Menu principale

Leopardi e il Nulla.

Aperto da Socrate78, 09 Gennaio 2019, 20:39:49 PM

Discussione precedente - Discussione successiva

sgiombo

Citazione di: Vittorio Sechi il 01 Aprile 2019, 23:31:56 PM
Oltre Dio non vi è necessariamente il vuoto.

Dio è il fondamento della speranza escatologica. Il Nulla è fondamento dell'uomo qui ed ora. Senza Dio l'uomo è possibile.


Concordo.

E aggiungo un corollario: morto Dio non é affatto vero che tutto sia lecito!

sgiombo

Citazione di: Socrate78 il 02 Aprile 2019, 15:32:36 PM
Leopardi non credeva nella solidarietà tra gli uomini come qualcosa di realizzabile, né nel progresso verso un mondo migliore: egli era scettico verso tutto ciò che poteva rappresentare un vero progresso, infatti nelle Operette Morali e nello Zibaldone critica proprio l'ideologia illuminista che considera la storia un percorso progressivo verso il benessere e la felicità, verso un'umanità moralmente migliore. Sebastiano Timpanaro (di orientamento politico-culturale marxista) a mio avviso forza il pensiero di Leopardi presentandolo come un credente laico nelle utopie, forse per avvicinarlo al suo mondo ideologico, ma leggendo bene tutta la sua opera (Zibaldone, Operette Morali, ecc. ) egli tende semmai a deridere quelle ideologie basate sull'ottimismo progressista verso un mondo migliore. Leopardi, dal punto di vista della visione dell'uomo, lo trovo invece molto vicino ad Hobbes e a Nietzsche, cioè a quei filosofi che sono scettici sulla fondamentale bontà dell'essere umano.

Credo che confonda Timpanaro (della cui amicizia epistolare mi onoro) con Luporini (Leopardi progressivo), pure lui marxista, e pure lui autorevolissimo studioso del grandissimo recanatese.

Su Leopardi credo che, come tanti grandissimi, sia interpretabile in più di una maniera e utilissimamente e creativamente discutibilissimo.

Più che dell' illuminismo fu critico di un certo ottimismo romantico "provvidenzialeggiante" (e politicamente reazionario; tipico della restaurazione postbonapartistica):

Ad esso si riferisce con i versi famosissimi (e attualissimi, in questa fase storica di "restaurazione.2"!) della Ginestra:

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra

Non credo si possa negare che proprio nell' ultimo dei suoi canti la solidarietà fra gli uomini contro la matura "matrigna" consenta legittimamente di intravederne, da parte di Luporini (che probabilmente la enfatizza), una "vena progressiva", accanto ad altri atteggiamenti e suggestioni più disperatamente nichilistici.

Ipazia

Leopardi e Schopenauer sono contemporanei. Il tedesco nasce dieci anni anni prima e muore dopo, ma entrambi sono figli orfani dell'illuminismo e della rivoluzione francese che tante illusioni portarono sulle "magnifiche e progressive sorti" dell'umanità. A questa apocalisse reagirono ciascuno col suo (notevole) armamentario intellettuale facendo grande poesia e filosofia che ispirarono più generazioni di poeti e filosofi. Nietzsche viene un paio di generazioni dopo. Egli ha già elaborato il lutto, di cui gli rimane in eredità, con sincero compiacimento, la "morte di Dio". Morte su cui cerca fino alla fine di realizzare un nuovo testamento. Ridurre questi pensatori alla categoria del nichilismo in salsa filistea è segno di incomprensione totale, perchè essi sono creatori e la loro pars destruens è gia scritta nella storia di cui si limitano a prendere atto, decifrandone gli eventi e disvelandone le falsità. Diverse le vie d'uscita tentate, ma nessuno di loro si limitò a piangersi addosso e cospargersi di cenere.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Vittorio Sechi

In Leopardi son presenti, in un mix inscindibile, sia un profondo nichilismo (Severino sostiene che abbia raggiunto il fondo più abissale del nichilismo) quanto una forte tensione spirituale. La sua è una trascendenza atea, che non dialoga con entità sovrannaturali, e che indugia con stupore (dall'etimo colpire) nel mistero umbratile della morte. Un metafisico che rinuncia al cielo.

