La vera vita a riferimento di verità

Aperto da maral, 13 Novembre 2016, 23:51:26 PM

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maral

La verità filosofica, già in Platone, si presenta non solo come corrispondenza formale istituita dal logos tra ciò che si dice e la realtà, ma anche sulla coerenza che trova la parola del filosofo con la sua vita, nella misura in cui essa si presenta come vera vita. Come dice Michel Foucault nelle sue ultime lezioni, la vera vita assume un'importanza fondamentale per alcune scuole filosofiche che svilupperanno meno il loro impianto teorico ontologico per soffermarsi sugli aspetti esistenziali e morali, in particolare l'Epicureismo e lo Stoicismo, ma soprattutto i Cinici per i quali il tema della "vera vita" diventa fondamentale e portato alle più estreme e provocatorie conseguenze: la filosofia si fa con il proprio stile di vita, con i propri atti ben più che con i discorsi.
Questo principio diventerà però filosoficamente sempre meno praticato, la "vera vita" assumerà con il cristianesimo una connotazione religiosa, anche se debitrice delle idee filosofiche che l'hanno preceduta e la filosofia si indirizzerà verso un'argomentazione sempre più formalmente oggettiva, finché lascerà il campo della verità alla scienza moderna, per la quale il tema della "vera vita" non determina alcunché rispetto al valore oggettivo di verità di una teoria scientifica che si considera del tutto indipendente dai comportamenti dello scienziato - soggetto che la enuncia.
La verità, aletheia, per i Greci è ciò che si presenta non nascosto, non modificato, diritto e immutabile e la vera vita è enunciata secondo questi stessi principi: la vita vera (come il vero amore) non dissimula, non presenta ombre, non è corrotta, mantiene la sua direzione diritta senza disperdersi, è una vita retta che evita i perturbamenti senza cedere ai vizi e che mantiene immutabile la propria identità, perfettamente padrona di se stessa, libera e autonoma. E' una vita che richiede il coraggio di sostenerla, sempre posta in sfida per risultare esemplare senza nulla nascondere.
In tempi in cui le verità metafisicamente stabilite dalle teoresi mostrano la loro inesorabile decadenza, mi chiedo se questo ideale della "vera vita" (quale dovrebbe essere la vita del filosofo) possa venire a costituire un nuovo punto di riferimento che invita a fare filosofia con i propri atti e le proprie prassi ben più che con i propri discorsi e se i termini in cui gli antichi ravvisavano la vita come vera possono essere assunti ancora oggi.

cvc

Un grande studioso di filosofia antica, Pierre Hadot, ha evidenziato come la differenza fra filosofia antica e moderna stia nel fatto che la prima era una ricerca della spiritualità, la seconda una ricerca dell'astrazione. Nel suo ragionamento ha coinvolto anche Wittgenstein nel libro "I limiti del linguaggio", ma di ciò non posso dir nulla non avendo letto il libro e non conoscendo Wittgenstein. Di Hadot ho invece letto "Esercizi spirituali e filosofia antica" e "Che cos'è la filosofia antica?", e mi ha colpito il suo pensiero che colloca non solo la filosofia ellenistica, ma anche in parte quella classica, nell'alveo dell'esercizio spirituale. Dove in particolare la scrittura assume la forma di un esercizio scritto: la memorizzazione dei dogmi della scuola, l'esame di coscienza, la praemeditatio malorum (anticipazione e preparazione ai mali). Da qui si aprono innumerevoli spunti interessanti come la ripresa di questi temi in ottica cristiana, in particolare con Ignazio di Loyola e i gesuiti. Ma anche il fatto che spesso si da un'interpretazione errata degli antichi, esagerandone il senso che davano all'astrazione ed allintellettualismo. "Nell'antichità non esisteva un solo intellettuale" mi pare dica Hadot. Quindi anche alcuni scritti di Aristotele più che costruzioni meramente razionali assumono la forma di esercizi volti all'assimilazione delle proprie idee di fondo, e così per Plotino, Ambrogio, Agostino. Del resto parrebbe inspiegabile l'esagerato il senso di colpa di quest'ultimo per il celebre furto delle pere, se non nell'ottica dell'esercizio spirituale, dove evidentemente le pere sono solo un esempio di qualcos'altro, di un senso di colpa più generale e giustificato. Differenza che ad esempio Bertrand Russell, non ha saputo cogliere, avendo ridicolizzato l'aneddoto delle pere di Agostino nella sua "Storia della filosofia". 
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Eutidemo

