la cosa più desiderabile per l'uomo

Aperto da sileno, 14 Aprile 2018, 19:16:14 PM

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sileno

La cosa più desiderabile per l'uomo.
"La leggenda narra che Mida inseguì nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso.Quando gli cadde tra le mani, domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo.Il demone tace,finchè, costretto dal re, esce in queste parole:
"Stirpe miserabile e effimera, figlio del caso e della pena, perchè mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto."
Questo, per il Nietzsche "tragico".Verità che è meglio non sapere: il suicidio razionale.
Nietzsche a scuola viene edulcorato e censurato. Si pensi anche a grandi poetii, pensatori profondi , a personaggi . Ricordo il Pascoli: "Eppur felice te che al vento non vedesti cader che gli aquiloni",per un ragazzo morto. Ma gli esempi sarebbero innumerevoli.
Sileno piace perché la verità ha un suo fascino. Andrebbe detta anche se sgradita - solo qualora richiesta ? - e interiorizzata. Così non è proprio per tutti.
Attrae perché svela falsità e idee consolatorie che si riveleranno illusorie.
Maestro di Nietzsche fu Schopenhauer, ammiratore di Leopardi :
" Vivere è differire la morte ... si persevera per paura della morte. Il nulla della morte in Occidente viene rimosso.
La religione non può contrastare l'angoscia esistenziale. Base della cultura greca: dolore dell'esistenza senza illusioni ultraterrene.

Angelo Cannata

C'è un errore in questo discorso, errore commesso da Nietzsche, da Schopenhauer, da Leopardi: il linguaggio assolutistico.
Ogni discorso impostato con un linguaggio assolutistico, totalizzante, universalizzante, è destinato all'autodistruzione o, peggio, fin quando non ci si accorge di questo, a un contorcersi su sé stesse di discussioni e riflessioni, che procedono solo perché non si sono accorte, o non vogliono accorgersi, di questa autodistruzione, autocontraddittorietà.
È la contraddizione che ho descritto in altre occasioni: se una cosa è certa, ne consegue che non è certa. Se l'essere è, ne consegue che non è.
Mi sembra che il mondo oggi si avvii sempre più a rendersi conto di questo, a capire che l'unica cosa che tiene in piedi non sono i princìpi, le verità, ma, al contrario, le opinioni, i sospetti, i dubbi, le possibilità. Dunque, quando alle mie frasi premetto "mi sembra", non è soltanto per modestia, ma soprattutto perché è l'unico modo per dare ad esse un minimo di consistenza, di attendibilità.
D'altra parte, il linguaggio generalista non può essere del tutto abbandonato, perché ormai fa parte del nostro pensare; va piuttosto sempre coniugato con autocritica e attenzione al fatto che siamo esseri particolari, non siamo universali.
Dunque, sì, è vero che molte volte sembra che il meglio sia non essere esistiti, ma, forse con dispiacere della nostra voglia di approdare finalmente a qualche verità, a qualche spiaggia, non si tratta di una verità né definitiva, né indiscutibile, né universale. In questo senso si potrebbe dire che, rispetto al dire che sarebbe meglio non essere esistiti, le cose stanno anche peggio: poter concludere con certezza che sarebbe meglio non essere esistiti sarebbe già una consolazione, sarebbe un aver guadagnato almeno una chiarezza, una certezza; invece no, neanche questo, neanche questa consolazione.
Verrebbe a questo punto da chiedersi "Che fare allora?", ma ultimamente mi trovo a riflettere che la domanda "Che fare?" è già estremamente insidiosa, viziata, pilotante, perché riconduce ad una mentalità oggettivante, la mentalità del fare, del risolvere, del trovare la soluzione definitiva, e così siamo di nuovo nell'universalizzare.
Come ho detto sopra, il linguaggio universalista non può essere eliminato, e con esso, quindi, neanche la domanda "Che fare?". Possiamo però provare ad impostare tutto in maniere diverse. Se il problema era oggettivare, la via che si profila è "soggettivare", cioè riflettere accompagnando in continuazione la nostra riflessione con la consapevolezza che, per molti aspetti, ci stiamo muovendo entro la nostra soggettività. Questo non va considerato solo come un limite relativizzante; al contrario, può essere apprezzato come apertura ad un universo che finora abbiamo troppo ignorato, chiudendoci nella meschinità, nella viltà, nella disonestà dell'inseguire universalità, certezze, verità, assoluti, sfuggendo al nostro io che ci chiama.

