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La felicità

Aperto da viator, 18 Ottobre 2017, 12:49:43 PM

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viator

Appena nato, tanti anni fa, cominciai a correre (come tutti) inseguendo la felicità. Un bel dì incontrai un tizio che mi spiegò cosa la felicità fosse. "Vedi - mi disse - la felicità non è altro che la condizione in cui si sono soddisfatti tutti i bisogni e tutti i desideri. Da vivo nessuno la raggiunge perchè i bisogni si rinnovano automaticamente mentre i desideri vengono continuamente alimentati dalla nostra ossessione per le novità".

"Oh bella! - esclamai io - ma allora la felicità non esiste !!".

Il tizio si fece beffardo. "Ma che dici?? Certo che la felicità esiste!".

"E dove sarebbe ???", sbottai io.

"C'è un solo modo per soddisfare bisogni e desideri in via permanente, definitiva......eliminarli, in modo che non sia più necessario soddisfarli".

Tacqui abbastanza a lungo e quindi capii che solo la morte realizza una simile prospettiva, quindi è essa la porta della felicità.

Da quel giorno smisi di correre dietro alla felicità, rallentai e presi a godermi la placida serenità del mio camminare.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

baylham

La realizzazione dei bisogni e dei desideri dà spesso soddisfazione, a volte effimera felicità. La felicità è un caso, non è programmabile, non è permanente.

La morte non dà felicità, è la fine di un essere vivente, la fine di ogni possibilità di felicità, come di ogni infelicità.

Sebbene i presupposti siano differenti la conclusione mi appare saggia.

Angelo Cannata

Citazione di: viator il 18 Ottobre 2017, 12:49:43 PM... presi a godermi la placida serenità del mio camminare.
Forse si potrebbe notare che camminare viene a risultare più bello se vissuto come un favorire anche il camminare di tutti, non solo quindi come un godersi il camminare proprio. Peraltro, c'era stata una discussione sul camminare qualche mese fa.

green demetr

Citazione di: Angelo Cannata il 18 Ottobre 2017, 15:07:05 PM
Citazione di: viator il 18 Ottobre 2017, 12:49:43 PM... presi a godermi la placida serenità del mio camminare.
Forse si potrebbe notare che camminare viene a risultare più bello se vissuto come un favorire anche il camminare di tutti, non solo quindi come un godersi il camminare proprio. Peraltro, c'era stata una discussione sul camminare qualche mese fa.

tra l'altro il camminare coincide con il desiderio di camminare.

perciò la felicità è la "quest" come i medievali brillantemente hanno codificato.

anche a livello psicologico è lo stesso, infatti si vive di desiderio e non del suo ottenimento.

la felicità è dunque il fare ciò che si vuole fare con l'aspirazione di farlo sempre.

la felicità della società dei consumi è infatti il consumo non i prodotti del consumo.

il capitalismo si regge su uno degli insight più profondi che la cultura occidentale ha intercettato dell'essere uomini.

la storielle del monaco che si priva di tutto (fachiro) l'ho sempre ritenuta una sciocchezza.
Per il semplice fatto che il fachiro è felice di non essere felice.

Sciocchezza nel senso che si ritiene l'astinenza al piacere il segreto della vera felicità, quando è l'esatto opposto. Confermato dalla volontà di astinenza.
Il povero non credo affatto sia felice per il fatto di essere povero.

I soliti trucchetti della religione.

Vai avanti tu che mi vien da ridere

Angelo Cannata

Forse può essere bene precisare che nessuna religione predica l'astinenza, o qualsiasi altro tipo di privazione, come un bene fine a sé stesso. La privazione viene sempre cercata per favorire l'esperienza di qualcos'altro e per diminuire il disturbo negativo provocato dai beni. Prendiamo per esempio san Francesco. Se ad un certo punto egli decise di abbandonare tutto, non fu certo per un amore della povertà fine a sé stesso. Fu perché ritenne di aver scoperto un bene più grande e che le altre ricchezze erano di ostacolo a questo bene. Lo stesso vale per Gesù: egli chiese ai suoi discepoli di essere mancanti di attrezzature, di strumenti, ma non per un puro piacere di ritrovarsi senza oggetti utili. Lo scopo era perché il discepolo a un certo punto comprende che è Dio ad agire in lui e avere troppi strumenti, anche se utili, crea un certo impedimento al realizzarsi dell'azione di Dio. Naturalmente poi è questione di misura e d'altra parte Gesù non chiese a suoi di privarsi di tutto al punto da mettere alla prova Dio.

