La filosofia di Kant conduce allo scetticismo?

Aperto da Socrate78, 29 Agosto 2018, 15:48:10 PM

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Socrate78

Mi chiedo se la filosofia kantiana non porti di fatto a ridurre la realtà esterna al soggetto ad una sostanziale illusione. Infatti se l'ente conosciuto viene filtrato attraverso le forme a priori, ciò significa che le nostre percezioni non corrispondono alla verità autentica del mondo, ma sono un'apparenza creata dalla nostra mente. LO spazio e il tempo non sarebbero, per quanto mi sembra di comprendere, per Kant realtà esistenti, ma solo un'apparenza creata dalla nostra mente per farci fare esperienza del mondo: ma se è così ciò non dovrebbe sfociare nello scetticismo più totale visto che praticamente ogni nostro giudizio sul mondo è inserito in uno schema spaziale e temporale? L'interpretazione migliore del kantismo mi sembra a questo punto quella data da Edmund Husserl, quando afferma che è necessario porre tra parentesi tutta la realtà esterna sospendendo il giudizio su di essa e non si potrebbe fare altrimenti visto che essa è un'apparenza mentale, e non un dato di fatto obiettivo.

0xdeadbeef

Beh, diciamo che spazio e tempo sono per Kant realtà certissime, come certissimi sono gli enunciati
della scienza. Senonchè la fisica atomica demolisce anche queste certezze; ma questo, come fa giustamente
notare Carnap (mi par di ricordare fosse lui), lungi dal demolire l'intera filosofia di Kant piuttosto
la rafforza. Perchè rafforzato ne esce il concetto-cardine, che è quello della "cosa in sè".
Quindi sì, da un certo punto di vista la filosofia di Kant conduce allo scetticismo (perchè la "cosa
in sè" non può essere conosciuta); uno scetticismo però "attenuato" sia dalla consapevolezza di una
"reale" esistenza della "cosa in sè", sia da un successivo e necessario "posizionarsi" di fronte
alla "cosa in sè" (diciamo in scandalosa sintesi che la "cosa in sè" diviene conoscibile a-posteriori,
come risultato dell'agire sotteso alla Ragion Pratica).
Per me questa di Kant è l'unica posizione filosofica "possibile"; per quanto riguarda Husserl e la
Fenomenologia, confesso di non averli mai capiti (forse per colpa mia, intendiamoci).
Ridurre il "fenomeno" ad "essenza", come viene fatto all'interno di questa corrente filosofica, mi
sembra equivalente che ridurre tutta la realtà all'"io", come viene fatto dall'Idealismo.
saluti

Socrate78

#2
Non necessariamente significa ridurre tutta la realtà all'Io, a me sembra di comprendere (ma posso sbagliarmi vista la complessità del pensiero) che per Husserl la filosofia debba essere lo studio dei fenomeni intrapsichici, quindi in realtà la riduzione del fenomeno ad essenza significa che l'oggetto, a contatto con la mia struttura mentale, assume una determinata forma che rileva un'informazione fondamentale su me stesso e sulla mia psiche, quindi appunto sulla MIA essenza. Le essenze, per il filosofo, sarebbero i concetti innati generali che la nostra mente ha e che ci permettono di dire, di fronte ad un ente particolare come un tavolo o un gatto, che quello E'  uella cosa e non altro, ma ciò non equivale a dire che la realtà è una costruzione della coscienza.  Un po' come le idee innate platoniche o sbaglio?

davintro

Citazione di: Socrate78 il 29 Agosto 2018, 15:48:10 PMMi chiedo se la filosofia kantiana non porti di fatto a ridurre la realtà esterna al soggetto ad una sostanziale illusione. Infatti se l'ente conosciuto viene filtrato attraverso le forme a priori, ciò significa che le nostre percezioni non corrispondono alla verità autentica del mondo, ma sono un'apparenza creata dalla nostra mente. LO spazio e il tempo non sarebbero, per quanto mi sembra di comprendere, per Kant realtà esistenti, ma solo un'apparenza creata dalla nostra mente per farci fare esperienza del mondo: ma se è così ciò non dovrebbe sfociare nello scetticismo più totale visto che praticamente ogni nostro giudizio sul mondo è inserito in uno schema spaziale e temporale? L'interpretazione migliore del kantismo mi sembra a questo punto quella data da Edmund Husserl, quando afferma che è necessario porre tra parentesi tutta la realtà esterna sospendendo il giudizio su di essa e non si potrebbe fare altrimenti visto che essa è un'apparenza mentale, e non un dato di fatto obiettivo.


 

 

Sono d'accordo, l'esito scettico mi sembra la necessaria conseguenza della pretesa di poter salvare la conoscibilità di una conoscenza a priori (in Kant ricavabile sinteticamente) eliminando la conoscenza del Noumeno. Certamente, la possibilità di recuperare una certa, seppur limitata, conoscenza noumenica, considerando le "cose stesse" come supporto necessario per la loro esperienza, sarebbe una corretta e coerente implicazione dell'esigenza critica di fondare epistemologicamente un discorso sulla realtà sull'analisi delle strutture della nostra esperienza, ma di fatto implicazione resta non sviluppata all'interno dello schema kantiano che identifica il materiale della conoscenza con ciò che ricade nelle categorie estetiche di spazio e tempo (cioè i fenomeni sensibili, fisici), riducendo l'ambito dell'apriori alla forma di per sé vuota delle categorie, a delle mere funzioni ordinatrici di un materiale sempre altro da sé. In questo schema il noumeno nella sua intelligibilità, non rientra nel recinto del materiale sensibile della conoscenza, e dunque ogni affermazione fatta su di esso non avrebbe alcuna legittimità scientifica, nemmeno nella posizione del noumeno come ideale regolativo e fondamento della sua scienza, e nemmeno, negativamente nell'attestazione della sua inconoscibilità, dato che anche affermare la non conoscibilità di qualcosa, implica pur sempre un certo sapere positivo di questo "qualcosa", quantomeno il suo significato concettuale. Ammettere un limite che fissa un dualismo tra fenomeno e noumeno implica pur sempre una certa intuizione (oggettivante un materiale) di entrambi i piani che vengono distinti. In breve, l'appiattimento del materiale della conoscenza scientifica a quello dei sensi, rende impossibile la critica stessa della conoscenza. Nello spirito dell'opposizione a questa deriva che a mio avviso va letto lo sforzo fenomenologico husserliano del "ritorno alle cose stesse". L'intelligenza di questo tentativo è consistito nel non sviluppare tale "ritorno" come un recupero di un realismo ingenuo, un'accettazione dogmatico dell'esistenza di un mondo esterno, senza un'analisi critica dei fondamenti con cui la nostra soggettività può avere di questo mondo un'esperienza, ma in un "ritorno a Cartesio", cioè porre la coscienza soggettiva, in quanto residuo indubitabile della radicalizzazione del dubbio riguardo ogni tesi sulla realtà trascendente, come ambito in cui individuare i fenomeni nell'essenzialità delle loro relazioni. Tale approccio, di Cartesio evita la sostanzializzazione del cogito, identificato con l'anima, ma ne salva l'idea di dedurre dall'evidenza della presenza di un Io pensante e rivolto intenzionalmente a un mondo di oggetti, il considerare come oggetti degli atti dell'Io delle idee in cui cogliere delle verità trascendentali, cioè indipendenti dalle circostanze particolari in cui l'Io si trova ad esistere: se la coscienza è ciò della cui certezza possiamo avere la certezza, allora anche gli oggetti, nella misura in cui sono fenomeni, cioè contenuti di questa coscienza, sono ciò di cui possiamo avere un sapere evidente, non condizionato dalla dubitabilità del loro esistere fattuale nel mondo esterno. In questo modo si può ricomporre la frattura tra noumeno e fenomeno e superare l'insidia del relativismo. Possiamo dubitare che una certa cosa esista fuori di noi, ma non del fatto di averne un contenuto fenomenico e di poter ricavare da ciò tramite intuizione e deduzione logica delle implicazioni da connettere in un sistema di relazioni con altri fenomeni

