La prova ontologica dell'esistenza di (quale?) Dio.

Aperto da Eutidemo, 09 Febbraio 2021, 14:36:37 PM

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davintro

#45
Per Phil



Nella premessa della mia argomentazione, Dio non è presentato come causa della presenza dei suoi attributi, e nemmeno definito come tale, condizioni che renderebbero l'argomentazione fallace in quanto circolo vizioso, ma solo come entità provvisoriamente posta come concettuale, non ancora reale, definita sulla base di determinati attributi. Il passaggio da una certa definizione di Dio, posta necessariamente in premessa, alla dimostrazione dell'esistenza si realizza tramite un medium gnoseologico non contenuto nella premessa, il principio, che, posso sbagliare ma mi sembra evidente nella sua validità, della necessità di una conformità, di una corrispondenza tra le proprietà qualificanti una certa idea e la natura dell'oggetto reale dalla cui esperienza ricavare l'idea. A meno di voler ignorare la finitezza del pensiero umano, incapace di produrre ex nihilo delle idee in assenza di un oggetto preesistente alla sua attività pensante, conforme
all'idea, l'origine delle idee può consistere in una diretta apprensione dell'oggetto corrispondente al suo significato, nel caso di significati a cui attribuire esistenze effettive, oppure assemblaggi fantastici di parti apprese nel mondo reale, nel caso delle idee fittizie. Non essendo le idee di eternità, onniscienza, onnipotenza assemblaggi di parti (in quanto il significato esprime qualcosa di immateriale, cioè non esteso nello spazio e non suddividibile in parti), allora occorre ammettere la realtà di Dio come entità dotata di quegli attributi contenuto delle idee in questione come oggetto di esperienza da cui ricavare la presenza delle idee a partire da cui lo definiamo. L'affermazione dell'esistenza di Dio come causa della presenza nella nostra mente degli attributi di una sua possibile definizione è la risultante della premessa in cui lo si definisce con quegli attributi, unita alla premessa del principio di corrispondenza semantica tra idea e oggetto di esperienza da cui l'idea è ricavata.  In nessuna delle due premesse, prese isolatamente, è presente l'affermazione dell'esistenza di Dio: la prima è una mera convenzione linguistica accettabile teoricamente anche per chi contesterebbe l'attribuzione di esistenza sulla base di quella definizione, con la seconda premessa si passa dal piano dal piano formalistico logico della definizione a quello gnoseologico e ontologico della richiesta di una causa nel mondo reale per rendere ragione dell'idea, che però, in assenza di una pregressa definizione di Dio come onnisciente, eterno ecc. (che invece offre la prima premessa), non potrebbe attribuire a Dio il ruolo di oggetto reale causa della presenza delle idee di quegli attributi nella mente umana. Quindi, nè considerando l'una e l'altra premessa troviamo implicita la conclusione del ragionamento: nessuna petitio principii. Chi volesse contestare l'argomento (che ovviamente non è una mia invenzione originale, ma ricalca la via cartesiana e anche rosminiana, quest'ultima riconducente il complesso degli attributi divini alla presenza dell'idea dell'Essere, oggetto necessario di ogni atto di pensiero, di volontà e sentimento nell'uomo) dovrebbe, non concentrarsi sulla ricerca nelle premesse della tesi finale, cioè sulla ricerca della fallacia logica, ma sul piano gnoseologico del principio di conformità idea/oggetto reale (materiale o immateriale) che sia che lo produce (che sarebbe una discussione interessante, ma leggermente fuori tema rispetto a quello della prova ontologica, che di questo punto fa a meno, e qua, a mio avviso, è il suo limite). Tu stesso, come mi è sembrato di intendere, a un certo punto concedi che, una volta che nella definizione di partenza non è implicita l'attribuzione a Dio di esistenza come causa della presenza dell'idea dei suoi attributi nella mente, cioè quando scrivi, cito,

"Se non lo presupponessi già come esistente, la sua idea sarebbe l'unica prova logica della sua esistenza e dunque potrei dire di Dio solo che è colui che rende possibile averne idea, senza potervi aggiungere altre proprietà, demiurgiche o morali che siano, non potendo provarle logicamente."

quantomeno l'esistenza di Dio come ciò che rende possibile l'idea sarebbe accertata. Per l'appunto, anch'io mi fermo a questo punto. Le ripercussioni morali, accanto a quelle inerenti la presunta rivelazione storica, oggetto della fede e non di dimostrazioni morali, non le considero, in quanto riconosco che la "mia" argomentazione si limiterebbe ad accertare una concezione di Dio a cui si fermerebbe un deista e non un credente di una fede rivelata nel complesso dei tanti vari aspetti.