Pare che Hobbes dicesse: "Primum vivere deinde philosophari"; in fondo, era la stessa cosa che sottintendeva Aristofane, quando, nella commedia "Le Nuvole", rappresenta Socrate che, appeso in una cesta, contempla il cielo...e non la terra.
Secondo me, invece "Vivere EST philosophari", perchè sia le nostre parole che le nostre azioni, sono ENTRAMBE frutto della nostra personale filosofia; espressa o meno che essa sia, ovvero consapevole o meno che essa sia.
La filosofia, invero, si può esprimere anche senza parole, ma semplicemente con un gesto; come fece Cesare Pavese, così concludendo il suo Diario (e la sua vita): "Non più parole...un gesto"
E' vero, però, che, molto spesso, le nostre parole (cioè la filosofia che noi propugnamo), non sempre coincidono con la nostra condotta di vita.
Però, in fondo, a suo modo, anche questa è un tipo di  filosofia: "Fate come dico, ma non fate come faccio!"
La quale, forse, è la filosofia di vita più diffusa al mondo!
;)

Eutidemo

Citazione di: cvc il 14 Novembre 2016, 08:46:31 AM
Un grande studioso di filosofia antica, Pierre Hadot, ha evidenziato come la differenza fra filosofia antica e moderna stia nel fatto che la prima era una ricerca della spiritualità, la seconda una ricerca dell'astrazione. Nel suo ragionamento ha coinvolto anche Wittgenstein nel libro "I limiti del linguaggio", ma di ciò non posso dir nulla non avendo letto il libro e non conoscendo Wittgenstein. Di Hadot ho invece letto "Esercizi spirituali e filosofia antica" e "Che cos'è la filosofia antica?", e mi ha colpito il suo pensiero che colloca non solo la filosofia ellenistica, ma anche in parte quella classica, nell'alveo dell'esercizio spirituale. Dove in particolare la scrittura assume la forma di un esercizio scritto: la memorizzazione dei dogmi della scuola, l'esame di coscienza, la praemeditatio malorum (anticipazione e preparazione ai mali). Da qui si aprono innumerevoli spunti interessanti come la ripresa di questi temi in ottica cristiana, in particolare con Ignazio di Loyola e i gesuiti. Ma anche il fatto che spesso si da un'interpretazione errata degli antichi, esagerandone il senso che davano all'astrazione ed allintellettualismo. "Nell'antichità non esisteva un solo intellettuale" mi pare dica Hadot. Quindi anche alcuni scritti di Aristotele più che costruzioni meramente razionali assumono la forma di esercizi volti all'assimilazione delle proprie idee di fondo, e così per Plotino, Ambrogio, Agostino. Del resto parrebbe inspiegabile l'esagerato il senso di colpa di quest'ultimo per il celebre furto delle pere, se non nell'ottica dell'esercizio spirituale, dove evidentemente le pere sono solo un esempio di qualcos'altro, di un senso di colpa più generale e giustificato. Differenza che ad esempio Bertrand Russell, non ha saputo cogliere, avendo ridicolizzato l'aneddoto delle pere di Agostino nella sua "Storia della filosofia".


Non ho letto nè Hadot, nè Wittgenstein, ma da altri autori che ho letto, a me pare che, da sempre (sia nel passato che nel presente), ed in ogni luogo (anche in India), la filosofia (ed anche la religione) abbiano seguito DUE filoni principali.
Per dirla in modo MOLTO semplicistico:
- uno empirista-razionalista-positivista;
- un altro idealistico-mistico-spirituale.
Potrei fare molti esempi, ma, poichè anche nell'ambito dei due "filoni", i pensieri e lo spirito dei vari autori -ovviamente- divergono in modo sensibile (quando non eclantemente), o dovrei semplicare troppo -a rischio di essere inesatto-, o dovrei entrate troppo in dettaglio, cosa che qui è impossibile.
In qualche caso, peraltro, in alcuni autori (filosofici e religiosi), i due filoni si intrecciano e si sovrappongono un po'; e, questo, anche in conseguenza dei tentativi di conciliazione dei due aspetti, che qualcuno di costoro ha tentato di fare -me compreso-.
Ma, comunque, in genere, in ogni singolo pensatore prevale l'uno o l'altro aspetto; per cui secondo me i due filoni esistono indubbiamente...ovunque ed in ogni tempo.
Anche se a volte, geograficamente e/o storicamente, tende a prevalere l'uno o l'altro.