0xdeadbeef

A Davintro
Ma sì, in linea di massima sono d'accordo; solo che, mi chiedo: è possibile una filosofia "oltre"
Kant?
E su questa domanda la mia risposta è: no, non è possibile; la sola cosa possibile è una, per
così dire, "nota a margine", una specificazione di quanto già intuito da Kant.
Chiaramente c'è una evidentissima "frattura epistemologica" fra la Ragion Pura e quella Pratica,
ove quest'ultima agisce "come se" la prima avesse fornito a questo agire una solida base teoretica.
E se consideriamo quella che Kant chiamava l'"unità originaria dell'appercezione" (cioè l'"io penso"),
non possiamo a mio parere che ricavarne la constatazione che quello che chiami "ritorno a Cartesio"
della Fenomenologia era già presente in Kant.
Mi pare infatti che anche attraverso l'"io penso" kantiano si possa in un certo qual modo ricomporre
la frattura fra fenomeno e noumeno (senza che ciò comporti la "produzione idealista" dell'oggetto
da parte del soggetto).
Quanto tutto questo possa servire ad evitare l'insidia del relativismo non saprei (direi poco...).
saluti

iano

#5
Citazione di: Socrate78 il 29 Agosto 2018, 15:48:10 PM
Mi chiedo se la filosofia kantiana non porti di fatto a ridurre la realtà esterna al soggetto ad una sostanziale illusione. Infatti se l'ente conosciuto viene filtrato attraverso le forme a priori, ciò significa che le nostre percezioni non corrispondono alla verità autentica del mondo, ma sono un'apparenza creata dalla nostra mente. LO spazio e il tempo non sarebbero, per quanto mi sembra di comprendere, per Kant realtà esistenti, ma solo un'apparenza creata dalla nostra mente per farci fare esperienza del mondo: ma se è così ciò non dovrebbe sfociare nello scetticismo più totale visto che praticamente ogni nostro giudizio sul mondo è inserito in uno schema spaziale e temporale? L'interpretazione migliore del kantismo mi sembra a questo punto quella data da Edmund Husserl, quando afferma che è necessario porre tra parentesi tutta la realtà esterna sospendendo il giudizio su di essa e non si potrebbe fare altrimenti visto che essa è un'apparenza mentale, e non un dato di fatto obiettivo.
Sostanziale illusione , apparenza creata dalla nostra mente.....
sono espressioni che hanno una connotazione negativa gia' in se' che portano ad un ingiustificato scetticismo.
Tutte le percezioni sono illusioni ,non create in modo arbitrario,ma che nascono da una interazione reale con la cosa in se'.
Ciò che va' messo in evidenza è il carattere funzionale delle illusioni piuttosto che quello "illusorio".Carattere funzionale che ci permette di vivere nella realtà,per senza averne una conoscenza oggettiva, ma tanto quanto basta.
Non è neanche da illudersi che questo quanto possa essere incrementato in un percorso , seppur infinito , che tenda al limite alla realtà oggettiva.
La possibilità della conoscenza oggettiva della realtà è la vera illusione che fino a un certo punto coltiviamo,è che quando viene scoperta induce in noi una delusione che può portare allo scetticismo.
In effetti anche questa illusione di avere accesso ad una realtà oggettiva ha una sua funzione.
Infatti ,in mancanza di significative controindicazioni, al fine di ottimale interazione con la realtà.credere di aver accesso a una realtà oggettiva in scala1:1 è un vantaggio.
Ma quando si evidenziano controindicazioni allora l'illusione rivela la sua natura.Da qui delusione e tensione allo scetticismo.
Ma a pensarci bene ,se la realtà oggettiva è,e non potrebbe essere che unica,avere pieno accesso a questa unicità deve essere una bella noia.
Mi sembra più divertente vivere in tanti mondi possibili , nessuno dei quali è quello oggettivo.O no?😅
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

davintro

Citazione di: 0xdeadbeef il 30 Agosto 2018, 16:23:01 PMA Davintro Ma sì, in linea di massima sono d'accordo; solo che, mi chiedo: è possibile una filosofia "oltre" Kant? E su questa domanda la mia risposta è: no, non è possibile; la sola cosa possibile è una, per così dire, "nota a margine", una specificazione di quanto già intuito da Kant. Chiaramente c'è una evidentissima "frattura epistemologica" fra la Ragion Pura e quella Pratica, ove quest'ultima agisce "come se" la prima avesse fornito a questo agire una solida base teoretica. E se consideriamo quella che Kant chiamava l'"unità originaria dell'appercezione" (cioè l'"io penso"), non possiamo a mio parere che ricavarne la constatazione che quello che chiami "ritorno a Cartesio" della Fenomenologia era già presente in Kant. Mi pare infatti che anche attraverso l'"io penso" kantiano si possa in un certo qual modo ricomporre la frattura fra fenomeno e noumeno (senza che ciò comporti la "produzione idealista" dell'oggetto da parte del soggetto). Quanto tutto questo possa servire ad evitare l'insidia del relativismo non saprei (direi poco...). saluti


Il puro riconoscimento kantiano dell'Io penso come appercezione trascendentale non è a mio avviso sufficiente a colmare il fossato tra fenomeno e noumeno (cioè a superare il rischio dello scetticismo). L'Io penso, inteso come puro atto soggettivo unificatore di tutte le mie rappresentazioni, ancora non legittima l'idea che i contenuti oggettivi delle rappresentazioni siano descrivibili in base a leggi a-priori e necessarie, manca cioè il collegamento intenzionale tra noesi, atti soggettivi di coscienza, e noemi, contenuti oggettivi intenzionati dalle noesi, su cui tanto insiste la fenomenologia. L'io-penso kantiano è una noesi del cui accadere possiamo essere certi, ma che non riesce a implicare la certezza delle attribuzioni di qualità essenziali ai suoi noemi oggettivi, la certezza dell'Io penso resta una certezza di qualcosa di soggettivo, non accompagnata dalla certezza di un sapere oggettivo, anche se fenomenico, perché l'approccio kantiano, probabilmente ancora troppo influenzato dall'empirismo, identifica l'oggettività con la trascendenza del realismo ingenuo, delle cose del mondo esterno nella misura in cui non sono fenomeni, e siccome, giustamente, Kant riconosce che non ha senso pensare ad un'oggettività senza che sia data fenomenicamente a una coscienza (altrimenti come potremmo pensarla?), allora deduce, erroneamente secondo me, che non sia possibile una conoscenza dell'oggettività tout court. Invece la lezione fenomenologica consiste nell'affermare la possibilità di un sapere oggettivo, non nel senso del realismo ingenuo, che separa totalmente le cose dalla coscienza che ne ha esperienza, ma nel senso di un' oggettività intrafenomenica, cioè residuo della certezza della coscienza soggettiva, collegata ad essa tramite la relazione (intenzionalità) noesi-noema: una volta che mi rendo conto che il mio Io cosciente resta come residuo indubitabile dopo la messa fra parentesi della pretesa di esistenza delle cose al di là del mio Io, intuisco che in questo residuo resta non solo l'Io come attività soggettiva (noesi), ma anche i propri contenuti fenomenici oggettivi (noemi), che anche una volta non associati più a cose esistenti nel mondo trascendente, restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza. Anche quando comincio a dubitare che la percezione dell'albero rimandi a un albero reale, perché potrei essere vittima di un'allucinazione, non per questo l'immagine percettiva dell'albero cessa di restare contenuto nella mia coscienza. E una volta appurato questo punto, inizia la trattazione analitica vera e propria, individuare e discernere nel complesso dei contenuti fenomenici, le sfumature che segnano le varie diversità qualitative a cui far corrispondere i differenti ambiti nei quali la realtà è strutturata in tutti i suoi aspetti, riuscendo a sviluppare una "mappa" delle varie dimensioni dell'essere e delle corrispondenti punti di vista soggettivi tramite cui la coscienza attribuisce loro un determinato senso (compresi anche le varie discipline scientifiche) ad esse ordinate, evitando sovrapposizioni, confusioni di approcci ecc. La validità oggettiva della mappa sarebbe garantita dal fatto che le qualità oggettive dei fenomeni da cui l'analisi ha mosso piedi sono necessariamente implicate nella relazione con l'indubitabilità della coscienza soggettiva che le comprende. Credo sia questo a grandi linee il senso della cosiddetta "ontologia regionale" proposta da Husserl, con le "regioni" dell'essere a cui corrispondono le diverse specie di fenomeni oggettivi, qualitativamente distinte nell'analisi, almeno per come penso di aver capito la cosa, con tutti i miei grandi limiti...