Per quanto riguarda i discorsi apofatici, il "qualcosa" che all'interno di una stanza distinguo dalle sedie e dai tavoli non è mai puro "nulla". Perché riconosca questo "qualcosa" come non identificabile con sedie e con tavoli, devo necessariamente riempirlo di un certo livello minimo di attributi positivi, altrimenti, come potrei sapere che non si sta parlando di sedie o di tavoli ma di altra cosa? Ciò, in quanto negazione ed affermazione si distinguono su di un piano puramente formale, mentre dal punto di vista concreto e contenutistico, quello entro cui queste formule son riferite alla realtà ontologica, si richiamano dialetticamente e reciprocamente, se omnis determinatio est negatio, vale anche l'opposto, omnis negatio est determinatio, ogni negazione di un certo contenuto determinato implica l'affermazione del suo contrario, che però ricade sempre nel piano dell'Essere e non del Nulla, in quanto il suo contrario che viene negato non è l'Essere nella sua universalità, ma una particolare determinazione (appunto, la sedia, il tavolo ecc.), perché ci si riferisca davvero al Nulla, occorrerebbe che ciò a cui ci si riferisce escluda, non solo il tavolo o la sedia, ma l'Essere nella sua generalità, dato che il Nulla è il contrario dell'Essere. Ma pensare fuori dall'Essere sarebbe pensare Nulla, cioè non pensare, il pensiero, ricorda il principio di intenzionalità, è sempre pensiero di "qualcosa", ma il "qualcosa" è solo un termine meno tecnico per intendere l' "ente", ciò, che pur nella sua estrema vaghezza, riconosciamo sempre come presenza positiva (non positiva nel senso di giudizio morale, beninteso, ma nel senso di non-negativa, oggetto di cui sia possibile predicare in modo affermativo delle proprietà) del pensiero, qualcosa che è altro dal Nulla, cioè rientrante nell'Essere.


Non ho mai detto che l'ateo o l'agnostico nel dare una definizione di Dio cadano in contraddizione perché la loro definizione implicherebbe l'esistenza non solo concettuale-astratta ma anche concreta-ontologica. Al contrario, proprio perché una semplice definizione di Dio non ne implica l'esistenza, allora nel definirlo in quanto tale ancora non si sta affermando l'esistenza. Dunque la definizione di Dio utilizzata dal non credente non porta quest'ultimo a contraddirsi, certamente, ma allora la stessa cosa dovrebbe valere per i fautori della prova ontologica, che fintanto che si limitano a proporre una certa definizione di Dio, non ne stanno suggerendo in questa premessa l'esistenza cadendo nel circolo vizioso. Se invece si ritiene (ma io non lo ritengo!) che da una certa definizione di Dio se ne implicasse IMMEDIATAMENTE l'esistenza, allora anche il non credente, che come Anselmo o Godel, necessita di avere una definizione formale-concettuale di Dio, dovrebbe ammettere di premetterne pure l'esistenza concreta: insomma se la prova ontologica è una petitio principii, allora l'ateismo e l'agnosticismo, sulla base dello stesso riscontro della fallacia, andrebbero incontro a un destino peggiore, quello dell'autocontraddizione. Per questo parlavo di "boomerang". Personalmente non penso che la prova sia una petitio principii e proprio per questo nemmeno penso che il non credente si contraddica per il solo fatto di definire il Dio a cui non attribuiscono esistenza reale in qualche modo, il che non mi impedisce di trovare la prova discutibile e difettosa per diversa motivazione, cioè l'ambiguità delle formule in cui, come già detto, assunti arbitrari morali (l'esistenza come requisito della grandezza o della "positività") si sovrappongono a categorie teoretiche, finendo col relativizzare e soggettivizzare la validità dell'argomento, togliendogli un fondamento di validità oggettiva. Spero di essermi meglio chiarito.

Phil

Citazione di: davintro il 13 Febbraio 2021, 19:47:38 PM
Il passaggio da una certa definizione di Dio, posta necessariamente in premessa, alla dimostrazione dell'esistenza si realizza tramite un medium gnoseologico non contenuto nella premessa, il principio, che, posso sbagliare ma mi sembra evidente nella sua validità, della necessità di una conformità, di una corrispondenza tra le proprietà qualificanti una certa idea e la natura dell'oggetto reale dalla cui esperienza ricavare l'idea. A meno di voler ignorare la finitezza del pensiero umano, incapace di produrre ex nihilo delle idee in assenza di un oggetto preesistente alla sua attività pensante, conforme all'idea, l'origine delle idee può consistere in una diretta apprensione dell'oggetto corrispondente al suo significato, nel caso di significati a cui attribuire esistenze effettive, oppure assemblaggi fantastici di parti apprese nel mondo reale, nel caso delle idee fittizie.
Non mi sembra ci sia una esperienza o un oggetto reale conforme alle rispettive idee delle proprietà qualificanti positive, né confome a Dio. Quali sarebbero tali "esperienze"? Per le idee delle presunte proprietà di Dio, esse (mi) risultano tramandate ed insegnate di generazione in generazione, senza nessuna apprensione o esperienza oggettuale diretta (né sono innate, altrimenti non sarebbe necessario insegnarle, spiegarle e giustificarle); idee generabili anche tramite semplice negazione concettuale o estremizzazione di proprietà concrete: il finito negato diventa l'infinito, il mortale negato diventa l'immortale, la conoscenza estremizzata diventa l'onniscenza, la potenza parziale estremizzata diventa l'onnipotenza, etc. Siamo sempre nel mondo dei concetti e delle idee, nulla di saldamente gnoseologico. Il principio di corrispondenza fra idea e corrispettivo oggetto è un medium gnoseologicamente ed ontologicamente inattendibile poiché viene smentito fattualmente da tutte quelle idee che non hanno un referente oggettivo constatabile: non solo l'idea di Dio (inteso dalle religioni o come vaga entità indeterminata), ma anche quelle più banali e già citate di «fantasma», di «sorella dispersa», e alte possibili.

