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La mano e la moneta

Aperto da Eutidemo, 22 Dicembre 2019, 15:47:11 PM

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Eutidemo

Vi mostrerò ora, visivamente, un "gioco di prestigio", a cui mi pare di avervi già accennato di sfuggita in un altro mio TOPIC, (ma senza soffermarmici), il quale:
- a livello di "trucco manuale", di solito non riscuote un grande successo, perchè non ci casca (quasi) nessuno;
- a livello di "trucco logico", invece, spesso riscuote un grande successo, perchè sono in molti a cascarci.

Ora ve lo spiego per fasi:

A)
Mostrate una mano aperta, e fate notare che è assolutamente vuota.


B)
Chiudete la mano e sottolineate il fatto che, dentro, ovviamente non può esserci nulla.


C)
Concentratevi per qualche minuto, cercando "telecineticaménte" di materializzare una monenta al suo interno; dopodichè annunciate di essere riusciti in pieno, agitando il pugno in aria.


D)
Dopodichè, non contenti del risultato, dichiarate che adesso compirete un'altra più grande magia, facendo subitaneamente sparire di nuovo la moneta; e, dopo qualche secondo, annunciate di esserci perfettamente riusciti.


E)
Infine, aprite la mano per far vedere che la moneta è effettivamente sparita!


***
Se il pubblico è composto da spettatori di età superiore ai due anni, è molto probabile che verrete fatti oggetto di un nutrito lancio di pomodori. ;D  ;D  ;D
Nella migliore della ipotesi!
Però, coraggiosamente ripetendo l'esperimento, una volta che vi trovate nella fase C), provate ad esporre agli spettatori il seguente ragionamento:
"Va bene, il mio pugno è chiuso per cui voi non potete vedere la moneta che c'è dentro; però non potete neanche vedere che non c'è!
                                                 QUINDI
- così come io non posso dimostrare che c'è;
- allo stesso modo, però, voi non potete dimostrarmi che non c'è!"
Ed il bello è che, autosuggestionandovi, magari potreste davvero sentirla al tatto; però temo che il lancio di pomodori si ripeterebbe con maggiore intensità. ;)
Ma la cosa buffa è che, molti di quelli che vi lanciano i pomodori, in altri ambiti, senza neanche rendersene conto, si lasciano tranquillamente persuadere da ragionamenti sostanzialmente analoghi!

***
Come ho detto, in premessa, infatti:
- a livello di "trucco manuale", di solito non riscuote un grande successo, perchè non ci casca nessuno (salvo che non lo ipnotizziate);
- a livello di "trucco logico", invece, spesso riscuote un grande successo, perchè sono in molti a cascarci, lasciandosi ipnotizzare dal paralogismo della "falsa isostenia".
Lascio a voi sbizzarrirvi nel trovare qualcuno dei numerosi casi di questo genere:
- in filosofia;
- in politica;
- in economia;
e non solo!

davintro

mi sembra che il tema proposto ricalchi quello classico dell' "onere della prova", e il principio per il quale sta a chi afferma qualcosa dimostrare la verità della propria tesi, senza pretendere che l'impossibilità di una smentita legittimi tale verità. Principio logicamente ineccepibile (salvo i casi in cui l'impossibilità della smentita consista non nell'impossibilità di trovare fatti empirici falsificanti un'affermazione, ma nella sua autocontraddittorietà: se una tesi non-A che smentisce A si rivela internamente incoerente, verrà necessariamente dimostrata la verità di A, tertium non datur), che però si rivela irrilevante e sterile nel contesto di una discussione in cui una delle due parti presenta una tesi che l'altra parte intende contestare. Infatti, da un punto di vista logico, ogni contestazione, cioè negazione di una tesi è a sua volta, sempre un'affermazione, l'affermazione della verità di uno stato di cose alternativo a quello presentato nella tesi che si intende contestare, che in quanto tale è soggetta alla responsabilità dialettica di provare la sua verità nella stessa misura in cui è soggetta l'affermazione a cui ci si oppone. Quindi, ad esempio, uno dei più consueti cavalli di battaglia dialettici dell'ateismo (non l'unico, lo chiarisco perché non vorrei che qualche ateo pensasse che voglia sminuire le possibilità del suo apparato argomentativo), quello di considerare l'affermazione sull'esistenza di Dio come necessitante di onus probandi a differenza della negazione di tale esistenza, che come "negazione" sarebbe libera da questa responsabilità, andrebbe del tutto invalidato. Infatti la negazione atea "Non c'è alcun Dio", può essere tranquillamente riformulata, senza che in nulla si alteri il suo significato in un'affermazione a tutti gli effetti "Esiste una realtà in cui Dio è assente", che andrebbe provata allo stesso modo della tesi opposta. Se nel merito del contenuto ontologico si parla della constatazione di un'assenza, a livello di forma logica, cioè l'ambito a cui il principio dell'onere della prova è riferito, si tratta di un'affermazione che "positivamente" propone una tesi sulla realtà e che dunque è soggetta agli stessi vincoli epistemici della tesi opposta. Quindi, tornando all'esempio del messaggio di apertura, quello che logicamente legittima il pubblico a tirare pomodori contro l'illusionista non è il fatto che quest'ultimo abbia mancato ad una sorta di "dovere" di prova dei suoi poteri, che SOLO A LUI, in quanto proponente un'affermazione, sarebbe richiesto, mentre il pubblico può starsene tranquillamente "con le mani in mano", per così dire, a limitarsi a negare l'affermazione, senza tenere a mente le ragioni del suo scetticismo, ma perché il pubblico stesso può già giovarsi di una larga tradizione di oneri della prova assolti, cioè di verifiche scientifiche empiriche che mostrano, almeno a livello probabilistico e non di certezza assoluta, l'impossibilità per la mente umana di creare oggetti dal nulla. Impossibilità che è un'affermazione che esige di essere provata nella stessa misura della tesi opposta, senza pretendere di porsi aprioristicamente su un piano di privilegio o rendita dialettica, entro cui doverla dare per scontata

