Nietzsche e Zarathustra

Aperto da Visechi, 16 Gennaio 2025, 23:27:13 PM

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Visechi

Lo Zarathustra è l'opera filosofica di Nietzsche senza dubbio più significativa. Rappresenta l'annuncio del nuovo Uomo che ha trasceso tutti i valori, sovvertendoli, per proporre una nuova tavola di valori che la morale comune solitamente ricusa. L'opera è scritta in forma di poema in prosa, ove spiccano momenti di lirismo di una sublimità insuperata. Può essere ricondotta alla forma dell'annuncio evangelico – Evangelo del nuovo uomo -. Di questa tipicità ne ripercorre lo stile: forma profetica, enunciati più importanti introdotti dalla locuzione evangelica "In Verità...", quasi a rimarcare che s'inserisce a pieno titolo nel filone dei Libri Sapienzali. Le caratteristiche del SUPERUOMO sono contenute in un dialogo che ripercorre – stravolgendolo – il Discorso della Montagna.
Partiamo, quindi, dall'inizio, con ordine: "la volontà di potenza", primo elemento ed incipit del ragionamento. In questo concetto non c'è nulla di metafisico o trascendente che possa, anche per pallida analogia, farlo accostare allo shakti ed alla spiritualità orientale in genere (precisazione dovuta perché mi pare d'aver letto in qualche scritto, probabilmente distrattamente, un velato accostamento al buddhismo), se non un'esangue assonanza terminologica e lessicale, un'omofonia, ovverosia una somiglianza nel timbro di voce. Ma non è il suono quel che ci interessa. Senza dubbio, stiamo parlando di qualcosa di "umano, troppo umano". Cosa è dunque questa benedetta "Volontà di potenza"? Null'altro che il respiro della Vita, della Natura. È il loro ansito; è il sospiro della Terra cui Zarathustra esorta il Superuomo a restare vincolato ed avvinghiato: <<Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!>>.  Tutto assai mondano, dunque, o al più una parvula trascendenza priva di trascendente.  L'intera opera di Nietzsche, non solo lo Zarathustra, è impregnata di questo sentore di vita ed esorta al vincolo alla terra. Egli non volse mai il suo sguardo al cielo se non per celebrare il funerale di Dio:
<<Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così son morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la Terra, questa è oggi la cosa più terribile, e apprezzare le viscere dell'imperscrutabile più del senso della terra!>>. Non si deve ora intendere l'eroe nicciano come un invasato che faccia l'amore con la terra, alla stregua d'alcune culture animistiche delle Americhe. Il senso della terra è un vincolo irrinunciabile per l'uomo oltre l'uomo. È sta ad indicare la sua mondanità che non colloquia più col cielo. È, infatti, del tutto assente qualsiasi anelito divino.  Dio è morto! Tale sospiro impetuoso non appartiene solo alla terra, ma è presentito anche dall'uomo primordiale, di cui il superuomo nicciano rappresenta l'evoluzione e il suo inevitabile superamento. L'uomo è una transizione, così come lo fu l'ominide rispetto all'homo sapiens: <<L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra dell'abisso>>.  Egli è divino nella misura in cui si sostituisce integralmente a Dio e sa porre la propria natura, prettamente umana (oltreumana), al di sopra (al di là) dell'effimera e deturpante concezione del Bene e del Male, riuscendo ad accogliere in sé il soffio della Vita, pneuma dell'esistenza, senza alcun fine, senza alcuno scopo, o meglio, con l'unico vero fine rappresentato dall'uomo stesso e dalla sua "Volontà di potenza" che lo eleva ad unica divinità.  Il superuomo di Nietzsche è un essere amorale, che si pone ad un livello (l'ultimo e il più eccelso) superiore ad ogni morale. Egli è Dio a sé stesso, sufficiente a sé stesso, trionfatore e legislatore di sé stesso. È l'uomo nuovo che si plasma in un orizzonte privato della presenza di Dio e della trascendenza, che presente un oltre privo di orizzonti celesti. Così è che la compassione, la carità ed ogni tensione o impeto solidaristico ed altruistico, valori cui noi, infimi uomini crepuscolari e della transizione, tributiamo gloria ed onore, non sono altro che sfasature, pesi e gravami che appesantiscono il cammino verso l'uomo nuovo: "Umano, troppo umano"
Con questo slogan egli inaugura un nuovo filone dell'umanesimo. Il suo campione ha trasceso l'uomo e con lui ogni morale. Il danzatore folle del ditirambo dionisiaco si genera nel caos (la bocca aperta che richiama ad un'apertura di senso e non ad un unico senso), ed illumina una stella, la propria stella. Si muove e vegeta nella danza scombinata e caotica che si oppone ad ogni Cosmos ordinativo. Consuma la vita e muore al momento giusto, questo è il solo telos cui si conforma.  "L'eterno ritorno dell'uguale", che spezza l'armonia del Cosmo, è la condizione dimensionale indispensabile per l'avvento del nuovo uomo. Il riproporsi ciclico delle stagioni e degli eventi rende necessaria la resa alla necessità, al destino ineluttabile rappresentato dall'Aurora dell'Oltreuomo, il quale – l'ineluttabile destino - è la promessa, l'Evangelo privo di Dio e di salvezza escatologica di chi ha sognato e profetizzato un mondo finalmente sgombro di false speranze.  