Citazione di: davintro il 13 Febbraio 2021, 19:47:38 PM
Tu stesso, come mi è sembrato di intendere, a un certo punto concedi che, una volta che nella definizione di partenza non è implicita l'attribuzione a Dio di esistenza come causa della presenza dell'idea dei suoi attributi nella mente, cioè quando scrivi, cito,
"Se non lo presupponessi già come esistente, la sua idea sarebbe l'unica prova logica della sua esistenza e dunque potrei dire di Dio solo che è colui che rende possibile averne idea, senza potervi aggiungere altre proprietà, demiurgiche o morali che siano, non potendo provarle logicamente."
quantomeno l'esistenza di Dio come ciò che rende possibile l'idea sarebbe accertata.
La premessa che ho anteposto «se non la presupponessi già come esistente» non è da sottovalutare, perché ho dimostrato in precedenza come tale presupposto sia in gioco sin dall'inizio dell'argomentazione: si presuppone l'esistenza del referente oggettivo dell'idea di Dio e poi gli si assegnano attributi. Ho usato la prima persona per "immedesimarmi" retoricamente in chi ha un'idea di Dio (nello stesso paragrafo dichiaro infatti che personalmente propendo per altre spiegazioni) e se crede che Dio solo possa essere la causa della sua stessa idea nell'uomo, il credente può usare la presenza di tale idea come prova dell'esistenza divina. Sarebbe dunque una prova logica, non ontologica, dell'esistenza di colui che presuppongo sia causa della sua stessa idea in me, quindi in fondo un altro circolo vizioso privo di fondamento gnoseologico: mi "ritrovo" in testa l'idea di x, allora pongo l'esistenza di x come causa della sua idea in me; è un gesto arbitrario, non epistemico (mi "ritrovo" in testa l'idea di elfo, ma dubito che l'esistenza dell'oggetto-elfo ne sia la causa; certo, esistono immagini, modellini, film, etc. sugli elfi, come sugli dei, ma si tratta di un'"ontologia" narrativa, culturale, "ereditata", non oggettiva o gnoseologica).

Citazione di: davintro il 13 Febbraio 2021, 19:47:38 PM
Per quanto riguarda i discorsi apofatici, il "qualcosa" che all'interno di una stanza distinguo dalle sedie e dai tavoli non è mai puro "nulla". Perché riconosca questo "qualcosa" come non identificabile con sedie e con tavoli, devo necessariamente riempirlo di un certo livello minimo di attributi positivi, altrimenti, come potrei sapere che non si sta parlando di sedie o di tavoli ma di altra cosa?
Anche qui il "circolo vizioso" mi pare in azione: presuppongo che ci sia qualcosa che non posso percepire e lo connoto negando che sia ciò che percepisco; se seguissimo tale "deformazione" logica della negazione, dovremmo affermare che in tasca c'è il mio fazzoletto e anche qualcosa che non è il mio fazzoletto ma eppure esiste; che nel palloncino c'è l'aria ma anche qualcosa che non è l'aria eppure esiste, etc. non sono pratico di fisica quantistica, forse per i fisici queste frasi hanno un chiaro senso estensionale, ma non credo nemmeno loro ne possano trarre debite conclusioni teologiche o mistiche.

Citazione di: davintro il 13 Febbraio 2021, 19:47:38 PM
i fautori della prova ontologica, che fintanto che si limitano a proporre una certa definizione di Dio, non ne stanno suggerendo in questa premessa l'esistenza cadendo nel circolo vizioso.
Ho ricordato il quarto assioma di Gödel in cui egli definisce esplicitamente l'esistenza come una proprietà positiva, di quelle che egli attribuisce a Dio per definizione. Questo circolo vizioso è stato notato anche dai critici della sua dimostrazione, sicuramente più attenti e competenti di me e, per come è stato esplicito lo stesso Gödel, mi pare non ci possano essere troppi dubbi al riguardo (se pongo qualcosa come assioma non sono tenuto a dimostrarlo, e lo considero vero a priori; se provo a farne oggetto di dimostrazione all'interno del sistema che tale assioma determina, sicuramente avrò successo tramite petitio principii, ma non è corretto parlare di dimostrazione, tantomeno ontologica).

davintro

Phil scrive:

"Non mi sembra ci sia una esperienza o un oggetto reale conforme alle rispettive idee delle proprietà qualificanti positive, né confome a Dio. Quali sarebbero tali "esperienze"? Per le idee delle presunte proprietà di Dio, esse (mi) risultano tramandate ed insegnate di generazione in generazione, senza nessuna apprensione o esperienza oggettuale diretta (né sono innate, altrimenti non sarebbe necessario insegnarle, spiegarle e giustificarle); idee generabili anche tramite semplice negazione concettuale o estremizzazione di proprietà concrete: il finito negato diventa l'infinito, il mortale negato diventa l'immortale, la conoscenza estremizzata diventa l'onniscenza, la potenza parziale estremizzata diventa l'onnipotenza, etc. Siamo sempre nel mondo dei concetti e delle idee, nulla di saldamente gnoseologico. Il principio di corrispondenza fra idea e corrispettivo oggetto è un medium gnoseologicamente ed ontologicamente inattendibile poiché viene smentito fattualmente da tutte quelle idee che non hanno un referente oggettivo constatabile: non solo l'idea di Dio (inteso dalle religioni o come vaga entità indeterminata), ma anche quelle più banali e già citate di «fantasma», di «sorella dispersa», e alte possibili."


Le idee non si insegnano, si insegna un linguaggio atto ad esprimerle, funzionale poi ad offrire un supporto fisico al pensiero, necessario per rendere quelle idee oggetto di attenzione e riflessione per una coscienza, il cui legame col corpo la vincola a connettere i propri contenuti con dei segni fisici. La generazione da cui dovremmo aver appreso tramite insegnamento le idee dove le avrebbe apprese a loro volta? Occorrerebbe risalire alla generazione ancora precedente e via di seguito, in un regresso all'infinito che inficia la possibilità di giungere a  una risposta definitiva al quesito. Il punto è che l'insegnamento non è mai produttivo dei contenuti che si insegnano, ma solo veicolante questi. Ciò in quanto recepire l'insegnamento non è mai da parte del discente un passivo riempirsi di contenuti appresi totalmente dal nulla, ma qualcosa che presuppone la comprensione, cioè il dare un significato ai segni linguistici appresi dall'esterno sulla base di strutture interne preesistenti. La parola "eternità" ascoltata da un insegnante resterebbe puro flatus voci per l'allievo, se dal suo punto di vista la parola non fosse già nella sua mente associata all'idea corrispondente, che era già insita nella profondità della sua coscienza, e che aspettava di essere associata a un supporto grafico per risalire allo strato riflesso e superficiale della mente. Allora, potrebbe ribattere l'anti-innatista, come spiegare che nessun bambino prima di andare a scuola si senta parlare di anima, Dio, eternità o trascendentale? Quello che penso è che occorra distinguere all'interno della psiche strati di diversa superficialità e profondità riguardo l'intensità della consapevolezza dei suoi contenuti. Ci sono strati superficiali in cui l'Io orienta la sua attenzione consueta, nella quale le idee sono associate a delle parole, e strati profondi in cui l'intuizione di idee non ancora verbalizzate, pur sempre presente, non emerge all'attenzione riflessa, perché coperta dal rumore di fondo degli strati superficiali. Se non si sente mai un bambino parlare di certe idee, non è perché le idee non siano già presenti nel fondo della sua psiche (o anima che dir si voglia), ma semplicemente perché, essendo tutte le sue esigenze localizzate nel mondo esterno, (mamma, cibo, bisognini ecc.), orienterà la sua attenzione solo su quelle idee a cui sono associate parole che consentono una comunicazione efficace al soddisfacimento di quelle esigenze. Cioè la mente non è sufficientemente motivata/allenata a focalizzare l'attenzione su delle idee irrilevanti per i bisogni tipici dell'età, e a cui non è associato alcun segno fisico che consenta la riflessione sull'idea in linea con il costante rapporto con l'esteriorità, per cui l'attenzione verso un contenuto mentale presuppone un riscontro fisico tramite cui simbolizzare, materializzare il contenuto. Il vincolo dell'esteriorità, espressione della finitezza ontologica, per cui l'uomo è sempre in relazione con ciò che sta al di fuori della sua soggettività, determina la necessità che la percezione fisica non si sovrapponga, ottundendola, alla sfera delle idee, perché queste ultime siano tematizzate, ma che le riecheggi, sulla base di segni fisici rimandanti ad esse simbolicamente. Quando si va a scuola, finalmente "eternità", "infinito" ecc. sono associati a segni fisici, e queste idee possono uscire dalla latenza profonda, essendo ora associabili a questi segni fisici che ne consentono la pensabilità, essendo in qualche modo ora stimolanti anche nel rapporto col mondo esterno. Ma non è il linguaggio appreso a infondere le idee, le "risveglia" soltanto, consentendo loro una strada d'accesso verso una loro utilizzabilità nell'ambiente, dalla cui relazione l'uomo non sfugge mai. Prima erano già presenti, ma di fatto "inutilizzabili". Tutto ciò presuppone la convenzionalità del linguaggio, cioè la possibilità di utilizzare termini diversi per esprimere lo stesso significato, e il riconoscere tale convenzionalità (che è il presupposto per apprendere una lingua straniera: apprendo che la stessa idea può essere espressa in un termine diverso da quello della mia lingua madre), vuol dire anche distinguere l'origine delle idee da quello delle parole: le prime sono colte per intuizione di oggetti corrispondenti, le idee il cui significato inerisce a oggetti fisici (l'idea di albero, pietra ecc.) apprese tramite i campi percettivi corporei, le idee aventi un significato intelligibile apprese tramite un'intuizione interiore di contenuti preesistente all'esperienza del mondo esterno (lo stesso Kant, la cui gnoseologia non è certo platonica, ammette accanto l'intuizione sensibile, un'intuizione intellettuale, per quanto poi cada nell'errore di precludere a quest'ultimo genere di intuizione l'apprensione di un contenuto conoscibile razionalmente, precludendosi la fondabilità scientifica delle proprie tesi riguardanti il contenuto di questa modalità di apprensione, come le categorie a priori dell'intelletto e della sensibilità). Essendo il linguaggio composto di segni fisici, può essere appreso dall'esterno sulla base della corporeità, mentre le idee "astratte" corrispondenti sono sin da sempre intuiti dalla mente, anche precedentemente al loro essere oggetto di riflessione e attenzione, reso possibile alla coscienza dalla loro comunicabilità linguistica e alla conseguente utilizzabilità pratica. L'errore di fondo della posizione "empirista" è quello di confondere il complesso dei pensieri tout court con quelli che in un certo momento sono tematizzati nell'attenzione e nella riflessione. Scegliere di orientare l'attenzione su un pensiero anziché su un altro è un atto libero dell'Io sulla base di esigenze legate a interessi nel rapporto col mondo esterno e presupponenti la comunicabilità linguistica, ma se è possibile considerare l'importanza di un'idea tale da attenzionarla, è perché già prima della tematizzazione, si ha già una latente o inconscia intuizione del significato di quell'idea, per quanto non ancora verbalizzata.