0xdeadbeef

A Davintro
A me sembra invece che l'"io penso" anticipi in maniera determinante quanto poi affermerà la Fenomenologia.
Tale anticipazione, ritengo, è particolarmente evidente nella "Critica del Giudizio", nella quale Kant
afferma che i giudizi di gusto ambiscono a una validità universale (e a tal scopo devono poter essere
comunicabili intersoggettivamente).
Kant a tal proposito parla di "senso comune estetico"; ma è chiaro che la portata di un tal concetto va
ben oltre l'estetica, investendo in pieno la conoscenza ed in ciò "attenuando" la contrapposizione fra
noumeno e fenomeno (o almeno così a me sembrerebbe)
Vuol forse dire Kant, con questo, che la "cosa in sè" è conoscibile?
No, certamente, ma forse sta intuendo che l'intersoggettività può giocare un ruolo cruciale; perchè
quell'"io" è in fondo estendibile ad un "contesto" non limitato al singolo individuo.
Recentemente, nell'ambito del dibattito sul "Nuovo Realismo", il filosofo tedesco Markus Gabriel
rispondendo ad una obiezione di Severino (il quale, citando Gentile, affermava che: "un oggetto, in quanto
pensato, è pur sempre un pensato" - ora non ricordo esattamente ma questo era il senso), ha parlato
di "punto d'osservazione" quale fondamento "certo" di una nuova teoria neorealista. A questo Severino
ha replicato che un punto d'osservazione è null'altro che un "contesto" (ed un contesto non rappresenta
un fondamento certo - prendi tutta questa ricostruzione così, alla buona, perchè non ricordo molto bene).
In sostanza: può la Fenomenologia offrire un fondamento più stabile di quello rappresentato dal "contesto"?
Cos'altro può essere l'"ontologia regionale" di cui parla Husserl se non una teoria di validazione "entro"
i limiti di un contesto?
Anche dal punto di vista della Semiotica le cose mi sembrerebbero andare in questo modo.
La Semiotica dice (in scandalosa sintesi...) che il "segno" è riferito ad un oggetto, e che quell'oggetto è
conoscibile solo e soltanto attraverso il "segno" (non mancano fra i semiotici coloro che, addirittura,
negano l'esistenza del "primum assoluto", cioè dell'oggetto cui il segno di riferisce).
C.S.Peirce, a mio parere molto acutamente, rileva che già il pensare, prima ancora del dire, è "segnare",
cioè inserire l'oggetto all'interno di una catena segnica.
Ma cos'altro è una catena segnica se non un contesto, una ontologia regionale, in definitiva un "io"?
saluti e stima (apprezzo molto le tue considerazioni)

Apeiron

#8
Citazione di: davintro il 08 Settembre 2018, 17:49:19 PM
Citazione di: 0xdeadbeef il 30 Agosto 2018, 16:23:01 PMA Davintro Ma sì, in linea di massima sono d'accordo; solo che, mi chiedo: è possibile una filosofia "oltre" Kant? E su questa domanda la mia risposta è: no, non è possibile; la sola cosa possibile è una, per così dire, "nota a margine", una specificazione di quanto già intuito da Kant. Chiaramente c'è una evidentissima "frattura epistemologica" fra la Ragion Pura e quella Pratica, ove quest'ultima agisce "come se" la prima avesse fornito a questo agire una solida base teoretica. E se consideriamo quella che Kant chiamava l'"unità originaria dell'appercezione" (cioè l'"io penso"), non possiamo a mio parere che ricavarne la constatazione che quello che chiami "ritorno a Cartesio" della Fenomenologia era già presente in Kant. Mi pare infatti che anche attraverso l'"io penso" kantiano si possa in un certo qual modo ricomporre la frattura fra fenomeno e noumeno (senza che ciò comporti la "produzione idealista" dell'oggetto da parte del soggetto). Quanto tutto questo possa servire ad evitare l'insidia del relativismo non saprei (direi poco...). saluti


Il puro riconoscimento kantiano dell'Io penso come appercezione trascendentale non è a mio avviso sufficiente a colmare il fossato tra fenomeno e noumeno (cioè a superare il rischio dello scetticismo). L'Io penso, inteso come puro atto soggettivo unificatore di tutte le mie rappresentazioni, ancora non legittima l'idea che i contenuti oggettivi delle rappresentazioni siano descrivibili in base a leggi a-priori e necessarie, manca cioè il collegamento intenzionale tra noesi, atti soggettivi di coscienza, e noemi, contenuti oggettivi intenzionati dalle noesi, su cui tanto insiste la fenomenologia. L'io-penso kantiano è una noesi del cui accadere possiamo essere certi, ma che non riesce a implicare la certezza delle attribuzioni di qualità essenziali ai suoi noemi oggettivi, la certezza dell'Io penso resta una certezza di qualcosa di soggettivo, non accompagnata dalla certezza di un sapere oggettivo, anche se fenomenico, perché l'approccio kantiano, probabilmente ancora troppo influenzato dall'empirismo, identifica l'oggettività con la trascendenza del realismo ingenuo, delle cose del mondo esterno nella misura in cui non sono fenomeni, e siccome, giustamente, Kant riconosce che non ha senso pensare ad un'oggettività senza che sia data fenomenicamente a una coscienza (altrimenti come potremmo pensarla?), allora deduce, erroneamente secondo me, che non sia possibile una conoscenza dell'oggettività tout court. Invece la lezione fenomenologica consiste nell'affermare la possibilità di un sapere oggettivo, non nel senso del realismo ingenuo, che separa totalmente le cose dalla coscienza che ne ha esperienza, ma nel senso di un' oggettività intrafenomenica, cioè residuo della certezza della coscienza soggettiva, collegata ad essa tramite la relazione (intenzionalità) noesi-noema: una volta che mi rendo conto che il mio Io cosciente resta come residuo indubitabile dopo la messa fra parentesi della pretesa di esistenza delle cose al di là del mio Io, intuisco che in questo residuo resta non solo l'Io come attività soggettiva (noesi), ma anche i propri contenuti fenomenici oggettivi (noemi), che anche una volta non associati più a cose esistenti nel mondo trascendente, restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza. Anche quando comincio a dubitare che la percezione dell'albero rimandi a un albero reale, perché potrei essere vittima di un'allucinazione, non per questo l'immagine percettiva dell'albero cessa di restare contenuto nella mia coscienza. E una volta appurato questo punto, inizia la trattazione analitica vera e propria, individuare e discernere nel complesso dei contenuti fenomenici, le sfumature che segnano le varie diversità qualitative a cui far corrispondere i differenti ambiti nei quali la realtà è strutturata in tutti i suoi aspetti, riuscendo a sviluppare una "mappa" delle varie dimensioni dell'essere e delle corrispondenti punti di vista soggettivi tramite cui la coscienza attribuisce loro un determinato senso (compresi anche le varie discipline scientifiche) ad esse ordinate, evitando sovrapposizioni, confusioni di approcci ecc. La validità oggettiva della mappa sarebbe garantita dal fatto che le qualità oggettive dei fenomeni da cui l'analisi ha mosso piedi sono necessariamente implicate nella relazione con l'indubitabilità della coscienza soggettiva che le comprende. Credo sia questo a grandi linee il senso della cosiddetta "ontologia regionale" proposta da Husserl, con le "regioni" dell'essere a cui corrispondono le diverse specie di fenomeni oggettivi, qualitativamente distinte nell'analisi, almeno per come penso di aver capito la cosa, con tutti i miei grandi limiti...


