Osservazioni e dubbi sul pensiero di Jacques Derrida.

Aperto da Socrate78, 29 Dicembre 2020, 17:38:42 PM

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Socrate78

Il filosofo Jacques Derrida ha basato la sua speculazione sul paradigma della decostruzione, secondo la sua visione è necessario decostruire ogni testo per rivelare la sostanziale assenza di significato delle parole stesse e il loro non essere costruite su un significato univoco e solido. Almeno, è quello che mi sembra di comprendere.
Derrida afferma inoltre che la civiltà occidentale si è sempre basata sul logocentrismo, cioè sul primato della comunicazione orale su quella scritta, per cui la parola sarebbe sempre meglio della scrittura per la trasmissione dei contenuti. Invece per Derrida è il contrario, la scrittura sarebbe superiore alla parola stessa. Tuttavia mi sfugge questo concetto, cioè non riesco a comprendere come mai il filosofo dia preminenza alla scrittura, quale sarebbe il ragionamento che vi è dietro?

viator

Salve Socrate78. Citandoti : "Tuttavia mi sfugge questo concetto, cioè non riesco a comprendere come mai il filosofo dia preminenza alla scrittura, quale sarebbe il ragionamento che vi è dietro".

Il ragionamento, appunto. Evidentemente tu non hai ragionato sul fatto che per scrivere, occorre prima pensare (ragionare), quindi poi passare allo scriverlo.


Mi risulta che, invece, la parola possa tranquillamente risultare praticamente simultanea al pensiero.


Che una banale evidenza di questo genere ti sia sfuggita........mi sorprende.


Quindi lo scritto è espressione "mediata" mentre il detto può risultare espressione immediata, cioè non meditata, molto molto spesso non ragionata (secondo te sono più numerose le scemenze che vengono pronunziate o quelle che vengono scritte?).


Secondo te tra una persona che parla troppo ed una persona che scrive troppo.................quale differenza ci sarebbe?.



La differenza è che lo scrivere troppo è quasi impossibile vista la fatica fisica e mentale che richiede, mentre anche una umile "gallina" in veste umana può permettersi di parlare per ore ed ore. Saluti.


Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

anthonyi

Per come ho inteso io, la decostruzione è un metodo di analisi del linguaggio che serve ad evitare che nei concetti si accumulino significati non essenziali, un modo per eliminare il superfluo.
Poi magari ci si accorge che "sotto il vestito niente", e allora si evidenzierebbe il caso descritto da Socrate, ma non è detto che sia sempre così.

Ipazia

La materializzazione del pensiero in simbolo funziona un po' come il bigbang: dal nulla all'universo. Nel caso specifico: dal nulla naturalistico all'universo antropologico.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

atomista non pentito

Citazione di: Socrate78 il 29 Dicembre 2020, 17:38:42 PM
Il filosofo Jacques Derrida ha basato la sua speculazione sul paradigma della decostruzione, secondo la sua visione è necessario decostruire ogni testo per rivelare la sostanziale assenza di significato delle parole stesse e il loro non essere costruite su un significato univoco e solido. Almeno, è quello che mi sembra di comprendere.
Derrida afferma inoltre che la civiltà occidentale si è sempre basata sul logocentrismo, cioè sul primato della comunicazione orale su quella scritta, per cui la parola sarebbe sempre meglio della scrittura per la trasmissione dei contenuti. Invece per Derrida è il contrario, la scrittura sarebbe superiore alla parola stessa. Tuttavia mi sfugge questo concetto, cioè non riesco a comprendere come mai il filosofo dia preminenza alla scrittura, quale sarebbe il ragionamento che vi è dietro?
Forse perché "scripta manent ?" ( cosa non banale in questi tempi di "cambio casacca" anche intellettuale)

InVerno

Secondo Derrida stesso la decostruzione è "essere attenti alla sedimentazione storica del linguaggio".. cioè quello che fanno lessicografi e linguisti da più di trecento anni.. ma la differenza rispetto al passato, è la forma in cui questa operazione viene esposta, ovvero la decostruzione come la scoperta di un "fluido idrolico traslucente sull'alveo di una cavità ovoidale sostenuta da blocchi lapidei accatastati isostaticamente", quella che fuori dalle accademie sokal-istiche è anche detta acqua in fondo al pozzo.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Phil

Derrida è uno degli autori che più ha dialogato con il linguaggio, ovvero avendo il linguaggio come interlocutore privilegiato: sollecitandolo, provocandolo, (s)forzandolo e (r)aggirandolo. La difficoltà di comprensione che ne consegue è principalmente quella che non consente di tracciare, nella sua riflessione, uno schema di assiomi dal contenuto perentorio, o un paradigma strutturato e "sostanziale" del suo pensiero (come avviene per i filosofi più "classici" e/o meno ermeneutici, che in ciò presentano un approccio più agevole poiché più sintetizzabile in stile Bignami).
L'attività di interpretazione e decostruzione che Derrida rivolge al(la storia del) pensiero filosofico occidentale non è la mera applicazione ridondante di categorie preimpostate o di un approccio univoco: tutti i differenti modi con cui Derrida stesso ha testualmente "definito" e praticato la decostruzione, dimostrano che la sua non è una filosofia che si presti a facili sintesi e categorizzazioni (a partire dal confronto con la fenomenologia di Husserl, di cui la decostruzione è "figlia degenere", fino agli sviluppi più sociopolitici).
Riprendendo l'immagine di InVerno, direi che l'abilità di Derrida non è nel riconoscere che in fondo al pozzo c'è l'acqua, ma nel sapere dove e come scavare pozzi che decostruiscano (non «distruggano») la rete di approvvigionamento idrico già esistente (v. metafisica), aprendo nuovi canali e nuovi flussi, permettendo così ulteriori "raccolti" (di senso). La tonalità ermeneutica del pensiero derridiano lo rende infatti quasi inscindibile dal double bind che lo lega ai testi (e agli autori) che contamina e su cui dissemina la propria decostruzione; e questa è forse una delle poche constanti del suo percorso filosofico: «una decostruzione, se non vi si arresta, non procede mai tuttavia senza un lavoro parallelo sul sistema che tenga unito in sé stesso questo superamento, che articoli, come si suol dire, la psicanalisi al marxismo o a qualche niccismo, alle risorse della linguistica, della retorica o della pragmatica, alla teoria degli speech acts, al pensiero heideggeriano sulla storia della metafisica, l'essenza della scienza o della tecnica, ecc.» (cit.).

