È capace la filosofia di sporcarsi le mani di attualità?

Aperto da Angelo Cannata, 31 Maggio 2017, 16:54:19 PM

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cvc

E già, l'elevazione...... l'inabissamento......
"Armonia dei contrari! Come quella dell'arco e della lira"

Grazie Paul
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

davintro

Rispondo a green demetr

 

gnoseologia e filosofia critica coincidono, in quanto, se il momento più radicale ed elevato della criticità sta nel mettere in discussione il soggetto stesso della critica, cioè l'autocritica, allora è la gnoseologia, il piano nel quale la filosofia non si limita ad affermare delle tesi sul mondo circostante, ma riflette sulla validità dei propri schemi e categorie soggettive di conoscenza e esperienza, delimitando kantianamente (a prescindere dal fatto che poi la critica kantiana sia stata effettivamente adeguata e coerente, e ho i miei dubbi), i limiti e possibilità dei nostri strumenti conoscitivi, l'ambito in cui la filosofia mostra pienamente la sua razionalità e criticità, cioè "pensa" nel senso radicale del termine. Ciò che fa sì che l'epistemologia sia una branca della filosofia, che la filosofia possa riflettere sullo statuto epistemico dei metodi di ricerca delle altre scienza, mentre un fisico o un chimico, in quanto tali, non avranno mai gli strumenti per definire i limiti e possibilità di un discorso metafisico, perché depositari di un sapere non davvero autocritico. Ma perché l'autocritica raggiunga il suo scopo occorre che riesca a distinguere nell'intreccio inizialmente caotico e indistinto dell'esperienza dei fenomeni ciò che è determinato dalla nostra soggettività particolare, col suo carico di tradizione storica che ci influenza, che ci porta a considerare come universalmente valido ciò che invece è il portato della tradizione culturale contingente in cui siamo situati, il carico dei pregiudizi che appanna la visione essenziale dei fenomeni, da ciò che invece sono gli aspetti necessari e universalmente validi riguardo ai fenomeni, che rientra nel campo di un'evidenza indubitabile, riferibile alla certezza della presenza dei nostri vissuti, considerati nella loro generalità, con cui facciamo esperienza del mondo. Il primo campo attiene alla soggettività particolare, la seconda a quella trascendentale. Il soggetto particolare (ciascuno di noi inteso come singolo) non può essere fondamento e garanzia autosufficiente della verità, se così fosse ciascuno di noi sarebbe Dio, in possesso permanente della verità, mentre in realtà la nostra conoscenza è imperfetta e si imbatte in un insieme di verità e falsità, cosicché il fondamento delle nostre verità parziali si identifica con un altro da noi, un modello di verità universali con cui la nostra mente entra in contatto seppur in misura imperfetta. L'uomo non è cioè misura della verità, ma può trovare scavando nella sua coscienza un più o meno lontano riflesso di essa. L'io trascendentale, il piano dell'evidenza piena dei fenomeni è il fondamento della verità , il problema è che nella nostra condizione storica questo Io si dà come astrazione, seppur epistemologicamente necessaria. 

 