viator

Salve Sileno, e veramente BENvenuto. Intervento assai elegante il tuo, e ben condiviso da me.

La cosa più desiderabile per l'uomo è - ovviamente - la felicità. Cosa sia secondo me la felicità l'ho già detto altrove qui dentro.

Essendo la felicità assoluta (non la soddisfazione o la serenità) la condizione in cui ogni bisogno e desiderio e facoltà risultano soddisfatti, essa coincide appunto con la morte o con il mancato ingresso in questo mondo, uniche condizioni in cui bisogni, desideri e facoltà risultano "soddisfatti" perché assenti.

Il mondo però è animato dalla propria tendenza a permanere, a continuare ad esistere (attraverso l'"andamento entropico") che si manifesta attraverso la continua diversificazione dei propri contenuti, uno dei quali siamo noi. Quindi, attraverso l'ennesimo effetto dell'entropia costituito dalla tendenza alla persistenza, alla sopravvivenza, noi siamo condannati a vivere è quindi ad essere in qualche modo non "assolutamente felici".

A livello umano ed esistenziale la nostra incompleta felicità (o infelicità) è dovuta al fatto che la condizione umana è sorta in noi con l'acquisizione della coscienza.

La nascita della coscienza è consistita in un certo passo evolutivo (l'evoluzione non è altro che la diversificazione attraverso la sempre maggiore complessità dei viventi).
A livello filosofico coscienza e condizione umana non sono altro che un aspetto (ovviamente PER NOI decisivo) che tende - sempre allo scopo di perpetuare l'esistenza del mondo - a creare nuove copie - su scala ridotta - del mondo stesso.

L'uomo quindi non è altro che una "nuova" piccola e parziale copia del mondo che l'ha espresso la quale però, avendo raggiunto un grado di complessità adeguato a corredarlo di coscienza, lo pone nella condizione di riconoscersi distinto, diverso e persino alternativo al mondo che l'ha generato.

E' quello che succede infatti attraverso le generazioni, con i figli che vengono generati dai genitori essendo in un senso uguali ed in altro senso diversi da essi, ma che comunque rivendicano la loro indipendenza da chi li ha espressi persino quando i genitori continuino a mantenerli !!

Ecco quindi che l'uomo dipende sì dal mondo, ma rivendica la sua insoddisfazione per la condanna a non poter conoscere la felicità da vivo. E' il suo istinto di sopravvivenza che glielo vieta, instillandogli l'orrore per la morte, cioè per la condizione che lo renderebbe finalmente "felice".
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Eutidemo

Benvenuto nel FORUM, Sileno! :)
Sono sicuro che hai scelto il "nick name" di SILENO, per camuffare quello di SOCRATE, non è vero? ;)
Ed infatti Alcibiade paragonava Socrate ad una di quelle statuette di Sileno, che, sgraziate all'esterno, contengono al loro interno simulacri di dei come una specie di Matrioska. 