Ciao, purtroppo non ho tempo di entrare nel merito della vostra discussione ma credo che il dibattito tra me e @sgiombo iniziato alla pagina 4 del topic "La critica della Scienza è fondata?" vi può interessare (il dibattito riguarda anche la relazione tra fenomeno e noumeno). Più precisamente, tutta la discussione è analoga a questa, ma in particolare (credo) il nostro dibattito.

"Modifica": Ovviamente, anche se la citazione può farlo sembrare, l'invito non riguarda solo @davidintro e @0xdeadbeef ma anche per tutti i partecipanti della discussione (in particolare anche @Socrate78, che ha iniziato la discussione).
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

sgiombo

Citazione di: davintro il 08 Settembre 2018, 17:49:19 PM

Il puro riconoscimento kantiano dell'Io penso come appercezione trascendentale non è a mio avviso sufficiente a colmare il fossato tra fenomeno e noumeno (cioè a superare il rischio dello scetticismo). L'Io penso, inteso come puro atto soggettivo unificatore di tutte le mie rappresentazioni, ancora non legittima l'idea che i contenuti oggettivi delle rappresentazioni siano descrivibili in base a leggi a-priori e necessarie, manca cioè il collegamento intenzionale tra noesi, atti soggettivi di coscienza, e noemi, contenuti oggettivi intenzionati dalle noesi, su cui tanto insiste la fenomenologia. L'io-penso kantiano è una noesi del cui accadere possiamo essere certi, ma che non riesce a implicare la certezza delle attribuzioni di qualità essenziali ai suoi noemi oggettivi, la certezza dell'Io penso resta una certezza di qualcosa di soggettivo, non accompagnata dalla certezza di un sapere oggettivo, anche se fenomenico, perché l'approccio kantiano, probabilmente ancora troppo influenzato dall'empirismo, identifica l'oggettività con la trascendenza del realismo ingenuo, delle cose del mondo esterno nella misura in cui non sono fenomeni, e siccome, giustamente, Kant riconosce che non ha senso pensare ad un'oggettività senza che sia data fenomenicamente a una coscienza (altrimenti come potremmo pensarla?), allora deduce, erroneamente secondo me, che non sia possibile una conoscenza dell'oggettività tout court. Invece la lezione fenomenologica consiste nell'affermare la possibilità di un sapere oggettivo, non nel senso del realismo ingenuo, che separa totalmente le cose dalla coscienza che ne ha esperienza, ma nel senso di un' oggettività intrafenomenica, cioè residuo della certezza della coscienza soggettiva, collegata ad essa tramite la relazione (intenzionalità) noesi-noema: una volta che mi rendo conto che il mio Io cosciente resta come residuo indubitabile dopo la messa fra parentesi della pretesa di esistenza delle cose al di là del mio Io, intuisco che in questo residuo resta non solo l'Io come attività soggettiva (noesi), ma anche i propri contenuti fenomenici oggettivi (noemi), che anche una volta non associati più a cose esistenti nel mondo trascendente, restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza. Anche quando comincio a dubitare che la percezione dell'albero rimandi a un albero reale, perché potrei essere vittima di un'allucinazione, non per questo l'immagine percettiva dell'albero cessa di restare contenuto nella mia coscienza. E una volta appurato questo punto, inizia la trattazione analitica vera e propria, individuare e discernere nel complesso dei contenuti fenomenici, le sfumature che segnano le varie diversità qualitative a cui far corrispondere i differenti ambiti nei quali la realtà è strutturata in tutti i suoi aspetti, riuscendo a sviluppare una "mappa" delle varie dimensioni dell'essere e delle corrispondenti punti di vista soggettivi tramite cui la coscienza attribuisce loro un determinato senso (compresi anche le varie discipline scientifiche) ad esse ordinate, evitando sovrapposizioni, confusioni di approcci ecc. La validità oggettiva della mappa sarebbe garantita dal fatto che le qualità oggettive dei fenomeni da cui l'analisi ha mosso piedi sono necessariamente implicate nella relazione con l'indubitabilità della coscienza soggettiva che le comprende. Credo sia questo a grandi linee il senso della cosiddetta "ontologia regionale" proposta da Husserl, con le "regioni" dell'essere a cui corrispondono le diverse specie di fenomeni oggettivi, qualitativamente distinte nell'analisi, almeno per come penso di aver capito la cosa, con tutti i miei grandi limiti...

Ma come si può (ti domando; secondo me non si può) dimostrare (logicamente; posto che in alternativa il -preteso- concetto di una constatazione empirica sarebbe a mio parere con tutta evidenza autocontraddittorio) questa "intuizione" secondo cui esisterebbe realmente una relazione (intenzionalità) noesi-noema fra dati fenomenici di coscienza e realtà in sé, indipendente dalla coscienza di essi?

 A mio parere ciò di cui vi può essere indubitabile certezza (se e quando accade) é l' esistenza dei dati fenomenici (mentali) costituenti il pensiero "io penso" (non necessariamente, non con indubitabile certezza vero) e non di un "io" reale indipendentemente da essi, anche se e quando essi non accadono realmente (e dunque  diverso da essi).
Ma anche ammesso e non concesso ciò, se una volta che mi rendo conto che il mio Io cosciente resta come residuo indubitabile dopo la messa fra parentesi della pretesa di esistenza delle cose al di là del mio Io, intuisco che in questo residuo resta non solo l'Io come attività soggettiva (noesi), ma anche i propri contenuti fenomenici oggettivi (noemi), che anche una volta non associati più a cose esistenti nel mondo trascendente, restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza, allora l' aggettivo "oggettivi" attribuito ai propri contenuti fenomenici non é corretto, dal momento che essi restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza (fenomenica, soggettiva, ovvero propria di noi soggetti di essa).

Anche quando comincio a dubitare che la percezione dell'albero rimandi a un albero reale, perché potrei essere vittima di un'allucinazione, non per questo l'immagine percettiva dell'albero cessa di restare contenuto nella mia coscienza: appunto, nient' altro che un contenuto di coscienza, indistinguibile in alcun modo -di per sé- da quello costituito da un albero sognato e percepito allucinatoriamente, comunque nulla di reale in sé, anche se e quando la sua (di esso, costituente esso) sensazione cosciente (soggettiva) non accade, nulla di indipendente dall' accadere di essa.

E una volta appurato questo punto, la trattazione analitica vera e propria, individuare e discernere nel complesso dei contenuti fenomenici, le sfumature che segnano le varie diversità qualitative a cui far corrispondere i differenti ambiti nei quali la realtà è strutturata in tutti i suoi aspetti, riuscendo a sviluppare una "mappa" delle varie dimensioni dell'essere e delle corrispondenti punti di vista soggettivi tramite cui la coscienza attribuisce loro un determinato senso (compresi anche le varie discipline scientifiche) ad esse ordinate, evitando sovrapposizioni, confusioni di approcci ecc. non può assolutamente andare oltre i dati fenomenici, non può assolutamente attingere alcuna realtà in sé, resta conoscenza di meri fenomeni nell' ambito della coscienza e di nient' altro: "esse est percipi"!

La validità oggettiva della mappa non può essere garantita dal fatto che le qualità dei fenomeni da cui l'analisi ha mosso piedi sono necessariamente implicate nella relazione con l'indubitabilità della coscienza soggettiva che le comprendeEsse non hanno comunque alcuna realtà indipendente dall' accadere reale dell' esperienza cosciente soggettiva di cui fanno parte.