In questo senso, nessuna religione può chiedere ai suoi fedeli di privarsi di alcunché se prima il fedele non ha capito che ciò va fatto in vista di un bene alternativo che dev'essere almeno intravisto, se non visto pienamente. Se il fedele non vede niente, nessun motivo, nessuna cosa per cui egli dovrebbe privarsi di alcunché, nessuno ha diritto di invitarlo ad alcuna privazione.

È per questo che il fondamento dei racconti della risurrezione è l'aver visto: fu visto risorto. È quell'aver visto che può giustificare tutto il resto, tra cui anche le privazioni. Ma se prima non c'è un qualche vedere Dio, non ha alcun senso chiedere né rinunce, né la fede.

green demetr

Citazione di: Angelo Cannata il 18 Ottobre 2017, 21:09:04 PM
Forse può essere bene precisare che nessuna religione predica l'astinenza, o qualsiasi altro tipo di privazione, come un bene fine a sé stesso. La privazione viene sempre cercata per favorire l'esperienza di qualcos'altro e per diminuire il disturbo negativo provocato dai beni. Prendiamo per esempio san Francesco. Se ad un certo punto egli decise di abbandonare tutto, non fu certo per un amore della povertà fine a sé stesso. Fu perché ritenne di aver scoperto un bene più grande e che le altre ricchezze erano di ostacolo a questo bene. Lo stesso vale per Gesù: egli chiese ai suoi discepoli di essere mancanti di attrezzature, di strumenti, ma non per un puro piacere di ritrovarsi senza oggetti utili. Lo scopo era perché il discepolo a un certo punto comprende che è Dio ad agire in lui e avere troppi strumenti, anche se utili, crea un certo impedimento al realizzarsi dell'azione di Dio. Naturalmente poi è questione di misura e d'altra parte Gesù non chiese a suoi di privarsi di tutto al punto da mettere alla prova Dio.

In questo senso, nessuna religione può chiedere ai suoi fedeli di privarsi di alcunché se prima il fedele non ha capito che ciò va fatto in vista di un bene alternativo che dev'essere almeno intravisto, se non visto pienamente. Se il fedele non vede niente, nessun motivo, nessuna cosa per cui egli dovrebbe privarsi di alcunché, nessuno ha diritto di invitarlo ad alcuna privazione.

È per questo che il fondamento dei racconti della risurrezione è l'aver visto: fu visto risorto. È quell'aver visto che può giustificare tutto il resto, tra cui anche le privazioni. Ma se prima non c'è un qualche vedere Dio, non ha alcun senso chiedere né rinunce, né la fede.

Concordo in toto. La mia frase come al solito aveva un pizzico  ;D  di polemos.

Il punto è proprio quello di avere comprensione del proprio viaggio.

Questo effettivamente è un importante aggiunta.
Vai avanti tu che mi vien da ridere

maral

E se fosse il contrario? Se la felicità fosse il poter desiderare? Dopotutto era proprio quello che sosteneva Leopardi ne "Il sabato del villaggio"? Felicità come attesa e preparazione dell'evento di festa, quale altra felicità sarebbe mai concessa agli uomini? E in tal caso la felicità non sarebbe la morte, ma proprio la vita che corre a preparare il suo ultimo istante.

green demetr

Citazione di: maral il 18 Ottobre 2017, 22:14:36 PM
E se fosse il contrario? Se la felicità fosse il poter desiderare? Dopotutto era proprio quello che sosteneva Leopardi ne "Il sabato del villaggio"? Felicità come attesa e preparazione dell'evento di festa, quale altra felicità sarebbe mai concessa agli uomini? E in tal caso la felicità non sarebbe la morte, ma proprio la vita che corre a preparare il suo ultimo istante.

giusto corollario a quanto detto sopra.  ;)
Vai avanti tu che mi vien da ridere

Angelo Cannata

Si potrebbe tener presente che in ognuno di noi ci sono più componenti, a volte anche contraddittorie, e sta a noi scegliere quale parte di noi accontentare di più. Può anche succedere che uno creda di essere felice solo perché non si accorge di quali progressi ha reso privo il proprio essere. Possiamo pensare al ladro, che si ritiene felice del furto riuscito. A questo punto viene subito fuori che non possiamo fidarci per niente del nostro sentirci felici, quindi cercare la felicità non serve, non ci fa dirigere a ciò che è davvero il meglio, può farci prendere fischi per fiaschi e, quel che è peggio, senza che ce ne accorgiamo neanche dopo il fallimento: si tratta del fanatismo, di quelli che ritengono di aver trovato la felicità e non si chiedono se ciò sia dovuto a nient'altro che all'aver smesso di farsi domande.

Cos'è allora il meglio? Mi sembra che viator l'abbia indicato, sia nel nick che si è scelto, sia nel messaggio: camminare. Se si cammina, si sta anche a ricercare quali parti di noi sia più conveniente accontentare.