cvc

#4
Citazione di: Eutidemo il 14 Novembre 2016, 11:31:20 AM
Citazione

Non ho letto nè Hadot, nè Wittgenstein, ma da altri autori che ho letto, a me pare che, da sempre (sia nel passato che nel presente), ed in ogni luogo (anche in India), la filosofia (ed anche la religione) abbiano seguito
DUEfiloni principali.
Per dirla in modo MOLTO semplicistico:
- uno empirista-razionalista-positivista;
- un altro idealistico-mistico-spirituale.
Potrei fare molti esempi, ma, poichè anche nell'ambito dei due "filoni", i pensieri e lo spirito dei vari autori -ovviamente- divergono in modo sensibile (quando non eclantemente), o dovrei semplicare troppo -a rischio di essere inesatto-, o dovrei entrate troppo in dettaglio, cosa che qui è impossibile.
In qualche caso, peraltro, in alcuni autori (filosofici e religiosi), i due filoni si intrecciano e si sovrappongono un po'; e, questo, anche in conseguenza dei tentativi di conciliazione dei due aspetti, che qualcuno di costoro ha tentato di fare -me compreso-.
Ma, comunque, in genere, in ogni singolo pensatore prevale l'uno o l'altro aspetto; per cui secondo me i due filoni esistono indubbiamente...ovunque ed in ogni tempo.
Anche se a volte, geograficamente e/o storicamente, tende a prevalere l'uno o l'altro.
Un aspetto importante, soprattutto nell'evoluzione storica della filosofia occidentale, è quello di cui poco si sente parlare dello spartiacque rappresentato dal passaggio dalla cultura dell'oralità a quella della scrittura. Le opere omeriche avevano riferimenti visivi (le immagini aiutano a fissare le memorie) e schemi metrici atti a facilitare la memorizzazione. Non esistendo la scrittura la memoria aveva un ruolo fondamentale. L'entrata in scena della scrittura, oltre a "stampellare" la memoria, viene però a privare spesso di ciò che è implicito nel linguaggio, ciò che evoca per associazioni mentali, visive, psicologiche. La cultura scritta tende ad aumentare l'astrazione, appunto perchè la mente non è più obbligata allo sforzo di trattenere, quindi ci si può sganciare più liberamente dal concreto e sprofondarsi nella speculazione. Poi però ci si accorge che la verità non è questione di sottigliezze logiche, che il linguaggio è uno strumento straordinario ma insufficiente a contenere tutte le implicazioni del verbo. Infatti la stessa frase detta a quattr'occhi, ad un uomo o ad una donna, ad una platea, al telefono o scritta su un foglio, non è la stessa medesima cosa. La cultura orale, tanto più quella scientifica, tendono a dimenticare questo particolare perchè qui sta a cuore l'univocità del linguaggio. L'univocità che serve ad applicare le funzioni, ed il concetto di funzione è diventato centrale nella nostra cultura, quanto una volta era quello di sostanza. La sostanza indica la permanenza di un qualcosa nel tempo, la condizione necessaria e sufficiente perchè un qualcosa sia qualcosa e non niente. La funzione è invece una porta attraverso cui un input restituisce un output, ma da per scontata l'esistenza della sostanza, rappresentata in questo caso dalla validità della funzione stessa. L'idea di verità si cristallizza nel metodo, nell'applicazione tecnica, nella validità della funzione, e non più nella sostanza stessa.

Forse non si capisce un h delle ultime cose che ho detto, magari non le capirò bene nemmeno io rileggendomi. Sta di fatto che ieri in libreria scorrendo vari titoli, mi è capitato fra le mani un libro che parlava del passaggio dal concetto di sostanza a quello di funzione (dalla sostanza alla funzione, Cassirer). Nel senso che tutto muta sotto I nostri occhi (nulla permane nel tempo) , la scienza impone il dinamismo alla staticità, tutto è in evoluzione, tanto l'osservatore che l'osservato. L'unica cosa che rimane è la funzione che con I suoi parametri lega soggetto e oggetto. Finchè la funzione sarà sostituita da un altra più efficiente. Rimane allora il rigore metodologico, la coerenza, la logica. Ma la verità va oltre la logica o, in termini più rigorosi, la logica è un sottoinsieme della verità.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

maral

Mi pare però che più che di una contrapposizione, che senza dubbio sussiste, tra una posizione empirista-razionalista-positivista e una idealistico-mistico-spirituale della filosofia, si tratta di una contrapposizione tra una visione teoretica della verità (che potrà essere razionalista, mistica ecc.) e una prassi della verità per la quale la verità non è teoria, ma prassi vera in quanto è l'espressione diretta di un agire riconducibile (o lo era per gli antichi) alle stesse caratteristiche della aletheia (vero è essere manifesto e non nascosto, non corruttibile, non viziato, autonomo e retto). 
Sono d'accordo con CVC sul fatto che l'espressione scritta abbia favorito l'approccio teoretico oggettivo alla verità portando la filosofia in questa direzione che è poi la stessa direzione sulla quale è stata soppiantata dalla scienza che ha stabilito un metodo preciso e univoco con cui discriminare gli aspetti validi da quelli non validi (ossia soggettivi) dell'esperienza per cui la verità si riduce a ciò che può diventare oggettivamente pubblico, ben condivisibile e valido per tutti, dunque è vero ciò che è "pubblicabile" (messo per iscritto e non solo detto).  D'altra parte invece la prassi della verità che pone in primo piano la dimensione etica della filosofia (un'etica non di principio, ma in atto), è stata assorbita dalla religione cristiana, in primo luogo con l'ascetismo monacale, poi con l'istituzione degli ordini mendicanti, soprattutto alle origini del francescanesimo (ma anche evidentemente da altri simili movimenti ereticali).
Mi chiedo appunto oggi da chi e in che modo e in quali ambiti questa prassi della verità (che necessita tra l'altro di un'assoluta povertà e di una pari onestà) possa essere praticata o anche solo concepita praticabile.