Ipazia

Mi pare un tantino tirata per i capelli una proposizione del tipo: "esiste una realtà in cui l'unicorno è assente". Poco epistemo-logica.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

viator

Certo che bisogna aver affrontato interminabili studi filosofici per giungere alla conclusione che ASSENZE - NULLA - VUOTI non sottostanno ad alcuna necessità di prova. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

davintro

Citazione di: Ipazia il 22 Dicembre 2019, 18:14:37 PMMi pare un tantino tirata per i capelli una proposizione del tipo: "esiste una realtà in cui l'unicorno è assente". Poco epistemo-logica.

Perché tirata per i capelli? Una proposizione di questo tipo mantiene intatto lo stesso identico significato della sua versione negativa "Non esiste l'unicorno". Cambia la sintassi, non la semantica, non il contenuto di verità che nella tesi viene intenzionalmente posto come oggettivo, e che, al di là della struttura grammaticale-linguistica, le cui regole sono sempre una contingenza storica, è l'unico elemento che una dimostrazione razionale ha interesse a porre come suo oggetto di applicazione.  Si può certamente dire, ma uscendo dall'ambito di cui si sta qui trattando, dell'onus probandi, che, in assenza di motivazioni razionali riguardo l'esistenza dell'unicorno, la logica suggerisce di restare nella sospensione del giudizio circa tale esistenza, ma nel momento in cui si fa un passo in avanti e si passa dalla sospensione del giudizio, alla tesi della non esistenza dell'unicorno, posta come assoluto (cioè considerando tutta la realtà nel suo complesso, oltre il limite di ciò che finora si è potuto esperire) della, si compie inevitabilmente un'affermazione che riguarda una certa visione in positivo del reale, e che dunque richiede di passare per l'onere della prova allo stesso modo della tesi contraria. Il carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto

Phil

Citazione di: davintro il 22 Dicembre 2019, 20:38:04 PM
Il carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto
Per me non è da confondere il referente dell'affermazione di esistenza con le qualità (o "accidenti") del referente affermato, soprattutto se una qualità apparente consiste in realtà in un (o più) altro referente:
- se dico «c'è una stanza», affermo l'esistenza di una stanza e magari poi la dimostro ricorrendo alla definizione di «stanza» e mostrando la sua corrispondenza con l'ente di cui si parla;
- se affermo «c'è una stanza rossa», affermo l'esistenza di un referente con una determinata qualità, è quindi anche possibile che esista il referente (stanza) ma non la qualità, o la qualità (il rosso) ma non nel referente affermato (ad esempio se sono in presenza di una macchina rossa, non di una stanza)
- se invece affermo «c'è una stanza in cui non ci sono sedie (ovvero in cui sono assenti sedie)» ci sono due referenti, due sostantivi (da «sostanza» intesa alla medievale), ovvero due presunte esistenze, distinte e separate, di cui si parla, la stanza e le sedie, e le dimostrazioni delle due affermazioni sono (onto)logicamente indipendenti: posso dimostrare l'esistenza di sedie, ma eventualmente non localizzate in una stanza (magari in un camion) o l'esistenza di una stanza ma senza sedie (se non se ne riscontra la presenza). La suddetta non è dunque una affermazione di esistenza, ma una affermazione di due esistenze o, ugualmente, due affermazioni di esistenza ipoteticamente correlate.