Perché dovrei preferire la felicità di una certa parte di me, per esempio dell'amore per la cultura, alla felicità di altro, come il suddetto esempio di aver rubato? Credo che un motivo ci sia: ci sono felicità che aprono la strada alla conoscenza di felicità nuove o ancora più grandi, mentre altre conducono a fermarsi: certe persone sono felici solo perché non sanno cosa si stanno perdendo. Drogarsi, per esempio, può far sentire felici, ma chiude completamente la strada alla conoscenza di altre felicità. Questo mi conferma l'importanza del camminare: il camminare è l'unica modalità di esistere che apre la strada a ulteriori esperienze di felicità prima sconosciute, ulteriori cammini, allargamenti di orizzonti.

A questo punto può sopravvenire il dubbio che nuovi orizzonti potrebbero anche non esistere. D'altra parte, però, è anche vero che non potremo mai saperlo, non potremo mai sapere se ciò che c'era da fare era solo cercare ancora un poco. In questo senso ci  troviamo tutti nella condizione di quella barzelletta degli evasi, che oltrepassarono tanti muri e si arresero davanti all'ultimo, non sapendo che era l'ultimo. In teoria, dunque, tutto il nostro camminare rischierebbe di ridursi a vuoto, ma nell'esistenza concreta non c'è il vuoto, ci sono esperienze, piccoli ritrovamenti qua e là lungo la strada.

Da questo punto di vista, dunque, il meglio viene a consistere nel camminare, sostenuti dalle esperienze particolari che questa modalità di consente di vivere.

C'è un tipo di esperienza particolare, una quasi felicità, che sta sotto i nostri occhi, non ha alcun segreto, eppure sono pochi quelli che la scoprono, semplicemente perché richiede, anche qui, cammino. Pensiamo per esempio all'artista, ma l'esempio si potrebbe applicare anche a tanti altri tipi di persone. Se ho la pazienza di seguire l'artista, fare un cammino con lui, potrò scoprire che i suoi quadri traboccano di esperienza in grado di toccarmi il cuore. Eppure avevo visto decine di volte quei quadri, ma non vi avevo mai visto niente di interessante. Questo mi porta a chiedermi: chissà quanti tesori inestimabili di questo mondo mi sto perdendo, mentre mi passano davanti agli occhi, sono lì, a portata di mano, e non me ne accorgo semplicemente perché in tanti tipi di cammino sono indietro, non li ho mai approfonditi. Questo mi spinge a camminare e ad impiegare su questo tutto il mio essere.

viator

Salve, e bravo a Maral. Il desiderio che pregusti la sua soddisfazione è sempre una felicità più grande del proprio esito. Persino se quest'ultimo consistesse appunto nella sua cercata soddisfazione.

Il meccanismo è quella della zitella ostinata perchè esigente. Rifiutando ogni occasione concreta di sposarsi, essa ogni volta andrà a rifugiarsi nel perfezionamento del proprio sogno d'amore, elaborandolo in modo talmente compiuto da rendere in effetti sempre più difficile che la sua prossima occasione risulti all'altezza del proprio sogno. Si chiama meccanismo della rincorsa del piacere.

Scusate ancora la laconicità un poco lapidaria che forse anche stavolta non permetterà a qualcuno di comprendere le mie argomentazioni.

E' per colpa della mia visione circa l'uso delle parole, le quali presentano il problema dell'autoreferenzialità. Per spiegarne una, ne servono molte altre. Inoltre le parole servono in identica misura a chiarire oppure a confondere, secondo la misura che se fa o le intenzioni di chi parla o scrive.

Usare molte parole per trattare argomenti essenziali, fondamentali, lo trovo del tutto controproducente perché tende appunto a confondere l'essenziale.

Infine meno parole ti escono meno castronerie verranno prodotte. Buonanotte.

Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Jacopus

La felicità. Un bel tema. Nei pochi precedenti interventi sono emerse almeno sei definizioni: felicità come morte, come evento straordinario, come condivisione, come consumo, come vita ultraterrena, come desiderio.
Oggi pensavo a questo supposto diritto, che permea l'epoca contemporanea, il diritto alla felicità. Un diritto alla felicità che fa anche capolino dalla Costituzione degli Stati Uniti.
Ebbene a me pare che questo diritto alla felicità così proclamato e "imposto" per legge, così unilaterale e privo di ombre, possa essere connesso con i campi di sterminio e con i Gulag.
Non aspiravano forse a questo tipo di felicità i nazisti e i comunisti? In mondo dove il male, eradicato, non compaia più.
Una definizione assoluta di felicità in realtà non é altro che il male, sotto mentite spoglie.
Non è invece  più debole ma più adatto alla condizione umana pensare alla felicità come ad un oggetto che comprenda dentro di sé anche l'infelicità, la sconfitta, la malattia.
E se felicità fosse la capacità di dare significato alla propria esistenza, con i suoi momenti integrati di felicità e infelicità?
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Ipazia