0xdeadbeef

Ad Apeiron e Sgiombo
Mi chiedevo appunto in cosa consistesse questa "mappa" di cui parla l'amico Davintro (anzi, di cui parla Husserl,
a quanto sembra - purtroppo la mia conoscenza di Husserl e della Fenonenologia non è adeguata al livello della
discussione).
A quanto mi è dato di capire essa mi pare rimandi al "giudizio riflettente" di Kant (Critica del giudizio), come
dicevo. Così come del resto l'"ontologia regionale" mi sembra rimandare al concetto di "campo" di M.Gabriel (Nuovo
Realismo) come a quello di "contesto" (Severino, sempre sul "Nuovo Realismo).
A me, devo dire, la cosa sembra rimandare anche all'"io penso" kantiano (anche se, ammetto, non senza una forzatura...).
Comunque, tanto per proporre un punto di vista diverso del problema, all'interno del discorso sul "Nuovo Realismo"
Severino cita un punto (di Gentile) per lui inaggirabile: "ciò che chiamiamo fatto è pur sempre un pensato, e in
quanto pensato non può essere una realtà indipendente dal pensiero".
E allora ripeto quanto già accennavo: A Gabriel che parla di oggettività ("noumeno") all'interno di un "campo"
Severino risponde che un "campo" è un "contesto", e un "contesto" è un punto di vista interpretativo (quindi,
diremmo noi all'interno del nostro discorso, non può mutare lo "status" dell'oggetto in sè, del "noumeno",
che all'interno di un campo/contesto rimane un "fenomeno").
Sicuramente, quando parliamo di "fenomeno all'interno di un campo/contesto" non abbiamo a che fare con una mera
opinione... (se così pensassimo saremmo pronti ad equiparare l'opinione di un pazzo a quella di un saggio).
Altrettanto sicuramente non arriviamo con ciò a conoscere la "cosa in sè", l'oggetto la cui conoscenza è la medesima
a prescindere da ogni campo/contesto, che rimane inconoscibile per definizione IN QUANTO, come dice Peirce e la
semiotica, l'oggetto "primum assoluto" (il "non-segnato") non è a rigor di logica neppure pensabile.
saluti

davintro

Citazione di: sgiombo il 10 Settembre 2018, 14:50:19 PM
Citazione di: davintro il 08 Settembre 2018, 17:49:19 PMIl puro riconoscimento kantiano dell'Io penso come appercezione trascendentale non è a mio avviso sufficiente a colmare il fossato tra fenomeno e noumeno (cioè a superare il rischio dello scetticismo). L'Io penso, inteso come puro atto soggettivo unificatore di tutte le mie rappresentazioni, ancora non legittima l'idea che i contenuti oggettivi delle rappresentazioni siano descrivibili in base a leggi a-priori e necessarie, manca cioè il collegamento intenzionale tra noesi, atti soggettivi di coscienza, e noemi, contenuti oggettivi intenzionati dalle noesi, su cui tanto insiste la fenomenologia. L'io-penso kantiano è una noesi del cui accadere possiamo essere certi, ma che non riesce a implicare la certezza delle attribuzioni di qualità essenziali ai suoi noemi oggettivi, la certezza dell'Io penso resta una certezza di qualcosa di soggettivo, non accompagnata dalla certezza di un sapere oggettivo, anche se fenomenico, perché l'approccio kantiano, probabilmente ancora troppo influenzato dall'empirismo, identifica l'oggettività con la trascendenza del realismo ingenuo, delle cose del mondo esterno nella misura in cui non sono fenomeni, e siccome, giustamente, Kant riconosce che non ha senso pensare ad un'oggettività senza che sia data fenomenicamente a una coscienza (altrimenti come potremmo pensarla?), allora deduce, erroneamente secondo me, che non sia possibile una conoscenza dell'oggettività tout court. Invece la lezione fenomenologica consiste nell'affermare la possibilità di un sapere oggettivo, non nel senso del realismo ingenuo, che separa totalmente le cose dalla coscienza che ne ha esperienza, ma nel senso di un' oggettività intrafenomenica, cioè residuo della certezza della coscienza soggettiva, collegata ad essa tramite la relazione (intenzionalità) noesi-noema: una volta che mi rendo conto che il mio Io cosciente resta come residuo indubitabile dopo la messa fra parentesi della pretesa di esistenza delle cose al di là del mio Io, intuisco che in questo residuo resta non solo l'Io come attività soggettiva (noesi), ma anche i propri contenuti fenomenici oggettivi (noemi), che anche una volta non associati più a cose esistenti nel mondo trascendente, restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza. Anche quando comincio a dubitare che la percezione dell'albero rimandi a un albero reale, perché potrei essere vittima di un'allucinazione, non per questo l'immagine percettiva dell'albero cessa di restare contenuto nella mia coscienza. E una volta appurato questo punto, inizia la trattazione analitica vera e propria, individuare e discernere nel complesso dei contenuti fenomenici, le sfumature che segnano le varie diversità qualitative a cui far corrispondere i differenti ambiti nei quali la realtà è strutturata in tutti i suoi aspetti, riuscendo a sviluppare una "mappa" delle varie dimensioni dell'essere e delle corrispondenti punti di vista soggettivi tramite cui la coscienza attribuisce loro un determinato senso (compresi anche le varie discipline scientifiche) ad esse ordinate, evitando sovrapposizioni, confusioni di approcci ecc. La validità oggettiva della mappa sarebbe garantita dal fatto che le qualità oggettive dei fenomeni da cui l'analisi ha mosso piedi sono necessariamente implicate nella relazione con l'indubitabilità della coscienza soggettiva che le comprende. Credo sia questo a grandi linee il senso della cosiddetta "ontologia regionale" proposta da Husserl, con le "regioni" dell'essere a cui corrispondono le diverse specie di fenomeni oggettivi, qualitativamente distinte nell'analisi, almeno per come penso di aver capito la cosa, con tutti i miei grandi limiti...
Ma come si può (ti domando; secondo me non si può) dimostrare (logicamente; posto che in alternativa il -preteso- concetto di una constatazione empirica sarebbe a mio parere con tutta evidenza autocontraddittorio) questa "intuizione" secondo cui esisterebbe realmente una relazione (intenzionalità) noesi-noema fra dati fenomenici di coscienza e realtà in sé, indipendente dalla coscienza di essi? A mio parere ciò di cui vi può essere indubitabile certezza (se e quando accade) é l' esistenza dei dati fenomenici (mentali) costituenti il pensiero "io penso" (non necessariamente, non con indubitabile certezza vero) e non di un "io" reale indipendentemente da essi, anche se e quando essi non accadono realmente (e dunque diverso da essi). Ma anche ammesso e non concesso ciò, se una volta che mi rendo conto che il mio Io cosciente resta come residuo indubitabile dopo la messa fra parentesi della pretesa di esistenza delle cose al di là del mio Io, intuisco che in questo residuo resta non solo l'Io come attività soggettiva (noesi), ma anche i propri contenuti fenomenici oggettivi (noemi), che anche una volta non associati più a cose esistenti nel mondo trascendente, restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza, allora l' aggettivo "oggettivi" attribuito ai propri contenuti fenomenici non é corretto, dal momento che essi restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza (fenomenica, soggettiva, ovvero propria di noi soggetti di essa). Anche quando comincio a dubitare che la percezione dell'albero rimandi a un albero reale, perché potrei essere vittima di un'allucinazione, non per questo l'immagine percettiva dell'albero cessa di restare contenuto nella mia coscienza: appunto, nient' altro che un contenuto di coscienza, indistinguibile in alcun modo -di per sé- da quello costituito da un albero sognato e percepito allucinatoriamente, comunque nulla di reale in sé, anche se e quando la sua (di esso, costituente esso) sensazione cosciente (soggettiva) non accade, nulla di indipendente dall' accadere di essa. E una volta appurato questo punto, la trattazione analitica vera e propria, individuare e discernere nel complesso dei contenuti fenomenici, le sfumature che segnano le varie diversità qualitative a cui far corrispondere i differenti ambiti nei quali la realtà è strutturata in tutti i suoi aspetti, riuscendo a sviluppare una "mappa" delle varie dimensioni dell'essere e delle corrispondenti punti di vista soggettivi tramite cui la coscienza attribuisce loro un determinato senso (compresi anche le varie discipline scientifiche) ad esse ordinate, evitando sovrapposizioni, confusioni di approcci ecc. non può assolutamente andare oltre i dati fenomenici, non può assolutamente attingere alcuna realtà in sé, resta conoscenza di meri fenomeni nell' ambito della coscienza e di nient' altro: "esse est percipi"! La validità oggettiva della mappa non può essere garantita dal fatto che le qualità dei fenomeni da cui l'analisi ha mosso piedi sono necessariamente implicate nella relazione con l'indubitabilità della coscienza soggettiva che le comprende. Esse non hanno comunque alcuna realtà indipendente dall' accadere reale dell' esperienza cosciente soggettiva di cui fanno parte.