Per quanto riguarda l'idea che il principio di corrispondenza semantica tra idea e reale oggetto di esperienza sia smentibile sulla base della non constatabilità di idee come quella di Dio, mi pare che sconti un pregiudizio gnoseologico materialista che limita la constatabilità a ciò che può essere fisicamente esperito. Ma questa limitazione è esattamente la tesi sostenuta dall'ateismo e dall'agnosticismo, che in questo modo, loro sì, cadrebbero nel circolo vizioso di presuppore la loro particolare gnoseologia nella premessa stessa dell'argomento.

Jacopus

Per Davintro. L'innatismo di certe idee ( o anche di tutte le idee) è una idea priva di fondamento in termini scientifici e pertanto anche filosofici. Corrisponde ad un principio di fede e pertanto privo di ogni validità argomentativa in un ambito non metafisico.
Su questo argomento è molto interessante la tesi di Yuval Harari, prof. di storia con solide conoscenze di storia biologica a paleontologica umana. Secondo lui, il primo grande passaggio evolutivo di Sapiens fu proprio la capacità di creare "finzioni", ovvero miti e religioni, che crearono la struttura necessaria per sviluppare società complesse, più ampie delle precedenti tribù di 100-150 individui. Quelle società furono più sicure, permisero specializzazioni che incrementarono le scoperte tecniche e quindi il successo planetario dell'uomo.
La dote di creare "storie che uniscono" continua tuttora attraverso il mito dello stato nazionale o del denaro o delle corporation o della filosofia. Il maggior indiziato rispetto a questa capacità singolare è sempre lui, il nostro ingombrante Sistema Nervoso. Ma il percorso successivo è stato un percorso di trasmissione culturale tra generazionale di queste storie. Storie che permettono di bypassare i tempi biblici del mutamento genetico. L'uomo infatti è passato nel giro di poche migliaia di anni da una organizzazione gestita dal maschio alfa dominatore, alla tutela dei minorati psichici o degli stessi bambini.
Sono piuttosto certo che di innatismo in tutto ciò non vi sia nulla, ma l'onere  della prova spetta a chi afferma qualcosa non a chi la nega. Io, nel mio piccolo posso dimostrare altre realtà, non necessariamente fisiche, come ad esempio la necessità da parte di ogni bambino di ricevere affetto ed empatia per crescere in modo equilibrato. Questa affermazione proviene da studi ed esperimenti pluridecennali su bambini e primati. Mi piacerebbe che anche rispetto all'innatismo si svolgesse lo stesso tipo di ricerca, altrimenti parliamo in termini di liturgie sacerdotali, rispettabili ma, ai miei occhi, prive di ogni validità esplicativa.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Alexander

#49
Buongiorno Jacopus



cit.:l'onere  della prova spetta a chi afferma qualcosa non a chi la nega


Quindi per stabilire che non c'è innatismo


cit.:la tesi di Yuval Harari, prof. di storia con solide conoscenze di storia biologica a paleontologica umana. Secondo lui, il primo grande passaggio evolutivo di Sapiens fu proprio la capacità di creare "finzioni", ovvero miti e religioni, che crearono la struttura necessaria per sviluppare società complesse, più ampie delle precedenti tribù di 100-150 individui.