A differenza del tempo cristiano, disteso lungo un segmento rettilineo, in cui l'attimo presente attinge significato e senso dall'attimo che lo precede, per poi, insieme, riempir di senso il futuro escatologico, rinviando così ad un tempo indefinito – la fine dei tempi – in cui si realizza quel che era stato annunciato all'inizio, il tempo ciclico, viceversa, esalta ogni attimo, ogni momento, poiché ciascun attimo è fine a sé stesso e non impregna di senso quello successivo. L'eterno ritorno dell'uguale impegna semper pro semper l'azione, poiché ogni scelta sarà per sempre, giacché ritornerà a riproporsi tale e quale per l'eternità. Perciò, in ogni momento si compie l'atto eroico della decisione per il 'sì' o per il 'no' ed in ogni attimo si combatte la lotta per l'esistenza senza alcuna possibilità di rinvii ad una salvezza esogena, prossima a venire. Perciò il tempo ciclico è un tempo eroico, in cui l'individuo nel condurre una serrata lotta per l'esistenza esprime con forza la propria determinazione <<Così volli che fosse>>.
L'Amor Fati, altro fondamentale ingrediente della filosofia di N., è l'abbandono a quest'ineluttabilità scandita dallo scorrere ciclico del tempo che dischiude un destino da amare, anche se impregnato di sofferenza, da non negare, da non rifuggire, da non celare sotto la coltre di vana spiritualità. È addirittura sofferenza da bramare. L'eroicità del Superuomo nell'accettazione tragica (nell'accezione classica: "Non io, bensì così vollero gli dei" - Iliade) del proprio destino (Amor fati) è molto simile al rapporto dialettico che la Grecia classica instaurò nei confronti della Vita e del Tempo, di Cronos. <<Così volli che fosse>>. Quest'enunciato tradisce in modo emblematico la nozione di 'Eterno ritorno', cui si collega quella di "Amor fati", entrambe di derivazione stoica – l'intera filosofia, o visione di N. risente enormemente del pensiero greco. V'è da dire che dello stoicismo conserva alcuni tratti, mentre per altre coloriture se ne discosta alquanto -.
A questo punto, per meglio comprendere e cogliere la particolarità del pensiero di N., è opportuno domandarsi in che consista questo senso tragico della Vita, mutuato quasi integralmente dalla cultura classica. Il "sentimento tragico" non ha nulla a che vedere con il pessimismo, poiché quest'ultimo annienta ed annichila. È, invece, un presentire, un permanere ed un'accettazione Fatale della dilacerazione della Vita e della Natura. Il respiro della Vita, nel suo espandersi e contrarsi (diastole e sistole), si esplica nella costante ed inesausta disputa fra fioritura e dissoluzione; fra armonia e disarmonia, nel perenne oscillare fra Cosmo e Caos; fra bello e brutto; estasi ed afflizione; meraviglia e disincanto; sistole ed extrasistole; in definitiva, fra Vita e Morte. L'uomo è preso nel mezzo di questa eterna dialettica; immerso nelle increspature che si generano, subisce, nella sua esistenza, l'oscillante moto dell'ansito della vita. Un eroe classico, sebbene sottostia alla legge del Fato, forza primordiale cui neppure gli dèi possono sottrarsi, non ne subisce il moto, ma in esso confluisce, divenendone parte attiva e fattore creativo, di cui Vita e Fato si servono: da qui la danza. Si potrebbe dire che, in una certa misura, pur dialetticamente, Vita/Fato ed eroe confluiscano nel medesimo flusso ondulatorio, componendo e invigorendone il moto, accentuandone la cresta. Gli eroi greci, sebbene le loro esistenze fossero totalmente comprese in questo ansito, rappresentano un elemento attivo del divenire. Così pure Zarathustra di N. La' dove la filosofia orientale nega o sottace quest'ansito, relegandolo fra le aberrazioni o ritenendo che sia l'emergere dell'oblio del Sé Superiore; la cultura cui si rivolge N. per attingere le peculiari caratteristiche del suo campione, viceversa lo esalta, e l'eroe si traduce in un complemento del moto stesso; non un Illuminato o Risvegliato che staziona imperturbabile ed inacesso in un "Centro Immobile" che gli permetta di trascenderlo. L'eroe greco soffre, piange, urla e lotta – l'intera Iliade ruota intorno alla figura di Achille ed alla sua ira: <<Cantami, O Musa, l'ira funesta del Pelide Achille>>.  Ripeto: <<Così volli che fosse>>.  Da quest'enunciato può derivarsi l'intero percorso che il pensiero del folle genio compì per approdare, giustificare e "santificare" la sua creatura: il Superuomo o l'Oltreuomo. La "volontà di potenza" emerge dall'ipertrofia dell'Ego, e l'ego stesso (vale a dire l'Io) si ciba di questa volontà espansa oltre ogni limite fino allora lambito dal pensiero speculativo e filosofico.
L'io si esplica attraverso la volontà di vita, concetto tanto caro a Schopenhauer, che in N. assume il nome di "volontà di potenza". Come già accennato, non c'è shakti in questa "volontà di potenza", non c'è neppure un racimolo della potenza o forza cosmica tanto cara allo Shiva ishvarico, c'è solo un'ipertrofica volontà tutta umana che non colloquia con energie cosmologiche primordiali, perché ne disconosce la discendenza. Sennonché, la cosmologia di N. si riduce tutta nella potenza dell'uomo nuovo, nella sua forza posta in essere (creata?) in virtù della massima espansione della volontà: << Davvero, attraverso cento anime io ho camminato la mia via e attraverso cento culle e dolori del parto. Molte volte ho già preso congedo: io conosco gli ultimi istanti che spezzano il cuore. Ma così vuole la mia volontà creatrice, il mio destino. O, se debbo parlarvi più sinceramente: proprio un tal destino vuole la mia volontà. Tutto quanto è sensibile soffre in me ed è in ceppi: ma il mio volere viene sempre a me come mio liberatore e apportatore di gioia. Volere libera: questa è la vera dottrina della volontà e della libertà, così ve la insegna Zarathustra.