Ontologia, ovvero come perdersi nel non essere

Aperto da bobmax, 04 Luglio 2024, 06:44:40 AM

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iano

#30
Citazione di: Alberto Knox il 25 Agosto 2024, 23:45:07 PMl'oggetto rosa si mette in gioco in quanto oggetto e io mi metto in gioco come soggetto conoscitivo , la rosa si presta , potremmo dire, ad essere conosciuta, e io mi presto , con i miei modi della percezione a conoscerla.
Possiamo dirlo finché al variare dei modi La rosa ''sostanzialmente resta'', ma cosa succede quando sperimento un nuovo modo col quale la sua supposta sostanza sembra sparire, osservandola ad esempio con un microscopio col quale vedo un agglomerato di atomi?
Come faccio allora a risalire da quel grumo di atomi alla rosa, se già non sapessi che ne sono parte?
sappiamo di essere in grado di farlo se da da poche stelle siamo risaliti all'intero universo, o quasi, perchè quest'opera in effetti non è conclusa.
Così siamo risaliti alla galassia allo stesso modo che risaliremmo alla rosa, ma senza  chiederci quale sia l'essenza della galassia, ma chiedendoci semmai quale sia l'essenza dell'universo che viene così a delinearsi progressivamente.
Alla fine dovremo ammettere che chiamiamo convenzionalmente galassia un gruppo ravvicinato di stelle, e rosa un gruppo ravvicinato di atomi.
Nessuna novità. l'atomismo non lo abbiamo inventato noi.
Quello che gli atomisti non potevano sapere è che guardando dentro l'atomo non c'è in esso un essenza che ci impedisce di vedere oltre, ponendosi come barriera insuperabile alla conoscenza.
Di fatto abbiamo scambiato quindi i relativi limiti del nostro modo di osservare, con un limite che ci poneva ciò che osservavamo.
Dunque in che nuovo senso  possiamo dire ancora oggettiva la nostra conoscenza, se l'oggetto di questa conoscenza si mostra così sfuggente?
In questo nuovo senso io direi che oggettivamente la realtà a parità di sollecitazione risponde sempre allo stesso modo.
Il modo di osservare prende cioè il sopravvento su ciò di cui la realtà sembra essere fatta se osservata in un certo modo.
inoltre seppure vi fosse un ''oggetto'' da osservare, il principio di indeterminazione ci dice che ciò che vediamo è in effetti l'oggetto così come la nostra osservazione lo ha modificato.
Se c'è un limite quindi questo non è relativo all'osservato, né all'osservatore, ma all'osservazione, relativo cioè al rapporto fra osservatore e osservato.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

iano

#31
Possiamo dunque dire che non la rosa, ma la realtà si presti ad essere osservata, e che la rosa sia invece il prodotto di un relativo modo di osservarla?
Che la rosa sia cioè  il prodotto relativo a un modo, che non è univoco, essendo diversi i possibili modi, di osservare la realtà?

Quello che sappiamo ''oggettivamente''  è che se ripetiamo l'osservazione, avendola tarata ad esempio sulla ''modalità rosa'', ancora un altra rosa apparirà.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

