La verità è ciò che si dice

Aperto da 0xdeadbeef, 17 Giugno 2018, 17:16:42 PM

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Phil

Sdoppiando il piano del discorso in "piano reale" e "piano fittizio", il problema della presunta verità viene, in certi casi, anch'esso sdoppiato (in una sorta di "mitosi"): nel caso di (con)testi notoriamente fittizi (libri e affini), è facile riconoscere che il piano non è quello della realtà; tuttavia, in narrazioni o discorsi meno limpidi e decifrabili (citavo il "piano delle fake news"), oltre al problema di valutazione vero/falso si (im)pone anche la questione del discernimento reale/fittizio.

L'esempio che segue è sciocco, tuttavia, come sempre, mi affido al vostro intuito nel coglierne il senso fra le righe: se dico a un bambino "Babbo Natale è tuo padre!", il pargolo, pur prendendo subito per vero ciò che gli racconto (e già ciò ci agevola), potrebbe non orientarsi facillmente fra (guardando dal suo punto di vista interlocutorio) le verità del piano della finzione (ovvero "Babbo Natale è una leggenda, chi ti porta i doni davvero è tuo padre") e la verità del piano della realtà ("tuo padre, la notte del 24 dicembre, si veste da vecchio barbuto e porta regali a tutti i bimbi del mondo" oppure, se il fanciullo è avvezzo alle telenovele "il tuo vero padre non è quello in salotto, bensì il vecchio che ha lasciato il tetto coniugale per trasferirsi al Polo Nord ad allevare renne, etc."). 
Se a questa incerta scissione fra i due piani, aggiungiamo che il nostro piccolo filosofo potrebbe iniziare a dubitare che gli si stia raccontando la verità, ecco che l'intricarsi delle insidie degli scenari che deve ponderare gli farà rimpiangere la semplicità del valore cristiano del Natale (e neanche tanto: "la nascita di Gesù è vera in realtà o solo nella finzione narrativa della Bibbia? Falsa nella realtà e vera nella Bibbia? Vera nella realtà ma descritta in modo falso nella Bibbia?", potrebbe iniziare a chiedersi il piccolo esegeta...).
Se poi a questi due piani (reale/fittizio), in ognuno dei quali bisognerebbe distinguere vero/falso, aggiungiamo le ulteriori "proposte" delle varie interpretazioni (più o meno consolidate storicamente), ci si ritrova in un labirinto di specchi (nel senso che più si riflette e peggio è  ;D ) in cui, o ci si affida alla scorciatoia "la verità è ciò in cui riesco a credere", oppure trovare l'uscita-verità (se c'è) comporta probabilmente ardue peripezie, lungo cammino e... alte possibilità che il Minotauro risolva i nostri dilemmi con le sue corna (nel senso di restare infilzati dalle "corna del dilemma", come si dice in retorica).

P.s.
Se ci sostituiamo al bambino e, al posto di Babbo Natale, mettiamo una spinosa questione politica, un cruciale evento storico o addirittura immani questioni filosofiche, possiamo ben immaginare perché (precorrendo le annesse questioni epistemologiche ed ermeneutiche) Nietzsche ci abbia suggerito l'opzione-scorciatoia.

Carlo Pierini

Citazione di: 0xdeadbeef il 17 Giugno 2018, 17:16:42 PM
Scusate ma, anche in riferimento alle ultime discussioni, mi piacerebbe riproporre un vecchio argomento che postai cinque
anni fa sul vecchio forum. Spero di fare cosa gradita.

Qualche tempo fa, in occasione dell'uscita del suo romanzo "Il Cimitero di Praga", ad Umberto Eco fu chiesto se fosse
vero che gli Ebrei mangiavano i bambini (come nel romanzo era presunto, insomma).
La risposta di Eco è stata, a mio parere, di una coerenza filosofica sovrumana: "la verità è ciò che si dice", disse Eco,
facendo con ciò intendere che se a quell'epoca questo era ciò che veniva detto, allora era senz'altro vero (così come
oggi, che viene detto il contrario, è vero che gli Ebrei NON mangiavano bambini).
Se, come disse Nietzsche nei "Frammenti postumi", la modernità possiede una convinzione che non fu propria di nessuna
epoca, ossia che non c'è una verità, allora questa di Eco è la posizione più coerente che sia possibile immaginare.
un saluto

Non c'è nulla di coerente. Se non c'è una verità, allora non è verità nemmeno <<non c'è una verità>>.
In altre parole, la verità NON POSSIAMO negarla, altrimenti neghiamo la nostra stessa negazione.
Se proprio vogliamo essere disfattisti, possiamo solo dire che NON CONOSCIAMO quale sia la verità.

epicurus

Incollo qui di seguito un pezzo di un saggio di Eco: "Di un realismo negativo". Non solo ci permette di capire esattamente la posizione di Eco, ma lo trovo interessante ai fini generali di questa discussione.

*****

A questa curiosa eresia ["non esistono fatti solo interpretazioni", nota di Epicurus] avevo da gran tempo reagito, a tal segno che a una serie di miei studi degli anni Ottanta avevo dato nel 1990 il titolo I limiti dell'interpretazione, partendo dall'ovvio principio che, perché ci sia interpretazione ci deve essere qualcosa da interpretare – e se pure ogni interpretazione non fosse altro che l'interpretazione di una interpretazione precedente, ogni interpretazione precedente assumerebbe, dal momento in cui viene identificata e offerta a una nuova interpretazione, la natura di un fatto – e che in ogni caso il regressus ad infinitum dovrebbe a un certo punto arrestarsi a ciò da cui era partito e che Peirce chiamava l'Oggetto dinamico. [...]

È vero che quando si cita lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni anche il piú assatanato tra i postmodernisti è pronto ad asserire che lui o lei non hanno mai negato la presenza fisica non solo dell'edizione Einaudi dei Promessi sposi, ma anche del tavolo da cui sto parlando. Il postmodernista dirà semplicemente che questo tavolo diventa oggetto di conoscenza e di discorso solo se lo si interpreta come supporto per un'operazione chirurgica, come tavolo da cucina, come cattedra, come oggetto ligneo a quattro gambe, come insieme di atomi, come forma geometrica imposta a una materia informe, persino come tavola galleggiante per salvarmi durante un naufragio. Sono sicuro che anche il postmodernista a tempo pieno la pensi cosí, salvo che quello che stenta ad ammettere è che non può usare questo tavolo come veicolo per viaggiare a pedali tra Torino e Agognate lungo l'autostrada per Milano. Eppure questa forte limitazione alle interpretazioni possibili del tavolo era prevista dal suo costruttore, che seguiva il progetto di qualcosa interpretabile in molti modi ma non in tutti.

