Perché c’è qualcosa anziché il nulla?

Aperto da Vito J. Ceravolo, 30 Gennaio 2017, 19:09:10 PM

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maral

Citazione di: sgiombo il 05 Febbraio 2017, 21:11:47 PM
"Essere1" = esistere (accadere) realmente: predicato verbale.
"Essere2" = intendersi (pensarsi): copula.
Si può vederla così e distinguere l'uso esistenziale da quello copulativo del verbo essere, ma non è necessario: "essere" afferma sempre ciò che è, quindi si può partire dal valore esistenziale. L'essere da "intendersi come ...", ossia "l'essere da intendersi come se fosse", ovviamente non è, altrimenti non sarebbe da intendersi come. In quanto è qualsiasi cosa è quello che è, non è un "da intendersi come".

CitazioneEsempi:

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Ieri c' era1 (=esisteva realmente) un pezzo di legno; dire che non c' era1 (non esisteva realmente) è sensato e falso; (pretendere di) dire che era2 (da intendersi come) un mucchietto di cenere è contraddittorio, insensato.
Qui sorge un primo dubbio. Va bene "ieri c'era un pezzo di legno" non è certo autocontraddittorio, ma il punto è, se ieri significa quella giornata di ieri, che ora non c'è più, quindi non c'è, come possiamo dire che c'era un "ieri" (ove si trovava un pezzo di legno) che non c'è? Possiamo vederla in due modi, o pensare che quell'ieri che c'era, ma non c'è è diventato oggi, ma qui il mistero si infittisce (come fa un ieri che non è oggi in nulla a diventare, ossia a venire a essere, oggi?) o possiamo dire che c'è oggi e non c'è ieri, ma che quell'oggi che solo c'è contiene una traccia che sembra essere un ieri reale a sé stante, ma in effetti è solo qualcosa che fa parte dell'oggi che è. Ogni ieri (proprio come ogni domani) è sempre e solo nell'oggi che si presenta e sempre e solo nell'oggi si presenta pure quel pezzo di legno che ci appare un contenuto della giornata di ieri.
Se tutto quello che accade (realmente) accade solo oggi (che è la sola cosa che c'è) e fa parte solo di oggi, cosa intendiamo dire davvero quando diciamo che quel pezzo di legno di ieri oggi è bruciato per diventare oggi cenere, quel mucchietto di cenere che c'è qui davanti a me? cosa è davvero bruciato tra ieri e oggi, dato che ieri non c'è? Quello che sembra essere bruciata è solo la mia idea di oggi di un pezzo di legno che, sempre nella mia idea attuale, proprio e solo di oggi, lo faccio pre esistere all'oggi in cui solo realmente si trova. Questa idea è quello che è diventato cenere, ma come può questa idea attuale di un pezzo di legna di un ieri che non c'è, diventare quella cenere che ho qui davanti? Se tutto quello che accade è solo oggi che accade (e non vedo come possa essere altrimenti) è chiaro che questo è impossibile, un'idea non diventa cenere, ma è vero che un'idea può presentarsi (può apparire) come idea di una storia: c'era una volta un pezzo di legno, poi quel pezzo di legno diventa cenere e tutti vivranno felici e contenti accanto al caminetto, mentre fuori infurierà la tempesta. Una bella storia che sembra avere un tempo di svolgimento tra passato e futuro che non sono, ma in realtà accade tutta in un solo istante, proprio adesso.


baylham

Il principio, oltre all'inesistenza del nulla, è che l'essere è divenire, l'ente è ciò che diviene. Mi sembra che il problema sia di applicare la logica formale, che è statica, a partire dal principio di identità, comunque problematico, all'essere, alla realtà che è diveniente, dinamica. La realtà di ieri, lo ieri, non sono diventati, non sono nulla, sono diventati la realtà di oggi, l'oggi, e viceversa. Il pezzo di legno di ieri non è finito nel nulla, è diventato la cenere di oggi e viceversa. L'oggi c'è perché nell'oggi c'è lo ieri, senza lo ieri non c'è l'oggi.

sgiombo

#32
CitazioneSgiombo:
"Essere1" = esistere (accadere) realmente: predicato verbale.

"Essere2" = intendersi (pensarsi): copula.

Maral:
Si può vederla così e distinguere l'uso esistenziale da quello copulativo del verbo essere, ma non è necessario: "essere" afferma sempre ciò che è, quindi si può partire dal valore esistenziale. L'essere da "intendersi come ...", ossia "l'essere da intendersi come se fosse", ovviamente non è, altrimenti non sarebbe da intendersi come. In quanto è qualsiasi cosa è quello che è, non è un "da intendersi come".

Sgiombo:
Se si vogliono evitare fraintendimenti ed errori è necessario fare questa distinzione; altrimenti si confondono due ben diversi casi: quello degli enti ed eventi reali (le cose realmente esistenti/accadenti: i cavalli reali) e quello degli enti ed eventi pensati ma non realmente esistenti (le cose che sono oggetto di pensiero ma non esistono/accadono realmente: gli immaginari ippogrifi).

Gli ippogrifi sono da intendersi come se esistessero realmente ma non esistono realmente; ciò che eventualmente accade realmente è solo il pensiero degli ippogrifi.
I cavalli invece sono da intendersi come animali realmente esistenti, sia che inoltre accada anche realmente il pensiero dei cavalli, sia che realmente non accada.
Se non si fa questa distinzione fondamentale si rischia di pretendere di andare da qualche parte in groppa a un ippogrifo e dunque non andare realmente da nessuna parte.








Citazione
CitazioneSgiombo:
Ieri c' era1 (=esisteva realmente) un pezzo di legno; dire che non c' era1 (non esisteva realmente) è sensato e falso; (pretendere di) dire che era2 (da intendersi come) un mucchietto di cenere è contraddittorio, insensato.

Maral:
Qui sorge un primo dubbio. Va bene "ieri c'era un pezzo di legno" non è certo autocontraddittorio, ma il punto è, se ieri significa quella giornata di ieri, che ora non c'è più, quindi non c'è, come possiamo dire che c'era un "ieri" (ove si trovava un pezzo di legno) che non c'è? Possiamo vederla in due modi, o pensare che quell'ieri che c'era, ma non c'è è diventato oggi, ma qui il mistero si infittisce (come fa un ieri che non è oggi in nulla a diventare, ossia a venire a essere, oggi?) o possiamo dire che c'è oggi e non c'è ieri, ma che quell'oggi che solo c'è contiene una traccia che sembra essere un ieri reale a sé stante, ma in effetti è solo qualcosa che fa parte dell'oggi che è. Ogni ieri (proprio come ogni domani) è sempre e solo nell'oggi che si presenta e sempre e solo nell'oggi si presenta pure quel pezzo di legno che ci appare un contenuto della giornata di ieri.

Sgiombo:
Solita confusione fra reale e pensato: i misteri li crea e li infittisce unicamente questo fraintendimento!

Che "fa parte dell' oggi", che accade realmente ("è1") oggi non é la realtà ("essere1") di ieri (contraddizione!!!), ma solo il pensiero (il ricordo, la memoria, "la traccia". l' "essere2") di ieri.

Il pensiero (l' essere2) e non la realtà (l' essere1) di ogni ieri (proprio come di ogni domani) é1 (accade realmente) sempre e solo nell' oggi; oggi che non "si presenta2 (al pensiero? Cioè é2, é pensato?)" affatto, bensì é1 (accade realmente). E infatti solo nell' oggi "si presenta" (=é2, é pensato; e non affatto é1 =esiste realmente) anche quel pezzo di legno che nel frattempo é bruciato.


Infatti per "ieri" valgono esattamente le stesso considerazioni che per il "pezzo di legno" (e se si confonde reale con penato si continua ad autocontraddirsi)
:
Ora quel giorno "ieri" (il 9 Febbraio 2017) è passato e ora dire che non c' è1 (non esiste realmente) "ieri" (il 9 Febbraio 2017) e che c' è1 (esiste realmente) "oggi" (il 10 Febbraio) ésensato e vero.
Invece (pretendere di) dire che il giorno "oggi" (il 10 Febbraio) che c' è1 (esiste, sta trascorrendo realmente) adesso è2 (da intendersi come) il giorno "ieri" (il 9 Febbraio 2017)  è contraddittorio, insensato; dire che il giorno "oggi" (il 10 Febbraio) che c' è1 (esiste, sta trascorrendo realmente) adesso é2 (da intendersi come il giorno "oggi", il 10 Febbraio, che c' è1 (esiste, sta trascorrendo realmente) adesso è sensato e tautologico; dire che ora c' é1 (esiste realmente) il giorno "ieri" (il 9 Febbraio 2017; che c' era1 -esis,teva, trascorreva realmente- ieri e dal cui trascorrere compiutamente, dal cui finire si è passati all' oggi, 10 Febbraio) é sensato e falso; (pretendere di) dire che il giorno "ieri" (il 9 Febbraio 2017; che c' era1 -esisteva, trascorreva realmente- ieri e dal compimento del trascorre del quale, dalla fine del quale si passati al' "oggi", 10 Febbraio) è2 (da intendersi come) il giorno "oggi", il 10 Febbraio, che c' è1 (esiste, sta trascorrendo realmente) ora è contraddittorio, insensato.