Il Socrate platonico (non certo per come ne fa l'ironia Aristofane) in molti dialoghi è presentato proprio in riferimento alla prassi della verità più che alla sua teoresi. Socrate inizia la sua pratica filosofica quando viene a sapere che l'oracolo di Delfi lo aveva indicato come il più sapiente di tutti gli uomini, allora comincia ad andare in giro per Atene a interrogare la gente (dal più miserabile al più ricco e potente) su quello che sa per verificare se l'oracolo ha detto la verità su di lui (si sa infatti che i detti dell'oracolo erano sempre molto ambigui e il rischio di fraintenderli enormi). Chiedendo alla gente di ciò che essa sa, Socrate scopre innanzitutto che molti sanno più di lui, e sono soprattutto quelli che, come gli artigiani, erano ritenuti i più ignoranti, ma scopre anche che in realtà nessuno davvero sa, piuttosto tutti credono di sapere, specialmente quelli che sono ritenuti i più sapienti. A questo punto Socrate comincia ad accorgersi di sapere di non sapere e per questo sa davvero più di tutti gli altri e allora si assume la "missione" di mettere alla prova tutti i concittadini su ciò che realmente sanno affinché se ne rendano davvero conto. Una missione che gli procurerà accuse e denunce, fino alla condanna a morte. Socrate non annuncia teorie filosofiche, non vaga con la testa tra le nuvole come per Aristofane, ma scende in strada e adotta in pubblico una prassi molto fastidiosa. La filosofia diventa così una discesa in campo ai limiti della provocazione, una pratica da esercitare in strada tra la gente con tutti i rischi che da questo conseguono. 

Il Rilegatore

#6
Citazione di: maral il 14 Novembre 2016, 14:24:43 PM
[...]
Mi chiedo appunto oggi da chi e in che modo e in quali ambiti questa prassi della verità (che necessita tra l'altro di un'assoluta povertà e di una pari onestà) possa essere praticata o anche solo concepita praticabile.
[...]

«Non dimenticare mai la lotta di classe»

;)

Phil

All'alba della scrittura del pensiero, probabilmente si riteneva che ci fosse una sola Verità e il sapiente spaziava in molti ambiti del sapere, così acerbi da non richiedere troppa abnegazione... oggi il sapere è molto frammentato, o meglio, settorializzato, anche se il divario fra "scienze della natura" e "scienze dello spirito" è meno drastico che in passato, se non altro perchè si sta scoprendo che lo "spirito" è più "natura" di quanto si pensasse (vedi neuroscienze). In più di duemila anni, la verità ha lasciato tracce così confuse e labirintiche da far pensare che in fondo non sia una sola, e addirittura che non sia nemmeno vera lei stessa  ;D  per cui, forse, più che di "vera vita a riferimento di verità", bisognerebbe parlare di "vita coerente a riferimento del rispettivo criterio" oppure, stando in bilico sui confini del dicibile, si potrebbe parlare di v(er)ita: un gioco di parole che mi piace utilizzare per alludere alla verità della vita come evento vissuto, quindi confusione di verità (non logica ma esperenziale) e vita (non astratta ma esperita).

P.s.
Curiosità: in Giappone l'espressione "filosofia" è stata inventata ad hoc nell'ottocento per necessità di tradurre tale parola presente nei testi occidentali (che iniziavano ad essere studiati anche a livello accademico). Si scelse di tradurla cone tetsugaku: unione di tetsu (saggezza) e gaku (scienza, conoscenza), "conoscenza/scienza della saggezza" o "saggezza della conoscenza/scienza"? In entrambi i casi, è una espressione davvero "possente" e quasi conciliatrice dei due aspetti a cui si allude nei precedenti post...

Angelo Cannata

Citazione di: maral il 13 Novembre 2016, 23:51:26 PM
La verità filosofica, già in Platone, si presenta non solo come corrispondenza formale istituita dal logos tra ciò che si dice e la realtà, ma anche sulla coerenza che trova la parola del filosofo con la sua vita, nella misura in cui essa si presenta come vera vita.
Trovo fruttuoso mettere in luce questo bisogno umano, chiamato bisogno di vera vita. Cioè, si potrebbe sospettare che anche la ricerca della verità come "adaequatio rei et intellectus" nasconda in realtà il bisogno più profondo di una verità che sia vita. Mi sembra che successivamente ciò sia stato colto al meglio da Heidegger, nel momento in cui egli parla di autenticità, esistenza autentica: che cosa vuol dire autenticità se non un modo di mascherare la parola verità? Credo che il lavoro di Pierre Hadot non faccia altro che continuare a perseguire questa linea, cioè tentare di individuare qualcosa che aderisca non solo alla mente, ma a tutta l'esistenza, una filosofia capace di essere vita.
Per portare avanti questa ricerca trovo fruttuoso basarmi ancora sull'espressione citata sopra, "adaequatio rei et intellectus"; la tradurrei con "adesione del pensato al reale". Ma, dopo tanti secoli di filosofia, ormai sia il pensato che il reale vanno a farsi benedire, attaccati in ogni direzione da critiche, problematiche, dubbi e filosofie di ogni tipo. Allora mi chiederei: adesione di che cosa a che cosa? Mi do questa risposta: adesione della vita ad una metodologia del divenire. Insomma, non si tratta d'altro che di tradurre in vita vissuta il "panta rei" di Eraclito.