Sulla felicità gli umani cominciarono ad interrogarsi molto presto. La fonte antica occidentale più ricca, cui si riferisce anche l'argomento proposto nel post di apertura, risale ad Epicuro, ed epicureismo è sinonimo di ricerca filosofica della felicità armonizzando felicemente le proprie pulsioni e desideri. Anche il percorso orientale dell'illuminazione è interpretabile con quella pienezza di senso che è propria della felicità.

Pienezza di senso è anche nel "fermati sei bello" del Faust di Goethe. Nell'attimo fuggente che riuscì a sollevare lo spirito persino di Leopardi dall'ermo colle pensando l'infinito. Felicità dolcemente naufragante di cui ci fece dono prezioso.

Trovo che collezionare attimi fuggenti sia una buona pratica per la ricerca della felicità che, come già detto da altri, è processo, non stasi o meta, e dipende molto dall'abilità del navigatore umano saperla riprodurre e dispensare.

Non va dimenticato, scendendo dai propri nirvana personali, che tale concetto nasce correlato alla soddisfazione dei bisogni materiali e al giusto mezzo conseguito, libero da ogni avidità, tra abbondanza e miseria, Poros e Penia, da cui nacque, non a caso, Eros.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Citazione di: Ipazia il 30 Settembre 2019, 11:34:31 AM
Non va dimenticato, scendendo dai propri nirvana personali, che tale concetto nasce correlato alla soddisfazione dei bisogni materiali e al giusto mezzo conseguito, libero da ogni avidità, tra abbondanza e miseria, Poros e Penia, da cui nacque, non a caso, Eros.
Dubitando della mia memoria ho controllato e sembra proprio che Poros non sia "abbondanza" ma "espediente" anche nel senso di "ingegnosità": sia in amore che per la felicità (di cui l'amore è a suo modo declinazione), la condizione iniziale è Mancanza, ma tramite la sua congiunzione con Ingegno, si può arrivare alla mèta agognata (quindi l'avidità, intesa come brama, buddismo docet, ha un suo ruolo, nel bene e nel male...).
Questi due fattori, carenza e "macchinazione" (per ammiccare al ruolo della tecnica, mossa dall'ingegno), spiegano in sintesi tanto i moventi della storia dell'uomo come specie, quanto il percorso biografico dell'individuo: mosso dall'avvertire una mancanza (che può essere fisiologica, psicologica, innata, indotta, etc.), usa la sua ragione per procurarsi (in differenti modi, valutabili con differenti parametri) ciò di cui sente il bisogno (vari tipi di bisogno, alcuni propri della specie, altri decisamente più individuali).

Forse, in fondo, la felicità è come la carota legata al bastone: se sotto sotto vogliamo continuare a correre, dobbiamo guardarci dal raggiungerla (per quanto suoni apparentemente paradossale, parlando di felicità); se possiamo (e vogliamo) godercela senza correre, ci conviene mangiarla a piccoli morsi, per farla durare, poiché non è detto che, una volta terminata (Penia) saremo in grado (Poros) di trovarne altre (per quanto sia proprio la mancanza a dare il sapore alla soddisfazione in quanto non-più-mancanza).

baylham

La felicità non è la soddisfazione dei bisogni, che è appunto soddisfazione. La mancanza è un correlato del bisogno.
La felicità è un sentimento straordinario, che richiede la sorpresa, l'imprevedibilità, la mancanza di controllo, di pianificazione.
Ieri sera mentre preparavo per stasera delle patate al rosmarino, ho assaggiato sul bastone di legno con cui le rimestavo un rimasuglio attaccato, una delizia. Scommetto che le patate stasera non mi daranno una eguale goduria.

baylham

Citazione di: Jacopus il 30 Settembre 2019, 08:33:36 AM
Oggi pensavo a questo supposto diritto, che permea l'epoca contemporanea, il diritto alla felicità. Un diritto alla felicità che fa anche capolino dalla Costituzione degli Stati Uniti.
Ebbene a me pare che questo diritto alla felicità così proclamato e "imposto" per legge, così unilaterale e privo di ombre, possa essere connesso con i campi di sterminio e con i Gulag.

La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti considera la ricerca della felicità un diritto inalienabile di tutti gli uomini. La sua utopica universalità è inconciliabile con i campi di concentramento e di sterminio.

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