Contraddittorio, insensato sarebbe (pretendere di) dire che ieri c' era1 (esisteva, trascorreva realmente) il giorno "ieri" (il 9 Febbraio 2017) e inoltre non c' era1 (non esisteva realmente) quellto stesso giorno "ieri", il 9 Febbraio 2017 (perché invece c' era 1 -esisteva, trascorreva realmente- o perché esso era2 -da intendersi come- il giorno "oggi" (il 10 Febbraio) che c' é1 -esiste, trascorre realmente- ora); oppure che ora c'é1 (esiste, trascorre realmente) il giorno "ieri" (il 9 Febbraio 2017) e inoltre ora non c'é1 (non esiste, non trascorre realmente) questo stesso giorno "ieri", il 9 Febbraio 2017 (perché c' é1 -esiste realmente- o perché esso  é2 -da intendersi come- il giorno "oggi" (il 10 Febbraio) che c' é1 -esiste, trascorre realmente- ora.







Maral:
Se tutto quello che accade (realmente) accade solo oggi (che è la sola cosa che c'è) e fa parte solo di oggi, cosa intendiamo dire davvero quando diciamo che quel pezzo di legno di ieri oggi è bruciato per diventare oggi cenere, quel mucchietto di cenere che c'è qui davanti a me? cosa è davvero bruciato tra ieri e oggi, dato che ieri non c'è? Quello che sembra essere bruciata è solo la mia idea di oggi di un pezzo di legno che, sempre nella mia idea attuale, proprio e solo di oggi, lo faccio pre esistere all'oggi in cui solo realmente si trova. Questa idea è quello che è diventato cenere, ma come può questa idea attuale di un pezzo di legna di un ieri che non c'è, diventare quella cenere che ho qui davanti? Se tutto quello che accade è solo oggi che accade (e non vedo come possa essere altrimenti) è chiaro che questo è impossibile, un'idea non diventa cenere, ma è vero che un'idea può presentarsi (può apparire) come idea di una storia: c'era una volta un pezzo di legno, poi quel pezzo di legno diventa cenere e tutti vivranno felici e contenti accanto al caminetto, mentre fuori infurierà la tempesta. Una bella storia che sembra avere un tempo di svolgimento tra passato e futuro che non sono, ma in realtà accade tutta in un solo istante, proprio adesso.

Sgiombo:
Quando oggi (realmente) diciamo che quel pezzo di legno di ieri oggi é bruciato per diventare oggi cenere, quel mucchietto di cenere che c'è qui davanti a me, come capisce chiunque non sia un filosofo severiniano, cioé chiunque sappia distinguere fra reale e pensato, intendiamo dire proprio quel che diciamo, che quel pezzo di legno di ieri oggi é bruciato per diventare oggi cenere, quel mucchietto di cenere che c'è qui davanti a me.

Non é realmente bruciata la tua idea del pezzo di legno, bensì il pezzo di legno reale, che oggi non fai affatto realmente pre-esistere ma invece oggi pensi realmente preesistente all' oggi (ieri), in cui non affatto realmente si trova, bensì é solo pensato.

Non é affatto diventata realmente cenere l' dea del pezzo di legno (magari fosse possibile! Incenerirei immediatamente Renzi, Gentiloni, Draghi, Monti, la Fornero, la Lagarde, Sheuble e tanti altri per fare giustizia di mio figlio Michele di Tarcento da loro assassinato! Credo che chiunque abbia un minimo di sensibilità umana non possa non sentirlo e non piangerlo come un figlio suo!), bensì il pezzo di legno reale (fatto possibilissimo, contrariamente all' incenerimento attraverso il pensiero dei nemici del popolo, purtroppo!).

Sì, è vero che un'idea può presentarsi (può apparire) come idea di una storia: c'era una volta un pezzo di legno, poi quel pezzo di legno diventa cenere e tutti vivranno felici e contenti accanto al caminetto, mentre fuori infurierà la tempesta: una storia che può benissimo essere vera e di fatto spesso é vera, cioé una successione di pensieri conforme alla realtà, da non confondersi con la realtà stessa, alla quale altri pensieri (falsi) possono invece benissimo non essere affatto conformi... Una bella storia che non sembra avere bensì ha realmente un tempo di svolgimento -reale- tra passato e futuro che non sono (infatti rispettivamente era e sarà), e in realtà non accade realmente affatto, bensì realmente é soltanto pensata tutta in un solo breve lasso di tempo, proprio adesso.

Comunque il caso é disperato.
Non tenterò ulteriormente di farti comprendere ciò che non sono riuscito a farti comprendere con sforzi "titanici" fimo ad ora (solita clausola che chi tace non acconsente al tuo eventuale ripetere le stesse affermazioni senza argomenti realmente nuovi).

maral

#33
Sgiombo, capisco e condivido pure la tua esigenza di non confondere il reale con il pensato, ma ribadisco che il reale e il pensato non sono separabili, non sono cose che appartengono a mondi diversi e l'uno "il reale" al mondo duro e puro, mentre il "pensato" solo alle fantasie più o meno realistiche e arbitrarie che stanno dentro a una testa (reale? pensata? mah!).
Il reale è sempre e solo qui e ora e in questo qui e ora c'è pure l'accadere di pensare, in questo qui e ora c'è pure l'ieri che è pensato come "ieri" solo adesso, poiché l'ieri (che non c'è e non può esserci) accade di pensarlo e solo perché accade ora in un modo che è del tutto evidente, l'ieri è reale.
La storia che collega ieri a oggi e poi a domani, in realtà è solo oggi, adesso, che c'è ed è perché adesso c'è e appare nel suo essere pensata che è reale.
Il problema che tu temi e per cui ti vuoi premunire, affinché giustamente non ci siano inganni, il problema di non confondere i cavalli con gli ippogrifi, non è per nulla messo in discussione da questa, a tuo avviso, indebita e confusionaria sovrapposizione tra realtà e immaginazione. Realtà e immaginazione restano distinti dal modo in cui adesso si presenta (ci appare) qualcosa, nel suo esserci in quanto venir pensata e viceversa. E' il modo dell'esserci e contemporaneamente il pensarlo che ci permette, nei modi e non nelle essenze, di distinguere cavalli e ippogrifi, di credere alla realtà dei primi e alla non realtà e solo "immaginabilità" dei secondi. E questi modi non siamo noi a sceglierli arbitrariamente da fuori, perché questi modi siamo noi stessi, siamo noi che accadiamo proprio qui e ora, in questo preciso istante e in questi modi con cui sperimentiamo e facciamo le cose esistendo.
Il mondo è reale, per questo è pensabile in modi diversi e solo poiché è pensato esso si presenta (agli umani, agli altri non so) in modo reale, sempre oltre il nostro pensarlo e quindi sempre ancora ripensabile, senza fine, ossia senza che mai sia nulla.

sgiombo

#34
Citazione di: maral il 10 Febbraio 2017, 14:19:11 PM
Sgiombo, capisco e condivido pure la tua esigenza di non confondere il reale con il pensato, ma ribadisco che il reale e il pensato non sono separabili, non sono cose che appartengono a mondi diversi e l'uno "il reale" al mondo duro e puro, mentre il "pensato" solo alle fantasie più o meno realistiche e arbitrarie che stanno dentro a una testa (reale? pensata? mah!).
Il reale è sempre e solo qui e ora e in questo qui e ora c'è pure l'accadere di pensare, in questo qui e ora c'è pure l'ieri che è pensato come "ieri" solo adesso, poiché l'ieri (che non c'è e non può esserci) accade di pensarlo e solo perché accade ora in un modo che è del tutto evidente, l'ieri è reale.
La storia che collega ieri a oggi e poi a domani, in realtà è solo oggi, adesso, che c'è ed è perché adesso c'è e appare nel suo essere pensata che è reale.
Il problema che tu temi e per cui ti vuoi premunire, affinché giustamente non ci siano inganni, il problema di non confondere i cavalli con gli ippogrifi, non è per nulla messo in discussione da questa, a tuo avviso, indebita e confusionaria sovrapposizione tra realtà e immaginazione. Realtà e immaginazione restano distinti dal modo in cui adesso si presenta (ci appare) qualcosa, nel suo esserci in quanto venir pensata e viceversa. E' il modo dell'esserci e contemporaneamente il pensarlo che ci permette, nei modi e non nelle essenze, di distinguere cavalli e ippogrifi, di credere alla realtà dei primi e alla non realtà e solo "immaginabilità" dei secondi. E questi modi non siamo noi a sceglierli arbitrariamente da fuori, perché questi modi siamo noi stessi, siamo noi che accadiamo proprio qui e ora, in questo preciso istante e in questi modi con cui sperimentiamo e facciamo le cose esistendo.
Il mondo è reale, per questo è pensabile in modi diversi e solo poiché è pensato esso si presenta (agli umani, agli altri non so) in modo reale, sempre oltre il nostro pensarlo e quindi sempre ancora ripensabile, senza fine, ossia senza che mai sia nulla.
CitazioneDistinguere (concettualmente, nel pensiero) =/= separare (nella realtà: siamo sempre lì).
Anche il pensiero, se accade realmente, fa parte della realtà, ma ne è una "parte decisamente peculiare" ben diversa dal resto per sue proprie importantissime caratteristiche: gli "oggetti" o "contenuti" del pensiero che sono tali unicamente in quanto tali (la loro realtà consiste nell' essere pensati e non sono inoltre, come può ben darsi, anche "oggetti" o "contenuti" della realtà indipendentemente dal fatto che questa sia inoltre pensata o meno, come può altrettanto ben darsi) sono "di natura", presentano una "valenza o qualità ontologica" ben diversa dai fatti reali (in quanto tali, e non unicamente in quanto pensati, in quanto oggetti o contenuti di pensiero, come può peraltro ben darsi che pure siano, o meno).
La confusione (cioè la mancata distinzione teorica; e non certo una pretesa separazione reale di fatto: riecco "il problema dei problemi" che si riaffaccia inevitabilmente di continuo!) fra questi due diversi (anche se passibili di coesistere tanto quanto di non coesistere a seconda dei casi) significati di "essere" è come "la notte in cui tutte le vacche sembrano nere" (mi scuso con il da me tutt' altro che apprezzato Hegel, che per quel poco che ne ho capito doveva essere un habitué di questa confusione).
E da questa confusione, come ho ampiamente argomentato nei precedenti interventi e non sto a ripetere, nasce la pretesa negazione del divenire: dalla confusione fra il pensarsi qualcosa, il qualcosa pensato che, astraendo, prescindendo dalla sua (eventuale) realtà (dalla realtà di tale "qualcosa" in quanto tale e non solo in quanto contenuto di pensiero, del suo accadere e non del suo essere pensato), se e quando accade, è ciò che è e non può essere altro da una parte; e dall' altra parte l' accadere realmente qualcosa che può benissimo prima non darsi, adesso darsi, poi di nuovo non darsi (magari trasformandosi da - in qualcos' altro secondo proporzioni universali e costanti, come a quanto pare di fatto accade del mondo fisico materiale).