>>.  Tutto ciò non è da intendere in maniera letterale: N. non credeva minimamente all'anima eterna, né alla reincarnazione o alla metempsicosi. Si tratta semplicemente di un linguaggio simbolico espresso in forma poetica, ove il simbolismo è inscritto in un nuovo ordine temporale. Il volere riecheggia dal passato, da un tempo mitico e viene a lui per coniugarsi con il Fato, e quest'ultimo giunge a lui, cogliendolo per strada, per recargli il volere, quel particolare volere, che è potenza di volontà, o meglio "volontà di potenza": "così vuole la mia volontà creatrice, il mio destino". Fato e volontà si conformano ed insieme, assentendo l'uno all'altra, "creano" il divenire, l'attimo fuggente che diviene. Non v'è più dunque un'armonia cosmologica che intessa la storia per l'uomo, bensì un'ebbrezza voluttuosa che si genera nel caos, o un caos che pullula nell'ebbrezza delle passioni. Questa è, con ogni dovuta evidenza, voluttà, non distacco. Il Superuomo è un errabondo, un viandante che danza e i cui colori sono il rosso avvampante della fiamma delle passioni, non è un anodino ed atarassico Saggio dal Centro immobile. Egli è consono alla Vita, che è disputa, tragedia, consunzione, crepuscolo, virilità. La sua è voluttà, lussuria di vita, è, in definitiva, un imperioso Sì alla Vita. L'Amor fati non è un semplice conformarsi al destino, ovvio che in definitiva di ciò si tratta; è creazione e volontà creativa che si coniugano con il Fato; è Fato che si congiunge alla volontà. Il "matrimonio mistico" che si celebra nelle pagine dell'opera di N. è di ben altro tenore rispetto a quello esoterico officiato nei saggi di spiritualità. V'è passione, un amore rosso e cruento come vivido sangue che ribolle. Se si osserva con attenzione, egli postula un confluire di destino e volontà di vita. Le due matrici si conformano l'una all'altra, e non per volere di un Dio, o per via dell'avvenuto recupero di una coscienza superiore o a seguito di un complesso procedimento introspettivo o meditativo – niente di più estraneo al pensiero di N. –, bensì per causa di un "ritorno", di un rivisto, di un rivissuto che celebra il fastigio della volontà. L'Amor fati è così un "volere che così fosse", i cui termini opposti che lo inscrivono sono da recuperare nell'impossibilità per la volontà stessa di infrangere lo scorrere del momento (cosa che neppure la geniale follia di N. poté affermare) e, dall'altra parte, nell'ineluttabilità del Fato, del destino, fra le cui braccia siamo sospinti. La volontà è però libera; questa volontà, che è comunque convogliata verso un destino ineluttabile – il suo destino –, è al tempo stesso la massima espressione di libertà.  Ma come potrebbe essere intravista o presentita una libertà che si esplichi nell'ambito di un tempo lineare, teleologico, escatologico ove il destino l'attende per compiere l'evento, se non postulando un "eterno ritorno dell'uguale"? Z. non nega lo scorrere del tempo. Egli danza nel suo fluire, nel divenire. Anche in ciò si può notare la grande distanza da qualsiasi negazione dell'entità di Cronos. Da qui il suo celeberrimo "Così volli che fosse", il suo "Amor fati", il suo bramare la sofferenza che impregna il tempo e la vita, la sua tragicità esistenziale nell'eterna disputa fra la dionisiaca ebbrezza delle passioni da preservare e coltivare, espandere e glorificare e quanto reso necessario dal momento, dall'attimo stesso. La vita, sebbene sia dissoluzione e disfacimento, si rigenera eternamente proprio nella decomposizione, nello sfacelo, ricomponendosi nella sua magnificenza. La sofferenza è parte della vita, poiché la rigenera. La Vita, pur nella sua ciclicità, è divenire, impermanenza; il Superuomo, conforme alla Vita, a differenza dell'Illuminato, è un uomo del divenire, totalmente immerso nell'impermanenza, intriso di transizione. La volontà di vita, sospinta in una danza folle dall'ebbrezza delle passioni, è la creatrice dell'attimo transeunte che si origina nel caos. Il volo cui incessantemente allude Zarathustra non è un volo metafisico, neppure reale, ancor meno del samadhi, né di un nirvana o celestiale, bensì un volo ideale sospinto dal vento nuovo di un uomo che supera l'uomo vecchio, è il volo della libertà, e il suo aleggiare si svolge tutto nel mondo terreno, non fra ovattate nubi, neppure fra gli spazi interstellari di un universo e di un cosmo che sono ricusati dalla sua filosofia:  <<Deve essere tolta al creatore la sua fede e all'aquila il suo librarsi in lontananze d'aquila? Dio è un pensiero che rende storte tutte le cose dritte e fa girare tutto quanto è fermo. Come? Il tempo sarebbe abolito, e tutto ciò che è perituro sarebbe abolito? Pensare queste cose è vortice e vertigine per gambe umane, e vomito per lo stomaco: davvero, abbandonarsi a simili ipotesi io lo chiamo avere il male del capogiro. Io lo chiamo cattivo e ostile all'uomo tutto questo insegnare l'Uno e il Pieno e l'Immoto e il Satollo e l'Imperituro>>.