sileno

Citazione di: Angelo Cannata il 14 Aprile 2018, 21:14:51 PM
C'è un errore in questo discorso, errore commesso da Nietzsche, da Schopenhauer, da Leopardi: il linguaggio assolutistico.
Ogni discorso impostato con un linguaggio assolutistico, totalizzante, universalizzante, è destinato all'autodistruzione o, peggio, fin quando non ci si accorge di questo, a un contorcersi su sé stesse di discussioni e riflessioni, che procedono solo perché non si sono accorte, o non vogliono accorgersi, di questa autodistruzione, autocontraddittorietà.
È la contraddizione che ho descritto in altre occasioni: se una cosa è certa, ne consegue che non è certa. Se l'essere è, ne consegue che non è.
Mi sembra che il mondo oggi si avvii sempre più a rendersi conto di questo, a capire che l'unica cosa che tiene in piedi non sono i princìpi, le verità, ma, al contrario, le opinioni, i sospetti, i dubbi, le possibilità. Dunque, quando alle mie frasi premetto "mi sembra", non è soltanto per modestia, ma soprattutto perché è l'unico modo per dare ad esse un minimo di consistenza, di attendibilità.
D'altra parte, il linguaggio generalista non può essere del tutto abbandonato, perché ormai fa parte del nostro pensare; va piuttosto sempre coniugato con autocritica e attenzione al fatto che siamo esseri particolari, non siamo universali.
Dunque, sì, è vero che molte volte sembra che il meglio sia non essere esistiti, ma, forse con dispiacere della nostra voglia di approdare finalmente a qualche verità, a qualche spiaggia, non si tratta di una verità né definitiva, né indiscutibile, né universale. In questo senso si potrebbe dire che, rispetto al dire che sarebbe meglio non essere esistiti, le cose stanno anche peggio: poter concludere con certezza che sarebbe meglio non essere esistiti sarebbe già una consolazione, sarebbe un aver guadagnato almeno una chiarezza, una certezza; invece no, neanche questo, neanche questa consolazione.
Verrebbe a questo punto da chiedersi "Che fare allora?", ma ultimamente mi trovo a riflettere che la domanda "Che fare?" è già estremamente insidiosa, viziata


Tu vedi l'errore nella visione della vita dei grandi filosofi, "assoluta" perché sarebbe difficile farla loro cambiare per approdare "finalmente a qualche verità, a qualche spiaggia alternativa".
La vita in sè è tragica, l'uomo crea demoni e santi trascurando di combattere il male reale.
La filosofia non consola nella sventura con promesse di un mondo migliore dopo la morte, è critica, priva di conoscenze a priori, kantiana: "Cosa posso conoscere, cosa devo fare, cosa mi è permesso di sperare".
La nostra condizione umana ci mette a confronto con il cambiamento, la malattia, la vecchiaia, la morte.
E' stata proposta anche una rilettura pedagogica della "Nascita della tragedia" di Nietzsche.
Schopenhauer: "La filosofia deve essere immanente e non trascendere a cose oltremondane, ma limitarsi a comprendere il mondo contingente che fornisce materia bastante.
Ricordo che Cacciari presentò il volume "Meglio non essere nati". La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche",di Curi.
Ma il testo madre dei discorsi sulla vanità di esitere è il Qohelet ( Bibbia ebraica e cristiana). "Vanità delle vanità dice il Predicatore, tutto è vanità. Che vantaggio ha l'uomo di tutta la sua fatica sotto il sole? Tutte le cose sono in travaglio, nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Chi accresce il sapere aumenta il dolore. Ho proclamato più felici i morti dei viventi, ma ancora più felici degli uni e degli altri chi ancora non è e non ha visto le azioni malvage commesse sotto il sole"L'intelligenza reca doilore e solitudine, La vita è tragica.


bobmax

L'intelligenza razionale reca dolore perché interpreta se stessa quale fonte di  Verità assoluta.
Ossia che i fondamenti dello stesso pensiero razionale siano assoluti:
* L'oggettività in sé
* La realtà intesa come ciò che abita il presente.

Questa interpretazione è all'origine dell'angoscia esistenziale. Ma non è la Verità. È soltanto la sfida nichilista che dobbiamo affrontare. Sfida necessaria, perché solo da noi stessi può venire la risposta.

Non certo dalle religioni, che sono fondate sullo stesso nichilismo.
Così come da nessun'altra parte. Solo da noi stessi.