daniele22

Citazione di: Koba II il 25 Agosto 2024, 14:57:21 PMOgni atto conoscitivo ...
Ciao, citandoti:
"Ogni atto conoscitivo comporta la relazione tra un soggetto e una cosa, tra un osservatore e un osservato.
Non esiste alcuna forma di conoscenza che possa trascendere questa relazione.
Porre il problema di come sia la realtà in sé, la cosa in sé, indipendentemente da ogni nostra possibile osservazione, è un errore, una contraddizione."
Sono d'accordo nella prima parte. Per la seconda parte, porre il problema di come sia la realtà in sé sarebbe a mio giudizio un errore fintanto che si consideri un approccio al problema come tu giustamente lo delinei così come vado a citarti:
"Per esempio quando noi ci domandiamo: come sarà in realtà la cosa che sto osservando ora, indipendentemente dalla prospettiva particolare con cui la sto guardando in questo momento? Di fatto stiamo costruendo un'immagine mentale che consiste nella cosa isolata in una specie di spazio vuoto."
Però, se io cerco di inquadrare la realtà o la cosa (essere umano in particolare) nella dimensione del divenire, ¿cosa posso dedurne?. Posso dedurne che nel manifestarsi del fenomeno, l'agente causativo che sta agendo nell'individuo, incerto ai nostri occhi, sarebbe incerto soprattutto perché la realtà, la cosa, mettono in scena un esperimento, inconsapevole a noi almeno fino a un certo punto, ma comunque esperimento la cui peculiarità sarebbe la sua irripetibilità ... poi ci sono i professionisti che generano degli artefatti, ma questo è un altro discorso ... Per dirla con Eraclito insomma, non ci si bagna due volte nello stesso fiume, ma la seconda volta probabilmente, non certamente, troverò ancora un fiume. E così mi chiedo: come reagirà il mio esserci (o essere?) nel secondo fiume? Posso risolvere la domanda rinunciando all'immobiltà dell'essere, subordinandolo al divenire e rendendolo così "permanente", ma con la possibilità di fluttuare istante dopo istante.
Citandoti ancora:
"Ma se la stiamo immaginando (la realtà) vuol dire, di nuovo, che la stiamo osservando (anche se solo interiormente), che è il nostro Io il soggetto che osserva, anche se fingiamo l'assenza di ogni osservatore.
Parlare di mappa e territorio si vede bene che in fondo non ha alcun senso."
Beh, nel mio caso sfondi una porta aperta visto che a mio vedere c'è coincidenza tra realtà e conoscenza, entrambe soggettive. E infatti, citandoti nuovamente:
"Se ci chiediamo poi se vi sia qualcosa che possa rappresentare una base, un fondamento, qualcosa che sappia indicare i confini di ciascuno dei due poli, l'osservato e l'osservatore, dobbiamo ammettere che non c'è alcun fondamento."
In realtà un fondamento c'è, ma lo vedo solo io e sarebbe il nostro solipsismo, inconsapevole!!. Proseguendo:
"L'Io sprofonda nell'inconscio, poi nel corpo, poi nei corpi e nei pensieri di coloro che ci hanno preceduti."
Giusto, infatti, fatta salva la conoscenza che deriva da esperienza personale il resto sarebbe tutto eterodiretto evidenziando una naturale prospettiva di escalation della conoscenza che si compie mettendo in competizione tra loro i partecipanti ed evidenziando chi possa saperne di più: corsa molto pretenziosa, che sicuramente ha prodotto molta tecnologia, ma assai poco in termini di filosofia. Nota: Abitudine all'escalation, altro tratto costante nelle vicende umane.
Quello che ti contesterei alla fine dei giochi è questo tuo dire:
"L'unica questione vera è la domanda sull'adeguatezza dei nostri discorsi non rispetto alla cosa così com'è nel suo puro isolamento, ma rispetto a come la cosa ci appare, a come essa si manifesta.
Il problema è l'adeguatezza dei segni linguistici scelti nel dar conto dell'osservazione che stiamo conducendo sulla cosa, osservazione che non può essere di tipo panottico, ma sempre relativa ad una specifica prospettiva."
C'è qualcosa che forse mi sfugge, ma se il problema fosse un uso improprio dei segni linguistici non posso certo credere che il problema sia questo. Può succedere nelle fasi iniziali di un dialogo, ma nel suo svolgimento ci si dovrebbe dar conto degli equivoci che emergono. E Cacciari? Non penso che il professore che pretende di mettere in discussione i paradigmi della filosofia moderna e contemporanea possa avere dialoghi con suoi pari in cui vi sia un uso improprio dei segni linguistici. Il problema sarebbe invece a mio vedere quello che ho già citato, ma che vedo solo io: il nostro solipsismo inconsapevole e pretenzioso oltre misura

Koba II

Citazione di: Alberto Knox il 25 Agosto 2024, 20:06:50 PMpossiamo riassumere il tutto dicendo che la conoscenza data all uomo è una conoscenza puramente empirica. Perfettamente in accordo con Hume.

No, perché appunto l'osservatore non è puro, non è un Io trascendentale, e i dati grezzi che raccoglie sono già impregnati di teoria.

Citazione di: Alberto Knox il 25 Agosto 2024, 20:06:50 PMnon come sarà in realtà , ma  che cos'è al di la delle caratteristiche accidentali che la caratterizzano. Se siamo di fronte ad una rosa possiamo elencarne le caratteristiche; è rossa, è profumata, ha le spiene, è piantata in giardino, ha i petali vellutati ecc. ma se togli tutte queste caratteristiche accidentali rimane quella che Aristotele chiama la prima categoria "la rosa è" questa è la sostanza Aristotelica . Oltre i modi con  cui la rosa si manifesta ai nostri sensi ( profumo, spine, sta in giardino, rossa) esiste per Aristotele un substratum, egli si chiede che cos'è la rosa al di là che ha le spine che è rossa e che è piantata nel giardino. Al di la di queste caratteristiche la rosa è . Quella è la sostanza , quello che è intrinsecamente , quello che la descriverebbe in modo sostanziale il suo essere rosa, la sua interiorità (se si può dire così nei riguardi di una rosa)  che fa da unficatore sulle quali poggiano le caratteristiche sensibili. Ma potendo conoscere solo ciò di cui facciamo esperienza quella iteriorità essenziale , intima , sostanziale della rosa noi non la possiamo conoscere ,non possiamo accedervi per farne esperienza. Hume nega la sua stessa esistenza , kant la postula come la X ignota, la filosofia del limite . Il noumeno è quel limite. Hume invece sostiene che se anche ci fosse a noi non è dato saperlo.

In Aristotele il problema dell'ousia, dell'essenza, è innanzitutto il problema lasciato aperto da Platone sul rapporto tra mondo intelligibile e mondo sensibile. La rosa è tale perché partecipa (in modo imperfetto) all'idea/essenza della rosa. Ma come avviene questa partecipazione?
La soluzione che fornisce Aristotele ha a che fare con la dottrina delle cause e con i concetti di atto e potenza (1).
In fondo il vero problema non è tanto la possibilità di riconoscere che la rosa sia una rosa, fuori dal tempo.
Il problema sta nel capire come l'identità della rosa si mantenga nonostante i mutamenti a cui è sottoposta, come tutte le cose di questa terra.
La sostanza è pura potenzialità che va assumendo una specifica forma, che realizza appieno la sua forma, perché i processi della natura seguono dei fini.
Fa parte della natura della rosa crescere, sbocciare, svilupparsi in modo da diventare quello che deve e vuole essere: una rosa.
Non è la forma ad essere misteriosa, piuttosto il suo perché.
Se però togliamo ogni teleologia, come ha fatto la filosofia moderna nella gigantesca polemica contro la tradizione aristotelico-tomistica (a favore della scienza moderna), il perché rimane senza risposta, il perché delle regolarità, della permanenza dell'identità nei mutamenti progressivi: il perché diventa per forza di cose qualcosa che non potremo mai conoscere.