"1            Sola nel mondo eterna, a cui si volve
2             Ogni creata cosa,
3             In te, morte, si posa
4             Nostra ignuda natura;
5             Lieta no, ma sicura
6             Dall'antico dolor"

Questa è una dichiarazione tanto perentoria quanto inequivocabile. I primi sei versi sono antinomici. Esiste una sola 'cosa' eterna, mai creata, non soggetta a dissoluzione: la morte, cioè il Nulla, proprio ciò che per antonomasia 'non è', sebbene esista.  Ad essa si volve (un verbo che richiama il moto, quindi il divenire ed il muoversi verso...) ogni creata cosa. Tutto ciò che è vivo è destinato al Nulla. Ciò lascerebbe intendere che il tragitto che si compie verso il nulla sia inframmezzato ed intriso di consistenza e di essere. Ma qui, per fugare ogni dubbio circa l'inconsistente consistenza di questa illusoria increspatura del Nulla, ci viene in aiuto "l'antologia dei pensieri" del recanatese: "Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un'ora più quieta conoscerò, la vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s'annullerà, lasciandomi in un voto universale, in un'indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi (Zibaldone, 72 – uno fra I tanti).
Non vi e nulla che sfugga all'imperio protervo del Nulla. Leopardi esprime in prosa e poesia la nullificazione del reale.

Ma è davvero la sua la quintessenza del nichilismo?

Lo sarebbe, forse, se non non fosse anche l'autore di quel capolavoro di "teologia atea" e "filosofia mistica" rappresentato da 'L'infinito".

Non posso esimermi dal riportare l'intero testo:
"Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare."

Questo canto è al tempo stesso un'opera filosofica e un tuffo all'interno dell'anima. Un viaggio nel mondo del surreale che sovente conforta, talvolta addolora. Condotto sulle ali dell'immaginazione, svincolato, pertanto, dalla necessità di dover essere coerente e aderente alla realtà. È un volo leggero che si rende possibile attingendo linfa e nutrimento utilizzando lo scandaglio dell'immaginazione, per connettere il profondo dell'anima con un oltre che affascina e consola. Un'anima dolente, quella del poeta, ripiegata su sé stessa, che recupera da quel fondo abissale la forza vitale indispensabile per superare le distanze e immergersi in un mare che rende dolce il naufragio.

Il fulcro intorno a cui tutto ruota e su cui tutto poggia, la chiave di volta è l'immaginazione: il potere della mente di travalicare gli ostacoli, di andare oltre le siepi e le barriere, superare i monti e guardare oltre.

La siepe e il monte citati sono reali, fanno parte del paesaggio di Recanati. Leopardi si trova ad osservare l'orizzonte; parte di questa visione è impedita da questi due ostacoli. Invece di arrendersi all'impossibilità di osservare il mondo oltre la siepe, il poeta supplisce alla deprivazione sensoriale immergendo il secchio del suo speculare nel profondo pozzo dell'immaginazione. Ed è così che quel limite rappresentato dalla siepe e dal monte Tabor svolge il ruolo di suscitare ed innescare l'attività astrattiva della mente. Un ostacolo reale è istanza e psicopompo di un vagolare dell'anima entro un ambito irreale, o che quantomeno si sottrae ai sensi, stimolando lo spirito.

È un vero capovolgimento di relazione, quello che in questo breve testo viene sontuosamente descritto. Un limite che espande la visione, anziché tarparla. Una visione onirica, certo, ma pur sempre un qualcosa in più rispetto alla ristrettezza della realtà che si offre ai sensi. Inseguendo i pensieri eccitati dalla privazione sensoriale causata dal colle e dalla siepe, egli colma l'assenza attraverso l'attività dell'anima, e si riappropria di quell'immenso spicchio di universo che la concretezza delle cose gli preclude.

È quindi il limite – reale - il vero motore dell'immaginare, perché senza quella barriera che delimita le capacità fisiche e percettive, quelle astrattive non verrebbero innescate. Porsi davanti ad un limite, entrandoci in contatto, accende nell'animo umano la propensione a superarlo. L'intera storia della cultura e del sapere umano è progredita stazionando (singolarissimo, ma sensato, ossimoro) sul margine, è, infatti, una storia di orlo, che si muove sempre sul crinale verso cui convergono il noto e l'ignoto da esplorare. E si esplica facendo leva sulle indubitabili capacità creative della mente che proficuamente s'intrecciano con quelle astrattive dell'anima, quindi, in definitiva con l'immaginazione, che funge da ponte fra percezione dei sensi e quella dell'anima.

Leopardi è inattingibile, non può essere de-finito entro schemi razionali ed unidirezionati; scarta di lato e si sottrae ad ogni definizione e schema. È il significante che significa sé stesso, esaltando il caos che abita l'anima. Perciò non può essere definito univocamente ateo; ricusa Dio ed ogni alterità divina, ritrovandosi solo con sé stesso immerso in un Nulla mistico, che costituisce l'intera religione che la sua anima concepisce.

Discussioni simili (5)