sappiamo di cosa stiamo parlando, esattamente come il cieco, che dicendo di vederci non sapeva di cosa stava parlando.

Questo non significa che siamo condannati a non poter parlare di nulla: basta parlarne con consapevolezza della criticabilità di ciò che diciamo e quindi ricerca delle vie migliori di esplorazione della questione.

Che vie seguire dunque?

È chiaro che il discorso sulla felicità s'intreccia con quello sul bene, a proposito del quale ci ritroviamo rimandati al relativismo a cui in pratica mi sono appena riferito. Ma il relativismo è un problema solo per chi ritiene che ciò che vale siano soltanto le affermazioni assolute, certe veritiere, indipendenti. Nella mia prospettiva invece ciò che vale è l'opinione che abbia l'umiltà di riconoscersi opinione.

Che vie possiamo seguire in questa condizione di esseri umani costretti ad essere umili?

Per me la via migliore è quella del cercare, che poi non è altro che un riesprimere ciò che con un linguaggio filosofico più astratto si dice divenire, di eraclitea memoria.

Tutto questo mi dice che per me il meglio da cercare non è la felicità, né il bene, ma il cercare stesso. Se sono in ricerca, se sto cercando, allora sono nel meglio delle mie possibilità, nel massimo delle mie facoltà e non ho nulla da invidiare a chi sostiene di essere felice.

Allora la domanda che è il tema di questa discussione viene a risultare una domanda che implicitamente si riferisce alla massa, alla gente che non riflette, a persone che purtroppo il mondo ha ridotto a burattini manovrati: sono queste le persone persuase di dover inseguire la felicità, o peggio, di averla raggiunta. Anch'io sono un burattino manovrato, ma sono un burattino che cerca. La persona che dice di essere felice è colei che, a proposito di ciò su cui si ritiene felice, ha smesso di cercare, di interrogarsi; se infatti si ponesse dubbi in proposito, non potrebbe più sostenere di essere felice. Il dubbio dunque impedisce di sostenere di essere felici, ma in cambio dona la coscienza di star esercitando il meglio delle proprie facoltà.

Di fronte a questo, non ho alcuna invidia di chi dice di essere felice e non desidero affatto essere felice: desidero solo non fermarmi su nulla. Ciò non significa che io neghi a me stesso qualsiasi soddisfazione o piacere concessi dalla vita: non li nego affatto, ma li vivo come parte della ricerca, la quale comprende anche momenti di sosta, di ristoro, visto che si tratta di ricerca umana.

sgiombo

Citazione di: Apeiron il 23 Dicembre 2017, 16:05:33 PM
Citazione di: sgiombo il 23 Dicembre 2017, 14:52:36 PM
Citazione di: Apeiron il 23 Dicembre 2017, 11:40:29 AM

1) No, credo che sia per il fatto che naturalmente ci aspettiamo qualcosa di "positivo", come dice Simone Weil: "C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male.


  • Concordo in pieno, salvo che con la citazione di Simon Weil.
  • Infatti purtroppo accadono anche suicidi per disperazione: la nostra irresistibile attesa di "qualcosa di positivo" ha dei limiti, più o meno ampi a seconda delle esperienze personali vissute da ciascuno; e capita purtroppo anche che questi limiti vengano superati dall' infelicità e dalla disperazione.

Uno compie certi atti perchè pensa che la non-esistenza sia meglio della vita stessa, i.e. cerca di evitare il male. Ergo compie quel gesto cercando di realizzare il "bene".
CitazioneQuindi un bene relativo al male ancor peggiore che sarebbe il continuare a vivere...

Però a me l' espressione "qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male." non dà l' idea del "male minore" o della "limitazione del danno" (non mi fa immaginare che si possa identificare anche con la propria morte autonomamente ricercata onde porre fine a una vita insopportabilmente infelice e ritenuta esserlo irrimediabilmente), ma invece mi fa pensare al "bene in senso positivo", e tale anche indipendentemente dalle alternative ancor peggiori che il suicida può aspettarsi, in cui può sperare dalla continuazione della vita.

E' un po' la differenza fra "suicidio" ed "eutanasia".
L' eutanasia é per esempio quella che personalmente vorrei potermi dare (...non troppo presto): la morte onde evitare probabili sofferenze future tali da non essere adeguatamente compensate da gioie, di modo che "valga la pena" di sopportarle, potendo ben essere soddisfatti della vita che si é vissuta, cosìcché e se -per assurdo- dipendesse da se stessi la si rivivrebbe.
Invece il suicidio per così dire (ma non senza un doveroso senso di pietà per chi vi ricorra) "classico" é il darsi la morte per disperazione, senza essere affatto contenti della propria vita, cosicché se -per assurdo- dipendesse da se stessi ci si guarderebbe bene dal decidere di riviverla.

La tua obiezione é certamente ineccepibile sul pano della logica formale.
Ma talmente ineccepibile in termini di logica formale da apparirmi piuttosto ovvia e (senza intenzioni polemiche e men che meno offensive) un po' banale.

green demetr

Non volevo riferirmi alle tematiche del lutto e del suicidio.

Io mi riferivo a chi rinuncia alla ricerca della felicità.

Inoltre per essere forse più chiaro, vedo che non avete idea di cosa comporti accettare la sofferenza, la povertà e altri mali della società: che si crea una sacca di violenza, che è prima interiore personale, prima che sociale, che ne è solo il sintomo.

Dice bene Angelo quindi, perchè la gente violenta pensa infatti di essere felice, e invece la violenza è proprio la lampadina intermittente che suggerisce situazioni di sofferenza, tutt'altro che felici.

E' un bene il vostro ottimismo (perchè così lo considero) cari Apeiron e Sgiombo.

Ma evidentemente non vivete in situazioni di disagio sociale.
Vai avanti tu che mi vien da ridere

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