Ma c'è un perché?


(1) "Realmente gli esperimenti hanno mostrato la completa mutabilità della materia. Tutte le particelle elementari possono, ad energie sufficientemente alte, essere trasmutate in altre particelle, o possono semplicemente venir create dall'energia cinetica o risolversi in questa, ad esempio in radiazione. Ed è questa la prova finale dell'unità della materia. Tutte le particelle elementari sono fatte della stessa sostanza, che può esser chiamata energia o materia universale; sono soltanto forme diverse in cui la materia può manifestarsi.
Se confrontiamo questa situazione con i concetti aristotelici di materia e forma, possiamo dire che la materia di Aristotele, che è pura "potentia", dovrebbe essere paragonata al nostro concetto di energia, che passa all'attualità per mezzo della forma quando viene creata la particella elementare".
["Fisica e filosofia", Werner Heisenberg, ed. Feltrinelli, p. 160]

Koba II

Citazione di: daniele22 il 26 Agosto 2024, 08:45:51 AMCiao, citandoti:
"Ogni atto conoscitivo comporta la relazione tra un soggetto e una cosa, tra un osservatore e un osservato.
Non esiste alcuna forma di conoscenza che possa trascendere questa relazione.
Porre il problema di come sia la realtà in sé, la cosa in sé, indipendentemente da ogni nostra possibile osservazione, è un errore, una contraddizione."
Sono d'accordo nella prima parte. Per la seconda parte, porre il problema di come sia la realtà in sé sarebbe a mio giudizio un errore fintanto che si consideri un approccio al problema come tu giustamente lo delinei così come vado a citarti:
"Per esempio quando noi ci domandiamo: come sarà in realtà la cosa che sto osservando ora, indipendentemente dalla prospettiva particolare con cui la sto guardando in questo momento? Di fatto stiamo costruendo un'immagine mentale che consiste nella cosa isolata in una specie di spazio vuoto."
Però, se io cerco di inquadrare la realtà o la cosa (essere umano in particolare) nella dimensione del divenire, ¿cosa posso dedurne?. Posso dedurne che nel manifestarsi del fenomeno, l'agente causativo che sta agendo nell'individuo, incerto ai nostri occhi, sarebbe incerto soprattutto perché la realtà, la cosa, mettono in scena un esperimento, inconsapevole a noi almeno fino a un certo punto, ma comunque esperimento la cui peculiarità sarebbe la sua irripetibilità ... poi ci sono i professionisti che generano degli artefatti, ma questo è un altro discorso ... Per dirla con Eraclito insomma, non ci si bagna due volte nello stesso fiume, ma la seconda volta probabilmente, non certamente, troverò ancora un fiume. E così mi chiedo: come reagirà il mio esserci (o essere?) nel secondo fiume? Posso risolvere la domanda rinunciando all'immobiltà dell'essere, subordinandolo al divenire e rendendolo così "permanente", ma con la possibilità di fluttuare istante dopo istante.
Citandoti ancora:
"Ma se la stiamo immaginando (la realtà) vuol dire, di nuovo, che la stiamo osservando (anche se solo interiormente), che è il nostro Io il soggetto che osserva, anche se fingiamo l'assenza di ogni osservatore.
Parlare di mappa e territorio si vede bene che in fondo non ha alcun senso."
Beh, nel mio caso sfondi una porta aperta visto che a mio vedere c'è coincidenza tra realtà e conoscenza, entrambe soggettive. E infatti, citandoti nuovamente:
"Se ci chiediamo poi se vi sia qualcosa che possa rappresentare una base, un fondamento, qualcosa che sappia indicare i confini di ciascuno dei due poli, l'osservato e l'osservatore, dobbiamo ammettere che non c'è alcun fondamento."
In realtà un fondamento c'è, ma lo vedo solo io e sarebbe il nostro solipsismo, inconsapevole!!. Proseguendo:
"L'Io sprofonda nell'inconscio, poi nel corpo, poi nei corpi e nei pensieri di coloro che ci hanno preceduti."
Giusto, infatti, fatta salva la conoscenza che deriva da esperienza personale il resto sarebbe tutto eterodiretto evidenziando una naturale prospettiva di escalation della conoscenza che si compie mettendo in competizione tra loro i partecipanti ed evidenziando chi possa saperne di più: corsa molto pretenziosa, che sicuramente ha prodotto molta tecnologia, ma assai poco in termini di filosofia. Nota: Abitudine all'escalation, altro tratto costante nelle vicende umane.
Quello che ti contesterei alla fine dei giochi è questo tuo dire:
"L'unica questione vera è la domanda sull'adeguatezza dei nostri discorsi non rispetto alla cosa così com'è nel suo puro isolamento, ma rispetto a come la cosa ci appare, a come essa si manifesta.
Il problema è l'adeguatezza dei segni linguistici scelti nel dar conto dell'osservazione che stiamo conducendo sulla cosa, osservazione che non può essere di tipo panottico, ma sempre relativa ad una specifica prospettiva."
C'è qualcosa che forse mi sfugge, ma se il problema fosse un uso improprio dei segni linguistici non posso certo credere che il problema sia questo. Può succedere nelle fasi iniziali di un dialogo, ma nel suo svolgimento ci si dovrebbe dar conto degli equivoci che emergono. E Cacciari? Non penso che il professore che pretende di mettere in discussione i paradigmi della filosofia moderna e contemporanea possa avere dialoghi con suoi pari in cui vi sia un uso improprio dei segni linguistici. Il problema sarebbe invece a mio vedere quello che ho già citato, ma che vedo solo io: il nostro solipsismo inconsapevole e pretenzioso oltre misura
Sono d'accordo con te sia sul solipsismo che sullo spirito competitivo di coloro che si dedicano al sapere (basta pensare a personaggi come Eraclito e Parmenide, ma anche in Socrate si nota un certo disprezzo dell'altro, occultato dal sarcasmo – su ciò Nietzsche ci aveva visto giusto, come sempre).
Per quanto riguarda invece la questione del problema dell'adeguatezza del sistema di segni, si può interpretare l'uso della matematica o della logica formale proprio come tentativo (riuscito) di eliminare l'elemento simbolico e quindi ambiguo, infinitamente interpretabile, del linguaggio naturale.
Precisione straordinaria di un sistema destinato però ad essere incompleto (teoremi di Gödel), cioè a inglobare alcuni principi di cui il sistema stesso non può dar conto (anche qui: una specie di assenza di fondamento).
Quindi siamo destinati o al fraintendimento infinito del dialogo o ad una precisione semantica che però si basa sulla fede in alcuni principi di base. Dunque in ogni caso non c'è modo di costringere l'altro a convincersi dei nostri risultati.
In effetti la situazione è un po' paradossale, e se non sbaglio ne parla anche Cacciari nella conferenza postata da green demetr, riferendosi al mito della caverna: perché colui che ha ricevuto il dono di "vedere" torna indietro per liberare i prigionieri?
Altruismo o smisurata presunzione?
Cacciari, che conosco solo per la lettura e rilettura di "Metafisica concreta" (un grande libro di filosofia, veramente notevole), evidentemente crede nell'elemento politico della filosofia, e non si risparmia.