acquario69

Citazione di: cvc il 14 Novembre 2016, 08:46:31 AM
Un grande studioso di filosofia antica, Pierre Hadot, ha evidenziato come la differenza fra filosofia antica e moderna stia nel fatto che la prima era una ricerca della spiritualità, la seconda una ricerca dell'astrazione. 

Pierre Hadot ha infatti pienamente ragione.

secondo questo articolo (link sotto) ce' una citazione di San Tommaso che dice:
"l'uomo ha in se' la conoscenza dell'aria e della natura prima ancora della parola"..

a parte l'aria mi sembra che sintetizzi bene l'intero argomento e chi vi sia stato,a partire dai greci una razionalizzazione che ha mano a mano estraniato l'uomo dalla natura...quindi dalla vita e dalla Verita

ma se leggi l'intero articolo si capisce meglio cosa voglio dire :) ..e come si ricollega tutto quanto a questo stesso argomento


http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=8855

cvc

Citazione di: Angelo Cannata il 15 Novembre 2016, 00:58:51 AM
Citazione di: maral il 13 Novembre 2016, 23:51:26 PM
La verità filosofica, già in Platone, si presenta non solo come corrispondenza formale istituita dal logos tra ciò che si dice e la realtà, ma anche sulla coerenza che trova la parola del filosofo con la sua vita, nella misura in cui essa si presenta come vera vita.
Trovo fruttuoso mettere in luce questo bisogno umano, chiamato bisogno di vera vita. Cioè, si potrebbe sospettare che anche la ricerca della verità come "adaequatio rei et intellectus" nasconda in realtà il bisogno più profondo di una verità che sia vita. Mi sembra che successivamente ciò sia stato colto al meglio da Heidegger, nel momento in cui egli parla di autenticità, esistenza autentica: che cosa vuol dire autenticità se non un modo di mascherare la parola verità? Credo che il lavoro di Pierre Hadot non faccia altro che continuare a perseguire questa linea, cioè tentare di individuare qualcosa che aderisca non solo alla mente, ma a tutta l'esistenza, una filosofia capace di essere vita.
Per portare avanti questa ricerca trovo fruttuoso basarmi ancora sull'espressione citata sopra, "adaequatio rei et intellectus"; la tradurrei con "adesione del pensato al reale". Ma, dopo tanti secoli di filosofia, ormai sia il pensato che il reale vanno a farsi benedire, attaccati in ogni direzione da critiche, problematiche, dubbi e filosofie di ogni tipo. Allora mi chiederei: adesione di che cosa a che cosa? Mi do questa risposta: adesione della vita ad una metodologia del divenire. Insomma, non si tratta d'altro che di tradurre in vita vissuta il "panta rei" di Eraclito.
Si tratta di capire cosa mettere al centro del discorso, se l'essere o la vita. L'essere riguarda più l'astratto, la vita il concreto.
D'altronde l'enunciato di Parmenide, dal punto di vista astratto, è ineccepibile: l'essere è, il non essere non è. I problemi sorgono però quando si tratta di stabilire ciò che è e ciò che non è. Alla soluzione non si arriva se si pone l'essere al centro, secondo me, perché l'essere è un sottoinsieme della vita e non viceversa. L'essere è un'astrazione, e il concreto (la vita) deve precedere l'astrazione. Poi può anche avvenire che l'astrazione preceda il concreto, ma ciò avviene in seconda battuta. L'astrazione nasce in primis dalla vita, a meno che si creda alla teoria delle idee di Platone. Anche la sintesi degli opposti di Hegel è un'astrazione, che prende un concetto da Eraclito, però deformandolo. Il logos eracliteo ha una base fisica, il fuoco, che trova poi il corrispondente spirituale nella ragione che è sostanza, perché permane nel tempo mutandosi.. Ma in Hegel è uno strumento per plasmare gli eventi, quindi la sostanza diventa prassi (funzione). Il problema non è forse che non esiste più la filosofia come prassi, ma che la prassi ha preso il luogo della filosofia. La filosofia era nata con la ricerca di un principio universale: l'acqua, il fuoco, il numero, l'apeiron. Ma tale ricerca presume che esista una sostanza, altrimenti non può esistere nemmeno il principio della sostanza. La filosofia ha abbandonato la sostanza per la prassi, e con questo non è più prassi spirituale, ma solo prassi volta ai problemi contingenti.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Angelo Cannata