L'argomento, che non è paradossale, bensí di assoluto buon senso, dipende dal problema delle cosiddette affordances teorizzate da Gibson (e che Luis Prieto avrebbe chiamato pertinenze), ovvero dalle proprietà che un oggetto esibisce e che lo rendono piú adatto a un uso piuttosto che a un altro. Ricorderò un mio dibattito con Rorty, svoltosi a Cambridge nel 1990, a proposito dell'esistenza o meno di criteri d'interpretazione testuali. Richard Rorty – allargando il discorso dai testi ai criteri d'interpretazione delle cose che stanno nel mondo – ricordava che noi possiamo certo interpretare un cacciavite come strumento per avvitare le viti ma che sarebbe altrettanto legittimo vederlo e usarlo come strumento per aprire un pacco.

Nel dibattito orale Rorty alludeva al diritto che avremmo d'interpretare un cacciavite anche come qualcosa di utile per grattarci un orecchio. Nell'intervento poi consegnato da Rorty all'editore l'allusione alla grattata d'orecchio era scomparsa, perché evidentemente Rorty l'aveva intesa come semplice boutade, inserita a braccio durante l'intervento orale. [...] Un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi dentro l'orecchio, perché è appunto tagliente, e troppo lungo perché la mano possa controllarne l'azione per una operazione cosí delicata; per cui sarà meglio usare un bastoncino leggero che rechi in cima un batuffolo di cotone. C'è dunque qualcosa sia nella conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite che non mi permette di interpretare quest'ultimo a capriccio.

[...]
Che non vi siano fatti ma solo interpretazioni viene attribuito a Nietzsche e credo che persino Nietzsche ritenesse che il cavallo che aveva baciato non lontano da qui esistesse come fatto prima che lui decidesse di farlo oggetto dei suoi eccessi affettivi. Però ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, e queste responsabilità emergono chiaramente in quel testo che è Su verità e menzogna in senso extramorale. Qui Nietzsche dice che, poiché la natura ha gettato via la chiave, l'intelletto gioca su finzioni che chiama verità, o sistema dei concetti, basato sulla legislazione del linguaggio. Noi crediamo di parlare di (e conoscere) alberi, colori, neve e fiori, ma sono metafore che non corrispondono alle essenze originarie. Ogni parola diventa concetto sbiadendo nella sua pallida universalità le differenze tra cose fondamentalmente disuguali: cosí pensiamo che a fronte della molteplicità delle foglie individue esista una «foglia» primordiale «sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte – ma da mani maldestre – tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della forma originale».

L'uccello o l'insetto percepiscono il mondo in un modo diverso dal nostro, e non ha senso dire quale delle percezioni sia la piú giusta, perché occorrerebbe quel criterio di «percezione esatta» che non esiste, perché «la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile». Dunque un kantismo, ma senza fondazione trascendentale.

A questo punto per Nietzsche la verità è solo «un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi» elaborati poeticamente, e che poi si sono irrigiditi in sapere, «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria», monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione solo come metallo, cosí che ci abituiamo a mentire secondo convenzione, avendo sminuito le metafore in schemi e concetti. E di lí un ordine piramidale di caste e gradi, leggi e delimitazioni, interamente costruito dal linguaggio, un immenso «colombaio romano», cimitero delle intuizioni.

Che questo sia un ottimo ritratto di come l'edificio del linguaggio irreggimenti il paesaggio degli enti, o forse un essere che rifiuta di essere irrigidito in sistemi categoriali, è innegabile. Ma rimangono assenti, anche dai brani che seguono, due domande: se adeguandoci alle costrizioni di questo colombaio si riesce in qualche modo a fare i conti col mondo, per esempio decidendo che avendo la febbre è piú opportuno assumere aspirina che cocaina (che non sarebbe osservazione da nulla); e se non avvenga che ogni tanto il mondo ci costringa a ristrutturare il colombaio, o addirittura a sceglierne una forma alternativa (che è poi il problema della rivoluzione dei paradigmi conoscitivi). Nietzsche non sembra chiedersi se e perché e da dove un qualche giudizio fattuale possa intervenire a mettere in crisi il sistema-colombaio.

Ovvero, a dir la verità, egli avverte l'esistenza di costrizioni naturali e conosce un modo del cambiamento. Le costrizioni gli appaiono come «forze terribili» che premono continuamente su di noi, contrapponendo alle verità «scientifiche» altre verità di natura diversa; ma evidentemente rifiuta di riconoscerle concettualizzandole a loro volta, visto che è stato per sfuggire a esse che ci siamo costruiti, quale difesa, l'armatura concettuale. Il cambiamento è possibile, ma non come ristrutturazione, bensí come rivoluzione poetica permanente. «Se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura». [...]

In altre parole: una volta accettato il principio che dell'essere si parla solo in molti modi, che cosa è che ci impedisce di credere che tutte le prospettive siano buone, e che quindi non solo l'essere ci appaia come effetto di linguaggio ma sia radicalmente e altro non sia che effetto di linguaggio, e proprio di quella forma di linguaggio che si può concedere i maggiori sregolamenti, il linguaggio del mito o della poesia? L'essere allora, oltre che (come ha detto una volta Vattimo con efficace piemontesismo) «camolato», malleabile, debole, sarebbe puro flatus vocis. [...]

Decisione per nulla confortante, visto che, una volta regolati i conti con l'essere, ci ritroveremmo a doverli fare con il soggetto che emette questo flatus vocis (che è poi il limite di ogni idealismo magico). Qual è lo statuto ontologico di colui che dice che non vi è alcun statuto ontologico?
Non solo. Se è principio ermeneutico che non ci siano fatti ma solo interpretazioni, questo non esclude che ci possano essere per caso interpretazioni «cattive». Dire che non c'è figura vincente del poker che non sia costruita da una scelta del giocatore (magari incoraggiata dal caso) non significa dire che ogni figura proposta dal giocatore sia vincente. Basterebbe che al mio tris d'assi l'altro opponesse una scala reale, e la mia scommessa si sarebbe dimostrata fallace. Ci sono nella nostra partita con l'essere dei momenti in cui Qualcosa risponde con una scala reale al nostro tris d'assi?

Tornando al cacciavite di Rorty si noti che la mia obiezione non escludeva che un cacciavite possa permettermi infinite altre operazioni: per esempio potrei utilmente usarlo per uccidere o sfregiare qualcuno, per forzare una serratura o per fare un buco in piú in una fetta di groviera. Quello che è sconsigliabile farne è usarlo per grattarmi l'orecchio. Per non dire (il che sembra ovvio ma non è) che non posso usarlo come bicchiere perché non contiene cavità che possano ospitare del liquido. Il cacciavite risponde di sí a molte delle mie interpretazioni ma a molte, e almeno a una risponde di no.