Che esista almeno "una realtà (la nostra) in cui sono assenti unicorni" è empiricamente falsificato: esistiamo io e te (se anche fossimo due chatbot, saremmo comunque reali), o almeno uno dei due, quindi una realtà c'è, Cartesio docet. In tale realtà sono assenti gli unicorni? Non direi: possiamo pensarli, disegnarli, descriverli, etc. rendendoli una presenza.
Ritenere che gli unicorni siano reali oltre il loro essere disegnati, nominati, etc. non riguarda più la realtà di cui abbiamo (di)mostrato l'esistenza con la nostra conversazione (anche fosse un soliloquio onirico). La "nostra" realtà empirica è dimostrata dal "cogito" (o dallo "scrivo", nel nostro caso) così come il suo contenere unicorni, di cui stiamo ragionevolmente scrivendo.
Tuttavia, se si ritiene che gli unicorni abbiano un'esistenza che va oltre (meta-...) quella sperimentabile e verificabile in discorsi, disegni, etc., ciò riguarda chiaramente un'altra realtà che esula da quella sperimentata e verificata dal nostro scrivere (con tutte le eventuali esitazioni del caso). Che esista un'altra realtà in cui gli unicorni sono esseri viventi, indipendenti dal discorso che ne parla, resta quindi da dimostrare. Se poi definiamo gli unicorni in modo che risultino indimostrabili (impercepibili, infalsificabili, etc.) allora l'affermazione della loro esistenza non potrà percorrere la strada della dimostrazione epistemologica.

La differenza fra predicare l'esistenza e la non-esistenza è ontologica, prima che epistemologica; pur trattandosi formalmente di due affermazioni, la differenza è rilevante: nel primo caso ci si riferisce a qualcosa di esistente e presente, nel secondo invece ci si riferisce ad un'assenza determinata, ad un concetto senza referente empirico o "sostanziale" (sempre per dirla alla medievale).

Facendo dell'ontologia spiccia e limitata esemplificativamente alla percezione: posso avere (parafrasando Cartesio) «una percezione chiara e distinta» di ciò che è, ma non di ciò che non è; questo differenzia radicalmente l'affermazione di esistenza (e una sua possibile dimostrazione) da quella di non esistenza.
Infatti se parlassimo di "percezione dell'assenza di qualcosa" sarebbe un giocoso sofisma (che non hai commesso), come dire che guardando una stanza vuota ho una percezione delle persone che non ci sono, dei clowns che non ci sono, degli elefanti che non ci sono, etc. tutti enti che, al di là del sofisma, non percepisco affatto, perché la percezione (tanto sensoriale quanto intenzionale) in quanto tale, si rivolge alla presenza determinata non all'assenza indeterminata (l'assenza determinata del percepire che "qualcosa c'era ma ora non c'è più" richiederebbe addentrarsi sul tema della memoria, tangente ma non essenziale a quello della dimostrazione intersoggettiva di esistenza). Ha semmai senso affermare che percepisco il "vuoto" della stanza, non tutti gli infiniti enti possibili che potrebbero riempirla ma non ci sono (salvo riuscir a dimostrare che riesco a percepire l'infinito in un istante; anche in questo caso, è chi nega la percezione dell'infinito in un istante che deve dimostrarlo tanto quanto chi l'afferma? Comunque qui ce la caviamo facilmente facendo appello alla definizione stessa di "infinito" che mal si presta ad essere percepito esaustivamente in un batter d'occhio; salvo scenari estetici oppure accontentarsi del suo simbolo, confondendo così, quasi "dolosamente", segno e referente).