Secondo me le fantasie, come il resto della coscienza (anche le sensazioni di cose reali), non stanno nelle teste (e in particolare nei cervelli), ma al contrario le teste (e in particolare i cervelli) stanno nelle coscienze (di chi le pensa nel caso di teste e cervelli fantastici, o di chi le esperisce come teste e cervelli reali nel caso delle sensazioni di enti ed eventi reali reali).

Non obietto al resto di queste affermazioni perché già fatto più volte.

Apeiron

#35
Alla domanda iniziale rispondo così: finchè non si ha una chiara definizione di "nulla" la domanda non è altro che un'espressione della nostra meraviglia dinanzi ad un mistero. Parlare di niente e di nulla ha perfettamente senso quando si pensa all'assenza di qualcosa, tuttavia parlare di niente come l'assenza di ogni cosa è molto problematico. Non appena infatti si fa ciò ne consegue che se si parla del nulla, allora il nulla è qualcosa, ossia non è nulla. La cosa ovviamente sfocia nella contraddizione.

In modo analogo il "Perchè" dell'esistenza, ossia il Senso dell'esistenza è maldefinito. Questo perchè in sostanza la parola "senso" o "perchè"noi la usiamo in contesti di causalità, ossia dove si ha una successione di eventi tra loro connessi. Motivo per cui l'espressione il "senso dell'esistenza" rispecchia la nostra tendenza alla meraviglia, al mistero. Se anche un senso vi fosse questo per noi non sarebbe comprensibile perchè appunto noi siamo nel mondo (e quindi parliamo del senso di qualcosa o qualche evento)e quell'eventuale "senso" sarebbe di tutta l'esistenza.


Motivo per cui: la domanda perchè c'è qualcosa anziché il nulla? è una domanda religiosa e non filosofica. Ogni parola espressa in quella frase è decontestualizzata e proprio la sua decontestualizzazione la rende una "domanda eterna". Ma la filosofia, che deve attenersi allo studio degli eventi e della realtà non può che rassegnarsi al Silenzio. Rimane dunque il "misticismo" ossia la religione. La filosofia deve "rassegnarsi" ad indagare nella sua sfera di competenza, non può andare oltre. Infatti se va oltre costruisce sistemi senza fondamento (può l'etica avere fondamento? ossia si può dimostrare che un'azione è giusta e una è sbagliata?) o sistemi inconsistenti. La filosofia deve - in modo simile a quanto detto da Kant - essere circoscritta al suo ambito di competenza e su ciò di cui non può parlare, deve tacere.

P.S. Mi è difficile argomentare su queste questioni (che tra l'altro sono le più importanti), motivo per cui non credo che il post sia chiarissimo. Il "consiglio" per capire meglio il post è appunto pensare alla seguente domanda: si possono fondare filosoficamente giudizi assoluti di valore (ad esempio: si può dimostrare che un'azione è giusta?)? oppure: si può dimostrare che la probabilità che il lancio di un dado faccia 6 è 1/6 (qui il problema è che il concetto di "probabilità" è un'astrazione matematica...) ?
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

#36
Non so se ho capito tutto, non sono addentro nella logica formale, voglio solo provare ad esprimere ciò che mi sembra di aver capito, in modo da provare ad imparare qualcosa.

A quanto sembra, il problema della contraddizione del nulla consisterebbe in questo: il nulla non è altro che il non essere. Dunque, se diciamo che il nulla è, stiamo dicendo che il non essere è. Dire che il non essere è significa introdurre nel nostro pensare un'indifferenza totale di ogni significato; ultimamente significa non poter pensare, è una specie di suicidio del pensare, un buttarsi la zappa sui piedi.

Mi sembra che tutto ciò abbia a che fare con l'origine del nostro linguaggio, nato per gestire piccole quantità e poi dalla filosofia stirato a più non posso per fargli gestire quantità smisurate, quali sono i concetti di tutto, nulla e simili.

Infatti, se ci limitiamo a piccole quantità, è possibilissimo parlare del nulla, poiché esso è sempre relazionato a pochi altri esseri: possiamo benissimo dire "in questa stanza non c'è nulla di quanto tu hai detto"; in questo senso è possibile parlare anche di esistenza della mancanza: c'è mancanza di denaro, mancanza di risorse. Questo mi fa pensare al fatto che in matematica è possibile sommare numeri negativi: 5 + (-3) = 2.

Come dicevo, le cose si complicano se questo linguaggio viene stirato per esprimere quantità smisurate. In questo senso già il concetto di "tutto" è problematico: com'è possibile pensare di aver pensato il concetto di "tutto", una volta che nessuno di noi l'ha mai visto? In matematica il concetto di "tutto" è riferito alle possibilità future: per esempio, possiamo dire che, se ad un numero qualsiasi sottraiamo se stesso, il risultato sarà sempre zero. Come facciamo a sapere che ciò vale per tutti i numeri? Siamo noi ad aver deciso che ciò è vero, sulla base delle verifiche e delle corrispondenze che finora abbiamo trovato; tuttavia potrebbe sempre succedere in futuro di scoprire qualche tipo di calcolo che smentisca che x-x fa sempre zero.

Questo mi sembra un problema fondamentale dei concetti totalizzanti, quali "tutto", "nulla" e simili: sono scommesse sul futuro, di cui è impossibile avere prove definitive, perché è umanamente impossibile verificare tutti i casi possibili. Siamo, insomma, nel problema del tacchino induttivista.

Da ciò consegue che un difetto fondamentale di ogni matematica e di ogni logica è quello di trascurare la loro impotenza riguardo a ciò che si potrà scoprire in futuro. Anzi, direi piuttosto, che una vera matematica o una vera logica contengono già quest'umiltà, anche se per semplicità non la esprimono; chi dimentica quest'umiltà siamo noi, nel momento in cui utilizziamo questi strumenti dimenticando che esistiamo nel tempo e non abbiamo potere sul futuro.

Ciò non vieta di fare matematica o logica; basta che lo si faccia con consapevolezza dei loro limiti.

Oltre a quello del tempo, un altro limite della logica mi sembra essere quello dei paradossi che si verificano quando si vogliono creare affermazioni totali che includano la negazione di se stessi: è il caso del catalogo che voglia contenere la lista di tutti i cataloghi che non includono se stessi; ne consegue che un paradosso simile sarà quello del concetto di "tutto", che in quanto tale dovrebbe includere ogni negazione di stesso, teorica o reale, quindi dovrebbe includere anche il nulla, con i conseguenti problemi che finora avete evidenziato.

Ma anche lasciando da parte i problemi specifici creati dai paradossi, mi sembra che già l'ipotesi teorica di pensare il "tutto" in modo filosofico e non semplicemente matematico crei dei problemi. Infatti, se voglio pensare il tutto, è ovvio che in questo concetto dovrò includere anche me stesso che sto pensando il tutto. A questo punto però ho creato una nuova entità: il concetto di me stesso che sto pensando il tutto. Cioè, io mi sono creato dentro il mio cervello un'idea di me come di uno che sta pensando il tutto. Ma quell'uno che sta pensando il tutto, che si trova nel mio cervello sotto forma di concetto, sta davvero pensando tutto? Credo di no, altrimenti significa che sarei riuscito a creare nel mio cervello non un concetto, ma una vera persona che è in grado di pensare a me. Da questa difficoltà mi sembra dover dedurre che il tutto è pensabile solo in contesti matematici, che come tali includono esclusivamente enti matematici, e quindi non si tratta davvero del tutto, o in contesti logici che, occupandosi esclusivamente di funzionalità formali, neppure essi si occupano davvero di tutto. Non è pensabile in filosofia poiché implicherebbe il trattare il concetto di me stesso come se fosse non un concetto, ma un essere reale in grado di pensare a me che sto pensando ad esso.