A questo punto mi sentirei di dire qualcosa che potrebbe apparire provocatorio e scandalizzare qualcuno (temo tra l'altro di aver già abituato in ciò in questo forum...). Credo che la tecnica sia un problema che la filosofia del novecento abbia eccessivamente sopravvalutato. Non nego che la potenza, ciò a cui si può accedere tramite la tecnica, abbia un effetto incantante sull'uomo, ma tale effetto si attua sui suoi pensieri e sulle suoi azioni solo se l'uomo si lascia incantare, solo se in lui prevalgono le tendenze materialiste che conducono a porre nella scala valoriale personale i beni materiali che la tecnica può produrre ad un livello superiore rispetto ai beni spirituali. In particolare, porre la tecnica come fonte primaria di valore, fondamento etico in nome del principio che tutto ciò che è tecnicamente realizzabile di fatto è anche legittimo moralmente (e poi di conseguenza legalmente), si caratterizza come un' inversione nell'ordine che vede i mezzi come assiologicamente inferiori e subordinati ai fini. Tentazione, che certamente è spesso presente, per qualche esaltato che ritiene la cultura umanistica, la filosofia, la religione, antiquati impicci che impedirebbero all'uomo di esplicare in pienezza le sue potenzialità di conoscenza scientifica (nel senso empirista), tecniche. Ma tutto ciò non implica affatto che il corretto ordine tra mezzi e fine non possa essere riconosciuto, e considerare la tecnica per ciò che è, uno strumento, sia pur indispensabile, al conseguimento dei fini, che in un'umanità che realizza in pieno la sua natura di tipo contemplativa e razionale, sono di tipo spirituale e non direttamente raggiungibili dalla tecnica. Questa si limita a svolgere i compiti pratici necessari alla sopravvivenza, senza però fondare i fini in relazione a cui la vita assume valore e senso, tale fondazione resta demandata al libero arbitrio del soggetto. La considerazione della tecnica come fine e non come strumento, non va ricondotta alla tecnica in sé, ma a quella inalienabile componente umana di materialismo, prevista nello statuto ontologico dell'uomo, per il quale l'uomo non è puro spirito, ma mantiene in sé la tendenza a idolatrare e a considerare come unica realtà concreta gli oggetti sensibili, quelli su cui abbiamo tecnicamente potere, e squalificare come irrilevante astrazione i beni spirituali e intellettuali. Che un tempi gli uomini combattessero con le spade e ora con armi nucleari o batteriologiche è un problema storico, non filosofico. La filosofia si occupa di distinguere l'essenza qualitativa dei fenomeni, non le gradazioni quantitative interne allo stesso concetto, e il passaggio dalle spade alle atomiche è un passaggio certamente oceanico, ma pur sempre quantitativo, senza un salto di qualità. La qualità del fenomeno resta sempre la stessa, la violenza, l'impulso alla sopraffazione, che al di là del progresso quantitativo di efficacia dei mezzi a disposizione, possiede un nucleo unitario di senso che la filosofia, intesa qua come antropologia, è chiamata ad analizzare. Cioè, è la qualità stabile della natura umana, le sue zone d'ombra oggetto dell'analisi filosofica. Paradossalmente più che la tecnica in sé, sono proprio gli eccessivi allarmismi e problematizzazioni sulla tecnica ciò che compromette la filosofia, distogliendola dal suo ambito tradizionale, quello delle classiche questioni della metafisica e dell'ontologia, che le sono davvero peculiari, e che non condivide con alcuna sociologia o antropologia empirica, quelle sì, davvero intenzionate a indagare i processi e sviluppo quantitativi della storia umana

La filosofia non può dire "cosa dovrei essere", né quali dovrebbero essere i fini dell'agire politico. Questo in virtù della razionalità della filosofia, che non può individuare il valore etico dei fini, dato che a mio avviso i fini etici sono frutto di preferenze soggettive sentimentali. La mia idea di "bene" o "felicità" è mia e non necessariamente di altri. Tuttavia la razionalità filosofica porta a individuare i mezzi necessari e coerenti a perseguire una certa soggettiva idea di bene, e a distinguere un livello minimo di oggettività nel quale trovare delle condizioni necessarie per l'uomo per ottenere non la realtà, ma quantomeno la possibilità di un certo benessere e dignità materiale e spirituale. Ciò nella misura in cui la filosofia studia le strutture essenziale dell'essere umano. Come appare abbastanza ovvio, non si può stabilire in cosa possa consistere il bene di qualcuno senza conoscere quel qualcuno, il bene è la realizzazione armonica relativa alla determinata natura di un ente, esistono tanti beni quanti sono i tipi di enti nel mondo. Questo è il fondamentale apporto del momento teoretico da cui dovrebbe poi svilupparsi un discorso e un agire etico-politico, senza tale apporto si va alla cieca


Non ho ben capito come debba intendersi per "costruttivismo" in questo contesto particolare

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