Alberto Knox

Citazione di: Koba II il 26 Agosto 2024, 13:23:40 PMIn fondo il vero problema non è tanto la possibilità di riconoscere che la rosa sia una rosa, fuori dal tempo.
ma non è mai stato questo il vero problema che si stava affrontando in questa sede.
Citazione di: Koba II il 26 Agosto 2024, 13:23:40 PMsono soltanto forme diverse in cui la materia può manifestarsi.
mi sembra un punto essenziale , quel "soltanto" non sminuisce affatto la potenza di questa assunzione ma anzi ci deve far riflettere su come può l'universo, una volta venuto alla luce, generare in seguito cose completamente nuove seguendo le leggi della natura , in altre parole; qual'è la sorgente della potenza creativa dell universo?
Noli foras ire , in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas.

Alberto Knox

Citazione di: Koba II il 26 Agosto 2024, 13:23:40 PM
Citazionepossiamo riassumere il tutto dicendo che la conoscenza data all uomo è una conoscenza puramente empirica. Perfettamente in accordo con Hume.

No, perché appunto l'osservatore non è puro, non è un Io trascendentale, e i dati grezzi che raccoglie sono già impregnati di teoria.
ma conoscenza empirica non significa conoscenza perfetta della realtà, significa un metodo che parte dai fenomeni così come si presentano a noi. Che poi tale osservazione si sviluppa in analisi successive , appunto con le teorie , non infincia il fatto che l'uomo, così come siffatto, non può andare oltre al fenomeno di come gli appare . In questo senso l'uomo può avere solo una conoscenza empirica del mondo.
Noli foras ire , in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas.

Koba II

Citazione di: Alberto Knox il 26 Agosto 2024, 15:26:21 PMma conoscenza empirica non significa conoscenza perfetta della realtà, significa un metodo che parte dai fenomeni così come si presentano a noi. Che poi tale osservazione si sviluppa in analisi successive , appunto con le teorie , non infincia il fatto che l'uomo, così come siffatto, non può andare oltre al fenomeno di come gli appare . In questo senso l'uomo può avere solo una conoscenza empirica del mondo.
Nessuno mette in discussione la bontà del principio dell'empirismo secondo cui, nella conoscenza, si deve partire dall'esperienza.
Il problema che però viene posto fin dall'inizio da Platone è il seguente: come faccio a riconoscere la rosa se non ho conoscenza di una rosa, o di un fiore o del mondo vegetale in generale?
Avrò di essa singole sensazioni che non sarò in grado di articolare insieme, quindi non potrò mai fare esperienza della rosa. Resterà per me qualcosa di inattingibile.
Cioè la conoscenza empirica presuppone necessariamente una conoscenza anteriore (non per forza innata, come voleva Platone).
Nella conoscenza scientifica la cosa è ancora più evidente: certo, si parte dall'osservazione del fenomeno, ma già scegliendo la strumentazione attraverso cui condurre le misurazioni "incanalo" l'esperienza secondo una specifica direzione. Così vedrò o non vedrò ciò che mi aspetto di trovare.