Riflettiamo su questo no, che sta alla base di quello che chiamerò il mio realismo negativo. Il vero problema di ogni argomentazione «decostruttiva» del concetto classico di verità non è di dimostrare che il paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace. Su questo pare che siano d'accordo tutti, ormai. Il mondo quale ce lo rappresentiamo è certamente un effetto d'interpretazione, e sino a ieri lo interpretavamo come se i neutrini viaggiassero anch'essi alla velocità della luce e forse domani dovremo deciderci a cambiare idea mettendo in crisi una presunta costante universale. Il problema è piuttosto quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione dell'impossibile. Quale è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico (perché esistono pure persone che dopo averlo assunto si gettano dalla finestra convinte di volare, e si spiaccicano al suolo – e badiamo, contro i propri propositi e speranze), e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda? Poniamo pure, con Vattimo, una differenza tra epistemologia, che è «la costruzione di corpi di sapere rigorosi e la soluzione di problemi alla luce di paradigmi che dettano le regole di verifica delle proposizioni» (e ciò sembra corrispondere al ritratto che Nietzsche dà dell'universo concettuale di una data cultura) ed ermeneutica come «l'attività che si dispiega nell'incontro con orizzonti paradigmatici diversi, che non si lasciano valutare in base a una qualche conformità (a regole o, da ultimo, alla cosa), ma si dànno come proposte "poetiche" di mondi altri, di istituzione di regole nuove». Quale regola nuova la comunità deve preferire, e quale altra condannare come follia? Vi sono pur sempre, e sempre ancora, coloro che vogliono dimostrare che la terra è quadra, o che viviamo non all'esterno bensí all'interno della sua crosta, o che le statue piangono, o che si possono flettere forchette per televisione, o che la scimmia discende dall'uomo – e a essere flessibilmente onesti e non dogmatici bisogna pure trovare un criterio pubblico onde giudicare se le loro idee siano in qualche modo accettabili.
Di lí l'idea di un realismo negativo che si potrebbe riassumere, sia parlando di testi che di aspetti del mondo, nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l'oggetto da interpretare non ammette.

Poniamo che su quel muro sia dipinto uno splendido trompe l'oeil che rappresenta una porta aperta. Posso interpretarlo come trompe l'oeil che intende ingannarmi, come porta vera (e aperta), come rappresentazione con finalità estetiche di una porta aperta, come simbolo di ogni Varco a un Altrove, e cosí via, forse all'infinito. Ma se l'interpreto come vera porta aperta e cerco di attraversarla, batto il naso contro il muro. Il mio naso ferito mi dice che il fatto che cercavo di interpretare si è ribellato alla mia interpretazione.

Certamente la nostra rappresentazione del mondo è prospettica, legata al modo in cui siamo biologicamente, etnicamente, psicologicamente e culturalmente radicati cosí da non ritenere mai che le nostre risposte, anche quando appaiono tutto sommato «buone», debbano essere ritenute definitive. Ma questo frammentarsi delle interpretazioni possibili non vuole dire che everything goes.
In altre parole: esiste uno zoccolo duro dell'essere, tale che alcune cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano essere prese per buone.

Chi ha mai detto che i fatti che interpreto possano pormi dei limiti? Come posso fondare il concetto di limite?
Questo potrebbe essere un semplice postulato dell'interpretazione, perché se assumessimo che delle cose si può dire tutto non avrebbe piú senso l'avventura della loro interrogazione continua. A questo punto anche il piú radicale dei relativisti potrebbe decidere di assumere l'interpretazione del piú radicale dei realisti vecchio stampo, visto che ogni interpretazione vale l'altra.

Noi abbiamo invece la fondamentale esperienza di un limite di fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: è l'esperienza della morte. Siccome mi avvicino al mondo sapendo che almeno un limite c'è, non posso che proseguire la mia interrogazione per vedere se, per caso, di limiti non ce ne siano altri ancora.

[...]
Se il continuum ha delle linee di tendenza, per impreviste e misteriose che siano, non si può dire tutto quello che si vuole. Il mondo può non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi vietati. Ci sono delle cose che non si possono dire.

Non importa che queste cose siano state dette un tempo. In seguito abbiamo per cosí dire «sbattuto la testa» contro qualche evidenza che ci ha convinto che non si poteva piú dire quello che si era detto prima.
Naturalmente ci sono dei gradi di costrizione.

Ci sono delle cose che non si possono dire. Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice no. Questo no è la cosa piú vicina che si possa trovare, prima di ogni filosofia prima o teologia, alla idea di Dio o di legge. Certamente è un Dio che si presenta (se e quando si presenta) come pura negatività, puro limite, pura interdizione.

E qui debbo fare una precisazione, perché mi rendo conto che la metafora dello zoccolo duro può fare pensare che esista un nocciolo definitivo che un giorno o l'altro la scienza o la filosofia metteranno a nudo; e nello stesso tempo la metafora può fare pensare che questo zoccolo, questi limiti di cui ho parlato, siano quelli che corrispondono alle leggi naturali. Vorrei chiarire (anche a costo di ripiombare nello sconforto gli ascoltatori che per un attimo avevano creduto di ritrovare una idea consolatoria della realtà) che la mia metafora allude a qualcosa che sta ancora al di qua delle leggi naturali, che persisterebbe anche se le leggi newtoniane si rivelassero un giorno sbagliate – e anzi sarebbe proprio quel qualcosa che obbligherebbe la scienza a rivedere persino l'idea di leggi che parevano definitivamente adeguare la natura dell'universo. Quello che voglio dire è che noi elaboriamo leggi proprio come risposta a questa scoperta di limiti, che cosa siano questi limiti non sappiamo dire con certezza, se non appunto che sono dei «gesti di rifiuto», delle negazioni che ogni tanto incontriamo. Potremmo persino pensare che il mondo sia capriccioso, e cambi queste sue linee di tendenza – ogni giorno o ogni milione di anni. Ciò non eliminerebbe il fatto che noi le incontriamo.

Credo che ci siano dei rapporti tra questo mio modestissimo realismo negativo (per cui avvertiamo qualcosa fuori di noi e dalle nostre interpretazioni solo quando riceviamo un diniego) e l'idea popperiana per cui l'unica prova a cui possiamo sottoporre le nostre teorie scientifiche è quella della loro falsificabilità. Non sapremo mai definitivamente se una interpretazione è giusta ma sappiamo con certezza quando non tiene.
Credo di essermi attenuto a questo principio di realismo negativo sin da quando, all'inizio degli anni Sessanta, nel sostenere l'indispensabile collaborazione del fruitore a ogni testo artistico, intitolavo il mio libro Opera aperta. Questo apparente ossimoro mirava a sostenere che l'apertura, potenzialmente infinita, si misurava di fronte all'esistenza concreta dell'opera da interpretare. Che era poi da parte mia una ripresa dell'idea pareysoniana che l'interpretazione si articola sempre in una dialettica di iniziativa dell'interprete e fedeltà alla forma da interpretare.