Apeiron

#37
Citazione di: Angelo Cannata il 10 Febbraio 2017, 22:05:39 PMNon so se ho capito tutto, non sono addentro nella logica formale, voglio solo provare ad esprimere ciò che mi sembra di aver capito, in modo da provare ad imparare qualcosa. A quanto sembra, il problema della contraddizione del nulla consisterebbe in questo: il nulla non è altro che il non essere. Dunque, se diciamo che il nulla è, stiamo dicendo che il non essere è. Dire che il non essere è significa introdurre nel nostro pensare un'indifferenza totale di ogni significato; ultimamente significa non poter pensare, è una specie di suicidio del pensare, un buttarsi la zappa sui piedi. Mi sembra che tutto ciò abbia a che fare con l'origine del nostro linguaggio, nato per gestire piccole quantità e poi dalla filosofia stirato a più non posso per fargli gestire quantità smisurate, quali sono i concetti di tutto, nulla e simili. Infatti, se ci limitiamo a piccole quantità, è possibilissimo parlare del nulla, poiché esso è sempre relazionato a pochi altri esseri: possiamo benissimo dire "in questa stanza non c'è nulla di quanto tu hai detto"; in questo senso è possibile parlare anche di esistenza della mancanza: c'è mancanza di denaro, mancanza di risorse. Questo mi fa pensare al fatto che in matematica è possibile sommare numeri negativi: 5 + (-3) = 2. Come dicevo, le cose si complicano se questo linguaggio viene stirato per esprimere quantità smisurate. In questo senso già il concetto di "tutto" è problematico: com'è possibile pensare di aver pensato il concetto di "tutto", una volta che nessuno di noi l'ha mai visto? In matematica il concetto di "tutto" è riferito alle possibilità future: per esempio, possiamo dire che, se ad un numero qualsiasi sottraiamo se stesso, il risultato sarà sempre zero. Come facciamo a sapere che ciò vale per tutti i numeri? Siamo noi ad aver deciso che ciò è vero, sulla base delle verifiche e delle corrispondenze che finora abbiamo trovato; tuttavia potrebbe sempre succedere in futuro di scoprire qualche tipo di calcolo che smentisca che x-x fa sempre zero. Questo mi sembra un problema fondamentale dei concetti totalizzanti, quali "tutto", "nulla" e simili: sono scommesse sul futuro, di cui è impossibile avere prove definitive, perché è umanamente impossibile verificare tutti i casi possibili. Siamo, insomma, nel problema del tacchino induttivista. Da ciò consegue che un difetto fondamentale di ogni matematica e di ogni logica è quello di trascurare la loro impotenza riguardo a ciò che si potrà scoprire in futuro. Anzi, direi piuttosto, che una vera matematica o una vera logica contengono già quest'umiltà, anche se per semplicità non la esprimono; chi dimentica quest'umiltà siamo noi, nel momento in cui utilizziamo questi strumenti dimenticando che esistiamo nel tempo e non abbiamo potere sul futuro. Ciò non vieta di fare matematica o logica; basta che lo si faccia con consapevolezza dei loro limiti. Oltre a quello del tempo, un altro limite della logica mi sembra essere quello dei paradossi che si verificano quando si vogliono creare affermazioni totali che includano la negazione di se stessi: è il caso del catalogo che voglia contenere la lista di tutti i cataloghi che non includono se stessi; ne consegue che un paradosso simile sarà quello del concetto di "tutto", che in quanto tale dovrebbe includere ogni negazione di stesso, teorica o reale, quindi dovrebbe includere anche il nulla, con i conseguenti problemi che finora avete evidenziato. Ma anche lasciando da parte i problemi specifici creati dai paradossi, mi sembra che già l'ipotesi teorica di pensare il "tutto" in modo filosofico e non semplicemente matematico crei dei problemi. Infatti, se voglio pensare il tutto, è ovvio che in questo concetto dovrò includere anche me stesso che sto pensando il tutto. A questo punto però ho creato una nuova entità: il concetto di me stesso che sto pensando il tutto. Cioè, io mi sono creato dentro il mio cervello un'idea di me come di uno che sta pensando il tutto. Ma quell'uno che sta pensando il tutto, che si trova nel mio cervello sotto forma di concetto, sta davvero pensando tutto? Credo di no, altrimenti significa che sarei riuscito a creare nel mio cervello non un concetto, ma una vera persona che è in grado di pensare a me. Da questa difficoltà mi sembra dover dedurre che il tutto è pensabile solo in contesti matematici, che come tali includono esclusivamente enti matematici, e quindi non si tratta davvero del tutto, o in contesti logici che, occupandosi esclusivamente di funzionalità formali, neppure essi si occupano davvero di tutto. Non è pensabile in filosofia poiché implicherebbe il trattare il concetto di me stesso come se fosse non un concetto, ma un essere reale in grado di pensare a me che sto pensando ad esso.

Aggiungo solo che matematica e logica in generale non si applicano all'Esperienza. Non si può dimostrare che la probabilità che il lancio del dado dia 6 perchè non possiamo avere infinite prove, ma soprattutto - mi ero scordato di dirlo - anche se avessimo a disposizione infinite prove la generalizzazione potrebbe ugualmente essere accidentale.
Ad esempio per la logica:
La validità generale logica potrebbe chiamarsi essenziale, in contrapposizione alla accidentale, come quella della proposizione: "Tutti gli uomini sono mortali". (Wittgenstein)

La logica non si può applicare alla natura perchè dall'esperienza possiamo solo desumere generalizzazioni accidentali, non essenziali. Perfino applicare i concetti della fisica alla natura è "improprio" nel senso che nulla nell'esperienza ci garantisce che tra i fatti ci sia un legame. Causalità, regolarità della natura... sono tutti concetti che noi imponiamo sulla natura in modo errato. Infatti non vengono dall'esperienza.


"Il senso del mondo dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore - né, se vi fosse, avrebbe un valore.

Se un valore che ha valore v'è, dev'esser fuori d'ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale.

Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale.

Dev'essere fuori dal mondo.  
...
Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è" (Wittgenstein)

non rimane quindi che rinunciare a filosofare a riguardo di domande che non possono avere una risposta. Non possiamo desumere in alcun modo una "spiegazione" che qualcosa è. Possiamo fare una teoria su "perchè" il periodo di rivoluzione della Terra è circa 365 giorni e non 1244 (numero a caso  ;D ) ma non possiamo dare una spiegazione su "perchè" esistiamo. Alcune - ma non tutte - le religioni cercano proprio di dare una spiegazione a ciò ma la spiegazione è infalsificabile, inverificabile, non deducibile dall'esperienza e non fondata logicamente da alcun assioma che possa essere considerato dato di fatto (non a caso è rischiesta la fede (che può essere ragionevole ma non razionale) in tale spiegazione). Ma le spiegazioni che noi facciamo su particolari fenomeni naturali sono appunto testabili e per questo motivo sono soggette ad errore. Dove non c'è possibilità di verifica/falsificazione/test non vi è possibilità d'errore e quindi propriamente non si tratta nemmeno di una spiegazione scientifica. Dove non v'è possibilità d'errore non si può nemmeno propriamente parlare di "aumento della conoscenza". Motivo per cui le spiegazioni "sul senso delle cose" non sono nemmeno "vere" spiegazioni. Ma qui trattiamo di argomenti su cui la razionalità non può avere nulla a che fare. Le spiegazioni filosofiche che si fanno sono speculazioni oppure sono rielaborazioni ossia tentativi di capire meglio le "spiegazioni religiose". Ma qui chiaramente ormai la filosofia è sparita - in quanto la filosofia si ferma prima.

P.S. Angelo Cannata non sono di certo un esperto di logica simbolica e infatti moltissime cose del Tractatus di Wittgenstein non le ho capite, ma mi pare d'aver afferrato ciò che penso sia l'essenziale per me. Ti consiglio, se non lo hai già fatto, di leggere le sue opere sia del primo periodo sia del secondo. E inoltre anche le opere non prettamente filosofiche  ;) Comunque il senso del discorso mi pare che tu l'abbia capito.