i contenuti fenomenici nella mia coscienza non sono prodotti arbitrari dell'Io, perché non sono il prodotto di una volontà di un Io, che liberamente decide di immaginare una certa cosa in un modo anziché in un altro, ma rappresentano l'essenza, il nucleo necessario della cosa, una volta spogliata, tramite l'epoche, degli aspetti che lo vincolerebbero a un determinato contesto empirico spaziotemporale, accidentale rispetto al suo senso. La sospensione del giudizio di esistenza spoglia la cosa di un attributo non necessario, per mettere in evidenza gli aspetti necessari ed essenziali. Torno sull'esempio con cui tempo  fa avevamo discusso, la memoria. Che ogni atto soggettivo noetico, l'atto del ricordare da parte di un Io, implica un contenuto oggettivo, il noema, il fenomeno oggettivo del "ricordato". La corrispondenza tra una noesi, ricordo, e un noema, un ricordato, non è una produzione soggettivistica e arbitraria dell'Io, ma una necessità strutturale dell'intenzionalità che caratterizza ogni coscienza, come ad ogni pensiero corrisponde un pensato, ad una percezione un percepito, ad un ricordo un ricordato. La dimostrazione di tale necessità è data dal fatto che essa è un residuo che resta presente anche una volta che, tramite riduzione fenomenologica, metto tra parentesi, cioè sospendo il giudizio circa la verità effettiva del ricordo, la corrispondenza fra rappresentazione mentale del ricordato e corrispondenza con l'effettiva realtà del passato: se anche fossi vittima di un'illusione circa il fatto che il mio ricordo  rappresenti un evento del passato realmente accaduto, resta il fatto che non posso dubitare di stare provando un'esperienza cosciente intenzionalmente riferita al passato, avente una qualità vissuta distinta da quelle vissute nella percezione di un fenomeno presente, o di un'immaginazione rivolta al futuro. Questa qualità vissuta rappresenta un dato oggettivo, anche se intracoscienziale, in quanto non posto arbitrariamente dall'Io, ma riconosciuto come essenza necessaria del ricordo, essendo residuo della radicalizzazione del dubbio che elimina gli aspetti non-necessari. Una volta individuate le varie distinzioni qualitative delle singole specie di atti con cui la coscienza attribuisce un senso alle cose del mondo, possiamo stilare una "mappa" (spero così di riuscire a chiarire meglio il punto anche per Oxdeadbeef, oltre che per me stesso) delle varie modalità in cui la coscienza entra in relazione con il mondo sulla base dei vari atti di esperienza vissuta, distinguibili sulla base delle differenze in cui i loro oggetti vengono vissuti in essa. Ad esempio, dalla distinzione qualitativa del ricordo rispetto al presente e al futuro, sarebbe possibile individuare una regione dell'Essere corrispondente alla conoscenza storica, cioè il modo in cui un Io si relaziona al passato, come ambito distinto dalle esperienze del presente e del futuro, e quindi dotata di caratteristiche, strutture e regole autonome.

sgiombo

Citazione di: davintro il 10 Settembre 2018, 20:34:25 PM




i contenuti fenomenici nella mia coscienza non sono prodotti arbitrari dell'Io, perché non sono il prodotto di una volontà di un Io, che liberamente decide di immaginare una certa cosa in un modo anziché in un altro, ma rappresentano l'essenza, il nucleo necessario della cosa, una volta spogliata, tramite l'epoche, degli aspetti che lo vincolerebbero a un determinato contesto empirico spaziotemporale, accidentale rispetto al suo senso.

Citazione
Il fatto, su cui concordo, che i contenuti fenomenici nella mia coscienza (soltanto quelli direttamente percettivi involontari, non le immaginazioni o fantasie o speranze o illusioni o propositi per il futuro, N.d.R) non sono prodotti arbitrari dell'Io, perché non sono il prodotto di una volontà di un Io, che liberamente decide di immaginare una certa cosa in un modo anziché in un altro non significa affatto (non ne consegue necessariamente) che siano caratteristiche proprie di quella che é (se realmente c' é; come personalmente credo, ma non é dimostrabile né mostrabile in alcun modo) la realtà in sé, indipendente dai contenuti fenomenici stessi della mia coscienza, ma invece unicamente che sono meri insiemi – successioni di sensazioni reali unicamente come tali, se e quando e fintanto che accadono (anche se non ad libitum da arte mia) in quanto tali : "esse est percipi" 



La sospensione del giudizio di esistenza spoglia la cosa di un attributo non necessario, per mettere in evidenza gli aspetti necessari ed essenziali.

Citazione
La sospensione del giudizio di esistenza non può in alcun modo mettere in evidenza alcun aspetto (men che meno necessario ed essenziale) della "cosa" percepita (cioé della "cosa" in quanto insieme – successione di sensazioni fenomeniche), e ulteriormente men che meno della cosa in sé: la sospensione del giudizio é mero "mutismo", non dice nulla di nulla.



Torno sull'esempio con cui tempo  fa avevamo discusso, la memoria. Che ogni atto soggettivo noetico, l'atto del ricordare da parte di un Io, implica un contenuto oggettivo, il noema, il fenomeno oggettivo del "ricordato".

Citazione
L'atto del ricordare non implica necessariamente alcun contenuto oggettivo, può benissimo essere falso.
Se mi ricordo (male, falsamente) che da bambino sono andato a vedere il Giro d' Italia, mentre sono andato a vedere la Mille Miglia il mio ricordo non implica alcun contenuto oggettivo, realmente accaduto ma il rispettivo contenuto o noema, il fenomeno del "ricordato" ésolo qualcosa di soggettivo, puramente immaginario.
Ogni pensiero (compresi in particolare i ricordi) implica necessariamente un pensato inteso necessariamente come la connotazione o intensione cogitativa di un concetto e non affatto necessariamente come una denotazione o estensione reale.
Invece ogni percezione che non sia di concetti dotati di significato é un mero evento di coscienza, un fenomeno, non implicante necessariamente alcunché oltre o "al di fuori" di essa: l' albero che vedo é unicamente un insieme – successione di sensazioni o qualia reali solo in quanto tali e solo se e quando e in quanto accade che veda l' albero: nulla che esuli dalla mia esperienza cosciente (invece se qualcosa c' é' di reale che esula dalla mia esperienza cosciente qualora la mia visone dell' albero non sia allucinatoria od onirica, allora per non cadere in una patente contraddizione devo ammettere che si tratta di altro, di qualcosa di diverso dalle sensazioni fenomeniche o qualia soggettivi costituenti l' albero visto, la visione dell' albero).



La corrispondenza tra una noesi, ricordo, e un noema, un ricordato, non è una produzione soggettivistica e arbitraria dell'Io, ma una necessità strutturale dell'intenzionalità che caratterizza ogni coscienza, come ad ogni pensiero corrisponde un pensato, ad una percezione un percepito, ad un ricordo un ricordato. La dimostrazione di tale necessità è data dal fatto che essa è un residuo che resta presente anche una volta che, tramite riduzione fenomenologica, metto tra parentesi, cioè sospendo il giudizio circa la verità effettiva del ricordo, la corrispondenza fra rappresentazione mentale del ricordato e corrispondenza con l'effettiva realtà del passato: se anche fossi vittima di un'illusione circa il fatto che il mio ricordo  rappresenti un evento del passato realmente accaduto, resta il fatto che non posso dubitare di stare provando un'esperienza cosciente intenzionalmente riferita al passato, avente una qualità vissuta distinta da quelle vissute nella percezione di un fenomeno presente, o di un'immaginazione rivolta al futuro.