Conosci te stesso, e conoscerai te stesso e Dio.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

sileno

Citazione di: viator il 14 Aprile 2018, 22:12:28 PM
Salve Sileno, e veramente BENvenuto. Intervento assai elegante il tuo, e ben condiviso da me.

La cosa più desiderabile per l'uomo è - ovviamente - la felicità. Cosa sia secondo me la felicità l'ho già detto altrove qui dentro.

Essendo la felicità assoluta (non la soddisfazione o la serenità) la condizione in cui ogni bisogno e desiderio e facoltà risultano soddisfatti, essa coincide appunto con la morte o con il mancato ingresso in questo mondo, uniche condizioni in cui bisogni, desideri e facoltà risultano "soddisfatti" perché assenti.

Il mondo però è animato dalla propria tendenza a permanere, a continuare ad esistere (attraverso l'"andamento entropico") che si manifesta attraverso la continua diversificazione dei propri contenuti, uno dei quali siamo noi. Quindi, attraverso l'ennesimo effetto dell'entropia costituito dalla tendenza alla persistenza, alla sopravvivenza, noi siamo condannati a vivere è quindi ad essere in qualche modo non "assolutamente felici".

A livello umano ed esistenziale la nostra incompleta felicità (o infelicità) è dovuta al fatto che la condizione umana è sorta in noi con l'acquisizione della coscienza.

La nascita della coscienza è consistita in un certo passo evolutivo (l'evoluzione non è altro che la diversificazione attraverso la sempre maggiore complessità dei viventi).
A livello filosofico coscienza e condizione umana non sono altro che un aspetto (ovviamente PER NOI decisivo) che tende - sempre allo scopo di perpetuare l'esistenza del mondo - a creare nuove copie - su scala ridotta - del mondo stesso.

L'uomo quindi non è altro che una "nuova" piccola e parziale copia del mondo che l'ha espresso la quale però, avendo raggiunto un grado di complessità adeguato a corredarlo di coscienza, lo pone nella condizione di riconoscersi distinto, diverso e persino alternativo al mondo che l'ha generato.

E' quello che succede infatti attraverso le generazioni, con i figli che vengono generati dai genitori essendo in un senso uguali ed in altro senso diversi da essi, ma che comunque rivendicano la loro indipendenza da chi li ha espressi persino quando i genitori continuino a mantenerli !!

Ecco quindi che l'uomo dipende sì dal mondo, ma rivendica la sua insoddisfazione per la condanna a non poter conoscere la felicità da vivo. E' il suo istinto di sopravvivenza che glielo vieta, instillandogli l'orrore per la morte, cioè per la condizione che lo renderebbe finalmente "felice".
Grazie!

Sulla felicità dei viventi condivido ciò che disse Schopenhauer: "Vivere felici" può significare solo vivere il meno infelici possibile".
Con la morte e la non nascita si è fuori da una personalità che prova gioia e dolore.
E' vero che le nostre coscienze divono subire il dramma di essere al mondo: non si chiede di nascere.
Solo la religione predica la felicità ultraterrena, svalutando la vita sulla terra.
Quindi gli autentici credenti dovrebbero essere felici, non temere la morte, accogliere la sofferenza come merito per salire iin cielo, ma spesso non è così.



Angelo Cannata

Citazione di: sileno il 15 Aprile 2018, 07:57:12 AMSolo la religione predica la felicità ultraterrena, svalutando la vita sulla terra.
Quindi gli autentici credenti dovrebbero essere felici, non temere la morte, accogliere la sofferenza come merito per salire iin cielo, ma spesso non è così.
Secondo questo criterio già Gesù stesso viene a risultare un credente per niente autentico.

acquario69

#8
Citazione di: sileno il 14 Aprile 2018, 19:16:14 PM
Vivere è differire la morte ... si persevera per paura della morte. Il nulla della morte in Occidente viene rimosso.

L'occidente rimuove la morte (perché ne ha una visione completamente distorta, come lo ha conseguentemente per la vita)
ma nient'affatto il "nulla" che anzi al contrario - e lo si può riscontrare facilmente - ne ha fatto la sua unica ragione...(ragione per modo di dire ovviamente) ..quella del nichilismo!