davintro

Citazione di: Phil il 22 Dicembre 2019, 22:22:00 PM
Citazione di: davintro il 22 Dicembre 2019, 20:38:04 PMIl carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto
Per me non è da confondere il referente dell'affermazione di esistenza con le qualità (o "accidenti") del referente affermato, soprattutto se una qualità apparente consiste in realtà in un (o più) altro referente: - se dico «c'è una stanza», affermo l'esistenza di una stanza e magari poi la dimostro ricorrendo alla definizione di «stanza» e mostrando la sua corrispondenza con l'ente di cui si parla; - se affermo «c'è una stanza rossa», affermo l'esistenza di un referente con una determinata qualità, è quindi anche possibile che esista il referente (stanza) ma non la qualità, o la qualità (il rosso) ma non nel referente affermato (ad esempio se sono in presenza di una macchina rossa, non di una stanza) - se invece affermo «c'è una stanza in cui non ci sono sedie (ovvero in cui sono assenti sedie)» ci sono due referenti, due sostantivi (da «sostanza» intesa alla medievale), ovvero due presunte esistenze, distinte e separate, di cui si parla, la stanza e le sedie, e le dimostrazioni delle due affermazioni sono (onto)logicamente indipendenti: posso dimostrare l'esistenza di sedie, ma eventualmente non localizzate in una stanza (magari in un camion) o l'esistenza di una stanza ma senza sedie (se non se ne riscontra la presenza). La suddetta non è dunque una affermazione di esistenza, ma una affermazione di due esistenze o, ugualmente, due affermazioni di esistenza ipoteticamente correlate. Che esista almeno "una realtà (la nostra) in cui sono assenti unicorni" è empiricamente falsificato: esistiamo io e te (se anche fossimo due chatbot, saremmo comunque reali), o almeno uno dei due, quindi una realtà c'è, Cartesio docet. In tale realtà sono assenti gli unicorni? Non direi: possiamo pensarli, disegnarli, descriverli, etc. rendendoli una presenza. Ritenere che gli unicorni siano reali oltre il loro essere disegnati, nominati, etc. non riguarda più la realtà di cui abbiamo (di)mostrato l'esistenza con la nostra conversazione (anche fosse un soliloquio onirico). La "nostra" realtà empirica è dimostrata dal "cogito" (o dallo "scrivo", nel nostro caso) così come il suo contenere unicorni, di cui stiamo ragionevolmente scrivendo. Tuttavia, se si ritiene che gli unicorni abbiano un'esistenza che va oltre (meta-...) quella sperimentabile e verificabile in discorsi, disegni, etc., ciò riguarda chiaramente un'altra realtà che esula da quella sperimentata e verificata dal nostro scrivere (con tutte le eventuali esitazioni del caso). Che esista un'altra realtà in cui gli unicorni sono esseri viventi, indipendenti dal discorso che ne parla, resta quindi da dimostrare. Se poi definiamo gli unicorni in modo che risultino indimostrabili (impercepibili, infalsificabili, etc.) allora l'affermazione della loro esistenza non potrà percorrere la strada della dimostrazione epistemologica. La differenza fra predicare l'esistenza e la non-esistenza è ontologica, prima che epistemologica; pur trattandosi formalmente di due affermazioni, la differenza è rilevante: nel primo caso ci si riferisce a qualcosa di esistente e presente, nel secondo invece ci si riferisce ad un'assenza determinata, ad un concetto senza referente empirico o "sostanziale" (sempre per dirla alla medievale). Facendo dell'ontologia spiccia e limitata esemplificativamente alla percezione: posso avere (parafrasando Cartesio) «una percezione chiara e distinta» di ciò che è, ma non di ciò che non è; questo differenzia radicalmente l'affermazione di esistenza (e una sua possibile dimostrazione) da quella di non esistenza. Infatti se parlassimo di "percezione dell'assenza di qualcosa" sarebbe un giocoso sofisma (che non hai commesso), come dire che guardando una stanza vuota ho una percezione delle persone che non ci sono, dei clowns che non ci sono, degli elefanti che non ci sono, etc. tutti enti che, al di là del sofisma, non percepisco affatto, perché la percezione (tanto sensoriale quanto intenzionale) in quanto tale, si rivolge alla presenza determinata non all'assenza indeterminata (l'assenza determinata del percepire che "qualcosa c'era ma ora non c'è più" richiederebbe addentrarsi sul tema della memoria, tangente ma non essenziale a quello della dimostrazione intersoggettiva di esistenza). Ha semmai senso affermare che percepisco il "vuoto" della stanza, non tutti gli infiniti enti possibili che potrebbero riempirla ma non ci sono (salvo riuscir a dimostrare che riesco a percepire l'infinito in un istante; anche in questo caso, è chi nega la percezione dell'infinito in un istante che deve dimostrarlo tanto quanto chi l'afferma? Comunque qui ce la caviamo facilmente facendo appello alla definizione stessa di "infinito" che mal si presta ad essere percepito esaustivamente in un batter d'occhio; salvo scenari estetici oppure accontentarsi del suo simbolo, confondendo così, quasi "dolosamente", segno e referente).

senza dubbio affermazione e negazione differiscono in quando indicano cose opposte dal punto di vista ontologico, l'affermazione indica la presenza di un ente, la negazione la sua essenza. Resta il fatto che ogni negazione implica comunque sempre un'affermazione, un'affermazione nella quale giudico come oggettivamente reale ciò che indica la visione entro cui cogliere l'assenza di ciò che è negato. Non potrei giudicare "in questa stanza non ci sono sedie", senza che la negazione dell'esistenza delle sedie non sia accompagnata dal giudizio (non importa se a livello psichico non lo ponga come tema su cui focalizzare l'attenzione, resta comunque operante sullo sfondo della coscienza, in quanto legittima il giudizio di negazione rivolto alle sedie a cui invece sto rivolgendo il pensiero) in cui affermo la realtà della stanza, nella rappresentazione mentale in cui la percepisco. E se questa affermazione, in quanto tale, soggiace all'onere della prova, a questo obbligo epistemologico soggiace necessariamente anche la negazione della presenza delle sedie. Caduta la realtà della percezione della stanza senza sedie, caduta anche la negazione di queste ultime, dato che ammettere l'illusorietà della percezione della stanza aprirebbe la strada alla possibilità di una visione alternativa di una stanza in cui invece le sedie sarebbero presenti