Citazione
Il fatto che Se anche fossi vittima di un'illusione circa il fatto che il mio ricordo rappresenti un evento del passato realmente accaduto, resta il fatto che non posso dubitare di stare provando un'esperienza cosciente intenzionalmente riferita al passato, avente una qualità vissuta distinta da quelle vissute nella percezione di un fenomeno presente, o di un'immaginazione rivolta al futuro (o anche se sospendo il giudizio circa la sua veracità o meno) di per sé, necessariamente non mi fa uscire dalla, non mi fa andare oltre la mia esperienza fenomenica cosciente, non mi fa attingere ad alcuna realtà in sé che la ecceda.



Questa qualità vissuta rappresenta un dato oggettivo, anche se intracoscienziale, in quanto non posto arbitrariamente dall'Io, ma riconosciuto come essenza necessaria del ricordo, essendo residuo della radicalizzazione del dubbio che elimina gli aspetti non-necessari.

Citazione
Rappresenta un dato interamente, ineluttabilmente intracoscienziale, ergo: soggettivo, anche se reale e anche se non posto arbitrariamente dall'Io, ("ma riconosciuto come essenza necessaria del ricordo, essendo residuo della radicalizzazione del dubbio che elimina gli aspetti non-necessari" non capisco bene cosa significhi e cosa possa importare; come pure "individuare le varie distinzioni qualitative delle singole specie di atti con cui la coscienza attribuisce un senso alle cose del mondo" -vedi sotto: si tratta sempre ineluttabilmente di "operazioni interamente interne" alla mia coscienza, non minimamente in grado di attingere ad alcuna cosa in sé).



Una volta individuate le varie distinzioni qualitative delle singole specie di atti con cui la coscienza attribuisce un senso alle cose del mondo, possiamo stilare una "mappa" (spero così di riuscire a chiarire meglio il punto anche per Oxdeadbeef, oltre che per me stesso) delle varie modalità in cui la coscienza entra in relazione con il mondo sulla base dei vari atti di esperienza vissuta, distinguibili sulla base delle differenze in cui i loro oggetti vengono vissuti in essa.

Citazione
No, così facendo non si può proprio stilare una "mappa delle varie modalità in cui la coscienza entra in relazione con il mondo, ma solo dei contenuti soggettivi della coscienza, dei vari atti di esperienza vissuta, distinguibili sulla base delle differenze in cui i loro oggetti (del tutto intrinseci ad essa: "esse est percipi"!) vengono vissuti per l' appunto in essa (evidenziazioni in grassetto mie).


Ad esempio, dalla distinzione qualitativa del ricordo rispetto al presente e al futuro, sarebbe possibile individuare una regione dell'Essere corrispondente alla conoscenza storica, cioè il modo in cui un Io si relaziona al passato, come ambito distinto dalle esperienze del presente e del futuro, e quindi dotata di caratteristiche, strutture e regole autonome.
CitazioneMa non c' é alcuna certa distinzione qualitativa del ricordo rispetto al presente e al futuro che renda possibile individuare una regione dell'Essere corrispondente alla conoscenza storica, cioè il modo in cui un Io si relaziona al passato, come ambito distinto dalle esperienze del presente e del futuro, e quindi dotata di caratteristiche, strutture e regole autonome (parole a me un po' oscure).

0xdeadbeef

Citazione di: davintro il 10 Settembre 2018, 20:34:25 PM

i contenuti fenomenici nella mia coscienza non sono prodotti arbitrari dell'Io, perché non sono il prodotto di una volontà di un Io, che liberamente decide di immaginare una certa cosa in un modo anziché in un altro, ma rappresentano l'essenza, il nucleo necessario della cosa, una volta spogliata, tramite l'epoche, degli aspetti che lo vincolerebbero a un determinato contesto empirico spaziotemporale, accidentale rispetto al suo senso. La sospensione del giudizio di esistenza spoglia la cosa di un attributo non necessario, per mettere in evidenza gli aspetti necessari ed essenziali. Torno sull'esempio con cui tempo  fa avevamo discusso, la memoria. Che ogni atto soggettivo noetico, l'atto del ricordare da parte di un Io, implica un contenuto oggettivo, il noema, il fenomeno oggettivo del "ricordato". La corrispondenza tra una noesi, ricordo, e un noema, un ricordato, non è una produzione soggettivistica e arbitraria dell'Io, ma una necessità strutturale dell'intenzionalità che caratterizza ogni coscienza, come ad ogni pensiero corrisponde un pensato, ad una percezione un percepito, ad un ricordo un ricordato. La dimostrazione di tale necessità è data dal fatto che essa è un residuo che resta presente anche una volta che, tramite riduzione fenomenologica, metto tra parentesi, cioè sospendo il giudizio circa la verità effettiva del ricordo, la corrispondenza fra rappresentazione mentale del ricordato e corrispondenza con l'effettiva realtà del passato: se anche fossi vittima di un'illusione circa il fatto che il mio ricordo  rappresenti un evento del passato realmente accaduto, resta il fatto che non posso dubitare di stare provando un'esperienza cosciente intenzionalmente riferita al passato, avente una qualità vissuta distinta da quelle vissute nella percezione di un fenomeno presente, o di un'immaginazione rivolta al futuro. Questa qualità vissuta rappresenta un dato oggettivo, anche se intracoscienziale, in quanto non posto arbitrariamente dall'Io, ma riconosciuto come essenza necessaria del ricordo, essendo residuo della radicalizzazione del dubbio che elimina gli aspetti non-necessari. Una volta individuate le varie distinzioni qualitative delle singole specie di atti con cui la coscienza attribuisce un senso alle cose del mondo, possiamo stilare una "mappa" (spero così di riuscire a chiarire meglio il punto anche per Oxdeadbeef, oltre che per me stesso) delle varie modalità in cui la coscienza entra in relazione con il mondo sulla base dei vari atti di esperienza vissuta, distinguibili sulla base delle differenze in cui i loro oggetti vengono vissuti in essa. Ad esempio, dalla distinzione qualitativa del ricordo rispetto al presente e al futuro, sarebbe possibile individuare una regione dell'Essere corrispondente alla conoscenza storica, cioè il modo in cui un Io si relaziona al passato, come ambito distinto dalle esperienze del presente e del futuro, e quindi dotata di caratteristiche, strutture e regole autonome.




Potremmo, se ben interpretto, dire la medesima cosa affermando che la corrispondenza fra il "segno" e l'oggetto
indicato dal segno non è una produzione soggettivistica, ma una necessità strutturale.
Il "problema", dal punto di vista semiotico (e, almeno per me, kantiano), è dire se e in quale misura il "segno"
rappresenta l'oggetto (non che la loro corrispondenza sia o non sia una necessità strutturale - evidentemente lo è).
Se, ad esempio, io dico "barca" ne avrò una certa immagine; magari un milionario immaginerà un lussuoso yacht e un
indigeno della Nuova Guinea una piroga: chiaramente si tratta di visioni diverse ma che non escludono un "contesto
comune", come ad esempio quello rappresentato da un qualcosa che galleggia sull'acqua.
E vengo dunque alla domanda: intendi forse un qualcosa di simile con i termini "mappa" e "ontologia regionale"?
Cioè intendi una ricerca di un qualcosa di "comune" nelle varie rappresentazioni (un qualcosa di comune che, voglio
dire, ne possa indicare in un certo qual modo l'"oggettività")?
saluti
(scusami l'insistenza ma l'argomento mii interessa assai)