5+(-3)=2 non si applica alla realtà. Infatti che (5+(-3))*mele=2mele è una generalizzazione accidentale che faccio da un numero finito di prove. Non posso dimostrare che se da un sacchetto di 5 mele ne tiro via 3 ne rimangono sempre 2. Realizzata questa cosa, si realizza tutto questo discorso (che il mondo segua leggi "matematiche" è un "atto di fede" per quanto sia molto più "plausibile" - ossia "ragionevole" - rispetto ad altri...).
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

sgiombo

Citazione di: Apeiron il 10 Febbraio 2017, 23:18:01 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 10 Febbraio 2017, 22:05:39 PMNon so se ho capito tutto, non sono addentro nella logica formale, voglio solo provare ad esprimere ciò che mi sembra di aver capito, in modo da provare ad imparare qualcosa. A quanto sembra, il problema della contraddizione del nulla consisterebbe in questo: il nulla non è altro che il non essere. Dunque, se diciamo che il nulla è, stiamo dicendo che il non essere è. Dire che il non essere è significa introdurre nel nostro pensare un'indifferenza totale di ogni significato; ultimamente significa non poter pensare, è una specie di suicidio del pensare, un buttarsi la zappa sui piedi. Mi sembra che tutto ciò abbia a che fare con l'origine del nostro linguaggio, nato per gestire piccole quantità e poi dalla filosofia stirato a più non posso per fargli gestire quantità smisurate, quali sono i concetti di tutto, nulla e simili. Infatti, se ci limitiamo a piccole quantità, è possibilissimo parlare del nulla, poiché esso è sempre relazionato a pochi altri esseri: possiamo benissimo dire "in questa stanza non c'è nulla di quanto tu hai detto"; in questo senso è possibile parlare anche di esistenza della mancanza: c'è mancanza di denaro, mancanza di risorse. Questo mi fa pensare al fatto che in matematica è possibile sommare numeri negativi: 5 + (-3) = 2. Come dicevo, le cose si complicano se questo linguaggio viene stirato per esprimere quantità smisurate. In questo senso già il concetto di "tutto" è problematico: com'è possibile pensare di aver pensato il concetto di "tutto", una volta che nessuno di noi l'ha mai visto? In matematica il concetto di "tutto" è riferito alle possibilità future: per esempio, possiamo dire che, se ad un numero qualsiasi sottraiamo se stesso, il risultato sarà sempre zero. Come facciamo a sapere che ciò vale per tutti i numeri? Siamo noi ad aver deciso che ciò è vero, sulla base delle verifiche e delle corrispondenze che finora abbiamo trovato; tuttavia potrebbe sempre succedere in futuro di scoprire qualche tipo di calcolo che smentisca che x-x fa sempre zero. Questo mi sembra un problema fondamentale dei concetti totalizzanti, quali "tutto", "nulla" e simili: sono scommesse sul futuro, di cui è impossibile avere prove definitive, perché è umanamente impossibile verificare tutti i casi possibili. Siamo, insomma, nel problema del tacchino induttivista. Da ciò consegue che un difetto fondamentale di ogni matematica e di ogni logica è quello di trascurare la loro impotenza riguardo a ciò che si potrà scoprire in futuro. Anzi, direi piuttosto, che una vera matematica o una vera logica contengono già quest'umiltà, anche se per semplicità non la esprimono; chi dimentica quest'umiltà siamo noi, nel momento in cui utilizziamo questi strumenti dimenticando che esistiamo nel tempo e non abbiamo potere sul futuro. Ciò non vieta di fare matematica o logica; basta che lo si faccia con consapevolezza dei loro limiti. Oltre a quello del tempo, un altro limite della logica mi sembra essere quello dei paradossi che si verificano quando si vogliono creare affermazioni totali che includano la negazione di se stessi: è il caso del catalogo che voglia contenere la lista di tutti i cataloghi che non includono se stessi; ne consegue che un paradosso simile sarà quello del concetto di "tutto", che in quanto tale dovrebbe includere ogni negazione di stesso, teorica o reale, quindi dovrebbe includere anche il nulla, con i conseguenti problemi che finora avete evidenziato. Ma anche lasciando da parte i problemi specifici creati dai paradossi, mi sembra che già l'ipotesi teorica di pensare il "tutto" in modo filosofico e non semplicemente matematico crei dei problemi. Infatti, se voglio pensare il tutto, è ovvio che in questo concetto dovrò includere anche me stesso che sto pensando il tutto. A questo punto però ho creato una nuova entità: il concetto di me stesso che sto pensando il tutto. Cioè, io mi sono creato dentro il mio cervello un'idea di me come di uno che sta pensando il tutto. Ma quell'uno che sta pensando il tutto, che si trova nel mio cervello sotto forma di concetto, sta davvero pensando tutto? Credo di no, altrimenti significa che sarei riuscito a creare nel mio cervello non un concetto, ma una vera persona che è in grado di pensare a me. Da questa difficoltà mi sembra dover dedurre che il tutto è pensabile solo in contesti matematici, che come tali includono esclusivamente enti matematici, e quindi non si tratta davvero del tutto, o in contesti logici che, occupandosi esclusivamente di funzionalità formali, neppure essi si occupano davvero di tutto. Non è pensabile in filosofia poiché implicherebbe il trattare il concetto di me stesso come se fosse non un concetto, ma un essere reale in grado di pensare a me che sto pensando ad esso.

Aggiungo solo che matematica e logica in generale non si applicano all'Esperienza. Non si può dimostrare che la probabilità che il lancio del dado dia 6 perchè non possiamo avere infinite prove, ma soprattutto - mi ero scordato di dirlo - anche se avessimo a disposizione infinite prove la generalizzazione potrebbe ugualmente essere accidentale.
Ad esempio per la logica:
La validità generale logica potrebbe chiamarsi essenziale, in contrapposizione alla accidentale, come quella della proposizione: "Tutti gli uomini sono mortali". (Wittgenstein)

La logica non si può applicare alla natura perchè dall'esperienza possiamo solo desumere generalizzazioni accidentali, non essenziali. Perfino applicare i concetti della fisica alla natura è "improprio" nel senso che nulla nell'esperienza ci garantisce che tra i fatti ci sia un legame. Causalità, regolarità della natura... sono tutti concetti che noi imponiamo sulla natura in modo errato. Infatti non vengono dall'esperienza.


"Il senso del mondo dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore - né, se vi fosse, avrebbe un valore.

Se un valore che ha valore v'è, dev'esser fuori d'ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale.

Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale.

Dev'essere fuori dal mondo.  
...
Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è" (Wittgenstein)

non rimane quindi che rinunciare a filosofare a riguardo di domande che non possono avere una risposta. Non possiamo desumere in alcun modo una "spiegazione" che qualcosa è. Possiamo fare una teoria su "perchè" il periodo di rivoluzione della Terra è circa 365 giorni e non 1244 (numero a caso  ;D ) ma non possiamo dare una spiegazione su "perchè" esistiamo. Alcune - ma non tutte - le religioni cercano proprio di dare una spiegazione a ciò ma la spiegazione è infalsificabile, inverificabile, non deducibile dall'esperienza e non fondata logicamente da alcun assioma che possa essere considerato dato di fatto (non a caso è rischiesta la fede (che può essere ragionevole ma non razionale) in tale spiegazione). Ma le spiegazioni che noi facciamo su particolari fenomeni naturali sono appunto testabili e per questo motivo sono soggette ad errore. Dove non c'è possibilità di verifica/falsificazione/test non vi è possibilità d'errore e quindi propriamente non si tratta nemmeno di una spiegazione scientifica. Dove non v'è possibilità d'errore non si può nemmeno propriamente parlare di "aumento della conoscenza". Motivo per cui le spiegazioni "sul senso delle cose" non sono nemmeno "vere" spiegazioni. Ma qui trattiamo di argomenti su cui la razionalità non può avere nulla a che fare. Le spiegazioni filosofiche che si fanno sono speculazioni oppure sono rielaborazioni ossia tentativi di capire meglio le "spiegazioni religiose". Ma qui chiaramente ormai la filosofia è sparita - in quanto la filosofia si ferma prima.

P.S. Angelo Cannata non sono di certo un esperto di logica simbolica e infatti moltissime cose del Tractatus di Wittgenstein non le ho capite, ma mi pare d'aver afferrato ciò che penso sia l'essenziale per me. Ti consiglio, se non lo hai già fatto, di leggere le sue opere sia del primo periodo sia del secondo. E inoltre anche le opere non prettamente filosofiche  ;) Comunque il senso del discorso mi pare che tu l'abbia capito.

5+(-3)=2 non si applica alla realtà. Infatti che (5+(-3))*mele=2mele è una generalizzazione accidentale che faccio da un numero finito di prove. Non posso dimostrare che se da un sacchetto di 5 mele ne tiro via 3 ne rimangono sempre 2. Realizzata questa cosa, si realizza tutto questo discorso (che il mondo segua leggi "matematiche" è un "atto di fede" per quanto sia molto più "plausibile" - ossia "ragionevole" - rispetto ad altri...).

CitazioneConcordo che la logica non si può applicare all' esperienza,
La logica (e la matematica pura) propone giudizi analitici a priori, mentre la natura si conosce (se si conosce) attraverso giudizi sintetici a posteriori.
E (a proposito di conoscenza sintetica a posteriori della natura) concordo anche sull' indimostrabilità dell' induzione (Hume!).
 