anthonyi

Personalmente ho una pessima opinione di Nietzsche. Non ho mai letto " Così parlo Zaratusthra" e ringrazio Visechi per avermene dato una buona rappresentazione che conferma le mie posizioni critiche. E' probabile che sia un buon prodotto letterario, ma questo lo considero un ulteriore dato negativo considerando le evidenti evoluzioni che il suo pensiero ha avuto nel delirio della Germania nazista. 
Al riguardo mi viene da pensare alla storia del pifferaio magico dove la bellezza della sua musica porta tutti i topolini ad affogare nel fiume. 
Se la bellezza letteraria porta alla morte,  allora non é una buona bellezza. 
E' impossibile non vedere nell'idea di superuomo, di superamento dei vincoli morali, di negazione del concetto di Dio, le premesse per le tragedie della II guerra mondiale.
E d'altronde la patologicità del pensiero nitchiano é desumibile anche dalla sua evoluzione in stato di follia conclamato. 

Jacopus

Difficile sottovalutare l'importanza di N. nella storia della filosofia. Innanzitutto perché probabilmente è stato l'ultimo filosofo a non fare metafilosofia. N. è uno dei tre maestri del sospetto, secondo la definizione di Ricoeur e come Freud e Marx ha ottenuto il titolo per il suo lavoro di smascheramento della realtà che si credeva "oggettiva ed ideale" contemporaneamente, ovvero di tutta la tradizione che da Platone arriva a Leibniz ed oltre. Però le sue conclusioni, dopo il lavoro di smascheramento, sono molto diverse da quelle di Freud e di Marx. Tutti e tre desacralizzano il mondo, ma N. ne trae la conseguenza che esiste solo la pura forza e la vera vita è l'affermazione dell'uomo che abbandona ogni limite morale per affermare sè stesso. Per quanto la questione sia molto dibattuta, penso anch'io che vi sia un legame fra il pensiero di N. e il totalitarismo di destra. Mussolini conservava nel suo studio un busto di N. Piccola nota di colore che però è un buon indizio. Marx e Freud giungono a conclusioni molto diverse dopo aver smascherato gli "idola" della tradizione. Marx si fa portatore di un cambio palingenetico del mondo nella speranza di creare un nuovo mondo che dovrebbe essere la discesa sulla terra della pace del paradiso. In Marx resta quindi un fondamento etico, che in N. è stato sostituito dalla pura forza, ma quel fondamento etico è talmente idealistico, da ricondurre ad un nuovo mondo mistificato e falso, come quello che si vedrà effettivamente con il socialismo reale. Chi vuole troppo bene, rischia sempre di trasformare il bene in male. Altro tragitto quello di Freud, che dopo la sua originale desacralizzazione, non dà una risposta univoca al destino dell'umanità, potrebbe piegare dalla parte di Eros oppure di Thanatos. In questo F. da un lato resta fedele al suo modello dell'ambivalenza della natura umana e dall'altro espone la sua speranza che un vero cambiamento non debba provenire dalle istituzioni politiche ma da un lavoro dell'individuo su se stesso, sulle sue pulsioni, sulla conoscenza del proprio lato mostruoso e incontrollabile.
Ultima nota sul senso di eterno ritorno. Severino ne da una interpretazione che supera il senso di tempo ciclico, contrapposto al tempo lineare. L'eterno ritorno è invece la constatazione che per creare l'uomo nuovo, bisognerebbe cancellare la storia dell'uomo e quindi ritornare all'origine della storia, poiché la storia, con le sue stratificazioni non rende possibile la libera espressione dell'uomo, poiché ogni atto, lega l'uomo in una serie di azioni successive che sono già in parte scritte da quella storia. Questa interpretazione, secondo me, al di là dell'uso negativo che ne fa N., è una straordinaria anticipazione di quanto ci hanno dimostrato discipline come la psicologia e le neuroscienze.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