Citazione di: Alberto Knox il 26 Agosto 2024, 15:15:30 PMma non è mai stato questo il vero problema che si stava affrontando in questa sede.
[...]
mi sembra un punto essenziale , quel "soltanto" non sminuisce affatto la potenza di questa assunzione ma anzi ci deve far riflettere su come può l'universo, una volta venuto alla luce, generare in seguito cose completamente nuove seguendo le leggi della natura , in altre parole; qual'è la sorgente della potenza creativa dell universo?
Ma non sei stato tu a porre la questione aristotelica dell'ousia?
Comunque sia, seguendo Aristotele, scegliendo di trattare la questione della forma della cosa come effetto di una causa, concatenando le cose in rapporti causali, inevitabile è arrivare a porre la questione della Causa prima, dell'Inizio, dell'Origine.
Quella scienza che non ha abbandonato il paradigma deterministico è costretta anch'essa a interrogarsi sull'Inizio? Ponendosi quindi nel proprio compimento come vera metafisica?

Alberto Knox

Citazione di: Koba II il 26 Agosto 2024, 17:38:33 PMIl problema che però viene posto fin dall'inizio da Platone è il seguente: come faccio a riconoscere la rosa se non ho conoscenza di una rosa, o di un fiore o del mondo vegetale in generale?
Avrò di essa singole sensazioni che non sarò in grado di articolare insieme, quindi non potrò mai fare esperienza della rosa. Resterà per me qualcosa di inattingibile.
Appunto, possiamo quindi avere solo una conoscenza fenomenica della rosa , la possiamo toccare, vedere, sentire con l olfatto, descriverla per come ci appare, avere un idea di rosa nella mente ma non possiamo accedere alla sua essenza o interiorità (sempre ammesso che si possa usare tale termine nei confronti di una rosa). Per tale motivo la conoscenza è limitata all esperienza empirica.
Citazione di: Koba II il 26 Agosto 2024, 17:38:33 PMCioè la conoscenza empirica presuppone necessariamente una conoscenza anteriore (non per forza innata, come voleva Platone).
questo non può essere vero, il bambino si scotterà molte volte prima di dedurne una legge organizzata, il fuoco brucia.
Citazione di: Koba II il 26 Agosto 2024, 17:38:33 PMNella conoscenza scientifica la cosa è ancora più evidente: certo, si parte dall'osservazione del fenomeno, ma già scegliendo la strumentazione attraverso cui condurre le misurazioni "incanalo" l'esperienza secondo una specifica direzione. Così vedrò o non vedrò ciò che mi aspetto di trovare.
certo se guardiamo il mondo dal punto di vista matematico esso ci appare computabile , se lo guardiamo dal punto di vista newtoniano o meccanicistico esso ci apparirà deterministico , se lo guardiamo dal punto di vista di Einstein ci apparirà relativo, se lo guardiamo dal punto di vista della meccanica quantistica ci appare probabilistico, se lo guardiamo dal punto di vista olistico si scoprono sistemi dove il tutto non corrisponde affatto alla somma delle sue parti, che sono la stragran maggioranza dei sistemi naturali. Non dobbiamo stupirci, diceva kant, se mettendo degli occhiali con le lenti rosa il mondo ci apparirà roseo.  Noi stessi,con le nostre forme della percezione , siamo un paio di occhiali con i quali conosciamo il mondo. E la conoscenza non può altro che essere limitata all empirismo, ovvero all esperienza.
Citazione di: Koba II il 26 Agosto 2024, 17:38:33 PMMa non sei stato tu a porre la questione aristotelica dell'ousia?
ho portato la questione della prima categoria Aristotelica che è la sostanza ma nessuno fin ora aveva posto la rosa fuori dal tempo. Non serve immaginarla fuori dal tempo per parlare di sostanza.
Citazione di: Koba II il 26 Agosto 2024, 17:38:33 PMComunque sia, seguendo Aristotele, scegliendo di trattare la questione della forma della cosa come effetto di una causa, concatenando le cose in rapporti causali, inevitabile è arrivare a porre la questione della Causa prima, dell'Inizio, dell'Origine.
Quella scienza che non ha abbandonato il paradigma deterministico è costretta anch'essa a interrogarsi sull'Inizio? Ponendosi quindi nel proprio compimento come vera metafisica?
la mia risposta è NO. Non è l'inizio la questione fondamentale, questione che faccio risalire partendo da una premessa; Esistono evidentemente dei processi fisici che sono in grado di trasformare il vuoto ( o qualcosa ad esso di molto simile)  in stelle, pianeti, cristalli , nuvole e persone. Quindi la domanda non è come è iniziato l universo ma quale sia la sorgente di questa potenza creativa . I processi fisici conosciuti possono spiegare la inesauribile creatività della natura?
o vi sono altri processi organizzativi che plasmano la materia e l energia e la spingono verso stati più elevati di ordine e complessità? Solo di recente gli scienziati hanno iniziato a comprendere in che modo strutture complesse ed organizzate possono emergere da strutture amorfe e dal caos. Ricerche condotte in settori diversi quali la turbolenza dei fluidi, la crescita dei cristalli e le reti neurali rivelano la straordinaria porpensione posseduta dai sistemi fisici a generare spontaneamente nuovi stati ordinati. è chiaro che esistono dei processi autoadattanti in ogni branca della scienza. la questione fondamentale è un principio organizzatore non tanto come è inziato il big bang.
Noli foras ire , in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas.