 

Inoltre sono d' accordo che razionalmente, filosoficamente non si possa trovare una senso (una ragione, una risposta alla domanda "perché?") del fatto che accade realmente ciò che accade.
Ma già chiedersi (e rispondere alla domanda) se questo sia un problemi razionalmente risolvibile è filosofia.
Per parte mia ribadisco (e mi sembra di concordare) che sono domande  senza senso (per quanto insopprimibili per chi cerchi di vivere con senso critico e non di vivere a casaccio essendo acriticamente eterodiretto) per il significato stesso dei termini della questione, perché per definizione si può pensare, può essere pensato anche ciò che non è reale (che non accade realmente: basta che non sia autocontraddittorio), mentre può essere reale solo e unicamente ciò che è reale (solo ciò che accade realmente) e nient' altro: la possibilità esiste solo nel pensiero e non nella realtà; e questo indipendentemente dall' eventuale determinismo nella realtà, che soltanto imporrebbe la necessità ed eliminerebbe la possibilità anche al pensiero della realtà, oltre che alla realtà (ovviamentenel caso si abbia una conoscenza sufficientemente completa e precisa delle leggi  universali e costanti -cioè deterministiche - generali astratte del divenire nonché delle condizioni particolari concrete, in un -qualsiasi- determinato istante, della realtà stessa: in queste condizioni "ideali" -in linea di principio, non di fatto!- sarebbe possibile pensare in modo corretto, non autocontraddittorio, unicamente -ovvero sarebbe necessario anche il pensare, oltre che l' accadere realmente di- ciò che realmente accade in qualsiasi altro istante di tempo).
In caso di possibilità (ergo: nel pensiero e non nella realtà) si pone la questione di un senso, una ragione, una risposta alla domanda "perché?": "perché, fra tutte le alternative possibili a ciò che di fatto si dà, si dà proprio quella che di fatto si dà e non alcun altra?".
Ma invece in caso di necessità (ergo nella realtà e non nel *pensiero) non si pone la questione di un senso, una ragione, una risposta alla domanda "perché?": non essendoci alternative a ciò che di fatto si dà, non ha senso chiedersi "perché si dà proprio ciò che si dà anziché alcun altra alternativa", la quale, per l' appunto non c'é, non si pone; non ponendosi alcuna alternativa sarebbe evidentemente autocontraddittorio, senza senso chiedersi perché (cercare una ragione o un senso del fatto che) si dà è proprio una certa determinata alternativa anziché qualsiasi altra (possibile), che per l' appunto non si dà.
E per l' appunto per definizione (analiticamente a priori) si dà possibilità solo nel pensiero e non nella realtà.
 
(Con tutte queste evidenziazioni in grassetto spero di aver dato l' idea dell' importanza a mio parere "fondamentalissima" in filosofia della distinzione fra -eventuale accadere reale del ed eventuale accadere reale del pensiero del- pensiero (circa la realtà) e -eventuale accadere reale ed eventuale accadere reale del pensiero della- realtà).
 
 
 
Non concordo invece che  che (5+(-3))*mele=2mele è una generalizzazione accidentale che faccio da un numero finito di prove. Non posso dimostrare che se da un sacchetto di 5 mele ne tiro via 3 ne rimangono sempre 2. Realizzata questa cosa, si realizza tutto questo discorso (che il mondo segua leggi "matematiche" è un "atto di fede" per quanto sia molto più "plausibile" - ossia "ragionevole" - rispetto ad altri...
Per me quelli della logica e della matematica pura sono giudizi analitici a priori e non sintetici a posteriori: è per le definizioni di "5", "3", "2", "+", "-", "=" che sempre e comunque, indipendentemente da come che sia il mondo reale, 5 - 3 = 2.
Posso poi applicare le astrazioni matematiche alle mele e a qualsiasi altro oggetto concreto eventualmente rilevato sinteticamente a posteriori.
 
 

Per Angelo Cannata (scusandomi) per la pignoleria e la non essenzialità per la questione in esame):
il concetto di me stesso che sto pensando il tutto, l'idea di me come di uno che sta pensando il tutto non accade, non me lo sono cerato dentro il mio cervello: dentro il mio cervello (il quale è, accade, almeno potenzialmente e di fatto sempre attualmente qualora di diano determinate condizioni, "dentro", nell' ambito de-, le esperienze fenomeniche coscienti di chi lo osserva, diverse dalla mia) accadono, si osservano unicamente neuroni e altre cellule, fasci di assoni con impulsi nervosi che li percorrono, eccitazioni e inibizioni trans – sinaptiche, eccetera: tutt' altre cose che concetti, anche se necessariamente coesistenti e biunivocamente corrispondenti al mio pensare i concetti che penso (che invece accade "dentro", nell' ambito de-, la mia di esperienza fenomenica cosciente, ben diversa, altra da quelle degli osservatori del mio cervello).

Apeiron

@sgiombo

Ma il giudizio sintetico a priori è appunto un'applicazione della logica e della matematica (che come dici tu sono a-priori ossia "trascendentali") all'esperienza. Il punto è che: se un giorno io tirando via tre mele dal sacchetto di cinque trovassi ancora cinque mele anziché due avrei davvero falsificato la posizione secondo la quale la matemtica si può applicare alla realtà? Probabilmente esclamerei: "questo è un miracolo!". Tuttavia in modo analogo ai miracoli delle religioni uno per vedere un miracolo deve pensare che essi siano possibili. Ma che i miracoli siano possibili o impossibili è una questione irresolvibile dalla sola esperienza (la quale è l'unica fonte di conoscenza!). La stessa introspezione è a-posteriori: quando indago ad esempio le mie emozioni la mia indagine riguarda fenomeni e nient'altro.

Il discorso della generalizzazione accidentale pensalo in questo modo: il fatto che tu fai quel giudizio sintetico a-priori è dovuto al fatto che tu applichi le nozioni matematiche a-priori all'esperienza. Se invece mettessi in un sacchetto contenente una mela una seconda mela e dopo questa operazione trovassi che ci sono zero mele nel sacchetto, userei un'altro sistema algebrico. Precisamente userei il seguente:
Ossia quel sistema algebrico tale per cui: "0+0=0", "1+0=0+1=0" e "1+1=0". Perchè non usiamo questo sistema per fare i nostri giudizi sintetici a posteriori? Non c'è davvero alcuna ragione che necessariamente ci impone di non farlo eppure se lo facessi verrei contraddetto dall'esperienza. Tuttavia siccome l'intera esperienza è accidentale dobbiamo dire che i nostri giudizi sintetici a posteriori sono essi stessi accidentali (non stiamo realmente dicendo cose diverse...).

Ma allora la realtà è accidentale? Noi se vogliamo essere onesti dovremo ammettere di sì, la successione di fatti è accidentale e ogni regolarità che troviamo in essi è puro accidente. Ma è davvero così? Uno potrebbe dire: non è così "sub specie aeternitatis". Ma qui si va già oltre la filosofia (amore della "saggezza")...

In modo simile per le questioni dell'etica (da non confondersi con la "morale" ossia il sistema di regole assunto da una cultura): esse sono trascendentali ossia "a-priori". L'etica infatti tratta del dover-essere che di certo non è deducibile dall'essere. Perchè non ci è permesso ad esempio "frodare il prossimo"? Lo studio dei fatti ci dice che "frodare il prossimo" è un evento come un altro, l'etica invece ci dice che non dovrebbe essere così. L'etica cambia la prospettiva della realtà, ossia cambia il modo con cui tu ti rapporti al tuo mondo, ossia la totalità delle tue esperienze. Per questo motivo l'etica è trascendentale. Non potrò mai dimostrarti che "frodare il prossimo" è sbagliato così come non potrò mai realmente convincerti che il lancio di un dado ha una necessità di dare il risultato "6" con la probabilità di 1/6.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#40
Che bisogno ho di "dimostrare" quando  ho assoluta certezza di un'esperienza? Posso dimostrare che sono vivo? Sono però certo che sono vivo e questo indipendentemente se sono vivo nella realtà, in un sogno o in un ologramma. Il dubbio riguarda le cause del perché sono vivo, non l'esperienza di esserlo. La conoscenza del reale è, a mio parere, vera ma limitata. Non posso dimostrare che una mela più un'altra fa sempre logicamente due , ma so per esperienza che, se anche passo la vita a mettere una mela accanto all'altra , mai ne vedrò tre. Similmente se anche un altro uomo passa la vita a mettere queste due mele una accanto all'altra ne vedrà sempre due e non tre. Questo fatto esperienziale crea un assoluto relativo alla condizione umana. La mia mente dispone di una certa struttura logica e semantica che mi permette di formulare un linguaggio con una certa metodologia. Questa struttura è un assoluto relativo alla condizione umana che mi permette di formulare teorie logiche  e semantiche che però non possono essere assolute. Ciò che è assoluto è relativo alla sottostante struttura che rende possibile qualunque teoria su di essa. Chi presenta una nuova teoria logica o semantica si serve della logica e della semantica per poterlo fare. Egli presuppone ciò di cui desidera presentare una teoria. E' la struttura della mente che mette in grado qualunque teoria, anche una della struttura della mente, di fare ciò che tenta di fare. Anche chi parla in nome del relativismo presuppone la validità della logica in questione. La coscienza umana ha una sorta di "centratezza", o autoconsapevolezza che sembra una sorta di quid che ci impedisce di perderci nel torrente infinito delle esperienze relative. Questa centratezza serve a dare quel senso di continuità alla nostra esperienza di vita che sperimentiamo e che ci fa dire "Io sono" ( che questo 'io sono' sia permanente o impermanente e un altro discorso che investe altri fattori esperienziali). Abbiamo molti assoluti relativi alla condizione umana. Ciò che non abbiamo è una conoscenza assoluta che è una impossibilità. Ma la mancanza di una conoscenza assoluta implicva che la conoscenza (relativa alla condizione umana) è falsa? Possiamo definirla limitata, ma non falsa, a mio avviso. La mente dispone pure della capacità di annullare la distinzione soggetto-oggetto tipica del pensiero, e questo avviene a livello delle sensazioni dove si manifesta un'unità materiale in ogni impressione sensoriale. Se vedo, per es. il colore giallo non lo posso negare nemmeno se si tratta di un sogno o di una allucinazione. La sua causa è aperta al dubbio, ma l'esperienza in sé è certa e immediata. Ciò che vedo non è più il mio oggetto: esso è in me e io sono in esso.
E' qualcosa di assoluto relativo all'atto conoscitivo. In ogni atto conoscitivo è presente un'interdipendenza di soggetto e oggetto. In ogni domanda che ci poniamo è già presente qualcosa dell'oggetto su cui ci interroghiamo, altrimenti non potremmo nemmeno porre la domanda. Avere e non avere è la natura stessa degli interrogativi e chi interroga conferma questa struttura interdipendente della coscienza come un assoluto relativo agli uomini in quanto uomini.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