anthonyi

Hai trovato una chiave di sintesi interessante, jacopus, Marx, Freud e Nietzsche desacralizzano il mondo. 
Io ci metterei anche Rousseau e il suo mito del buon selvaggio. 
Resta da capire quali sono gli effetti di questa desacralizzazione.
A Occhio direi che, a volte, la sacralizzazione, può creare dei problemi che però sono poca cosa rispetto ai problemi che poi crea la desacralizzazione. 

Koba II

Bisogna considerare che la distruzione della metafisica è altro rispetto alla desacralizzazione del mondo.
Il sacro è mediato dalla religione. Morta la religione, il sacro continua a manifestarsi.
Del sacro (così come inteso dall'antropologia culturale) ecco una definizione di Pierangelo Sequeri:

"Il sacro indica ciò che deve essere assolutamente custodito, ma anche ciò che deve essere assolutamente distrutto: avvolge la vita e la morte, il dolore e la felicità, l'amicizia e l'inimicizia, imponendo atteggiamenti radicali e anche contraddittori (la vita umana è un dono e merita protezione; ma la morte del mio predatore è una benedizione e una grazia).
In ogni comunità umana, è sempre presente l'intuizione di qualcosa di assolutamente degno di protezione e di qualcosa che può e deve essere assolutamente sacrificato a quella inviolabilità. Persino una società relativistica, come la nostra, ha i suoi "assoluti" che tacitamente vengono considerati inviolabili, ossia simboli del "sacro" che non possono essere violati".

Da questo punto di vista il pensiero di Nietzsche potrebbe essere interpretato come una purificazione della religione, una purificazione della mediazione del sacro.
Ciò che è sacro torna sulla Terra. Viene demolita la barriera della metafisica attraverso cui la filosofia classica da Platone in poi aveva recluso il sacro, lo aveva come neutralizzato.
L'uomo nuovo non si sottomette più ad alcun imperativo (tu devi!), ma non è disposto a sacrificare nulla del caos che lo abita.
Esagerando si potrebbe dire che il vero cristianesimo inizia solo dopo Nietzsche.

Jacopus

N. Come tutti i grandi pensatori darà sempre la stura alle più diverse interpretazioni. Rispetto al sacro però insisto sul fatto che il nostro mondo non abbia più nulla di sacro, inteso come luogo/soggetto/oggetto/pensiero "sacer", cioè intoccabile, inviolabile, sia in senso positivo o negativo. Se tutto è soggetto a transazione economica, l'unica sacralità riguarda proprio il fondamento economico di tutte le cose. Si tratta di un tipo di sacralità simile a quelle precedenti, oppure vi è in esso una qualità così materiale da non poter essere equiparata al precedente senso del sacer?
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Visechi

Tutti e tre, Marx, Nietzsche e Freud, espellono Dio dal mondo, ma senza che con ciò abbiano contemporaneamente rinunciato al sacro.

Se da una parte Marx laicizza e materializza la storia, definendola il costrutto di una perenne lotta fra classi, dall'altra non abiura l'uomo abbandonandolo a sé stesso. Edifica un'architettura più consona ove questi può prosperare e crescere. Individua nell'economia e nella distribuzione dei mezzi di produzione (il suo pensiero si formò in piena seconda rivoluzione industriale) il fulcro attorno al quale realizzare una società più equa e giusta. Insomma, sacralizzò il mondo rifiutando metafisiche consolatorie ma senza rinunciare ad una promessa edenica. Fu il sacerdote delle relazioni fra umani. Il rito sacro è officiato in terra e a favore delle comunità. Fu il costruttore di nuove relazioni basate non più sulla sopraffazione ma sull'uguaglianza. Proprio perciò la sua nuova religione fu un'utopia.

Nietzsche è invece colui che, dopo aver decostruito il corpus morale istituito dal cristianesimo, ha edificato e sacralizzato un nuovo individuo, celebrandone l'assoluta libertà ed esaltando il potere della volontà, anzi la volontà di potenza. Il sacer, comunemente inteso, è tacitato e polverizzato dal suo Zarathustra, che afferma, nella voluttà delle passioni, la sacralità della terra, intesa come mondanità opposta all'ulteriorità intrisa di metafisica. Come già scritto, l'uomo nuovo non volge lo sguardo al cielo per ottenerne conforto e senso, guarda al divenire ed alla costruzione umana ivi inscritta dalla volontà. Egli è il sacerdote dell'individuo, il cui rito si celebra interamente nel mondo: il nuovo mondo che egli promette semper pro semper per l'eternità.