daniele22

Citazione di: Koba II il 26 Agosto 2024, 13:27:34 PMSono d'accordo con te sia sul solipsismo che sullo spirito competitivo di coloro che si dedicano al sapere (basta pensare a personaggi come Eraclito e Parmenide, ma anche in Socrate si nota un certo disprezzo dell'altro, occultato dal sarcasmo – su ciò Nietzsche ci aveva visto giusto, come sempre).
Per quanto riguarda invece la questione del problema dell'adeguatezza del sistema di segni, si può interpretare l'uso della matematica o della logica formale proprio come tentativo (riuscito) di eliminare l'elemento simbolico e quindi ambiguo, infinitamente interpretabile, del linguaggio naturale.
Precisione straordinaria di un sistema destinato però ad essere incompleto (teoremi di Gödel), cioè a inglobare alcuni principi di cui il sistema stesso non può dar conto (anche qui: una specie di assenza di fondamento).
Quindi siamo destinati o al fraintendimento infinito del dialogo o ad una precisione semantica che però si basa sulla fede in alcuni principi di base. Dunque in ogni caso non c'è modo di costringere l'altro a convincersi dei nostri risultati.
In effetti la situazione è un po' paradossale, e se non sbaglio ne parla anche Cacciari nella conferenza postata da green demetr, riferendosi al mito della caverna: perché colui che ha ricevuto il dono di "vedere" torna indietro per liberare i prigionieri?
Altruismo o smisurata presunzione?
Cacciari, che conosco solo per la lettura e rilettura di "Metafisica concreta" (un grande libro di filosofia, veramente notevole), evidentemente crede nell'elemento politico della filosofia, e non si risparmia.

Anche!, al sapere, mi riferivo parlando di una generale attitudine umana alla logica dell'escalation che va dalle liti in ambito familiare, alle liti per strada, alle guerre tra mafie e guerre tra stati tanto per citarne qualcuna. Guerre o liti che con grande sforzo verrebbero in parte sedate in modi pacifici, soprattutto tra Stati, forse anche perché lì sarebbe più grande la distanza tra il vertice di Stato e l'individuo. E l'escalation pervade pure la produzione di tecnologie. ovviamente.
Detto ciò mi rendo conto che la matematica è una modalità del pensiero, ma dato che in filosofia la valuta corrente sarebbe ancora il verbo pretenderei dai risultati matematici almeno una traduzione, trasposizione, in forma verbale. Ti dirò tra l'altro che in passato fantasticai pure se potessero esserci delle analogie tra le operazioni fondamentali della matematica (+ - : x) compresi gli operatori come logaritmi etc e gli snodi in sequenza, ovvero i leganti che tengono in piedi i periodi (intendi analisi del periodo) di cui si costituisce un discorso.
Tralasciando, comunque possa essere e giusto per inquadrarti il mio pensiero, tutto è partito da una domanda che continuava a riaffiorare quando ero colpito da certe cose che vedevo, tanto per strada quanto nei media: perché la gente proclama di volere pace e giustizia e ottiene invece il contrario di ciò che vuole? Scommisi in fretta sul fatto che dovesse esserci qualcosa che non quadrasse nella nostra mente. Data la domanda va quindi quasi da sé che il destino della mia filosofia debba compiersi nella politica. Ma prima doveva comprendere. Doveva comprendere a fondo questa costante trasgressione dell'imperativo ipotetico di memoria kantiana. Una volta compreso, come riterrei di avere fatto, mi sono subito reso conto di quale fosse il nocciolo del problema. Ed è un problema che ha a che fare con la grande ignoranza, quella che comprende tutta l'umanità, eccezion fatta per qualche individuo che magari agisce per farla comprendere agli altri invece che sfruttarla solo per se stesso. Perché fintanto che non si riesca a comprendere l'infondatezza della separazione tra conoscente e conosciuto e realizzando di conseguenza la sinonimia tra conoscenza (consapevolezza) e realtà, nulla potrà accadere di buono, nessuno cambierà mai le proprie convinzioni più profonde. Questa separazione infatti, legittimata dalla struttura della nostra stessa lingua ingannatrice, pone il soggetto in una condizione per cui egli è del tutto legittimato ad affermare una superiorità della propria conoscenza sulla realtà rispetto ad altri, fatto che a volte può pure corrispondere al vero ... vien da dire purtroppo perché tale fatto altro non farebbe che rinforzare l'idea che vi sia una conoscenza superiore, laddove in realtà vi sarebbe solo una grande ignoranza collettiva da colmare. 
Penso infine che colui che torna a liberare i prigionieri, a meno che non gli passi per la testa che sia vano e quindi non lo faccia, lo faccia infine perché è sanamente egoista all'interno di un gruppo, come dire che comprende l'importanza dell'altruismo in subordine al proprio legittimo egoismo naturale, sempre ammesso che desideri veramente un po' più di pace e giustizia. Un inciso finale come se già non bastasse: il discorso egoismo/altruismo andrebbe anche valutato alla luce di eventuali differenze di intendere il reale che possano sussistere tra maschio e femmina, proprio perché è la femmina a gettare nel mondo la vita



Koba II

Citazione di: Alberto Knox il 26 Agosto 2024, 18:24:03 PMAppunto, possiamo quindi avere solo una conoscenza fenomenica della rosa , la possiamo toccare, vedere, sentire con l olfatto, descriverla per come ci appare, avere un idea di rosa nella mente ma non possiamo accedere alla sua essenza o interiorità (sempre ammesso che si possa usare tale termine nei confronti di una rosa). Per tale motivo la conoscenza è limitata all esperienza empirica.