sgiombo

Citazione@ Apeiron

Sono perfettamente d' accordo che l' introspezione (le sensazioni  empiriche della res cogitans) é anch' essa empiria (esattamente come l' "extrospezione", o meglio le diverse  "extrosensazioni", della res extensa); e dunque qualsiasi giudizio circa la realtà interiore o mentale, esattamente come qualsiasi giudizio circa la realtà esteriore o materiale (essendo l' una altrettanto empirica dell' altra), è un giudizio sintetico a posteriori.
Tuttavia dissento da Quine (forse contrariamente a te) nel ritenere che i giudizi analitici a priori siano riducibili a giudizi sintetici a posteriori e ritengo che le nozioni e i predicati espressi (significati) dai pensieri empiricamente avvertiti mentalmente (le verità logiche) siano ben altra cosa delle percezioni mentali che costituiscono i pensieri stessi (gli eventi psicologici; i quali, contrariamente alle verità logiche, possono solo essere reali o meno -accadere o meno- e non anche essere veri o falsi, in questo esattamente come quegli altri tipi di eventi psicologici che sono le emozioni e i sentimenti).
 
Se -per assurdo; ammesso e non concesso- avvenisse un miracolo "tipo moltiplicazione dei pani e dei pesci" credo che allora le leggi fisiche (per lo meno una o più determinate leggi fisiche; le quali peraltro, essendo fondate sull' induzione, non sono comunque logicamente dimostrabili con certezza essere vere: Hume!) sarebbero contravvenute, cioé falsificate (non credo che abbia senso ma sia autocontraddittorio il concetto di "sospensione" momentanea od occasionale delle leggi di natura, o di "eccezione alla regola" del divenire naturale in quanto per definizione -e senza che sia possibile dimostrarne la verità: a-ri-Hume!- le leggi del divenire naturale sono letteralmente universali e costanti, id est: non ammettono deroghe, sospensioni o eccezioni di sorta).
La logica non credo sarebbe facilmente applicabile: se accadesse che 5 pani e 2 pesci a un certo punto diventassero, da 7 che erano, 14 o 21 vivande penso che l' unico modo sensato (possibile) di applicare alla realtà l' astrazione matematica sarebbe quello di considerare "7 x 2" o rispettivamente "7 x 3", oppure "7 + 7" o "7 + 7 + 7" o "7 + 14", ecc.; mentre "7 + 5 = 14 = 24" semplicemente non avrebbe senso. Sarebbe come dire "un cerchio è quadrato": non una proposizione, un predicato ma una mera sequela casuale, insignificante di caratteri tipografici.
E così dicasi di "1 + 0 = 0" e di "1 + 1 = 0"; il caso miracoloso da te proposto sarebbe matematicamente formalizzabile (sensatamente) come "0 + 1 + 1 – 2 = 0" o in altri modi equivalenti come "- 1 - 1" anziché "- 2".
 
I giudizi sintetici a posteriori sono (nozioni significate da) pensieri che riguardano dati di fatto (empirici) reali e, se vogliono essere veri, sono vincolati alle caratteristiche reali dei dati di fatto; per questo non possiamo sostituirli con giudizi analitici a priori, i quali invece son "completamente interni alla teoria, al -alle nozioni significate dal-  pensiero", sono connessioni e inferenze logiche fra concetti definiti arbitrariamente e assiomi arbitrariamente assunti del tutto indipendentemente dalla realtà (empirica): questa è precisamente la ragione che ci impone di non pretendere che i giudizi circa la realtà possano essere analitici a priori: potrebbero esserlo solo se, per assurdo, si desse il caso che::
"pensabile (correttamente, coerentemente, logicamente)" = reale".
 
Ma invece (torniamo sempre su questo "fondamentalissimo principio filosofico! L' autentico "nocciolo della questione"!) il reale può essere, ma non è necessariamente, (anche) pensato (oggetto di pensiero) e il pensato  (l' oggetto di pensiero) può essere, ma non è necessariamente, (anche) reale.
 
Ma allora la realtà è accidentale"?
Rispondo:
La realtà non è necessariamente "pensanda"; cioè si può pensare essere reale ciò che è reale ma anche ciò che non è reale e si può pensare non essere reale ciò che non è reale ma anche ciò che è reale.
Se per "accidentale" intendiamo questo ("non necessariamente pensanda essere così com' è; pensabile non essere anziché essere, ovvero essere diversa da ciò che è, da com' è") allora sì, la realtà è accidentale.
Ma inoltre la realtà è realmente (per definizione) necessariamente ciò che è (così com' è), sebbene sia pensabile diversamente): può essere pensata essere ma non realmente essere diversa da come è, da ciò che é.
E allora se per "accidentale" intendiamo quest' altro ("non necessariamente accadente  realmente - così come accade", ma anche altrimenti" ma casomai solo non necessariamente pensabile accadere realmente -così come accade, ma anche altrimenti- allora no, la realtà non è accidentale.
 
Concordo che l'etica non sia dimostrabile (benché -secondo me- di fatto in parte universalmente diffusa nell' umanità e immutabile in tempi biologici per motivi contingenti, di fatto, rilevabili analiticamente a posteriori, ben compresi dalla teoria scientifica naturale dell' evoluzione biologica per mutazioni genetiche casuali e selezione naturale, correttamente intesa "a la Gould" e non indebitamente, falsamente assolutizzata "a la Dawkins"; e in altra parte mutevole da ambiente sociale –latamente inteso– ad ambiente sociale, transeunte per motivi contingenti, di fatto, rilevabili analiticamente a posteriori, ben compresi dalla teoria scientifica umana del materialismo storico; non posso pretendere che quest' ultimo sia da tutti condiviso per la sua natura di scienza in senso lato o umana, mentre pretendo che -fino all' eventuale improbabile verificarsi di future rivoluzioni scientifiche- la teoria dell' evoluzione biologica sia condivisa da tutti i miei interlocutori per la sua natura di scienza in senso stretto o naturale e per il mio soggettivo, arbitrario, insindacabile non essere disposto a colloquiare di scienza e di filosofia con irrazionalisti antiscientifici).

sgiombo

Citazione di: Sariputra il 11 Febbraio 2017, 15:30:45 PM
Che bisogno ho di "dimostrare" quando  ho assoluta certezza di un'esperienza? Posso dimostrare che sono vivo? Sono però certo che sono vivo e questo indipendentemente se sono vivo nella realtà, in un sogno o in un ologramma. Il dubbio riguarda le cause del perché sono vivo, non l'esperienza di esserlo. La conoscenza del reale è, a mio parere, vera ma limitata. Non posso dimostrare che una mela più un'altra fa sempre logicamente due , ma so per esperienza che, se anche passo la vita a mettere una mela accanto all'altra , mai ne vedrò tre. Similmente se anche un altro uomo passa la vita a mettere queste due mele una accanto all'altra ne vedrà sempre due e non tre. Questo fatto esperienziale crea un assoluto relativo alla condizione umana. La mia mente dispone di una certa struttura logica e semantica che mi permette di formulare un linguaggio con una certa metodologia. Questa struttura è un assoluto relativo alla condizione umana che mi permette di formulare teorie logiche  e semantiche che però non possono essere assolute. Ciò che è assoluto è relativo alla sottostante struttura che rende possibile qualunque teoria su di essa. Chi presenta una nuova teoria logica o semantica si serve della logica e della semantica per poterlo fare. Egli presuppone ciò di cui desidera presentare una teoria. E' la struttura della mente che mette in grado qualunque teoria, anche una della struttura della mente, di fare ciò che tenta di fare. Anche chi parla in nome del relativismo presuppone la validità della logica in questione. La coscienza umana ha una sorta di "centratezza", o autoconsapevolezza che sembra una sorta di quid che ci impedisce di perderci nel torrente infinito delle esperienze relative. Questa centratezza serve a dare quel senso di continuità alla nostra esperienza di vita che sperimentiamo e che ci fa dire "Io sono" ( che questo 'io sono' sia permanente o impermanente e un altro discorso che investe altri fattori esperienziali). Abbiamo molti assoluti relativi alla condizione umana. Ciò che non abbiamo è una conoscenza assoluta che è una impossibilità. Ma la mancanza di una conoscenza assoluta implicva che la conoscenza (relativa alla condizione umana) è falsa? Possiamo definirla limitata, ma non falsa, a mio avviso. La mente dispone pure della capacità di annullare la distinzione soggetto-oggetto tipica del pensiero, e questo avviene a livello delle sensazioni dove si manifesta un'unità materiale in ogni impressione sensoriale. Se vedo, per es. il colore giallo non lo posso negare nemmeno se si tratta di un sogno o di una allucinazione. La sua causa è aperta al dubbio, ma l'esperienza in sé è certa e immediata. Ciò che vedo non è più il mio oggetto: esso è in me e io sono in esso.
E' qualcosa di assoluto relativo all'atto conoscitivo. In ogni atto conoscitivo è presente un'interdipendenza di soggetto e oggetto. In ogni domanda che ci poniamo è già presente qualcosa dell'oggetto su cui ci interroghiamo, altrimenti non potremmo nemmeno porre la domanda. Avere e non avere è la natura stessa degli interrogativi e chi interroga conferma questa struttura interdipendente della coscienza come un assoluto relativo agli uomini in quanto uomini.