Freud sconsacra l'Io e svaluta l'egemonia della coscienza, espellendo entrambi dal perimetro del sacro, ed erige loro un mausoleo. L'uomo non è più padrone di sé stesso. Innalza un altare all'inconscio (checché ne possa dire qualche malaccorto commentatore, fu proprio Freud ad inventare l'inconscio) cui tributare onori e gloria. È il sacerdote del profondo. Il rito è celebrato nel profondo di ciascuno di noi, e il prodotto della funzione sacra è soggetto ad analisi ed interpretazione. Freud, molto più degli esegeti cattolici, è il filosofo dell'ermeneutica, poiché tutto deve sottostare all'interpretazione, senza la quale il parlare e l'agire sono privi di ragione e senso. La precomprensione è l'ambito cultuale ove l'incenso del significato si spande per irrorare di senso l'esistenza dell'uomo.

Tutto è profanato perché sia riconsacrato. Ma non c'è Dio entro il perimetro di questa nuova area del sacro, solo una dimensione umana, troppo umana, unico ambito, quello umano, ove il sacro estrinseca interamente la sua forza.

Phil

La sacralità può essere metaforica o letterale: il sacro religioso non è metaforico, è una sacralità autentica, con le radici in Cielo, sacralità che è rapporto con il sovra-umano, il divino. La sacralità metaforica è quella per cui il "sacro" non ha più rapporto con il divino (ha le radici in terra), ma è "sacro" in quanto fondamentale e fondante, normativo, etc. ossia non è sacro, ma "sacro", come è "sacra" la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, come sono "sacri" gli assiomi di una matematica, etc.
La differenza fra la sacralità come tangenza asintotica con il divino e la "sacralità" come fulcro concettuale (v. "i maestri del sospetto") o sociale (v. citazione di Koba), è la differenza fra la religione e le scienze umane o, più semplicemente, fra un significato letterale ed uno metaforico.
Differenza che emerge ancora più lampante se si considera l'evento della violazione del sacro: dissacrare offendendo/adirando una divinità non è come dissacrare proponendo un altro orizzonte di senso (in politica, matematica o altro). La mutevolezza della "sacralità" umanamente decisa non può essere confusa con la perentoria sacralità del volere divino, proprio come le frontiere umane (v. etimo di «sacro»), sia per mobilità che per sorveglianza, non possono essere paragonate a quelle divine.

Visechi

Citazione di: Phil il 17 Gennaio 2025, 14:22:26 PMLa sacralità può essere metaforica o letterale: il sacro religioso non è metaforico, è una sacralità autentica, con le radici in Cielo, sacralità che è rapporto con il sovra-umano, il divino. La sacralità metaforica è quella per cui il "sacro" non ha più rapporto con il divino (ha le radici in terra), ma è "sacro" in quanto fondamentale e fondante, normativo, etc. ossia non è sacro, ma "sacro", come è "sacra" la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, come sono "sacri" gli assiomi di una matematica, etc.
La differenza fra la sacralità come tangenza asintotica con il divino e la "sacralità" come fulcro concettuale (v. "i maestri del sospetto") o sociale (v. citazione di Koba), è la differenza fra la religione e le scienze umane o, più semplicemente, fra un significato letterale ed uno metaforico.
Differenza che emerge ancora più lampante se si considera l'evento della violazione del sacro: dissacrare offendendo/adirando una divinità non è come dissacrare proponendo un altro orizzonte di senso (in politica, matematica o altro). La mutevolezza della "sacralità" umanamente decisa non può essere confusa con la perentoria sacralità del volere divino, proprio come le frontiere umane (v. etimo di «sacro»), sia per mobilità che per sorveglianza, non possono essere paragonate a quelle divine.
Se avessi omesso "divino" la tua puntualizzazione sarebbe assolutamente perfetta.
L'area del Sacro non necessariamente è occupata dal dio. Nelle civiltà arcaiche, non v'è traccia di un Dio o di un divino, v'è un richiamo alla trascendenza che non è dimora di alcuna divinità. In Amazzonia, il popolo dei Guaranì è impegnato in un inesausto errare in cerca della "Terra senza il male". Terra sacra, ma priva di divinità.

anthonyi

Citazione di: Visechi il 17 Gennaio 2025, 14:41:04 PMSe avessi omesso "divino" la tua puntualizzazione sarebbe assolutamente perfetta.
L'area del Sacro non necessariamente è occupata dal dio. Nelle civiltà arcaiche, non v'è traccia di un Dio o di un divino, v'è un richiamo alla trascendenza che non è dimora di alcuna divinità. In Amazzonia, il popolo dei Guaranì è impegnato in un inesausto errare in cerca della "Terra senza il male". Terra sacra, ma priva di divinità.
Nelle civiltà arcaiche, appunto. Nel momento in cui però si passa a civiltà di tipo più evoluto (o complesso), con maggiori livelli di organizzazione, separazioni di funzioni, allora la presenza delle divinità é una costante. 