Infinite sono le interpretazioni possibili del Finnegans Wake ma neppure il piú selvaggio tra i decostruzionisti può dire che esso racconta la storia di una contessa russa che si uccide gettandosi sotto il treno.

Potrei tradurre questa mia idea di realismo negativo in termini peirceani. Ogni nostra interpretazione è sollecitata da un oggetto dinamico che noi conosceremo sempre e solo attraverso una serie di oggetti immediati (l'oggetto immediato essendo già un segno, che può essere chiarito solo da una serie successiva di interpretanti, ciascun interpretante successivo spiegando sotto un certo profilo il precedente, in un processo di semiosi illimitata). Ma nel corso di questo processo produciamo degli abiti, delle forme di comportamento, che ci inducono ad agire sull'oggetto dinamico da cui eravamo partiti e a modificare la cosa in sé da cui eravamo partiti, offrendo un nuovo stimolo al processo della semiosi. Questi abiti possono avere o meno successo, ma quando non l'ottengono il principio del fallibilismo deve portarci a ritenere che alcune delle nostre interpretazioni non erano adeguate.

È sufficiente intrattenere questa idea minimale di realismo, che coincide benissimo col fatto che conosciamo i fatti solo attraverso il modo in cui li interpretiamo? Una volta Searle aveva detto che realismo significa che siamo convinti che le cose vadano in un certo modo, che forse non riusciremo mai a decidere in che modo vadano, ma che siamo sicuri che esse vadano in un certo qual modo anche se non sapremo mai quale. E questo ci basta per credere (e qui Peirce viene in soccorso a Searle) che in the long run, alla fin fine, sia pure sempre parzialmente noi possiamo portare avanti la torcia della verità.

La forma modesta del realismo negativo non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità, ovvero sapere definitivamente what is the case, ma ci incoraggia a cercare ciò che in qualche modo sta davanti a noi; e la nostra consolazione di fronte a ciò che altrimenti ci parrebbe per sempre inafferrabile consiste nel fatto che noi possiamo sempre dire, anche ora, che alcune delle nostre idee sono sbagliate perché certamente ciò che avevamo asserito non era il caso.

Apeiron

Citazione di: epicurus il 20 Giugno 2018, 12:34:52 PMIncollo qui di seguito un pezzo di un saggio di Eco: "Di un realismo negativo". Non solo ci permette di capire esattamente la posizione di Eco, ma lo trovo interessante ai fini generali di questa discussione.

Grazie mille epicurus per aver condiviso questo scritto, davvero interessante  8)



Comunque, se posso fare un breve commento all'idea del "realismo negativo"... ebbene è un'ottima tesi per restare "scettici" senza cadere in alcune versioni di "post-modernismo", "relativismo", "pensiero debole" ecc.  Inoltre mi sembra un'ottima argomentazione contro la teoria della coerenza della verità almeno in alcune sue forme, ovvero che la verità di una proposizione vera consiste nella coerenza con un insieme di un specifico insieme di proposizioni.



Tuttavia, mi pare una prospettiva piuttosto incompleta, almeno per chi cerca di "comprendere" la realtà.


In sostanza, come "confessione della propria ignoranza" è un'ottima prospettiva e molto rispettabile. Tuttavia non offre, a sua volta, spiegazioni sul perchè:
1) certe prospettive sono, effettivamente, false ("Ma se l'interpreto come vera porta aperta [n.d.r. anziché disegnata] e cerco di attraversarla, batto il naso contro il muro...");
2) non spiega perchè il "relativismo" è falso (o più precisamente: semplicemente utilizza il criterio empirico per falsificarlo. Ma non da una spiegazione soddisfacente in proposito - in sostanza è come dire: "è falso ma non saprei dirti il motivo");

3) certe prospettive sono "migliori" di altre (interpretare la porta aperta come semplice disegno su un muro).


Quindi come "critica" sia contro varie forme di "relativismo" che contro varie forme di "dogmatismo", il relativismo negativo è molto buono. Ma, personalmente, mi sembra una prospettiva troppo "pessimista". Personalmente ritengo che, per lo meno, le nostre "prospettive migliori" siano tali perchè sono in qualche modo un'approssimazione "della realtà" (e almeno dal punto di vista teorico, è possibile pensare ad una prospettiva che conosca la realtà in modo inerrante). Ritengo, quindi, che ci è possibile avere almeno una conoscenza parziale "delle cose" utilizzando la nostra mente concettuale ("parziale" e quindi parzialmente erronea - ma anche parzialmente veridica).



Per usare un esempio della fisica: non credo che la fisica, per ora, ci abbia fatto capire solamente che, ad esempio, la meccanica newtoniana non è una accurata descrizione "della realtà". Personalmente, ritengo invece che la fisica ci abbia fatto capire che le teorie più recenti sono migliori approssimazioni "della realtà" (così come la meccanica newtoniana è ancora un'ottima approssimazione). In sostanza, un semplice "realismo negativo" mi sembra molto incompleto! Tuttavia, è una prospettiva che rispetto  ;)



Detto ciò. Torno nel mio silenzio.  ;D  



P.S.
Colgo l'occasione per chiedere scusa per aver interrotto così bruscamente la mia partecipazione alle discussioni forumistiche.  Purtroppo, in questo periodo non riesco a trovare il tempo per mettermi a discutere seriamente.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

0xdeadbeef

Ringrazio di cuore Epicurus per aver postato questo interessantissimo documento.
Naturalmente questa è la posizione autentica di Eco (così come rilevabile anche ne: "La soglia e l'infinito")
sul problema di cui stiamo trattando.
Senonchè rimane, come dire, "viva" la sua provocazione su di una verità "che si dice". Cioè su una
verità che è tale in vizio (non certo in virtù...) di un consenso generale che, sempre, viene fondato
dalla "potenza" in quel momento dominante.
Si diceva, allora, che gli Ebrei mangiassero i bambini come, più tardi, che fossero una razza inferiore e
malevola PERCHE', evidentemente, la cultura dominante di quei tempi "voleva" che così fosse.
E non si tratta di semplici menzogne...
Dal superamento idealistico della filosofia di Kant (che io vedo come fondante di tutta la semiotica), l'"io"
è venuto sempre più a configurarsi come l'autentico "creatore" della realtà.
Se, in altre parole, come in Hegel realtà e razionalità coincidono, questo vuol dire che coincidono fatto e
interpretazione del fatto (e coincidono nell'unico "luogo" in cui possono coincidere: nell'interpretazione).
Ecco, in estrema sintesi, come e da dove nasce la celebre affermazione di Nietzsche.
La provocazione di Eco è caustica e attualissima. Perchè tutta la nostra cultura è ancora impregnata di questo
"mortale veleno" che è l'Idealismo.
saluti

sgiombo

Citazione di: Apeiron il 20 Giugno 2018, 14:29:20 PM
Citazione di: epicurus il 20 Giugno 2018, 12:34:52 PMIncollo qui di seguito un pezzo di un saggio di Eco: "Di un realismo negativo". Non solo ci permette di capire esattamente la posizione di Eco, ma lo trovo interessante ai fini generali di questa discussione.