CitazionePerò, Sari assoluta certezza c'é solo del fluire delle ("proprie") sensazioni (esteriori e interiori) che immediatamente accadono (se e quando accadono), immediatamente esperite: la realtà potrebbe anche esaurirsi in esse, non eccederle, senza che nulla possa dimostrare il contrario di ciò (né dimostrare ciò).
Un soggetto (oltre che oggetti) delle sensazioni, in aggiunta ad esse, potrebbe benissimo non esserci (come pure esserci).
Come tutte le altre persone comunemente ritenute sane di mente, personalmente credo di esistere come soggetto e che esistano anche oggetti delle (mie) sensazioni (e che nel caso di quelle esterne materiali siano gli stessi delle sensazioni di altri soggetti, costituenti altre esperienze fenomeniche coscienti i cui "contenuti" esterni materiali sono reciprocamente corrispondenti -"poliunivocamente"- fra tutte le esperienze fenomeniche coscienti stesse, compresa ovviamente la mia).
Però (forse da "occidentale razionalista che cerca sempre il pelo nell' uovo"?) per me é -del tutto soggettivamente- importante questo fatto di rendermi conto che queste credenze non sono logicamente dimostrabili né tantomeno empiricamente constatabili ma solo fideisticamente, infondatamente, irrazionalmente credibili (e di fatto credute).

Angelo Cannata

Mi sembra che tutto il discorso di Ceravolo, come anche quelli di tanti altri, tra cui quest'ultimo di Sariputra, non siano altro che tentativi di salvare la metafisica. Ceravolo stesso l'ha detto a chiare lettere:

Citazione di: Vito J. Ceravolo il 30 Gennaio 2017, 19:09:10 PM... così da abbattere ciò che Jim Holt (Perché il mondo esiste?) chiama "l'ultimo baluardo del nichilismo".

Citazione di: Vito J. Ceravolo il 31 Gennaio 2017, 18:17:54 PMLa mia metafisica...

L'andamento del discorso si è un po' complicato solamente perché il metodo di Ceravolo crea un po' di torbido tra linguaggio formale, che di per sé non ha a che vedere con la metafisica, visto che, a somiglianza della matematica, si occupa soltanto di funzionalità formali, e linguaggio riferito al reale. Questo rischio di torbido è stato denunciato da sgiombo:

Citazione di: sgiombo il 31 Gennaio 2017, 08:57:07 AMbisogna innanzitutto distinguere fra realtà (pensata o meno) e pensiero (circa la realtà o meno)

L'ultima proposta di Sariputra mi somiglia ai vari tentativi che tutt'oggi si fanno di salvare la metafisica ribadendo che comunque non ne possiamo fare a meno, oppure che in forme moderate può essere accettata e si può anche rivelare utile.
Mi sembra che in tutto questo ci sia nient'altro che il timore di prendere congedo dalla metafisica, una volta preso atto che essa non ha modo di reggere alla critica. Uno dei motivi di questo timore è una forma mentis che si è talmente immersa in certi modi di pensare da non riuscire a prendere le distanze da essi. Io stesso ho detto poco sopra che, se diciamo che il non essere è, ci autopriviamo della possibilità di pensare. Adesso ho l'occasione di precisare che ci autopriviamo di un certo modo di pensare, non di ogni possibilità del pensare. Qualcuno magari mi dirà che io non potrei fare il discorso che sto facendo adesso se non mi servissi del principio di non contraddizione. Rispondo sì, è vero, ma ciò non toglie che qualsiasi linguaggio possa criticare se stesso e prendere atto delle proprie contraddizioni. Anche la matematica è in grado di criticare se stessa, nel momento in cui va a rifugiarsi in concetti fabbricati ad hoc, come i numeri immaginari o quelli irrazionali. Solo che la matematica è leale, nel momento in cui li dichiara apertamente immaginari o irrazionali, mentre uno stregone che intenda spiegare il mondo parlando di fantasmi e forze oscure non mostra questa lealtà.
Ma il motivo essenziale del timore di prendere le distanze dalla metafisica mi sembra la percezione di non trovare alternative con cui rimpiazzarla; da qui il timore di anarchia, violenza, irresponsabilità e via dicendo. Di fronte a questo timore mi viene da fare una battuta, per un sorriso: non è che per caso tanti siano come dei nonnetti, che amano nient'altro che il calduccio delle loro coperte, impauriti di fronte a qualsiasi prospettiva di pensare diversamente dal solito? La citazione che segue non è riferita al suo autore, ma la riprendo solo perché la trovo significativa per il mio discorso:

Citazione di: Jean il 15 Gennaio 2017, 00:08:48 AMSi sta bene davanti ad una stufa accesa
D'inverno, col gelo di questi giorni
Non c'è cosa migliore

Personalmente mi sembra importante prendere atto che non esistono affermazioni in grado di resistere ad una critica qualsiasi: tutto può essere smontato, demolito. Insomma, la situazione che consegue all'affermare che "il non essere è" non è una situazione da evitare, ma una in cui ormai ci troviamo, fino al collo. L'alternativa è chiudersi in una mentalità, autoprivandosi di ogni dialogo fruttuoso con chi la pensa diversamente, oppure sprecare tempo nel tentativo di resuscitare il cadavere della metafisica, oppure ancora armarsi di pazienza, di coraggio e ricercare.
Un fatto curioso è che gran parte di questo ricercare è stato già fatto da altri, mentre qui ancora si passa il tempo a ripercorrere mentalità tradizionali, nel tentativo di resuscitarle. In questo senso trovo sintomatiche le risposte per me abbastanza scoraggianti che mi furono date quando chiesi come fate a tenervi aggiornati.
Ovviamente io non sono un'arca di scienza, specialmente in fatto di aggiornamento, ma almeno tengo presente la necessità di farlo, di ricercare e di non sprecare tempo nel ripercorrere vie ormai mille volte battute, le cui inconsistenze sono state già mille volte smascherate da chi vi è passato prima di noi.

Sariputra

#44
@ Angelo Cannata
Scusa, ma  ricercare cosa se affermi che nessuna ricerca può resistere al vaglio della critica? Neghi qualsiasi valore alla metafisica, sostituendola con una non meglio precisata "ricerca". Francamente lo trovo estremamente contradditorio. Se affermi che tutto è relativo, qualsiasi approdo delle tue "ricerche" non potrà essere che relativo e quindi...cosa te ne fai?  Piccole soddisfazioni della vita ( fingendo a te stesso che abbiano qualche importanza) ? Meglio alzare il calice e circondarsi di leggiadre fanciulle, se è una questione di piccoli godimenti relativi!! ;D Non ha alcun senso perdere tempo con la ricerca di qualcosa di relativo.  Una ricerca senza obiettivi non è una ricerca; c'è un altro termine per definirla...ma io sono un "nonnetto" molto educato.. ;)
Tra l'altro avevo impostato il mio intervento sulla ricerca di assoluti che io stesso avevo definito come "relativi alla condizione umana". Non vedo quindi cosa c'entri la critica di "tentar di salvare la metafisica", da cui , come ben sai, mi tengo alla larga come visione dogmatica del reale ( ma nello stesso tempo mi tengo alla larga anche da un relativismo che non può che sfociare, se si è onesti con se stessi, in un assoluto nichilismo). Mi piacerebbe che , alla fine, definissi in concreto quel che intendi come "un altro modo di pensare" di cui scrivi spesso. Se sei un marziano o un venusiano, con una struttura cerebrale diversa dalla mia, non credo che potremo mai intenderci, non più di quel che intende il mio asino quando raglia... ::)  
C'è molta arroganza nella parte finale del tuo scritto, caro Angelo, un chiaro sentimento di superiorità che capisco come ti rendesse oltremodo difficile la permanenza all'interno di un'istituzione che richiede umiltà...non ha alcuna importanza , per me, che il ricercare sia già stato fatto da altri. Anche il buon vino è stato prodotto dalla notte dei tempi, ciò non toglie che ogni assaggio è sempre nuovo, se è la mia esperienza, qui e ora.

P.S: Cosa avrebbero dimostrato le ricerche fatte da altri? Che tutto è relativo? Beh...lo sono anche le dimostrazioni in questo caso. ;D ;D Che fai, mi prendi come assoluto la struttura mentale che stabilisce che ogni cosa si è dimostrata relativa?...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

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