Koba II

#10
Citazione di: Phil il 17 Gennaio 2025, 14:22:26 PMLa sacralità può essere metaforica o letterale: il sacro religioso non è metaforico, è una sacralità autentica, con le radici in Cielo, sacralità che è rapporto con il sovra-umano, il divino. La sacralità metaforica è quella per cui il "sacro" non ha più rapporto con il divino (ha le radici in terra), ma è "sacro" in quanto fondamentale e fondante, normativo, etc. ossia non è sacro, ma "sacro", come è "sacra" la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, come sono "sacri" gli assiomi di una matematica, etc.
La differenza fra la sacralità come tangenza asintotica con il divino e la "sacralità" come fulcro concettuale (v. "i maestri del sospetto") o sociale (v. citazione di Koba), è la differenza fra la religione e le scienze umane o, più semplicemente, fra un significato letterale ed uno metaforico.
Differenza che emerge ancora più lampante se si considera l'evento della violazione del sacro: dissacrare offendendo/adirando una divinità non è come dissacrare proponendo un altro orizzonte di senso (in politica, matematica o altro). La mutevolezza della "sacralità" umanamente decisa non può essere confusa con la perentoria sacralità del volere divino, proprio come le frontiere umane (v. etimo di «sacro»), sia per mobilità che per sorveglianza, non possono essere paragonate a quelle divine.
No. L'ingiunzione del sacro è un fatto tutt'altro che metaforico.
È una forza che spinge all'adorazione. E quando ciò accade al di fuori della mediazione di una religione/spiritualità attenta al valore della vita umana si frammenta in eccessi più o meno pericolosi, più o meno stupidi.
Ciò che è sacro non è deciso nel senso di una deliberazione, ma è scoperto, sentito, intuito. Si viene trascinati da esso.
Per fare un esempio un po' scemo: le presentazioni di Steve Jobs dei nuovi prodotti della Apple erano una vera e propria liturgia, con una platea di devoti, con la rivelazione di una vita nuova ora possibile, con al centro l'idolo luccicante.
Si può dire fino a un certo punto che coloro che poi, per concludere il rito rimanevano in fila per tutta la notte in attesa che lo store Apple aprisse, avessero liberamente scelto tutto ciò.
Certo si tratta di un'idolatria stupida, ma c'è, nelle menti di queste persone, un dominio, un'occupazione, una presenza adorante. Sono come possedute.
Merci inanimate capaci di esercitare una possessione demoniaca.

daniele22

Citazione di: Visechi il 17 Gennaio 2025, 14:41:04 PM....
L'area del Sacro non necessariamente è occupata dal dio. Nelle civiltà arcaiche, non v'è traccia di un Dio o di un divino, v'è un richiamo alla trascendenza che non è dimora di alcuna divinità. In Amazzonia, il popolo dei Guaranì è impegnato in un inesausto errare in cerca della "Terra senza il male". Terra sacra, ma priva di divinità.
Ciao, per quel che tu possa saperne, sono sereni o agitati?

Phil

Citazione di: Koba II il 17 Gennaio 2025, 16:59:27 PMNo. L'ingiunzione del sacro è un fatto tutt'altro che metaforico.
È una forza che spinge all'adorazione. E quando ciò accade al di fuori della mediazione di una religione/spiritualità attenta al valore della vita umana si frammenta in eccessi più o meno pericolosi, più o meno stupidi.
Ciò che è sacro non è deciso nel senso di una deliberazione, ma è scoperto, sentito, intuito. Si viene trascinati da esso.
Parto dall'esempio che hai usato, perché è meno ingenuo di quanto pensi: «liturgia», «devoti», «vita nuova», «idolo», etc. sono usati in senso metaforico parlando di Apple. Per verificarlo, prova a pensare a un contesto in cui non sono usati in modo metaforico: quello religioso. Ad esempio, la liturgia che parla dell'idolo ai devoti, nel caso religioso (pagano), rispetta letteralmente i significati di «liturgia», «idolo» e «devoti»; mentre parlando di Apple, il discorso è come una liturgia che parla del prodotto come se fosse un idolo, presentato a coloro che si comportano come devoti. Nel caso religioso c'è identità, nel secondo caso paragone («come») o, appunto, metafora.
La consapevolezza dell'uso delle metafore è secondo me cruciale, perché spesso si finisce vittima delle metafore (che sono sempre più onnipresenti nella retorica contemporanea, dai mass media ai social), dimenticandosi che sono tali.
Se ogni (s)oggetto che suscita involontaria fascinazione decidiamo assieme di chiamarlo «sacro», allora (anch'io banalizzo molto, ma per intenderci meglio) ci innamoriamo di una persona sacra, un quadro o una canzone che ci affabulano sono sacri, se siamo dipendenti dalle slot machine è perché sono sacre, etc. Chiaramente, questa "inflazione" della sacralità, ridotta a denotazione di qualunque fonte attrattiva, individuale o sociale, a prescindere da religione e spiritualità (così includiamo anche popoli amazzonici e boscimani vari), è una strada legittimamente percorribile. L'importante, per me, è riconoscere che, questa "sacralità multidisciplinare", sotto sotto, contiene nel suo repertorio anche una sacralità originaria, una sacralità storicamente possente, una sacralità che, a differenza delle altre, si presenta deliberatamente ed esplicitamente come sacra, senza metafore (ad esempio, cosa c'è di più sacro di una divinità che si rivela e si proclama tale con la sua propria voce? Fra Dio e "il dio denaro" non noti una certa discriminante di sacralità, una "gradazione" molto diversa di sacro, una certa metaforicità tutta da una parte? Davvero "il dio denaro" è solo un'altra divinità, proprio come quelle religiose, senza bisogno di virgolette, asterischi o note a fondo pagina?).