Non c'è un modo più semplice di dirlo...
Proviamo comunque con Heidegger: "Come possiamo, in linea di massima, anche solo cercare un albero se non abbiamo già da prima la chiara rappresentazione di quello che sia un albero in generale?" ("Introduzione alla metafisica", ed. Mursia, p.89).
Fin dall'inizio siamo immersi in una lingua, in una cultura. Senza di esse non sapremmo unire le singole sensazioni per costruire la percezione dell'albero che ci sta davanti.
"Anche se avessimo mille occhi, mille orecchie, mille mani, molti altri sensi ed organi, qualora la nostra essenza non risiedesse nella potenza del linguaggio, tutto l'essente rimarrebbe chiuso per noi: l'essente che noi siamo non meno di quello diverso da noi" ("Introduzione alla metafisica", p.92).

Ma il tema del topic non è l'origine dell'essenza della cosa, se puramente empirica o innata o derivante dal linguaggio e via dicendo secondo varie sfumatura, ma se l'ontologia sia la causa di un generale smarrimento del senso dell'essere.

Io, per ora, dico di no.
Innanzitutto l'ontologia non è necessariamente l'attività del catalogare gli essenti. Può essere questo, e sì, così facendo, perdendo l'attitudine a interrogare l'essente, volendolo solo "archiviare", sistemare, finisce per rinnegare la stessa natura della filosofia, che è l'interrogazione; e quindi, di necessità, anche la domanda sul senso dell'essere finisce per svanire.
Tuttavia se l'ontologia si concentra sulla problematicità dell'essente, sulla sua infondatezza originaria, sulla singolarità di ogni cosa che resiste agli assalti del collezionista peripatetico, allora non si può, al contrario, individuare in essa una strada che apra al senso dell'essere?
È poi così fondamentale la differenza tra essere ed essente? Più di quella tra i vari essenti o tra l'essente singolo e il suo concetto?

bobmax

Se si prende in seria considerazione la possibilità che lo scopo della esistenza non sia che lo sviluppo dell'etica, cioè il diventare sempre più consapevoli del bene e del male, allora si può ben ipotizzare come non vi sia altra legge che questa: l'evoluzione etica.

Tutto il resto, in definitiva non ha una sua propria realtà, esiste solo perché funzionale all'Etica.
Ogni altra legge che governa l'universo non è che la trama, la struttura che permette lo sviluppo delle vicende di vita.
Cioè non vi sono leggi fisiche assolute a cui l'universo sottostà, perché tutto quello che c'è ha solo lo scopo di far avvenire la metamorfosi: dal non essere all'Essere.

Quindi non ha una realtà sua propria neppure la legge di causa-effetto. Cioè niente di ciò che avviene è causato da qualcos'altro.

E allora cosa è davvero reale?

L' Uno, cioè l'Essere, ovvero il Nulla.
Che è il Padre che genera il figlio gettandolo nel mondo, e il mondo è Dio.
Ma il figlio non è perduto nel mondo, sebbene a volte l'orrore lo attanagli.
Vi è l'Etica, che pian piano lo riporterà al Padre
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Alberto Knox

Citazione di: Koba II il 28 Agosto 2024, 11:12:19 AMTuttavia se l'ontologia si concentra sulla problematicità dell'essente, sulla sua infondatezza originaria, sulla singolarità di ogni cosa che resiste agli assalti del collezionista peripatetico, allora non si può, al contrario, individuare in essa una strada che apra al senso dell'essere?
È poi così fondamentale la differenza tra essere ed essente? Più di quella tra i vari essenti o tra l'essente singolo e il suo concetto?
premetto che non vedo in  tutto lo strologare che fa Martin Heidegger in essere e tempo una conclusione esaustiva sul senso dell esserci  (non a caso evidenzio la ci finale poichè la tua domanda posta il senso dell essere , Hidegger pone il senso dell esserci) . Parliamo di ontologia ma si può impostare un ontologia atea, agnostica o credente per portare il lettore verso tali posizioni piuttosto che un altra. Io non credo che il senso della vita si possa trovare tramite una ricerca ontologica basata sulla ragione e sulla logica, logica e ragione debitamente esercitata.  il senso dell 'esserci di Heidegger non è sufficente perchè non da alcuna risposta al significato della vita. Ma la ragione o l'ontologia, non riesce ad essere esaustiva nemmeno per quanto riguarda la conoscenza del mondo fisico, nemmeno riguardo all ente. Naturalmente la ragione fornisce dati, esattezze  tramite l'esperienza e le elaborazioni concettuali . Ma quando si tratta poi di pensare a queste esattezze, e di dare un significato complessivo a loro, Per giungere esattamente al significato complessivo della natura dell universo , dove solo all interno del quale può prendere ragione e consistenza la domanda sul senso dell esistenza. O il senso della mia vita posso forse porlo da me? il senso della mia vita mi è dato da qualcosa di molto più grande di me nel quale io sono iscritto!
Ebbene, quando si tratta di capire il significato ultimo della natura , ecco che le esattezze che la ragione consegna , vengono interpretate diversamente dagli stessi che la producono, dagli stessi scienziati. Dico questo non per cadere nell irrazionalismo o nella misteriosità o nel rifugio dell inesplicabile   ma per prendere consapevolezza che  il nostro rapporto col tutto non è racchiudibile, formalizzabile e catturabile dal pensiero umano , non si può dare quella prospettiva razionalista che dice; "ti dimostro il senso della vita" sintetizzandolo in un sistema.
Noli foras ire , in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas.