Ipazia

Sedie e stanze esistono; unicorni, no. Dire "in questa stanza... non ci sono sedie" o "...non ci sono unicorni" non è la stessa cosa. Ontologicamente prima che epistemologicamente, come ha opportunamente sottolineato Phil.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Citazione di: davintro il 23 Dicembre 2019, 00:18:02 AM
Non potrei giudicare "in questa stanza non ci sono sedie", senza che la negazione dell'esistenza delle sedie non sia accompagnata dal giudizio [...] in cui affermo la realtà della stanza, nella rappresentazione mentale in cui la percepisco. E se questa affermazione, in quanto tale, soggiace all'onere della prova, a questo obbligo epistemologico soggiace necessariamente anche la negazione della presenza delle sedie.
Probabilmente è una questione di snellezza metodologica (e di "tempi ragionevoli"), nel senso che l'onere della prova dell'assenza rischierebbe di diventare, come accennavo, l'onere della prova dell'infinito: l'esistenza, in un dato intervallo di tempo, è fatta da un numero di enti verificabili finito, mentre i potenziali enti assenti sono infiniti, quindi è impossibile dimostrarne l'assenza in modo completo.

Banalmente, se affermo che c'è una sedia nella stanza e ne dimostro la presenza, non ho bisogno di dimostrare la sua assenza; se dimostro invece l'assenza di una sedia, dovrei tuttavia poi dimostrare l'assenza di infiniti enti prima di poter affermare «la stanza è vuota»; oppure per concludere che «nella stanza c'è solo una sedia» dovrei dimostrare che non ce ne siano due, né tre, né quattro, etc. poi che non c'è nemmeno un tavolo, etc. all'infinito.
Chiaramente finché si tratta di enti empirici facilmente enumerabili, poiché chiusi in una stanza, la situazione è rapidamente risolvibile, basta la vista e poco altro; se invece qualcuno afferma che «nel mondo c'è un dragone», o peggio, senza dare indizi, «esiste un dragone», «un dragone c'è», mi sembra più ragionevole che sia lui a dimostrarne l'esistenza, piuttosto che noi a perlustrare tutto il globo o il cosmo solo per dimostrare a lui la falsità della sua affermazione (pur concedendogli la buona fede).
Va infatti notato come nell'affermare la non-esistenza ci si possa limitare ad un «fino a prova contraria», che nel caso dell'esistenza suonerebbe un po' meno razionale: si potrebbe affermare l'esistenza di qualunque fantasia o ente e poi avallarlo con un «fino a prova contraria» lasciando agli altri l'onere di dimostrare falsa l'affermazione di esistenza.

In ambito più euristico, va comunque considerato che per quanto riguarda l'esistenza ha senso pragmatico ed utilità epistemologica apportare prove (o anche indizi) di evidenza positiva e dimostrativa; la più antica, che precede logicamente il di-mostrare, è il mostrare («guarda, ecco qui il dragone»). Mentre per la non-esistenza sarebbe contraddittorio poter portare prove di evidenza positiva, e quelle negative sarebbero molto più dispersive e inefficienti: «qui il dragone non c'è... aspetta che guardo sotto il letto... no, non è neanche lì... forse è in frigo... no...» e così all'infinito per ogni ente pensabile e immaginabile.

Eutidemo

Ciao Davintro. :)
Per quanto concerne il termine "Dio", poichè si tratta di una locuzione a cui non corrisponde nulla di oggettivamente riscontrabile, nè un concetto unanimamente condiviso, le discussioni sulla sua esistenza diventano sempre molto ambigue e inconcludenti; ed infatti, alcuni considerano "dio" un animale totemico, altri un idolo di pietra, altri  un dio antropomorfo, altri un dio catafatico (ed antropopatetico), altri un dio apofatico!

***
Al contrario, nessuno discute su che cosa sia una "moneta"; per cui, al riguardo, si può solo discettare se essa ci sia "veramente" nel pugno chiuso oppure no, ma non che esistano monete in generale!

***
Se io, invece, avessi eseguito il mio gioco con un elefante, a ben vedere, non avrei neanche potuto tentare il mio provocatorio "sofisma isostenico"; ed infatti, in tal caso, gli spettatori avrebbero potuto dimostrarmi "scientificamente" (e logicamente) che le dimensioni di tale animale non consentono neanche ipoteticamente di poterlo fisicamente contenere in un pugno chiuso!
Non è possibile! ;)

***
Per  tornare alla moneta, invece, io conosco almeno tre trucchi per  farla "effettivamente" apparire "dal nulla" in un pugno chiuso; di cui vi mostro il più semplice, eseguito da un mio giovane allievo:
https://www.youtube.com/watch?v=xgBQ0kE54t4
Per cui, per tornare al "gioco di prestigio" illustrato nel mio TOPIC iniziale, quando, nella FASE C)3), io dichiaro di aver fatto apparire una moneta nel mio pugno chiuso, in effetti, io potrei averla fatta apparire "davvero"; e poi, nella FASE D)4), potrei "davvero" averla fatta sparire di nuovo, con la stessa tecnica. ;)

***
Ovviamente, nessun prestigiatore si esibirebbe mai in un trucco così idiota, perchè nessuno spettatore potrebbe vederne gli "effetti"; e, quindi, nessuno di loro crederebbe che essi si siano realmente verificati.