Grazie mille epicurus per aver condiviso questo scritto, davvero interessante  8)



Quindi come "critica" sia contro varie forme di "relativismo" che contro varie forme di "dogmatismo", il relativismo negativo è molto buono. Ma, personalmente, mi sembra una prospettiva troppo "pessimista". Personalmente ritengo che, per lo meno, le nostre "prospettive migliori" siano tali perchè sono in qualche modo un'approssimazione "della realtà" (e almeno dal punto di vista teorico, è possibile pensare ad una prospettiva che conosca la realtà in modo inerrante). Ritengo, quindi, che ci è possibile avere almeno una conoscenza parziale "delle cose" utilizzando la nostra mente concettuale ("parziale" e quindi parzialmente erronea - ma anche parzialmente veridica).



Per usare un esempio della fisica: non credo che la fisica, per ora, ci abbia fatto capire solamente che, ad esempio, la meccanica newtoniana non è una accurata descrizione "della realtà". Personalmente, ritengo invece che la fisica ci abbia fatto capire che le teorie più recenti sono migliori approssimazioni "della realtà" (così come la meccanica newtoniana è ancora un'ottima approssimazione). In sostanza, un semplice "realismo negativo" mi sembra molto incompleto! Tuttavia, è una prospettiva che rispetto  ;)



Detto ciò. Torno nel mio silenzio.  ;D  



P.S.
Colgo l'occasione per chiedere scusa per aver interrotto così bruscamente la mia partecipazione alle discussioni forumistiche.  Purtroppo, in questo periodo non riesco a trovare il tempo per mettermi a discutere seriamente.

Concordo pienamente e spero che interrompa presto e pereferibilmente in via definitiva la tua astensione (un' "assenza" comunque ovviamente del tutto "giustificata") dal forum.

sgiombo

Citazione di: 0xdeadbeef il 20 Giugno 2018, 20:20:33 PM
Ringrazio di cuore Epicurus per aver postato questo interessantissimo documento.
Naturalmente questa è la posizione autentica di Eco (così come rilevabile anche ne: "La soglia e l'infinito")
sul problema di cui stiamo trattando.
Senonchè rimane, come dire, "viva" la sua provocazione su di una verità "che si dice". Cioè su una
verità che è tale in vizio (non certo in virtù...) di un consenso generale che, sempre, viene fondato
dalla "potenza" in quel momento dominante.
Si diceva, allora, che gli Ebrei mangiassero i bambini come, più tardi, che fossero una razza inferiore e
malevola PERCHE', evidentemente, la cultura dominante di quei tempi "voleva" che così fosse.
E non si tratta di semplici menzogne...
Dal superamento idealistico della filosofia di Kant (che io vedo come fondante di tutta la semiotica), l'"io"
è venuto sempre più a configurarsi come l'autentico "creatore" della realtà.
Se, in altre parole, come in Hegel realtà e razionalità coincidono, questo vuol dire che coincidono fatto e
interpretazione del fatto (e coincidono nell'unico "luogo" in cui possono coincidere: nell'interpretazione).
Ecco, in estrema sintesi, come e da dove nasce la celebre affermazione di Nietzsche.
La provocazione di Eco è caustica e attualissima. Perchè tutta la nostra cultura è ancora impregnata di questo
"mortale veleno" che è l'Idealismo.
saluti

Credo (se ti ho capito, vecchio amico Mauro) che parlando di superamento idealistico della filosofia di Kant intendessi "preteso superamento" (forse sarebbe risultato più chiaro se avessi scritto "superamento" fra virgolette).

Credo di non semplificare eccessivamente (salvo sbagliarmi) che ciò di cui parlava, tra il sarcastico e l' ironico, in quella occasione Eco si possa identificare con l ' "ideologia" nel senso in cui la intendevano Marx ed Engels, cioé come "falsa coscienza" pretesa (e di fatto almeno in larga misura intesa, per o meno se dscretamente efficace) come vera.

0xdeadbeef

Certo, è proprio come dici ("superamento" in senso, al massimo, temporale).
In realtà, non vedo proprio come Kant possa essere "superato". Certo ci hanno provato in tanti, come ad esempio
Peirce e la semiotica in particolare, ma a mio parere non hanno fatto altro che riproporlo ma in maniera, come
dire, "intorbidata" e assai poco chiara e lineare.
Quanto ad Eco, in: "La soglia e l'infinito" ipotizza che la "cosa in sè" kantiana, o l'"evento" come lo chiama
Peirce, e il "fenomeno", o l'interpretato che dir si voglia, siano addirittura due oggetti distinti.
Come lo si possa dire a me appare un mistero...
Ma, cosa importante, l'Idealismo cerca davvero di "superarlo" nel senso pieno del termine.
Nell'Idealismo, e in Hegel o in Fichte è chiarissimo, la "cosa in sè" e il "fenomeno" sono sintetizzati. E lo
sono appunto nell'unico "luogo" ove potrebbero esserlo: nell'"io".
Ecco allora che nell'"iperidealista" Nietzsche (il quale a mio avviso supera, però estremizzandolo, l'Idealismo)
il fatto, la cosa in sè, semplicemente, scompare. E scompare appunto fagocitato dall'interpretato.
E', a parer mio, da tener ben presente che, a tutt'oggi, l'Idealismo ancora ammorba tutto il nostro pensiero
con quello che definisco il suo "veleno mortale".
Ecco perchè, ritengo, con quel "la verità è ciò che si dice" Eco esprima una estrema provocazione verso tutta la
cultura contemporanea. "Colpevole" di ragionare in termini in tutto e per tutto idealistici.
Certo, non vi ragiona più secondo i canoni classici dell'hegelismo, bensì attraverso il "superamento" di essi
che Nietzsche ha compiuto.
Però, i fondamenti sono rimasti tali e quali. Sicuramente l'"io" di Nietzsche non è più quell'"Iddio reale" di
cui parlava Hegel. E' semmai un "diavolo", che costruisce tutta la realtà sulla propria volontà di potenza.
Ma è rimasto sempre lui il "costruttore", il "creatore".
In verità, Marx (che io sempre considero un geniale economista e pensatore) cerca appunto di "superare" Hegel;
ma lo fa "rovesciandolo", cioè come specularmente mantenendone inalterate troppe premesse.
E' verissimo (e ho visto che, giustamente, spesso lo sottolinei) che Marx non rovescia Hegel cancellandone del tutto
l'"io" in favore della "materialità". Certo egli afferma che la struttura determina la sovrastruttura "in ultima
istanza". Ciò vuol dire che Marx sicuramente "sospetta" una influenza reciproca (e qui, davvero, egli riuscirebbe
a staccarsi nettamente da Hegel) fra le due sfere, ma non riesce poi a determinare rigorosamente tale pensiero
(o almeno questo a me sembra).
Probabilmente, a Marx non è seguito nessuno che sia stato in grado di riprenderne e a svilupparne il pensiero.
Troppi suoi epigoni hanno pensato ad un materialismo "scientifico", tradendo proprio quell'aggettivazione
di "storico" che il genio di Marx aveva intuito.
Anzi, se devo dirla tutta a me sembra che la "tragedia" della sinistra post-marxista (non parlo della odierna,
che persegue politiche di destra senza nemmeno saperlo) risieda, in nuce, proprio in questo.
saluti e stima da un vecchio amico.