Koba II

Citazione di: bobmax il 28 Agosto 2024, 16:59:22 PMSe si prende in seria considerazione la possibilità che lo scopo della esistenza non sia che lo sviluppo dell'etica, cioè il diventare sempre più consapevoli del bene e del male, allora si può ben ipotizzare come non vi sia altra legge che questa: l'evoluzione etica.
Tutto il resto, in definitiva non ha una sua propria realtà, esiste solo perché funzionale all'Etica.
Ogni altra legge che governa l'universo non è che la trama, la struttura che permette lo sviluppo delle vicende di vita.
Cioè non vi sono leggi fisiche assolute a cui l'universo sottostà, perché tutto quello che c'è ha solo lo scopo di far avvenire la metamorfosi: dal non essere all'Essere.
Quindi non ha una realtà sua propria neppure la legge di causa-effetto. Cioè niente di ciò che avviene è causato da qualcos'altro.
E allora cosa è davvero reale?
L' Uno, cioè l'Essere, ovvero il Nulla.
Che è il Padre che genera il figlio gettandolo nel mondo, e il mondo è Dio.
Ma il figlio non è perduto nel mondo, sebbene a volte l'orrore lo attanagli.
Vi è l'Etica, che pian piano lo riporterà al Padre.
A me sembra evidente che l'esistenza di per sé non ha alcuno scopo.
Dopodiché posso decidere che la cosa più importante sia l'etica, e quindi imporre a me stesso che il perseguimento del bene sia il fine della mia esistenza, ma si tratta appunto di una decisione soggettiva.
Così anche tutto il discorso seguente, cioè che la realtà va presa e interpretata solo in funzione del mio cammino verso il bene, realtà che di per sé non esiste, non ha fondamento, tutte queste conclusioni paradossali vengono dalla mia decisione iniziale.
Sono funzionali alla mia decisione iniziale, che potrebbe però anche essere solo una pazzia: pensare che il mondo sia appunto il teatro della mia missione verso il bene, che il mondo esista solo per questo.
Che questo possa essere solo un grande inganno, bisogna pur considerarlo...

In questo racconto non sembra esserci interesse per la comprensione del mondo. Quindi non c'è spazio per la conoscenza.
E intendo per conoscenza anche lo sforzo della filosofia di interpretare il mondo.
È una visione che si pone fuori dalla filosofia.
Sia chiaro, non metto in discussione la legittimità di un approccio del genere. Un approccio mistico-mitologico (che per qualche strana associazione involontaria, probabilmente del tutto arbitraria, mi ha riportato alla memoria "L'epopea di Gilgameš").
Metto in discussione la possibilità che un racconto del genere possa essere articolato in un vero discorso filosofico.
Quindi un eventuale adesione ad esso non potrebbe mai scaturire dalla forza delle argomentazioni, ma solo da un atto di fede basato, come in tutte le religioni, non dal vero, ma dal bene o dal bello.

Ipazia

Citazione di: Koba II il 28 Agosto 2024, 11:12:19 AMMa il tema del topic non è l'origine dell'essenza della cosa, se puramente empirica o innata o derivante dal linguaggio e via dicendo secondo varie sfumatura, ma se l'ontologia sia la causa di un generale smarrimento del senso dell'essere.

Io, per ora, dico di no.
Innanzitutto l'ontologia non è necessariamente l'attività del catalogare gli essenti. Può essere questo, e sì, così facendo, perdendo l'attitudine a interrogare l'essente, volendolo solo "archiviare", sistemare, finisce per rinnegare la stessa natura della filosofia, che è l'interrogazione; e quindi, di necessità, anche la domanda sul senso dell'essere finisce per svanire.
Tuttavia se l'ontologia si concentra sulla problematicità dell'essente, sulla sua infondatezza originaria, sulla singolarità di ogni cosa che resiste agli assalti del collezionista peripatetico, allora non si può, al contrario, individuare in essa una strada che apra al senso dell'essere?
È poi così fondamentale la differenza tra essere ed essente? Più di quella tra i vari essenti o tra l'essente singolo e il suo concetto?

Io per ora, ma già da oltre un secolo, dico di sì, perché l'ontologia è transitata nell'episteme scientifica che dell'essere non sa cosa farsene, dopo la falsificazione della cosa in sé e del noumeno.

La verità ontologica non riesce a superare la barriera del fenomenico e oggi si può dire qualcosa di ontologicamente sensato solo rispettando quel confine razionale.

Credo che anche la "metafisica concreta" sia di questo avviso.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

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