Citazione di: cvc il 15 Novembre 2016, 08:49:50 AM
Il problema non è forse che non esiste più la filosofia come prassi, ma che la prassi ha preso il luogo della filosofia.
...
La filosofia ha abbandonato la sostanza per la prassi, e con questo non è più prassi spirituale, ma solo prassi volta ai problemi contingenti.
Mi sono occupato esattamente di questa questione mesi fa nel mio blog. A mio parere è avvenuto questo: la filosofia, durante il suo cammino storico, si è resa conto di doversi orientare verso il concreto, il pratico, il vissuto, verso ciò che è più immerso nell'umano. Per mettere in pratica però quest'orientamento, si è ritrovata senza una categoria mentale in grado di porre in collegamento il filosofare con l'andare al pratico. Il risultato è che oggi diversi filosofi si danno alla politica, si occupano dei problemi sociali, il che per me è segno di sincera volontà di andare al concreto, ma anche di mancanza del ponte di collegamento tra filosofia e vita concreta.
Io ritengo che la categoria capace di fare da ponte tra riflessione e pratica si trovi in una cosa che poi nel Cristianesimo è stata chiamata spiritualità. La parola spiritualità ha origine nella religione cristiana, ma su questo è prezioso il lavoro di Hadot nell'evidenziare che il concetto in sé e la relativa pratica sono riscontrabili fuori e prima del Cristianesimo. Al Cristianesimo rimane comunque il merito di aver creato il termine e definito il concetto come pratica. Infatti nel Cristianesimo la spiritualità non è considerata un allontanarsi dal mondo, dal concreto, per salire con la mente nelle altezze più astratte della meditazione. Forse un'idea del genere poteva esserci nel medioevo. Nel Cristianesimo la spiritualità è intesa come il massimo della concretezza e l'origine di ogni concretezza.
A questo punto nasce il problema di servirsi del termine spiritualità in un modo generalizzato, non vincolato alla religione Cristiana, pur facendo tesoro della sua impostazione di spiritualità intesa come concretezza. Purtroppo non esistono altri termini, adatti come questo, ad indicare l'esperienza dell'interiorità umana intesa come esperienza di concretezza. Nasce cioè il problema di ridare alla parola spiritualità un significato che sia laico, secolare, indipendente. È esattamente su quest'ultimo problema che mi sembra che Hadot e tutti gli altri oggi nel mondo si ritrovino in grande confusione e indeterminatezza.
Il mio blog Spiritualità è interamente dedicato a questa questione. Non esistendo, quindi, una definizione indipendente di spiritualità, ho deciso di lavorarci personalmente, me ne sono data una e a partire da essa sto facendo ricerca, con gli scarsissimi mezzi che mi trovo a disposizione.
Ho visto che in tutto il mondo stanno nascendo iniziative di questo genere. Ciò che mi seduce di più è notare che si comincia timidamente ad avanzare l'idea che la spiritualità, intesa in questa maniera laica e indipendente, merita di entrare nell'insegnamento delle scuole, perfino già a partire dalle scuole per i bambini. Tuttavia, tutte queste iniziative peccano del difetto che ho detto: si basano su un'idea di spiritualità che è vaga, ambigua, confusa, incerta, nonostante ciò che cercano di dare a intendere. Il mio sogno sarebbe che la spiritualità diventasse facoltà universitaria, con docenti specializzati che fanno ricerca su di essa. Credo che il mondo intero ne guadagnerebbe.
Non entro nei dettagli del significato che mi sono dato per la parola spiritualità, poiché automaticamente dovrei subito spiegarne anche i motivi e le conseguenze a cui esso porta; d'altra parte, si tratta di un significato provvisorio, funzionale ad una partenza della ricerca, predisposto ad essere modificato e corretto.