Phil

(Alcune considerazioni "grezze", in brain storming, suggerite dal "realismo negativo" di Eco)

Da un lato, la verità, o meglio, la realtà, ci pone dei limiti, falsificando (onestissimo il richiamo a Popper di Eco) sue interpretazioni (o meglio, suoi utilizzi) troppo sconnesse e difformi dai suoi attributi, e crea dunque un (de)limitato "intervallo di senso" in cui indagare o semplicemente "piegare" il senso della verità (Eco talvolta mischia un po' troppo le due carte, "senso-funzione" e "verità", ma glielo possiamo perdonare ;) ).

Dall'altro lato, tuttavia, se lasciamo da parte oggetti, funzionalità operativa, porte disegnate, etc. e ci rivolgiamo al piano sociale, è difficile negare che un'informazione ha conseguenze ed innesca effetti domino (sociali, politici, economici, etc.) se è creduta vera, non necessariamente se lo è. In tal senso, spesso non c'è falsificazione che possa limitare l'interpretazione, per quanto questa sia scorretta. 
Se chi credeva che la terra non girasse intorno al sole ha potuto uccidere sul rogo chi affermava ciò che invece oggi è "abbastanza oggettivamente" la verità, significa che la verità, su larga scala, è resa tale o dalla forza (del potere, delle armi, dei media, etc.) oppure dal radicamento nel senso comune, senza che vi siano restrizioni esterne che l'approssimino ad un vincolante intervallo di verosimiglianza. 
Nel contesto delle dinamiche umane, il falsificazionismo che delimita il campo della verità nel contesto degli studi empirico-scientifici, non funziona sempre (anzi...): la "falsa verità" può spesso essere imposta anche da suoi interpreti (magari involontariamente) senza che ci sia falsificazione che regga, ovvero ciò che si afferma e conferma pubblicamente come verità, non è necessariamente nemmeno vagamente affine alla verità più accuratamente studiata e verificata in merito, ma è la prima verità (quella socialmente accettata) che detta legge, "agisce", attiva ripercussioni, con buona pace dell'altra.

Pensiamo alle varie superstizioni o alle scaramanzie (che ancora esistono): per quanto non siano connesse ad una verità (rapporto causa/effetto dimostrato), sono da alcuni ritenute vere e funzionanti, e ciò basta per renderle praticate, senza smentite (da parte della verità) che le arresti o le contrasti; o almeno tali smentite non risultano cosi coercitive da non poter essere smarcate con una viziosa interpretazione ad hoc, che spiega il perdurare di tal usanze. 
Pensiamo anche alla politica: se un politico viene eletto grazie ad una interpretazione falsa del reale, di fatto, finirà con il cambiare la storia del paese, o almeno prendere decisioni che avranno contraccolpi enormi (magari internazionali), senza che la "vera verità" possa avere necessariamente una sua rivincita. Ulteriore esempio: è vero che Eva ha offerto una mela ad Adamo? Pare che nel testo originale non si specifichi di quale frutto si tratti, ma ormai nell'immaginario collettivo è "vero" che fu una mela, per cui affreschi, mosaici, illustrazioni, etc. sarebbero "ad onor del vero" da cambiare; eppure permane come vero, nel comun parlare, che quel frutto era una mela (insomma, non lo era, ma ormai lo è diventata  ;D ).

Liquidare la questione sostenendo che le "false verità", ovvero le interpretazioni erronee seppur consolidate socialmente, sono solo prova dell'ingenuità della massa o di estemporanei abusi di potere, significherebbe ignorare quanto la (macro)storia umana sia dettata proprio da questi due fattori: sappiamo che non è vero che gli ebrei erano il male o che la democrazia si esporta a cannonate, ma andiamolo a dire come consolazione a chi è morto sotto tale imposizione marchiata da "verità" (qualcuno ci credeva davvero magari); come accennato sopra, sappiamo che la politica manipola dati e crea verità, ma ciò non rende comunque modificabile il risultato di un'elezione e, più banalmente, sappiamo che i gatti neri non sono messaggeri del satanasso, ma quante gente ancora spera che non gli attraversino la strada o esegue gesti scaramantici vari?

Ecco che il non-vero produce effetti e conseguenze vere (con le fantomatiche "gambe corte" le menzogne ne fanno di strada, se gli si concede il tempo...). E quale "resistenza" ha (op)posto la verità (com suggeriva Eco in altro ambito) di fronte a questo suo essere rinnegata (o ignorata), qual'è stato il limite oltre il quale ha falsificato il suo disconoscimento? Declinando l'esempio di Eco su scala storico-sociale: il cacciavite è stato, ed è tuttora, usato spesso come cotton fioc e molti si sono fatti male, oppure continuano a pensare che il cacciavite debba fungere da penna per scrivere sui muri... 

Distingeuerei quindi la "verità performativa", quella che produce effetti veri, conseguenze, ripercussioni su vasta scala, solo per il fatto di essere creduta vera (e per esserlo deve risultare facile e ben "confezionata" oppure sospinta da una forza sgominante, sia quella dell'evidenza fattuale o quelle più umane e sociali) e "verità validata", quella magari meno conosciuta, meno impattante sui popoli, ma forse, seppur per un soffio, più "vera" in quanto "studiata" (fermo restando che non è detto che le due verità non possano talvolta coincidere).

Per cui, anche se sembrerà forse fuori luogo (in un forum di "filosofi"), pongo questa domanda: al di fuori del settore scientifico e tecnico, quanto è davvero rilevante la verità (anche potendola trovare), se la storia dell'uomo la fanno, a quanto sembra, le interpretazioni e le verità "che hanno successo" (più di quelle verificate con assoluta accuratezza)? 
Non intendo sostenere che non sia affatto importante accertarsi della verità, in ambito sociale o storico, ma solo notare come, a volte, la si rintraccia così in ritardo (la ricerca ha i suoi tempi) che non le si può più rendere adeguatamente giustizia, a causa di tutta "la storia degli effetti" che la non-verità ha già provocato (ormai il politico ha il suo posto in parlamento, ormai il gatto nero non è più un gatto qualunque e ormai Eva e Adamo hanno fatto un guaio sotto un melo...).