***
Però, per tornare all'aspetto "logico" della questione, gli spettatori che negassero il verificarsi dell'apparizione e della sparizione "nascoste", non avrebbero tutti i torti; ed infatti sta a chi afferma l'esistenza di un fenomeno di dimostrare che esso si è realmente verificato, e non a chi lo nega dimostrare il contrario.
Altrimenti, si potrebbe sostenere QUALSIASI COSA, anche l'esistenza degli "unicorni"; ed infatti, poichè non si può dimostrare:
- nè che ci sono;
- nè che non ci sono;
seguendo il "paralogismo isostenico", qualcuno potrebbe affermare che la possibilità che esistano unicorni, è al 50% con la possibilità che essi non esistano.
E lo stesso dicasi, visto il periodo natalizio, per Babbo Natale e la Befana!

***
Però, "tecnicamente", non si può neanche affermare con certezza al 100% che gli unicorni non esistano, in quanto la loro esistenza non è logicamente "autocontraddittoria"; cosa che, invece, si può tranquillamente affermare per gli "esapodi-quadrupedi", perchè un "artropode" o ha sei arti, oppure ce n'ha solo solo quattro, per cui la possibilità della loro esistenza è pari allo 0%.


Un saluto ed un augurio di buone feste! :)

Ipazia

#10
Citazione di: Phil il 23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
In ambito più euristico, va comunque considerato che per quanto riguarda l'esistenza ha senso pragmatico ed utilità epistemologica apportare prove (o anche indizi) di evidenza positiva e dimostrativa; la più antica, che precede logicamente il di-mostrare, è il mostrare («guarda, ecco qui il dragone»). Mentre per la non-esistenza sarebbe contraddittorio poter portare prove di evidenza positiva, e quelle negative sarebbero molto più dispersive e inefficienti: «qui il dragone non c'è... aspetta che guardo sotto il letto... no, non è neanche lì... forse è in frigo... no...» e così all'infinito per ogni ente pensabile e immaginabile.

Questo argomento mi pare dirimente per stabilire l'insuperabile differenziale logico tra l'ontologia positiva dell'essere/esistere e quella negativa del non-essere/non-esistere. Incluso il corrispettivo epistemico ed epistemologico.

Vi è solo un caso in cui l'ontologia "negativa" diventa legittima e vieppiù necessaria: quando si ricerca l'anello mancante per la compiutezza di una teoria. In tal caso il dragone bisogna cercarlo dappertutto e una volta trovato diventa ontologia "positiva". Dopodichè non si può più invocare il diritto dell'ontologia negativa alle infinite alternative, ma scatta l'onus probandi della falsificazione che può avvenire solo attraverso fatti reali, concreti, positivi. Siano essi il cigno nero che compare in tutta la sua realistica magnificenza o teorie (costruite su fatti) con un grado di esplicabilità superiore alla teoria falsificata.
.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Eutidemo

Ora vi faccio vedere come con una mano sola, vi faccio apparire non una moneta da un euro, ma addirittura una banconota da 50 euro! :D
https://www.youtube.com/watch?v=Su8UKKv9D5w
BUON NATALE A TUTTI!!! :-*

