La "cosa in sé": una truffa filosofica a scopo di lucro.

Aperto da Carlo Pierini, 29 Giugno 2018, 19:25:21 PM

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sgiombo

Secondo me, contro Kant (e contro (@) Davintro, se bene intendo la sua critica a Kant, complessa e per me non facile da seguire;e fra l' altro non ho anora letto l' ultimo suo intervento #14) non esistono giudizi sintetici a priori ma solo giudizi sintetici a posteriori (a proposito dei quali la critica humeiana della causalità mi pare del tutto insuperata, da Kant e da chiunque altro) e giudizi analitici a priori.
I teoremi della logica e della matematica essendo per l' appunto, a mio parere, giudizi analitici a priori, certamente veri (se correttamente svolti) ma del tutto sterili conoscitivamente, nel senso che non ci dicono nulla di come é o non é la realtà (di ciò che realmente é/accade o meno) ma solo di come si possa correttamente parlare ovvero "linguisticamente pensare" (riguardano ciò che -realmente, se realmente accade di pensarlo- é mero "contenuto di pensiero", mera "concettualità" a prescindere da ciò che é/accade realmente o meno").
Invece i giudizi sintetici a posteriori ci dicono qualcosa di come é o non é la realtà (di ciò che realmente é/accade o meno) a prescindere da ciò che eventualmente (realmente, se lo si pensa di fatto realmente) se ne pensa o meno.
I giudizi sintetici a posteriori solitamente (e in particolare quelli propri delle conoscenze scientifiche) si riferiscono a (predicano circa) fenomeni o apparenze sensibili, coscienti (sia materiali sia mentali; ma solo materiali quelli delle scienze propriamente dette), sono dubbi (Hume!) e non riferiti alle "cose in sé" o noumeno (eventuali; se reale).
Ma non bisogna confondere il fatto che i giudizi analitici a priori sono certamente veri (se correttamente svolti) indipendentemente dal reale essere/accadere o meno di particolari e contingenti fenomeni (non essendo conoscenza della realtà -fenomenica o in sé che sia- ma solo di come si possa correttamente parlare ovvero "linguisticamente pensare") con una loro pretesa oggettività, ovvero con la pretesa che siano conoscenza (della realtà, di ciò che realmente é accade o meno indipendentemente dal fatto che sia eventualmente anche oggetto di pensiero o meno) come noumeno o cosa in sé indipendentemente dal reale ma soggettivo essere/accadere o meno di particolari e contingenti fenomeni.
La certezza universale e incontestabile, assoluta dei giudizi analitici a priori (conoscitivamente sterili circa la realtà quale é/accade indipendentemente dall' eventuale -reale accadere o meno del- pensiero circa la realtà stessa, essendo essi unicamente conoscenza di come si possa correttamente pensare) é ben diversa cosa da (e non va confusa con) una pretesa loro oggettività di conoscenza della realtà (pretesa in sé in quanto per l' appunto pretesa oggettiva, trascendente la insuperabile soggettività -e casomai intersoggettività- delle conoscenze dei fenomeni).
 
La conoscenza della realtà propria della "cosa in sé" come noumeno oggettivo (sintetica a posteriori, ammesso che sia possibile) contrapposta alla conoscenza (sintetica a posteriori) delle "apparenze sensibili o fenomeni soggettivi (casomai intersoggettivi, ma comunque limitati o "confinati nella loro realtà" alla-alle esperienza-e cosciente-i soggettive non confusa) non va confusa con la conoscenza analitica a priori certa (non soggettiva, non limitata alla soggettività dei fenomeni) ma comunque pur sempre conoscenza del modo corretto di pensare (indipendentemente dal fatto che eventualmente si pensi qualcosa di anche reale o meno) e non affatto conoscenza della realtà (indipendentemente dal fatto che eventualmente sia anche pensata o meno).
 
Nell' ambito della realtà il pensiero (allorché realmente accade) é qualcosa di decisamente peculiare, in quanto é predicazione (per lo meno se si tratta di pensiero linguistico) circa la realtà o meno, e dunque (per definizione) condizione (necessaria anche se non sufficiente) della conoscenza della realtà stessa.
Ai fini della (correttezza, verità della) conoscenza (della realtà) é fondamentale non confondere ciò che é in quanto "contenuto di pensiero (che sia reale/accada realmente anche una denotazione o estensione dei concetti costituenti tale contenuto di pensiero, oltre ai loro significati intrinseci "a prescindere dalla realtà" ovvero connotazioni o intensioni)" e ciò che é in quanto "ente/evento reale (che sia reale/accada realmente o meno anche il pensiero di concetti dei quali tali enti/eventi reali costituiscano la denotazione o estensione reale, oltre ai loro significati intrinseci "a prescindere dalla realtà" ovvero oltre alle loro connotazioni o intensioni)".
Secondo me dalla confusione di queste due accezioni di "essere" (in quanto concetto e in quanto realtà), da Parmenide e da Platone in poi, nascono molteplici fraintendimenti, errori, falsità metafisici.
Mi scuso per l' ennesima ripetizione, alquanto ossessiva, di questo mio "cavallo di battaglia".