P.s.
Vista l'ora tarda (di scrittura), non garantisco la coerenza o l'assenza di "sbandamenti"  ;D

epicurus

Citazione di: Apeiron il 20 Giugno 2018, 14:29:20 PM
Citazione di: epicurus il 20 Giugno 2018, 12:34:52 PMIncollo qui di seguito un pezzo di un saggio di Eco: "Di un realismo negativo". Non solo ci permette di capire esattamente la posizione di Eco, ma lo trovo interessante ai fini generali di questa discussione.

Grazie mille epicurus per aver condiviso questo scritto, davvero interessante  8)
Molto lieto di sapere che sia tu che 0xdeadbeef abbiate trovato interessante lo scritto.  ;)

Citazione di: Apeiron il 20 Giugno 2018, 14:29:20 PMComunque, se posso fare un breve commento all'idea del "realismo negativo"... ebbene è un'ottima tesi per restare "scettici" senza cadere in alcune versioni di "post-modernismo", "relativismo", "pensiero debole" ecc.  Inoltre mi sembra un'ottima argomentazione contro la teoria della coerenza della verità almeno in alcune sue forme, ovvero che la verità di una proposizione vera consiste nella coerenza con un insieme di un specifico insieme di proposizioni.

Tuttavia, mi pare una prospettiva piuttosto incompleta, almeno per chi cerca di "comprendere" la realtà.
Sì, Eco stesso è consapevole che la sua è un prospettiva minimale. Io stesso la condivido nel suo nucleo, ma ci aggiungo delle "estensioni", per così dire.  :)

Citazione di: Apeiron il 20 Giugno 2018, 14:29:20 PM
In sostanza, come "confessione della propria ignoranza" è un'ottima prospettiva e molto rispettabile. Tuttavia non offre, a sua volta, spiegazioni sul perchè:
1) certe prospettive sono, effettivamente, false ("Ma se l'interpreto come vera porta aperta [n.d.r. anziché disegnata] e cerco di attraversarla, batto il naso contro il muro...");
2) non spiega perchè il "relativismo" è falso (o più precisamente: semplicemente utilizza il criterio empirico per falsificarlo. Ma non da una spiegazione soddisfacente in proposito - in sostanza è come dire: "è falso ma non saprei dirti il motivo");

3) certe prospettive sono "migliori" di altre (interpretare la porta aperta come semplice disegno su un muro).


Quindi come "critica" sia contro varie forme di "relativismo" che contro varie forme di "dogmatismo", il relativismo negativo è molto buono. Ma, personalmente, mi sembra una prospettiva troppo "pessimista". Personalmente ritengo che, per lo meno, le nostre "prospettive migliori" siano tali perchè sono in qualche modo un'approssimazione "della realtà" (e almeno dal punto di vista teorico, è possibile pensare ad una prospettiva che conosca la realtà in modo inerrante). Ritengo, quindi, che ci è possibile avere almeno una conoscenza parziale "delle cose" utilizzando la nostra mente concettuale ("parziale" e quindi parzialmente erronea - ma anche parzialmente veridica).

Per usare un esempio della fisica: non credo che la fisica, per ora, ci abbia fatto capire solamente che, ad esempio, la meccanica newtoniana non è una accurata descrizione "della realtà". Personalmente, ritengo invece che la fisica ci abbia fatto capire che le teorie più recenti sono migliori approssimazioni "della realtà" (così come la meccanica newtoniana è ancora un'ottima approssimazione). In sostanza, un semplice "realismo negativo" mi sembra molto incompleto! Tuttavia, è una prospettiva che rispetto  ;)

Come dicevo sopra, anch'io reputo la teoria di Eco troppo minimalista. Quindi condivido la tua obiezione generale di fondo, vediamo però se riesco a mostrare che nella teoria di Eco, se non ci sono risposte completamente sviluppate alle tue domande, almeno ci sono i semi.

1. Non spiega perché certe prospettive sono effettivamente false.
Eco parla di zoccolo duro dell'essere, continuum, mondo, evidenze, Dio, puro limite... ecco, è questa la realtà di Eco, cioè ciò che rende vere o false le nostre credenze.

2. Non spiega perché il relativismo è falso.
Nella parte del testo si potrebbe reinterpretare il suo discorso nel senso che il relativismo è incoerente perché se diciamo che la realtà, o qualcosa, è relativo, allora quel qualcosa deve esserci e ciò non può essere relativo. Poi, tutto il suo brano è da leggersi come una critica al motto relativistico "everything goes".

3. Non spiega perché alcune teorie sono migliori di altre.
Qui ci ricolleghiamo al primo punto. Penso che Eco ti risponderebbe che comunque bisogna fare i conti con i vincoli che impone la realtà. E noi stiamo di volta in volta creiamo teoria sempre migliori, cioè teorie con minori punti di resistenza sulla realtà. Io credo che la concezione di Eco sia prima di tutto gnoseologica, cioè ci sta parlando dei limiti della nostra conoscenza della realtà, non di come la realtà è. Eco reinterpreta il fallibilismo e il falsificazionismo e li include nel suo realismo negativo. Il fatto dell'approssimazione alla verità credo sia da lui espressa quando dice "in the long run, alla fin fine, sia pure sempre parzialmente noi possiamo portare avanti la torcia della verità."


Citazione di: Apeiron il 20 Giugno 2018, 14:29:20 PM
Detto ciò. Torno nel mio silenzio.  ;D  

P.S.
Colgo l'occasione per chiedere scusa per aver interrotto così bruscamente la mia partecipazione alle discussioni forumistiche.  Purtroppo, in questo periodo non riesco a trovare il tempo per mettermi a discutere seriamente.
Mi unisco ad altri dicendoti che mi dispiace molto non averti con più presenza qui. Ma, purtroppo, anch'io in questo periodo fatico molto ad essere attivo sul forum.

epicurus

Citazione di: Phil il 21 Giugno 2018, 23:53:15 PMPer cui, anche se sembrerà forse fuori luogo (in un forum di "filosofi"), pongo questa domanda: al di fuori del settore scientifico e tecnico, quanto è davvero rilevante la verità (anche potendola trovare), se la storia dell'uomo la fanno, a quanto sembra, le interpretazioni e le verità "che hanno successo" (più di quelle verificate con assoluta accuratezza)?
Non intendo sostenere che non sia affatto importante accertarsi della verità, in ambito sociale o storico, ma solo notare come, a volte, la si rintraccia così in ritardo (la ricerca ha i suoi tempi) che non le si può più rendere adeguatamente giustizia, a causa di tutta "la storia degli effetti" che la non-verità ha già provocato (ormai il politico ha il suo posto in parlamento, ormai il gatto nero non è più un gatto qualunque e ormai Eva e Adamo hanno fatto un guaio sotto un melo...).
Ciao Phil, concordo con il tuo discorso. Ovviamente in prima analisi può shockare e disorientare notare come una falsità creduta vera possa avere importantissime e vastissime conseguenze. Ma, naturalmente, noi dobbiamo considerare, come giustamente fai anche tu, la componente performativa degli enunciati: con le parole, prima ancora di dire qualcosa, noi stiamo compiendo un atto nel mondo, con tutte le conseguenze del caso.