davintro

mi pare di scorgere tra le obiezioni di Phil e di Eutidemo ai miei modesti appunti un tratto comune, cioè l'inserimento di istanze metodologico di stampo prettamente pragmatista e di "economia del pensiero" all'interno della questione epistemologica della legittimità razionale di un discorso (che è qualcosa che mi sa sempre di mentalità "anglosassone").Phil parla di un rallentamento della procedura di verifica che si verrebbe a determinare nel caso di dover applicare l'onus probandi a una tesi negativa, un verificare l'assenza del mostro nella stanza andando a cercare in ogni angolo, Eutidemo si preoccupa che, caricando dell'onere delle prova anche chi si limita a sostenere l'assenza di un fenomeno, si arriverebbe a un totale "liberi tutti" nei confronti di qualunque tesi impossibile da smentire a livello di pura logica atta a rilevarne le contraddizioni interne. Quello che mi verrebbe da dire è che questi rilievi in realtà non sollevano problemi da un punto di vista teoretico (che personalmente è il punto di vista che personalmente più mi interesserebbe a trattare in contesti come questo), ma pratico, riguardo cioè l'eccessiva lentezza che ne deriverebbe nei contesti dialogici in cui le tesi si dibattono, oppure il timore di un'impossibilità a smentire tesi APPARENTEMENTE illogiche in quanto chi le contesta sarebbe a sua volta tenuto ad argomentare le sue contestazioni. Da un punto di vista della questione della fondazione razionale dei discorsi queste preoccupazioni pragmatiche andrebbero messe fra parentesi, in quanto, se tale questione è correlata allo statuto ontologico della realtà (in quanto si tratterebbe di individuare metodologie di ricerca il più possibile coerenti con le proprietà oggettive delle cose stesse che si intendono indagare), allora valutare o escludere una strategia argomentativa sulla base di un'esigenza di "comodità euristica", proietterebbe delle istanze del tutto pratiche-personali che vanno a sovrapporsi a quella teoretica-oggettiva di legittimare un metodo attinente a giungere a una visione di verità nei confronti della realtà, con l'inevitabile conseguenza di falsare la metodologia, deviandola dall'obiettivo di conoscere la realtà oggettiva, e fermarsi a concezioni dogmatiche che rinunciano già in partenza a mettere in discussione gli assunti derivanti dai pregiudizi tradizionali e consolidati, ma non per questo razionali. Così, diamo per scontato che il drago non sia nella stanza, solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, perché richiederebbe troppo tempo (ma che fretta c'è in fondo!?) e tiriamo pomodori all'illusionista o a chi parla di unicorni, perché non si ha voglia di ammettere quel margine di errore irriducibile che rende le verifiche sperimentali in cui l'unicorno non appare esistere solo probabilistico e non certo. Tutto legittimo, ma a condizione di allontanarci dalla risoluzione dei problemi epistemici. Checchè ne pensi il pragmatismo anglosassone, l'epistemologia è una branca della filosofia teoretica, non applicazione di una saggezza pratica, e la teoresi ha tanto più successo nella misura in cui si pone in rapporto col reale di pura contemplazione, sospendendo, epoche fenomenologica, ogni istanza pragmatica e performativa, per porci in uno stadio di passiva ricezione delle cose stesse per come si manifestano alla coscienza, utilizzando poi la logica per astrarne le strutture evidenti. Cioè l'obiettivo dell'epistemologia dovrebbe essere l'individuazione della strategia argomentativa che sia più funzionale ad aprire la coscienza a rivelazione delle cose stesse, rendendola il più possibile ad essa fedele, e non a formulare un metodo tarato sui nostri bisogni di uomini pratici alle prese con urgenze di natura extrateoretica. Nessuno ci obbliga a fare lo scienziato-filosofo ricercatore della verità, ma se si sceglie di farlo occorre mettere in conto che l'efficacia del lavoro implichi per forza sacrificare tempo ed energie dedicabili ad altri ambiti. Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione.

Eutidemo

Ciao Davintro. :)
Se per "economia del pensiero" intendi il principio "Entia non sunt multiplicanda sine necessitate", e, cioè, il "Rasoio di Occam", ci hai preso in pieno! ;)
Ed invero, come tu hai scritto, io appunto ritengo che caricando dell'onere delle prova anche chi si limita a sostenere l'assenza di un fenomeno (non verificabile in alcun modo), si arriverebbe a un totale "liberi tutti" nei confronti di qualunque tesi impossibile da smentire a livello di pura logica atta a rilevarne le contraddizioni interne. 
I tuoi argomenti, contrari al mio assunto, sono tutti interessanti, e niente affatto privi di senso logico; penso che essi siano perfettamente "sintetizzati" dalla tua icastica conclusione: 
"Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro (o di un unicorno) nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione."
Capisco esattamente quello che vuoi dire, che è, in buona parte, condivisibile. :)

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Però, io avevo scritto una cosa un po' diversa da quella che tu critichi, e, cioè: "...non si può affermare con certezza al 100% che gli unicorni non esistano, in quanto la loro esistenza non è logicamente "autocontraddittoria"; cosa che, invece, si può tranquillamente affermare per gli "esapodi-quadrupedi", perchè un "artropode" o ha sei arti, oppure ce n'ha solo solo quattro, per cui la possibilità della loro esistenza è pari allo 0%."
Quindi, secondo me, almeno a livello di "dubbio filosofico":
a) nel caso dell'esistenza o meno dell'unicorno, teoricamente, possiamo pure benignamente  "sospendere il giudizio" in attesa che se ne trovi uno in qualche valle sperduta dell Himalaya; ;)
b) nel caso dell'esistenza  di un "esapode-quadrupede" (o di un elefante racchiuso nel mio pugno), invece, secondo me non dobbiamo "sospendere" assolutamente niente, perchè si tratta di fenomeni logicamente e fisicamente impossibili. ;)

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Quanto al caso a), evitiamo pure di dare per scontato che "il drago non sia nella stanza", solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, e perché richiederebbe troppo tempo; però, se invece di una stanza mi devo mettere ad esplorare l'intera Africa, non ho nè tempo nè denaro da spendere in una ricerca tanto onerosa, e dai risultati così altamente improbabili!
Il che, però, non esclude che un drago da qualche parte possa pure esserci.
Hai visto mai!

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Al di fuori di esempi paradossali, il ragionamento di cui sopra vale pure per le sedute spiritiche e le capacità paranormali, riguardo alle quali io non ho mai escluso "a priori" che si tratti di cose "teoricamente" possibili;  anche se ritengo che "alcuni" presunti fenomeni, specie quelli spiritici, non possano verificarsi nè "fisicamente"  nè "logicamente" (della qual cosa, però, bisognerebbe parlare in un topic a parte).