Anche costui mi sembra abbia l'onere della prova. Infatti a me pare che anche la sua sia solo una teoria. Dovrebbe dimostrarla, non solo postularla.  "Secondo lui" non è una dimostrazione. Infatti non capisco perché non ci possa essere sia l'uno che l'altro: sia l'apprendere dall'esperienza che l'innata predisposizione a recepire e comprendere delle idee.

Phil

Citazione di: davintro il 14 Febbraio 2021, 17:23:55 PM
Le idee non si insegnano, si insegna un linguaggio atto ad esprimerle, funzionale poi ad offrire un supporto fisico al pensiero, necessario per rendere quelle idee oggetto di attenzione e riflessione per una coscienza, il cui legame col corpo la vincola a connettere i propri contenuti con dei segni fisici. La generazione da cui dovremmo aver appreso tramite insegnamento le idee dove le avrebbe apprese a loro volta? Occorrerebbe risalire alla generazione ancora precedente e via di seguito, in un regresso all'infinito che inficia la possibilità di giungere a  una risposta definitiva al quesito.

Nessun regresso all'infinito: come dimostra la storia dell'uomo, filosofica e non, le idee possono anche essere generate partendo dai sensi, dalla fantasia, dalla creatività, dalla suddetta negazione o estremizzazione di idee precedenti, etc. la psicologia e le scienze cognitive trattano di alcune delle dinamiche con cui la mente umana produce idee (sebbene l'idea che tutte le idee possibili e immaginabili siano già dormienti come potenziale della nostra mente, non è escludibile a priori per quanto, a mio umile giudizio, tanto poco probabile quanto affascinante).
Come detto, l'idea di «fantasma» ha una storia e una sua tradizione, tuttavia, per dedurne l'esistenza ontologica, non credo bastino né la sua definizione né riscontrarne l'esistenza in molte culture.

Citazione di: davintro il 14 Febbraio 2021, 17:23:55 PM
Per quanto riguarda l'idea che il principio di corrispondenza semantica tra idea e reale oggetto di esperienza sia smentibile sulla base della non constatabilità di idee come quella di Dio, mi pare che sconti un pregiudizio gnoseologico materialista che limita la constatabilità a ciò che può essere fisicamente esperito. Ma questa limitazione è esattamente la tesi sostenuta dall'ateismo e dall'agnosticismo, che in questo modo, loro sì, cadrebbero nel circolo vizioso di presuppore la loro particolare gnoseologia nella premessa stessa dell'argomento.

Il rapporto fra esistenza, constatabilità e percezione credo sia piuttosto verificabile, in quanto oggetto di esperienza per la coscienza di chiunque, quindi mi pare costituisca un buon punto di partenza (seppur non infallibile) per parlare dell'esistenza e per discriminare le idee con referente reale da quelle con referente fittizio. Non colgo il circolo vizioso che ne conseguirebbe: se con la constatazione (s)oggettiva dell'esistenza del contenuto dell'idea, affermo che il referente di tale idea non è fittizio, bensì reale, mentre in assenza di tale constatazione, e in assenza di ulteriore dimostrazione, sostengo che l'esistenza del referente dell'idea è, fino a prova contraria, solo astratto-concettuale, qual è il circolo vizioso?