cvc

#12
Citazione di: Angelo Cannata il 15 Novembre 2016, 09:43:19 AM
Citazione di: cvc il 15 Novembre 2016, 08:49:50 AM
Il problema non è forse che non esiste più la filosofia come prassi, ma che la prassi ha preso il luogo della filosofia.
...
La filosofia ha abbandonato la sostanza per la prassi, e con questo non è più prassi spirituale, ma solo prassi volta ai problemi contingenti.
Mi sono occupato esattamente di questa questione mesi fa nel mio blog. A mio parere è avvenuto questo: la filosofia, durante il suo cammino storico, si è resa conto di doversi orientare verso il concreto, il pratico, il vissuto, verso ciò che è più immerso nell'umano. Per mettere in pratica però quest'orientamento, si è ritrovata senza una categoria mentale in grado di porre in collegamento il filosofare con l'andare al pratico. Il risultato è che oggi diversi filosofi si danno alla politica, si occupano dei problemi sociali, il che per me è segno di sincera volontà di andare al concreto, ma anche di mancanza del ponte di collegamento tra filosofia e vita concreta.
Io ritengo che la categoria capace di fare da ponte tra riflessione e pratica si trovi in una cosa che poi nel Cristianesimo è stata chiamata spiritualità. La parola spiritualità ha origine nella religione cristiana, ma su questo è prezioso il lavoro di Hadot nell'evidenziare che il concetto in sé e la relativa pratica sono riscontrabili fuori e prima del Cristianesimo. Al Cristianesimo rimane comunque il merito di aver creato il termine e definito il concetto come pratica. Infatti nel Cristianesimo la spiritualità non è considerata un allontanarsi dal mondo, dal concreto, per salire con la mente nelle altezze più astratte della meditazione. Forse un'idea del genere poteva esserci nel medioevo. Nel Cristianesimo la spiritualità è intesa come il massimo della concretezza e l'origine di ogni concretezza.
A questo punto nasce il problema di servirsi del termine spiritualità in un modo generalizzato, non vincolato alla religione Cristiana, pur facendo tesoro della sua impostazione di spiritualità intesa come concretezza. Purtroppo non esistono altri termini, adatti come questo, ad indicare l'esperienza dell'interiorità umana intesa come esperienza di concretezza. Nasce cioè il problema di ridare alla parola spiritualità un significato che sia laico, secolare, indipendente. È esattamente su quest'ultimo problema che mi sembra che Hadot e tutti gli altri oggi nel mondo si ritrovino in grande confusione e indeterminatezza.
Il mio blog Spiritualità è interamente dedicato a questa questione. Non esistendo, quindi, una definizione indipendente di spiritualità, ho deciso di lavorarci personalmente, me ne sono data una e a partire da essa sto facendo ricerca, con gli scarsissimi mezzi che mi trovo a disposizione.
Ho visto che in tutto il mondo stanno nascendo iniziative di questo genere. Ciò che mi seduce di più è notare che si comincia timidamente ad avanzare l'idea che la spiritualità, intesa in questa maniera laica e indipendente, merita di entrare nell'insegnamento delle scuole, perfino già a partire dalle scuole per i bambini. Tuttavia, tutte queste iniziative peccano del difetto che ho detto: si basano su un'idea di spiritualità che è vaga, ambigua, confusa, incerta, nonostante ciò che cercano di dare a intendere. Il mio sogno sarebbe che la spiritualità diventasse facoltà universitaria, con docenti specializzati che fanno ricerca su di essa. Credo che il mondo intero ne guadagnerebbe.
Non entro nei dettagli del significato che mi sono dato per la parola spiritualità, poiché automaticamente dovrei subito spiegarne anche i motivi e le conseguenze a cui esso porta; d'altra parte, si tratta di un significato provvisorio, funzionale ad una partenza della ricerca, predisposto ad essere modificato e corretto.
Effettivamente per un occidentale che avverta il bisogno di nutrire la propria spiritualità, pare non esserci alternativa al cristianesimo. C'è l'alternativa rappresentata dalle pratiche orientali, è vero, ma si tratta pur sempre di un avventurarsi al di fuori delle proprie radici concettuali. Personalmente, con Reale e Seneca prima, e con Hadot, Marco Aurelio  ed Epitteto poi, ho trovato un modo alternativo per sentirmi spirituale al netto delle implicazioni cristiane che vengono proposte a mo di kit: se ne vuoi una devi prendertele tutte! Diversamente, la filosofia ti lascia libero di poter prendere un po di qui e un po' di la, oppure di prendere questo ma non quello - rispettando si intende le norme di coerenza - e di poter, nel contempo, rivendicare un proprio pensiero.
Non credo sia facile dare una definizione universale di spiritualità. Come dice Agostino a riguardo del tempo: Se non me lo chiedi so cos'è, ma se devo spiegartelo non lo so. Provandoci direi che è il desiderio di libertà, ma non nel senso di fare ciò che si vuole, ma nel senso del raggiungere uno stato in cui non si sente più bisogno di alcunché. O di avvicinarvisi. "È proprio di Dio non avere bisogno di niente, proprio del saggio di aver bisogno di poco". (Epicuro se non erro).
Venendo invece al tema dei bisogni nell'accezione della società contemporanea - e tentando con questo di rispondere anche ad Acquario - si trova, al di la della difficoltà nel definirli (si fa prima a metterli in ordine che a definirli, vedi Maslow), ci si perde nell'impossibilità di soddisfarli. Si ha un bel dire che il bene è l'utile (soddisfazione del bisogno) e che l'economia è l'organizzazione delle risorse  (scarse) in vista della soddisfazione dei bisogni; ma quand'è che si raggiunge mai lo stato di soddisfazione? Mai, appunto, visto che la nostra società si regge sui consumi, il che implica che la soddisfazione dei bisogni è per essa dannosa.
"Fino a quando rimanderai di vivere? Dimostra che gran parte degli uomini hanno trascorso la vita cercando i mezzi per viverla" (Seneca).
Per me questa è la spiritualità.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Angelo Cannata