sgiombo

Citazione di: davintro il 01 Luglio 2018, 13:58:31 PM
Citazione di: 0xdeadbeef il 01 Luglio 2018, 10:45:59 AMDavintro:
uscendo probabilmente per un attimo dal seminato del topic, mi interesserebbe chiarire che secondo me la coincidenza fenomenologica fra essenza e fenomeno non ha a che fare con un idealismo soggettivista per cui la realtà oggettiva diverrebbe una proiezione del pensiero soggettivo, nel quale "la verità per me" finirebbe col coincidere con "la verità in assoluto". Che l'essenza delle cose coincida con il suo darsi come fenomeno a una coscienza non implica che le cose siano un prodotto del pensiero, ma che il loro senso universale, al di là delle particolari determinazioni con cui si esistenziano, può essere colto nel momento in cui non sono più concepiti come "fatti reali", la cui esistenza in un determinato spazio-tempo è solo accidentale, ma come contenuti di un vivere cosciente, che è l'ambito, non nel quale le cose esistono (come sarebbe in un'ottica idealista), ma dove possono essere riconosciute ad un livello pieno di evidenza e necessarietà, facendo leva sul fatto che, mentre i giudizi sull'esistenza delle cose in un'oggettività trascendente possono sempre essere messi in dubbio in base a eventuali disfunzioni delle nostre capacità percettive, l'esperienza cosciente soggettiva delle cose resta un residuo indiscutibile indipendentemente dal fatto che al "fenomeno" nella coscienza coincida una realtà effettivamente esistente nel mondo. Cioè, va distinto il piano metodologico da quello ontologico: metodologicamente la ricerca parte considerando l'evidenza del darsi dei fenomeni a una coscienza che ne fa esperienza, ma all'interno di questa evidenza si cerca di mettere alla luce un modo d'essere degli oggetti correlati agli atti coscienziali che resta tale al di là del fatto che se ne abbia esperienza o meno.
CitazioneSgiombo:
Ma gli (i "contenuti de", ciò che costituisce gli") atti coscienziali non possono essere identificati con qualcosa che resta tale al di là del fatto che se ne abbia esperienza (= che accadano realmente in quanto tali: "atti coscienaziali") o meno.
O accadono oppure non accadono.
E se é reale qualcosa anche allorché non accadono (degli "oggetti correlati agli atti coscienziali"), ragion per cui "date le opportune circostanze gli atti coscienziali puntualmente accadono" (esempio: chiudo gli occhi e non vedo -id est: non esiste come "atti coscienziali"- il cedro del Libano nel giardino del mio vicino, ma se li riapro puntualmente lo rivedo, id est: torna d esistere come "atti coscienziali"), allora sarebbe una plateale contraddizione pretendere di affermare che tale "qualcosa" di correlato, che non é (costituito da) determinati "atti coscienziali", dal momento che é/accade realmente (anche) quando tali "atti coscienziali" non sono/non accadono, si identifichi con, sia (costituito da) tali determinati "atti coscienziali".

Se tale "qualcosa é reale, allora logica impone che sia altro, "diversa cosa" dagli atti coscienziali (fenomeni), reale anche allorché gli atti coscienziali (fenomeni) non lo sono, qualcosa di non "coscienzialmente apparente (non "atti coscienziali"), di non sensibile o apparente ai sensi (non fenomeni) ma invece di congetturabile (dal greco e a la Kant "noumeno).

Ma allora nulla ne posso conoscere: posso soltanto congetturare che "sia qualcosa di reale (e non fenomenico, non apparente, ergo: non immaginabile)".

Davintro:
Se la preservazione dell'autonomia dell'oggettivo cadesse in questa prospettiva non avrebbe senso il lavoro dell' epochè, nel quale il soggetto mira a eliminare tutta la serie di pregiudizi e filtri legata alla sua condizione storica per lasciare trasparire il senso dei fenomeni. Nella "messa tra parentesi" di tutto ciò che lascerebbe l'esperienza nell'arbitrarietà soggettiva è implicito il rispetto dell'autonomia della realtà, da recepire senza proiezioni soggettive. Il riferimento alla coscienza cioè è strumentale a guadagnare una posizione di oggettività più forte, perché è l'ambito nel quale le cose possono manifestarsi nella loro evidenza, mentre il rischio della proiezione soggettivista c'è fintanto che pretendo di associare il mio vissuto a un'esistenza trascendente. Il fenomeno che coincide con l'essenza non è il vissuto che ingenuamente penso di poter far coincidere con una realtà oggettiva, ma è il senso della cosa che lascio risaltare dopo che autocriticamente riconosco l'arbitrareità dei pregiudizi della visione del mondo dovuti alla finitezza e imperfezione del mio essere soggetto empirico
CitazioneSgiombo:
Come mai potrebbe sapersi qualcosa di definito, determinato circa questo "senso dei fenomeni", che mi pare coincidere con la cosa in sé o nuomeno?
A me sembra che al massimo se ne possa ipotizzare una corrispondenza biunivoca coi fenomeni, tale da giusìtificare l' intersoggettività (e non oggettività) dei fenomeni materiali (postulabile ma non dimostrabile): tutti possono vedere il Monte Bianco se non sono ciechi e si collocano e guardano "nei modi opportuni", gli esprimenti scientifici sono riproducibili da chiunque, sempre e dovunque e le leggi che non falsificano sono constatabili da chiunque osservi "nei modi opportuni"