Visechi

Citazione di: daniele22 il 17 Gennaio 2025, 17:46:01 PMCiao, per quel che tu possa saperne, sono sereni o agitati?
Onestà vuole che mi corregga:
Il tuo quesito mi ha incuriosito e sono andato a verificare se i Guaranì, nella loro inesausta ricerca della Terra senza il male, fossero sereni o agitati ed ho rilevato che la mia memoria mi ha suggerito un'enorme idiozia... la Terra senza il Male, a differenza di quanto ho scritto io, è la Terra ove la divinità (quindi il loro Dio, altro che fesserie) trova asilo. La Terra senza il Male è la terra degli Ultimi uomini che recuperano colà il Vero linguaggio.
In ogni caso, per tornare al tuo quesito: la ricerca è caratterizzata da ansia ed angoscia... no, non sono sereni.

Visechi

Citazione di: anthonyi il 17 Gennaio 2025, 16:11:18 PMNel momento in cui però si passa a civiltà di tipo più evoluto (o complesso), con maggiori livelli di organizzazione, separazioni di funzioni, allora la presenza delle divinità é una costante.
Sacertà e divinità

Il sacro è comunemente associato alla divinità e sovente, operando un'inconscia forzatura semantica, i due termini – sacro e divinità – son considerati quasi in rapporto vicendevole ed interscambiabile. C'è chi postula che non sia dato sacro, ivi comprese le molteplici sue sfumature semantiche, senza che sia presente anche la divinità, e viceversa. Così è che l'area del sacro diviene quanto di più attinente alla deità. L'una pertiene all'altro in un rapporto inscindibile: questo sostiene enfaticamente qualche inavveduto commentatore, fino ad affermare con forza l'estrema verità che "Nel momento in cui però si passa a civiltà di tipo più evoluto (o complesso), con maggiori livelli di organizzazione, separazioni di funzioni, allora la presenza delle divinità é una costante.", operando con ciò uno slittamento di significato non accettabile, che aliena dal sacro tutto ciò che non dialoga con la divinità. Pretesa assurda ed incongrua; come se nella vita di un ateo non fossero presenti i crismi dell'inviolabilità, non fiorisse il mistero e non germinasse la Trascendenza.

Tale inavveduta pretesa, genetica filiazione di un'ottica dogmaticamente indotta ed intrisa di fideismo catto-medioevale, ripudia e disdegna, inconsapevolmente, la sacralità dell'area deputata ad accoglier le sacre spoglie dei nostri cari. Il perimetro che circoscrive il sacro suolo ove son deposte le sacre spoglie gronda mistero, si radica in profondità nella metafisica e s'imbeve di Trascendenza, ma non necessariamente incontra la divinità, dalla quale, fin dall'origine, prescinde. I morti da sempre son sepolti per sottrarre e non esporre le carni, se ricoperte di sassi e terra, all'oltraggiante ingiuria degli animali necrofagi. L'area che accoglie la salma in fase di decomposizione è da sempre ritenuta inviolabile, non può essere oltraggiata dal calpestio dei vivi, ed è oggetto di sacro rispetto. Ciò non è originariamente legato alla presenza della deità, che quando soggiunge è appunto un innesto culturale postumo, ma è dovuto al fatto che le carni in decomposizione sono anche fonte di miasmi che rammentano ed evocano la dissoluzione della vita ed il suo ineluttabile confluire o ritornare nel Nulla della Morte: destino comune a tutti i viventi. L'uso di seppellire i morti è funzionale alla necessità di celare all'animo dei vivi il terrore della Morte. Non è il un omaggio alla divinità. L'antropologia su questo aspetto si esprime chiaramente ed uniformemente.

Sacro e divinità sono sicuramente confacenti l'uno all'altra, ma non si necessitano reciprocamente.

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