La definizione che io mi sono dato, funzionale all'avvio di una ricerca, è questa: spiritualità è qualsiasi esperienza interiore. Con questa definizione ho inteso situarmi in un contesto di idee che è anche quello di una discussione attualmente in corso su questo forum. Si tratta di un contesto di base materialista, allo scopo di elaborare una spiritualità condivisibile da chiunque, compresi atei e scienziati. La scienza considera tutto da un punto di vista materiale, ma non esclude affatto ciò che è al di fuori della portata dei suoi strumenti, come per esempio l'esistenza di Dio o del soprannaturale; semplicemente si tratta di argomenti al di fuori del suo campo di interesse.
La mia definizione include ciò che anche un animale può provare dentro di sé e può essere generalizzata fino ad includere persino gli oggetti inanimati, senza per questo dover fare ricorso a chissà quali forze o energie misteriose circolanti nell'intero universo, ma senza neanche escluderne l'idea per chi ad esse voglia credere.
Nel portare avanti l'indagine su questa direzione mi sono servito molto spesso di altre categorie di origine cristiana, pur considerandomi ateo. Ciò è dovuto al mio retroterra culturale, ma ritengo che possa essere considerato anche apertura mentale: non vedo perché un ateo debba rifiutare aprioristicamente certe categorie mentali solo perché sono già in uso all'interno di qualche religione o credenza.

acquario69

Citazione di: cvc il 15 Novembre 2016, 10:28:54 AMEffettivamente per un occidentale che avverta il bisogno di nutrire la propria spiritualità, pare non esserci alternativa al cristianesimo. C'è l'alternativa rappresentata dalle pratiche orientali, è vero, ma si tratta pur sempre di un avventurarsi al di fuori delle proprie radici concettuali. Personalmente, con Reale e Seneca prima, e con Hadot, Marco Aurelio  ed Epitteto poi, ho trovato un modo alternativo per sentirmi spirituale al netto delle implicazioni cristiane che vengono proposte a mo di kit: se ne vuoi una devi prendertele tutte! Diversamente, la filosofia ti lascia libero di poter prendere un po di qui e un po' di la, oppure di prendere questo ma non quello - rispettando si intende le norme di coerenza - e di poter, nel contempo, rivendicare un proprio pensiero.
Non credo sia facile dare una definizione universale di spiritualità. Come dice Agostino a riguardo del tempo: Se non me lo chiedi so cos'è, ma se devo spiegartelo non lo so. Provandoci direi che è il desiderio di libertà, ma non nel senso di fare ciò che si vuole, ma nel senso del raggiungere uno stato in cui non si sente più bisogno di alcunché. O di avvicinarvisi. "È proprio di Dio non avere bisogno di niente, proprio del saggio di aver bisogno di poco". (Epicuro se non erro).
Venendo invece al tema dei bisogni nell'accezione della società contemporanea - e tentando con questo di rispondere anche ad Acquario - si trova, al di la della difficoltà nel definirli (si fa prima a metterli in ordine che a definirli, vedi Maslow), ci si perde nell'impossibilità di soddisfarli. Si ha un bel dire che il bene è l'utile (soddisfazione del bisogno) e che l'economia è l'organizzazione delle risorse  (scarse) in vista della soddisfazione dei bisogni; ma quand'è che si raggiunge mai lo stato di soddisfazione? Mai, appunto, visto che la nostra società si regge sui consumi, il che implica che la soddisfazione dei bisogni è per essa dannosa.
"Fino a quando rimanderai di vivere? Dimostra che gran parte degli uomini hanno trascorso la vita cercando i mezzi per viverla" (Seneca).
Per me questa è la spiritualità.

si lo so,non e' facile provare a rispondermi - sono uno spirito libero -  :) ...perché poi (e mi rendo comunque conto) seguo prima non tanto i miei pensieri ma cio che avverto dentro per esprimerli successivamente,darei quindi la priorità a questo che non ai primi...(quello che mi suggerisce il "cuore") ed e' appunto la Via per essere Liberi,che anche per me significa Spiritualita,e infatti e per provare a chiarire meglio;

CitazioneNon credo sia facile dare una definizione universale di spiritualità. Come dice Agostino a riguardo del tempo: Se non me lo chiedi so cos'è, ma se devo spiegartelo non lo so.

CitazioneProvandoci direi che è il desiderio di libertà, ma non nel senso di fare ciò che si vuole, ma nel senso del raggiungere uno stato in cui non si sente più bisogno di alcunché. O di avvicinarvisi.

la Spiritualita non e' definibile,ma nella sua indefinitezza lo si intuisce col "cuore" e non con il cervello (o la ragione)..ed anche qui,e pure in riferimento alla discussione,si evince secondo me che si e' finito per scambiare il mezzo per il fine,o la parte per il Tutto (l'articolo lo spiega bene come alla fine e per questo motivo ci siamo intrappolati da soli) ....ed appunto...fino a quando rimanderai a vivere?..come correttamente mi sembra dici anche tu

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