E questo "nulla" che e' solo nichilismo, lo vuole per giunta pure esportare - a forza - a tutto il resto del mondo!...come la "democrazia"

PS: 
argomento per molti versi analogo..me lo ero già chiesto qui: 
https://www.riflessioni.it/logos/tematiche-spirituali/perche-si-ha-paura-di-morire/

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 15 Aprile 2018, 08:01:08 AM
Citazione di: sileno il 15 Aprile 2018, 07:57:12 AMSolo la religione predica la felicità ultraterrena, svalutando la vita sulla terra.
Quindi gli autentici credenti dovrebbero essere felici, non temere la morte, accogliere la sofferenza come merito per salire iin cielo, ma spesso non è così.
Secondo questo criterio già Gesù stesso viene a risultare un credente per niente autentico.
CitazionePerché?

Gesù Cristo (a parte il fatto che per la religione cristiana non era semplicemente un uomo: non era soltanto un "autentico credente" cristiano) non avrebbe (secondo i vangeli) accettato serenamente la sofferenza e la morte?

Angelo Cannata

Altro che serenamente, era terrorizzato. I vangeli non lasciano dubbi in proposito. Al Getsemani, pregando nell'imminenza della sua morte, dice ai discepoli "La mia anima è triste fino alla morte". Era talmente spaventato da chiedere a Dio Padre "Se possibile passi da me questo calice". Talmente colpito dall'emozione che Luca dice che era "in preda all'angoscia" e che il suo sudore cadeva a terra come se fossero gocce di sangue, dando luogo all'ipotesi che, a quanto sembra, ciò possa effettivamente avvenire in casi di estrema emozione, per rottura di capillari.

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 15 Aprile 2018, 09:34:40 AM
Altro che serenamente, era terrorizzato. I vangeli non lasciano dubbi in proposito. Al Getsemani, pregando nell'imminenza della sua morte, dice ai discepoli "La mia anima è triste fino alla morte". Era talmente spaventato da chiedere a Dio Padre "Se possibile passi da me questo calice". Talmente colpito dall'emozione che Luca dice che era "in preda all'angoscia" e che il suo sudore cadeva a terra come se fossero gocce di sangue, dando luogo all'ipotesi che, a quanto sembra, ciò possa effettivamente avvenire in casi di estrema emozione, per rottura di capillari.
CitazioneCosa pretendi da uno che accetta incolpevole, potendolo evitare, un supplizio orribile e mortale?

Che si metta anche a raccontare barzellette mentre sale lungo lungo il Calvario?

Angelo Cannata

#12
Non capisco:

1) prima presupponi che Gesù sia stato sereno
Citazione di: sgiombo il 15 Aprile 2018, 09:20:34 AMGesù Cristo (a parte il fatto che per la religione cristiana non era semplicemente un uomo: non era soltanto un "autentico credente" cristiano) non avrebbe (secondo i vangeli) accettato serenamente la sofferenza e la morte?

2) io correggo questa tua presupposizione
Citazione di: Angelo Cannata il 15 Aprile 2018, 09:34:40 AMAltro che serenamente, era terrorizzato.

3) infine inverti le parti e inviti me a non presupporre che avrebbe dovuto essere sereno?
Citazione di: sgiombo il 15 Aprile 2018, 15:13:42 PMCosa pretendi da uno che accetta incolpevole, potendolo evitare, un supplizio orribile e mortale?
Che si metta anche a raccontare barzellette mentre sale lungo lungo il Calvario?

sgiombo

Fatto sta che Gesù Cristo (per quel che ne raccontano i vangeli) non ha temuto la morte ed ha accettato la sofferenza (più o meno serenamente), contrariamente alla tua affermazione che secondo questo criterio (il non temere la morte e l' accettare la siofferenza) già Gesù stesso viene a risultare un credente per niente autentico.