A mio giudizio, se si ambisce a parlarne complessivamente (e non complessamente), non è uno di quegli autori "da wikipedia", "bignamizzabili" a prescindere dall'osservazione della messa in atto testuale del loro filosofare; sarebbe come leggere una descrizione di uno sport e pensare di averlo "capito" (e magari provare a "valutarlo") senza aver mai visto lo svolgimento di una partita. Basti considerare quanto sia sintomatica la sua duplice ricezione: in ambito analitico, come teoria critica letteraria, e in ambito continentale come postmetafisica. Probabilmente è più agevole leggere un suo testo sotto l'ombrellone o vicino all'albero di Natale, piuttosto che cercare di parlarne, come sto facendo ora, "in generale" (non credo sia l'unico in questa categoria di filosofi "ostili" e al contempo, forse proprio per questo, banalizzabili e strumentalizzabili).

InVerno

Citazione di: Phil il 30 Dicembre 2020, 15:49:26 PM
Riprendendo l'immagine di InVerno, direi che l'abilità di Derrida non è nel riconoscere che in fondo al pozzo c'è l'acqua, ma nel sapere dove e come scavare pozzi che decostruiscano (non «distruggano») la rete di approvvigionamento idrico già esistente (v. metafisica), aprendo nuovi canali e nuovi flussi, permettendo così ulteriori "raccolti" (di senso). La tonalità ermeneutica del pensiero derridiano lo rende infatti quasi inscindibile dal double bind che lo lega ai testi (e agli autori) che contamina e su cui dissemina la propria decostruzione; e questa è forse una delle poche constanti del suo percorso filosofico: «una decostruzione, se non vi si arresta, non procede mai tuttavia senza un lavoro parallelo sul sistema che tenga unito in sé stesso questo superamento, che articoli, come si suol dire, la psicanalisi al marxismo o a qualche niccismo, alle risorse della linguistica, della retorica o della pragmatica, alla teoria degli speech acts, al pensiero heideggeriano sulla storia della metafisica, l'essenza della scienza o della tecnica, ecc.» (cit.).

I rabdomanti trovano acqua perchè in qualsiasi punto della terra, anche fosse il deserto, si trova acqua, basta armarsi di pazienza e determinazione. La conoscenza dei rabdomanti non è "bignamizzabile" ne è possibile tirarne fuori un sistema di determinazione della profondità, i maligni dicono perchè "non ne hanno uno", i benigni perchè "è un un dono". A volte, nelle nostre società iperconsumistiche si fantastica che cosa sarebbe una società se gli intellettuali fossero riveriti al posto delle celebrities, se dovessero preparare per domenica un idea "nuova" per accapparrarsi la copertina di LeMonde, e la società fosse pronta a riverirli come delle superstar, con la precisa missione di rivoluzionare il mondo attraverso la propria "grandeur". Penso che a volte ci si dimentica che questo esperimento è già stato fatto..
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Phil

Distinguerei il rabdomante, che ha buon gioco nel puntare il bastone in terra e profetizzare «scavate (voi), e troverete l'acqua» (frase che bignamizza le sua conoscenza), da chi quei pozzi li (de)costruisce e li "imbastisce" in prima persona, facendo attenzione, come detto, non al fatto che ci sia l'acqua (o il petrolio), ma al come e dove far scorrere ciò (il senso) che vi rintraccia.

Riverire gli intellettuali al posto delle celebrities avrebbe senso, per me, solo se le gente capisse qual è il contributo di un intellettuale (non certo quello di scrivere libri, ma semmai il loro contenuto), che è meno intuitivo e abbordabile del capire il contributo di twittare su rossetti e fondotinta, o incidere canzoni ascoltabili e fischiettabili in qualche minuto, o recitare in film diretti da altri, secondo copioni scritti da altri, etc. Mettere l'intellettuale in prima pagina può far parte di trend editoriali o essere una mossa di marketing; tuttavia se la scelta (per chi può) è quella fra ricordarsi di Kant soprattutto come quello che (vado a memoria) passeggiava tutti i giorni alla stessa ora sulla stessa strada, oppure come quello che ha scritto le tre critiche, è una scelta che, in questa sezione, scommetto molti sono in grado di fare evitando di subire troppo il fascino del gossip e delle copertine (senza riferirmi a te, ma in generale, direi che "valutare" un autore non avendone letto almeno qualche testo "impegnato" o almeno un po' di letteratura secondaria è, secondo me, una scommessa ingrata, verso se stessi e verso l'autore... specialmente se è di quelli asistematici e poliedrici).
Le domande poste da Socrate78 (il tema della decostruzione, il logocentrismo, etc.), se si volesse restare aderenti a Derrida, chiamano in causa alcuni temi meno banali di quanto possa sembrare, la cui adeguata sintesi "da forum" potrebbe non essere facile (per me non lo è di certo, infatti mi astengo dal provarci).

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