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Tuttavia, resta il fatto che sin dal 1° maggio 1996, la James Randi Educational Foundation (JREF) di Fort Lauderdale, in Florida, ha messo in Palio UN MILIONE di dollari per chi, sotto controllo scientifico e di un comitato di prestigiatori professionisti, riuscirà a dimostrare di possedere "davvero" poteri medianici e facoltà paranormali; ma, a tutt'oggi, nessuno ha ancora ritirato il premio!
Per cui, per me, i casi sono i seguenti:
- o tutti i medium e i soggetti paranormali sono ricchi sfondati, e, quindi, disinteressati al premio;
- oppure hanno tutti fatto voto di povertà;
- oppure sono tutti dei ciarlatani o degli illusi;
- oppure riescono a far apparire i soldi dal nulla, come me: ;D 
https://www.youtube.com/watch?v=Su8UKKv9D5w
Non mi si affacciano alla mente altre ipotesi plausibili!

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Comunque, proverò adesso anche un esperimento di chiarroveggenza, in quanto, in questo momento, ho già indovinato la sesta parola del tuo prossimo intervento; ne sono assolutamente certo!

Un saluto! :)

Phil

Citazione di: davintro il 23 Dicembre 2019, 17:34:24 PM
mentalità "anglosassone").Phil parla di un rallentamento della procedura di verifica che si verrebbe a determinare nel caso di dover applicare l'onus probandi a una tesi negativa, un verificare l'assenza del mostro nella stanza andando a cercare in ogni angolo [...]Così, diamo per scontato che il drago non sia nella stanza, solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, perché richiederebbe troppo tempo (ma che fretta c'è in fondo!?) [...]Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione.
Il problema sorge, come ho già anticipato, non tanto se si tratta di una ricerca confinata in una stanza o in uno spazio dove la pazienza e la fattibilità della ricerca è decisamente a misura d'uomo:
Citazione di: Phil il 23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
Chiaramente finché si tratta di enti empirici facilmente enumerabili, poiché chiusi in una stanza, la situazione è rapidamente risolvibile, basta la vista e poco altro; se invece qualcuno afferma che «nel mondo c'è un dragone», o peggio, senza dare indizi, «esiste un dragone», «un dragone c'è», mi sembra più ragionevole che sia lui a dimostrarne l'esistenza, piuttosto che noi a perlustrare tutto il globo o il cosmo solo per dimostrare a lui la falsità della sua affermazione (pur concedendogli la buona fede).

Va inoltre considerato che se si richiede l'onere della prova a chi afferma qualcosa (sia essa esistente o non esistente), sarebbe al contempo un tiro piuttosto mancino prospettargli una ricerca che va oltre le sue concrete possibilità di "prova", ovvero una dimostrazione impraticabile. Se parliamo di (dimostrazioni di) esistenza è secondo me inevitabile valutare lo sporcarsi le mani con la realtà, considerare i limiti delle verifiche possibili, fare i conti con gli aspetti pragmatici del metodo di verifica, etc.
L'appello alla concretezza "anglosassone" della prassi dimostrativa non può essere accantonata se ciò che si richiede è appunto una dimostrazione epistemologica e non un'ammissione di possibilità di "esistenza fino a prova contraria" (che si può, volendo, concedere facilmente, ma al prezzo di abbandonare l'onere della prova e quindi il piano epistemologico).

Inoltre, sempre guardando alla concretezza della ricerca (filosofica o altro), o meglio alla pratica della ricerca: se affermo l'esistenza di qualcosa, è plausibile che lo faccia perché ho indizi, spunti, intuizioni, etc. che mi spingono a ritenerlo esistente; proprio da questi spunti che posseggo è ragionevole che parta una possibile prova dell'esistenza. Chiedere a chi non ha avuto quelle "prove", indizi, spunti, etc. di dimostrare che mi sono sbagliato è metodologicamente ostile e inefficiente: se non provo a dimostrare l'esistenza di qualcosa che credo esista per determinati motivi, perché mai delego ad altri l'onere della dimostrazione del contrario (assolvendomi dall'onere della prova affermando che «l'assenza di prove d'esistenza non è prova dell'assenza dell'ente»)?

Proviamo a calare tale differenza di oneri (esistenza / non-esistenza) all'interno di una verosimile equipe di ricerca: ci sono alcuni ricercatori che collaborano negli stessi esperimenti alla ricerca di una nuova molecola, uno di loro afferma che tale nuova molecola c'è (e magari ne descrive anche le proprietà), tuttavia anziché di-mostrarne l'esistenza ai colleghi (che magari sono scettici in merito) chiede loro di dimostrare che tale molecola non esiste... onestamente, non credi che converrebbe, sotto tutti i punti di vista, che sia lui a svelare la nuova molecola (di)mostrandone l'esistenza?