Angelo Cannata

Bisogna vedere il senso che si dà a queste espressioni.

Si può sostenere che Gesù non abbia temuto la morte nel senso che, pur avendo avuto paura di essa, decise di affrontarla senza far nulla per sottrarsi ad essa. L'espressione si presta però ad essere fraintesa, perché chi non conosca i vangeli, sentendo soltanto che Gesù non temette la morte, potrebbe farsi l'idea che egli l'abbia affrontata in totale impassibilità, senza alcun segno di preoccupazione, senza sofferenza interiore, il che è falso rispetto a ciò che i vangeli trasmettono.

Lo stesso vale per l'espressione "accettare la sofferenza": bisogna vedere il senso che vi si vuole dare.

L'ambiguità dei significati si basa sulla separazione tra sentimenti ed emozioni da una parte e motivazioni, fedeltà ai princìpi, dall'altra. In questo modo si può sostenere che Gesù, pur gridando come un disperato dalla croce, fosse tuttavia felice di star riuscendo a perseverare nella fedeltà ai suoi princìpi.

Giocare su queste ambiguità non giova ad alcun discorso, serve solo ad illudersi di poter dissezionare, separare, distinguere, le componenti della persona, persuadendosi, in questo modo, di averne capito i meccanismi. Si tratta di un'illusione, perché queste distinzioni che riusciamo a fare nella nostra mente trascurano in maniera pesante sia l'unità della persona umana, sia i reciproci influssi tra le varie componenti che possiamo tentare di distinguere.

Influssi tra le varie componenti significa che, quando si soffre pesantemente sul corpo e nelle emozioni, anche i princìpi di ogni tipo iniziano ad entrare in crisi. Si può considerare che questo sia un meccanismo biologico di sopravvivenza.

A questo punto il discorso diventa interessante, perché si tratta di valutare se sia meglio coltivare in sé un atteggiamento inflessibile, fanatico, fondamentalista, oppure più elastico, disposto a mettersi in discussione. Fanatismo può significare maggiore fedeltà ai propri princìpi, ma può anche significare rimanere vittime di princìpi sbagliati che abbiamo deciso di non sottoporre ad alcuna messa in discussione; elasticità significa esporsi a compromessi che possono diventare tradimenti della propria stessa coscienza, ma può significare dare a sé stessi maggiori possibilità di progredire.

In ogni caso non ci sono in proposito princìpi oggettivi che ci possano guidare su cosa sia male e cosa sia bene. Alla fine la storia dell'umanità, da questo punto di vista, si può considerare come nient'altro che un confronto di sensibilità. Gesù testimoniò certi tipi di sensibilità, certi modi di bilanciare fedeltà ed elasticità, altri hanno testimoniato sensibilità diverse e bilanciamenti diversi.

Da parte mia considero oggi più fruttuoso un criterio di consapevolezza di queste dinamiche. Cioè, ci portiamo tutti dietro la nostra storia personale e la storia universale; è da lì che, a quanto pare, partiamo tutti e la storia ci mette dentro un bagaglio di sensibilità verso alcune cose che ci sembrano bene e altre che ci sembrano male.

Oggi a me, con la storia personale e mondiale che mi porto dietro, sembra meglio coltivare consapevolezza delle dinamicità e conseguenti progettazioni dinamiche. Di conseguenza ritengo più fruttuoso esplorare le dinamiche, piuttosto che andare in cerca di conclusioni che c'illudano di essere statiche, definitive, accertate. Credo che sia meglio chiederci come muoverci, piuttosto che dove andare, verso dove dirigerci. Una volta selezionato questo criterio, sono consapevole di tendere ad interpretare ogni cosa con questa tendenza. Gesù può essere interpretato come uno che abbia tentato di guidare ad un "come muoversi", piuttosto che ad una dottrina definitiva a cui pervenire. Allo stesso modo, nell'interrogativo oggetto di questa discussione ritengo che sia più importante occuparsi dei metodi con cui si pensa di rispondere, piuttosto che delle risposte possibili.

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