Quindi, a prescindere dalla verità o meno di un enunciato, le nostre parole hanno ovviamente conseguenze. John Austin fu il primo a sviluppare e sistematizzare questa concezione:
https://it.wikipedia.org/wiki/Atto_performativo
https://plato.stanford.edu/entries/speech-acts/

paul11

#26
E' paradossale........
ma quando e dove risulta che Nietzsche abbia testualmente scritto"...la verità è finzione e tutto è interpretazione"?
Se qualcuno sa darmi l'indicazione ne sarei felice.
Se così non fosse risulterebbe ancora una volta che è stata messa in "bocca " a qualcuno, in questo caso Nietzsche, un'attribuzione deduttiva a sua volta interpretativa del pensiero di Nietzsche.
Quest'ultimo nel testo a cui fa riferimento U.Eco, ed è un testo gnoseologico od epistemologico qual dir si voglia, inizia col dire che
l'uomo utilizza la simulazione in quel misero intelletto, per far illudere lo stesso uomo di poter arrivare a capire una verità/realtà.
Mette in discussione il rapporto percettivo realtà/intelletto, mette in discussione il sistema linguistico e concettuale, tant'è che in sintesi sposa l'intuizione e non la logica, volge verso l'estetica. Essendo questo scritto circa del 1873 e sono solo nel decennio successivo i suoi
più acclamati scritti, dimostrano il motivo per cui utilizzerà la via dell'aforisma piuttosto della via concettuale nelle sue ,diciamo così ,tesi.
Per chiarezza, il sottoscritta non è un apologeta o un fan di Nietzsche.
Nietzsche non è un idealista, tutt'altro. L'idealismo oggi è cosa striminzita nel panorama culturale.
Non confonderei il criticismo di Kant con il successivo idealismo di Hegel.

Dal mio semplice balcone sul mondo ritengo che nessuna strada epistemologica può giungere all'episteme da sola.
Non può farlo la sola metafisica, nemmeno la scienza attuale, nemmeno la logica da sola, così come la filosofia del linguaggio, ma semmai tutte, nessuna esclusa, possono contribuire ad avvicinare  i due concetti di verità e realtà.

Più banalmente  e abbassando il livello culturale, il "sistema di credenza" è basato sull'autorità, autorevolezza, fiducia del "dicitore", da parte di colui che recepisce un messaggio, un evento, un'informazione.Sono i nostri genitori che da piccoli ci hanno detto che........
è la maestra, il professore che ci hanno insegnato che...........è il prete che ci ha detto che.......sono i telegiornali.....quel giornale o quella rivista importante che..........Tanto più è credibile il dicitore e tanto più è estensivo il messaggio recepito .Tanto più si ha fiducia del parlante e tanto più la credenza si salda in noi mentalmente.
E' altrettanto chiaro che un elemento di nuova informazione deve a sua volta avere una coerenza con le nostre preesistenti credenze.
"Gli ebrei mangiano i bambini"(si diceva anche dei comunisti.....) si scontra con la Torà che descrive le ritualità ,prescrizioni, comportamenti da tenere.
Quindi ci crede o chi ha un astio contro gli ebrei e nello stesso tempo non conosce la loro storia e costumi. 
Il ricevente deve quindi avere delle precondizioni di deficit culturale affinchè possa essere ricettivo un falso concetto una falsa notizia, ecc.

Nel marketing si divide la pubblicità del prodotto e quella del logo, del marchio societario.
Avere un marchio credibile e non "sputtanato", significa che i suoi prodotti sono attendibili

epicurus

Ciao Paul,

non sono un intenditore di Nietzsche, tutt'altro, quindi non entro nella questione se Eco (o altri) lo abbiano interpretato correttamente o meno. Comunque, per completezza, inserisco qui di seguito il link al brano di Nietzsche a cui Eco si riferisce: Su verità e menzogna in senso extramorale.

Il brano è relativamente corto (poco più di 6 pagine), quindi si legge velocemente.  ;)

paul11

ciao Epicurus,
infatti avevo stampato e letto ieri il testo di Nietzsche; ho letto altri articoli di giornali di Umberto Eco nel periodo del neo realismo(non cinematografico), portato avanti qualche anno fa dal filosofo Ferraris, discepolo di Vattimo, e quest'ultimo prende le distanze dalla posizione del suo allievo ; infine ho letto un altrettanto articolo interessante di Severino(mi pare su Repubblica) dove racconta di uno scambi odi vedute ad una cena fra lui ,Eco e Ferraris.

Il grande problema epistemologico del rapporto o meglio relazione, fra nostra mente e realtà, con i relativi strumenti del linguaggio
sono tutt'ora in corso d'opera(è un'ovvietà la mia). Perchè,come sai, è difficile dire cosa significa oggettivamente realtà.La filosofia della mente. la soggettività, a sua volta è una problematica; infine il linguaggio che è lo strumento relazionale fra mente e oggetto(semiologia o semiotica, logica ,filosofia analitica o del linguaggio e chi come Nietzsche, ma non solo,  ci pone, anche e non solo, l'intuizione e quindi l'estetica.
Ci sono molte posizioni e "sottoposizioni" all'interno di stesse correnti di pensiero, e per quanto ne sappia ognuna ha delle sue buone ragioni  ma che da sole non reggono la sfida epistemologica.
Ne sappiamo di più oggi grazie agli effetti, non conoscendo tutt'ora le cause, intesa quest'ultima come"fenomenologia della mente umana".Si sa come "convincere" le persone, gli effetti psicologici testati. l'uso di simboli e parole e molto utilizzate nelle pratiche comunicative.
Il primo e vero enigma riguarda l'uomo "come è fatto".

sgiombo

So di dire una cosa molto più semplice e banale della maggior arte delle delle considerazioni che sono già state proposte in questa discussione, ma secondo me

é ovvio che credenze false abbiano effetti reali, talora anche "pesanti", dal momento che credenze false che realmente accadano (il fatto che ci sia chi crede qualcosa di falso) sono fatti reali, interagenti causalmente con il resto della realtà.

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