davintro

Citazione di: 0xdeadbeef il 11 Settembre 2018, 17:27:49 PM
Citazione di: davintro il 10 Settembre 2018, 20:34:25 PMi contenuti fenomenici nella mia coscienza non sono prodotti arbitrari dell'Io, perché non sono il prodotto di una volontà di un Io, che liberamente decide di immaginare una certa cosa in un modo anziché in un altro, ma rappresentano l'essenza, il nucleo necessario della cosa, una volta spogliata, tramite l'epoche, degli aspetti che lo vincolerebbero a un determinato contesto empirico spaziotemporale, accidentale rispetto al suo senso. La sospensione del giudizio di esistenza spoglia la cosa di un attributo non necessario, per mettere in evidenza gli aspetti necessari ed essenziali. Torno sull'esempio con cui tempo fa avevamo discusso, la memoria. Che ogni atto soggettivo noetico, l'atto del ricordare da parte di un Io, implica un contenuto oggettivo, il noema, il fenomeno oggettivo del "ricordato". La corrispondenza tra una noesi, ricordo, e un noema, un ricordato, non è una produzione soggettivistica e arbitraria dell'Io, ma una necessità strutturale dell'intenzionalità che caratterizza ogni coscienza, come ad ogni pensiero corrisponde un pensato, ad una percezione un percepito, ad un ricordo un ricordato. La dimostrazione di tale necessità è data dal fatto che essa è un residuo che resta presente anche una volta che, tramite riduzione fenomenologica, metto tra parentesi, cioè sospendo il giudizio circa la verità effettiva del ricordo, la corrispondenza fra rappresentazione mentale del ricordato e corrispondenza con l'effettiva realtà del passato: se anche fossi vittima di un'illusione circa il fatto che il mio ricordo rappresenti un evento del passato realmente accaduto, resta il fatto che non posso dubitare di stare provando un'esperienza cosciente intenzionalmente riferita al passato, avente una qualità vissuta distinta da quelle vissute nella percezione di un fenomeno presente, o di un'immaginazione rivolta al futuro. Questa qualità vissuta rappresenta un dato oggettivo, anche se intracoscienziale, in quanto non posto arbitrariamente dall'Io, ma riconosciuto come essenza necessaria del ricordo, essendo residuo della radicalizzazione del dubbio che elimina gli aspetti non-necessari. Una volta individuate le varie distinzioni qualitative delle singole specie di atti con cui la coscienza attribuisce un senso alle cose del mondo, possiamo stilare una "mappa" (spero così di riuscire a chiarire meglio il punto anche per Oxdeadbeef, oltre che per me stesso) delle varie modalità in cui la coscienza entra in relazione con il mondo sulla base dei vari atti di esperienza vissuta, distinguibili sulla base delle differenze in cui i loro oggetti vengono vissuti in essa. Ad esempio, dalla distinzione qualitativa del ricordo rispetto al presente e al futuro, sarebbe possibile individuare una regione dell'Essere corrispondente alla conoscenza storica, cioè il modo in cui un Io si relaziona al passato, come ambito distinto dalle esperienze del presente e del futuro, e quindi dotata di caratteristiche, strutture e regole autonome.
Potremmo, se ben interpretto, dire la medesima cosa affermando che la corrispondenza fra il "segno" e l'oggetto indicato dal segno non è una produzione soggettivistica, ma una necessità strutturale. Il "problema", dal punto di vista semiotico (e, almeno per me, kantiano), è dire se e in quale misura il "segno" rappresenta l'oggetto (non che la loro corrispondenza sia o non sia una necessità strutturale - evidentemente lo è). Se, ad esempio, io dico "barca" ne avrò una certa immagine; magari un milionario immaginerà un lussuoso yacht e un indigeno della Nuova Guinea una piroga: chiaramente si tratta di visioni diverse ma che non escludono un "contesto comune", come ad esempio quello rappresentato da un qualcosa che galleggia sull'acqua. E vengo dunque alla domanda: intendi forse un qualcosa di simile con i termini "mappa" e "ontologia regionale"? Cioè intendi una ricerca di un qualcosa di "comune" nelle varie rappresentazioni (un qualcosa di comune che, voglio dire, ne possa indicare in un certo qual modo l'"oggettività")? saluti (scusami l'insistenza ma l'argomento mii interessa assai)


se ho ben capito l'appunto, mi verrebbe da notare un'analogia fra dei caratteri universali su sui poggia la definizione linguistica del segno, un residuo che permane identico rispetto alla molteplicità delle diverse interpretazioni che diverse persone e culture potrebbero attribuire, e l'universalità delle qualità delle esperienze vissute dei fenomeni, che nel discorso che provavo a esporre, era la base teorica della delineazione di una "mappa" delle varie forme tramite cui la coscienza umana dà significato alle cose del mondo. Resta però l'importante differenza per cui, mentre l'universalità linguisticamente indicata dal segno resta pur sempre una convenzione arbitraria dell'uomo, strutture, che anche se possono avere un certo appiglio semantico con la cosa stessa che indicano (evidente ad esempio nel caso del linguaggio onomatopeico), le essenze che specificano i vari vissuti della coscienza non sono un prodotto umano, ma un dato che l'uomo intuisce come necessario, vigente a livello trascendentale, cioè per ogni tipo di coscienza possibile immaginabile, perché residuo della spoliazione (riduzione fenomenologica) di tutti gli aspetti contingenti e dubitabili del fenomeno. Quindi l'oggettività e l'universalità della "mappa" ha a mio avviso un supporto nelle strutture della coscienza più forte di quello linguistico-segnico su cui fanno leva l'universalità semantica delle definizioni: mentre posso immaginare senza grandi problemi un futuro in cui potremmo usare un termine diverso da "casa" per indicare la casa, oppure addirittura in cui faremmo a meno di un apposito termine sostitutivo, in favore di diversi termini indicanti diverse specie di case, è al di fuori di qualunque pensabilità che un ricordo venga vissuto con la stessa qualità coscienziale di una percezione presente, o che un atto di empatia rivolto all'interiorità di un altro sia vissuto con la stessa qualità con cui sentiamo la nostra interiorità negli della percezione interna, e questa "oggettività", anche se di tipo fenomenico e intracoscienziale, resterà sempre, anche nel caso decidessimo convenzionalmente di utilizzare segni, termini linguistici come "empatia", "ricordo" ecc. A queste differenze di essenze di vissute coscienti corrispondono diverse "regioni" dell'essere, diversi modi in cui la coscienza si relaziona al mondo, il modo di relazionarsi nel ricordo, non può coincidere con quello nell'empatia ecc., e il complesso di queste regioni è la "mappa". Tutto ciò è dovuto al fatto che l'espediente metodologico tramite cui pervengo all'evidenziazione del nucleo essenziale dei fenomeni, cioè dei contenuti degli atti di esperienza vissuti della coscienza, l'epochè, coincide con il passaggio da un punto di vista in cui il mondo mi appare come complesso di cose utilizzabili sulla base di esigenze pratiche, a un punto di vista, che poi è quello autenticamente filosofico, guidato da istanze puramente teoretiche, di chiarificazione scientifica del senso dei vissuti tramite cui la mia coscienza si relaziona al mondo. Le essenze dei vissuti non coincidono con segni e definizioni linguistiche, rimandano ad un livello di rapporto coscienza-mondo prelinguistico, interiore, che non consiste nella produzione di strumenti pratici tramite cui intervenire attivamente nella realtà dei fatti, mentre in tale produzione rientra il linguaggio, che anche se non va considerato del tutto separato e indifferente rispetto al piano del pensiero, se ne distingue in quanto prodotto umano utilizzabile a fini comunicativi, cioè pratici. Le parole servono per intendersi, e senza intesa intersoggettiva la vita sarebbe praticamente impossibile, le essenze dei vissuti coscienziali invece non hanno un'utilità pratica direttamente applicabile nell'azione, ma rispondono a una necessità teoretica di individuazione delle fondamenta trascendentali a partire da cui ogni scienza è possibile, un apriori teoretico, da qui la loro irriducibilità ai "segni" o alle definizioni linguistiche.

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