Se non abuso della tua pazienza, aggiungo una postilla sull'apofatismo: non c'è sempre speculare reciprocità ontologica e ostensiva fra affermazione e negazione; se è vero formalmente che «ogni negazione di un certo contenuto determinato implica l'affermazione del suo contrario»(cit.) è anche vero che, ontologicamente, la realtà non è così rigidamente binaria da essere fatta solo da contrari. Al di là della constatazione che la negazione è pragmaticamente (non formalmente) un sottoinsieme dell'affermazione (ogni enunciato afferma il suo contenuto, quindi anche la negazione è un'affermazione: negare x è affermare non-x), non è solo una questione di logiche polivalenti o di "gradazioni" intermedie fra il vero e il falso (v. il possibile), ma soprattutto si tratta di considerare che, parlando di esistenza e identificazione, talvolta mille negazioni non valgono un'affermazione, soprattutto se si mira a strutturare una dimostrazione.
L'affermazione che tu sei Davintro (affermazione di verità) e l'affermazione che tu non sei Tizio o sei non-Tizio (affermazione di negazione di falsità, equivalente a negazione di falsità) non hanno lo stesso valore ontologico, perché la prima afferma la tua vera identità (e non è neccessario affermare altro al riguardo), mentre la seconda nega una tua falsa identità, ma non ci dice ancora chi sei veramente, e potrebbe infatti essere affiancata da altre mille negazioni di tue false identità, senza che questo comporti "gnoseologicamente" sapere quale sia il tuo nome. Banalizzando come sempre per amor di chiarezza: per dimostrare che non ti chiami Tizio, basta che quando ti incontro per strada ti chiamo alle spalle dicendo «ciao Tizio», se non ti volti (o reagisci con distacco), allora ho plausibile conferma che non ti chiami Tizio; tuttavia per farti voltare non sarà sufficiente che io ti chiami dicendo «ciao non-Tizio».
Se formalmente x e non-x sono speculari (contrari), ontologicamente e argomentativamente l'esistenza di x richiede la sua affermazione, che non può essere supplita dalla semplice somma di negazioni di ciò che x non è (somma potenzialmente infinita). Negando ciò che è non affermo ontologicamente l'esistenza di qualcos'altro (ovvero il referente contenutistico dell'apofasia), ma solo la possibilità formale dell'esistenza di qualcos'altro, che finché non assume una connotazione affermativa positiva, priva di negazioni, potrebbe anche essere solo un'idea fittizia (affermare apofaticamente che esiste un elemento che non è nessuno di quelli presenti nella tavola periodica, non produce conoscenza, non dimostra che tale elemento esista davvero).
In campo strettamente dimostrativo la questione è infatti decisamente "asimmetrica": dimostrare che l'idrogeno, l'elio e lo zinco non sono la cura per il Covid, non dimostra cosa lo sia, né, soprattutto, che davvero esista ontologicamente qualcosa che lo sia; viceversa, dimostrare che x è la cura per il Covid non dimostra che y non lo sia (potrebbero infatti esserci più cure possibili, supponiamo x e y, ma non idrogeno, elio e zinco).
Tornando quindi all'apofatismo religioso: affermare cosa o come Dio non sia, non implica affermare nemmeno che esso sia davvero "qualcosa", perché negando che esso sia percepibile, verificabile, etc. non è logicamente equivalente ad affermare che esso sia ontologicamente qualcosa, poiché potrebbe essere anche solo un'idea fittizia, che in quanto tale non ha un referente e quindi risulta certamente non visibile, non verificabile, etc. In fondo, negando a Dio tutte le caratteristiche di un ente, più che a l'Essere, lo approssimiamo a un nulla (connotato appunto dalla negazione), oltre a lasciare aperta la questione di quanto siano vincolanti i pregiudizi che abbiamo "ereditato" su Dio quando proviamo a descriverne le proprietà o ne postuliamo l'esistenza (deismo e apofatismo, a mio giudizio, sono due differenti residui fenomenologici dell'idea religioso-teologica di Dio, depurata dalle aporie culturali e soteriologiche; tuttavia togliere un'idea dal suo humus originario rischia di comportare la sua "tutela" senza che ve ne sia adeguato fondamento fideistico, che nel contesto originario poteva essere la rivelazione della divinità, la testimonianza di profeti o altro; procedere solo per via logica, oltre a perdere di aderenza con l'ontologia, rischia di incappare nella circolarità fra conclusioni e presupposti, come dimostrato da Gödel e altri).
Affermare «x esiste ma sappiamo solo cosa o come non è» , quindi riempiendo solo l'insieme delle non-proprietà di x, ha senso ontologico solo se consideriamo aprioristicamente vero, come presupposto indimostrato, che x esista (e quindi siamo in un circolo vizioso, poiché di fatto potremmo riferirci, seppur in buona fede, solo ad un insieme vuoto, che in quanto tale soddisfa la negazione delle proprietà degli enti che invece esistono ontologicamente). Farne una questione di "misura", di estremizzazione, non giova a dimostrarne, né ontologicamente né logicamente, la necessaria esistenza (come proposto dalle dimostrazioni ontologiche): ad esempio, partendo dalla constatazione della parzialità della conoscenza umana, non è affatto necessario che vi sia qualcuno/qualcosa che invece sia onnisciente, proprio come la mortalità umana non comporta che ci sia un vivente immortale, o l'essere alto al massimo 2 metri e mezzo non comporta che ci sia un essere infinitamente alto, etc. l'onniscenza, l'immortalità, l'infinita altezza (e l'infinito matematico) possono giustamente essere concetti teorizzabili, magari anche necessari (nel caso dell'infinito matematico), ma non danno adito, fino a prova contraria, alla necessaria esistenza di un "ente" reale che abbia ontologicamente tali proprietà.

Alexander


Tornando quindi all'apofatismo religioso: affermare cosa o come Dio non sia, non implica affermare nemmeno che esso sia davvero "qualcosa", perché negando che esso sia percepibile, verificabile, etc. non è logicamente equivalente ad affermare che esso sia ontologicamente qualcosa, poiché potrebbe essere anche solo un'idea fittizia, che in quanto tale non ha un referente e quindi risulta certamente non visibile, non verificabile, etc. In fondo, negando a Dio tutte le caratteristiche di un ente, più che a l'Essere, lo approssimiamo a un nulla (connotato appunto dalla negazione), oltre a lasciare aperta la questione di quanto siano vincolanti i pregiudizi che abbiamo "ereditato" su Dio quando proviamo a descriverne le proprietà o ne postuliamo l'esistenza (deismo e apofatismo, a mio giudizio, sono due differenti residui fenomenologici dell'idea religioso-teologica di Dio, depurata dalle aporie culturali e soteriologiche; tuttavia togliere un'idea dal suo humus originario rischia di comportare la sua "tutela" senza che ve ne sia adeguato fondamento fideistico, che nel contesto originario poteva essere la rivelazione della divinità, la testimonianza di profeti o altro; procedere solo per via logica, oltre a perdere di aderenza con l'ontologia, rischia di incappare nella circolarità fra conclusioni e presupposti, come dimostrato da Gödel e altri).
Affermare «x esiste ma sappiamo solo cosa o come non è» , quindi riempiendo solo l'insieme delle non-proprietà di x, ha senso ontologico solo se consideriamo aprioristicamente vero, come presupposto indimostrato, che x esista (e quindi siamo in un circolo vizioso, poiché di fatto potremmo riferirci, seppur in buona fede, solo ad un insieme vuoto, che in quanto tale soddisfa la negazione delle proprietà degli enti che invece esistono ontologicamente).


Buongiono PHil e Davintro
Discussione interessante!
Faccio notare però che , quando si parla di teologia negativa o apofatismo, non s'intende che la divinità non sia esperibile, ma che non sia "dicibile", ossia che l'esperienza o la comprensione della natura di Dio non sia possibile da esprimere a parole. Pertanto è una forma contemplativa, per lo più silenziosa, dove si rigetta come inadeguato ogni processo speculativo e di indagine discorsiva sulla natura della divinità. Nella sua forma più "radicale" l'apofatismo nega che ci siano argomenti appropriati per la descrizione della divinità, perché, com'è logico,  essa trascende le capacità cognitive limitate umane. Pertanto , al massimo, per l'apofatismo si può dire solo quello che non è Dio, e sempre limitatamente. Naturalmente si parte da un'esperienza della divinità stessa.

Jacopus

#52
Per Alexander. Un principio fondamentale della ricerca scientifica ( e personalmente ritengo anche filosofica) impone che la dimostrazione spetti a chi afferma qualcosa. Affermare di negare qualcosa non ha bisogno di prove, poiché altrimenti si torna al paradosso della teiera di Russell ( ovvero posso dichiarare senza tema di essere smentito che una teiera orbita attorno alla terra, fatto indimostrabile e quindi anche non negabile. Se al posto della teiera metti una religione, le conseguenze per gli scettici sono state qui e sono, in altre parti del mondo, terribili. È per questo che è necessario adottare tutti gli strumenti utili per non far credere che la religione sia qualcosa di più di un fatto di fede).
Rispetto alla ricerca di Yuval Noah Harari, ti assicuro che non è uno sprovveduto e il suo libro contiene una bibliografia (di prove) di 17 pagine. Mi sembrerebbe però noioso trascrivere detta bibliografia.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Alexander

Buonasera Jacopus


Sono d'accordo, ma siccome ci sono anche teorie contrarie sostenute da altri (Prove scientifiche per innatezza. La prova dell'innatismo viene trovata dai neuroscienziati che lavorano al Blue Brain Project), non posso certo affermare che si tratti di dimostrazione indiscutibile. Mi sembra che anche Davintro la presenti come una ipotesi filosofica e non pretenda sia una dimostrazione scientifica.

Jacopus

Per Alexander. Il blue brain project è un progetto controverso, che ha raccolto la protesta in una lettera collettiva di 700 neuroscienziati. Inoltre da quel poco che so il suo obiettivo non è provare l'innatismo ma replicare in modo digitale-informatico il funzionamento del cervello umano, usando anche come "base semplificata", il cervello dei topolini da laboratorio (cavie).
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

baylham


Citazione di: Alexander il 14 Febbraio 2021, 18:33:39 PM

Faccio notare però che , quando si parla di teologia negativa o apofatismo, non s'intende che la divinità non sia esperibile, ma che non sia "dicibile", ossia che l'esperienza o la comprensione della natura di Dio non sia possibile da esprimere a parole. Pertanto è una forma contemplativa, per lo più silenziosa, dove si rigetta come inadeguato ogni processo speculativo e di indagine discorsiva sulla natura della divinità. Nella sua forma più "radicale" l'apofatismo nega che ci siano argomenti appropriati per la descrizione della divinità, perché, com'è logico,  essa trascende le capacità cognitive limitate umane. Pertanto , al massimo, per l'apofatismo si può dire solo quello che non è Dio, e sempre limitatamente. Naturalmente si parte da un'esperienza della divinità stessa.

Se non sai chi è Dio come fai a fare esperienza di Dio?

viator

Salve bailham. Trovo profondamente inapproriata la tua osservazione. Ai tempi della difffusione dell'elettricità (secondo me parente strettissima di Dio) ci furono un sacco di casi di persone che fecero una folgorante esperienza circa l'esistenza di ciò che non sapevano che fosse. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

baylham

Intendi che Dio è Zeus o il fulmine o l'esperienza del fulmine o chi fa l'esperienza del fulmine?

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