Carlo Pierini

Citazione di: sgiombo il 01 Luglio 2018, 14:56:28 PM
I teoremi della logica e della matematica essendo per l' appunto, a mio parere, giudizi analitici a priori, certamente veri (se correttamente svolti) ma del tutto sterili conoscitivamente, nel senso che non ci dicono nulla di come é o non é la realtà (di ciò che realmente é/accade o meno) ma solo di come si possa correttamente parlare ovvero "linguisticamente pensare" (riguardano ciò che -realmente, se realmente accade di pensarlo- é mero "contenuto di pensiero", mera "concettualità" a prescindere da ciò che é/accade realmente o meno").

CARLO
Certo, presi in sé isolatamente, i teoremi della logica sono SOLO teoremi della logica. Ma essi NON SONO fini a se stessi. Come dicevano Pitagora e Galilei, essi rappresentano le "lettere dell'alfabeto" del "Libro della Natura" e quindi rappresentano uno strumento insostituibile per la sua conoscenza. E I FATTI storici, cioè il grande balzo evolutivo compiuto dalla conoscenza umana dal momento in cui essi sono stati applicati metodicamente all'interpretazione del mondo fisico, dimostrano che le idee di Pitagora e Galileo sono molto più veritiere delle tue elucubrazioni campate per aria.

sgiombo

#18
Citazione di: Carlo Pierini il 01 Luglio 2018, 17:38:34 PM
Citazione di: sgiombo il 01 Luglio 2018, 14:56:28 PM
I teoremi della logica e della matematica essendo per l' appunto, a mio parere, giudizi analitici a priori, certamente veri (se correttamente svolti) ma del tutto sterili conoscitivamente, nel senso che non ci dicono nulla di come é o non é la realtà (di ciò che realmente é/accade o meno) ma solo di come si possa correttamente parlare ovvero "linguisticamente pensare" (riguardano ciò che -realmente, se realmente accade di pensarlo- é mero "contenuto di pensiero", mera "concettualità" a prescindere da ciò che é/accade realmente o meno").

CARLO
Certo, presi in sé isolatamente, i teoremi della logica sono SOLO teoremi della logica. Ma essi NON SONO fini a se stessi. Come dicevano Pitagora e Galilei, essi rappresentano le "lettere dell'alfabeto" del "Libro della Natura" e quindi rappresentano uno strumento insostituibile per la sua conoscenza. E I FATTI storici, cioè il grande balzo evolutivo compiuto dalla conoscenza umana dal momento in cui essi sono stati applicati metodicamente all'interpretazione del mondo fisico, dimostrano che le idee di Pitagora e Galileo sono molto più veritiere delle tue elucubrazioni campate per aria.

CitazioneLo so benissimo che le deduzioni logiche si possono applicare a ipotesi sulla realtà (e la matematica alla fisica e alle altre scienze naturali) e in quanto tali servono a estenderne la comprensione e la conoscenza; però allora trattano di conoscenza acquisite mediante giudizi sintetici a posteriori circa dati empirici, esplicitandone aspetti impliciti (e consentendo astrazioni e generalizzazioni utili anche all' induzione; la quale peraltro é applicata a conoscenze ottenute con giudizi sintetici a posteriori e, come ci ha genialmente mostrato Hume (oso sperare ti asterrai da offensive liquidazioni di questo grandissimo, dato che sei solito elargirne a piene mani a molti grandi della filosofia e che peraltro -nel caso malaugurato invece ricascassi in questo tuo vizio-non farebbero che ricoprire te di ridicolo) non é dimostrabile essere vera; il che non impedisce necessariamente di crederla tale.

Lungi da me il paragonarmi a Pitagora e a Galileo; ma non c' é bisogno di essere come loro per compiere ragionamenti interessanti e non affatto "elucubrazioni campate per aria"

0xdeadbeef

Citazione di: Carlo Pierini il 01 Luglio 2018, 12:19:16 PM
CARLO
Platone non fonde insieme - identificandoli - il modello ideale METAFISICO (il noumeno) e la cosa FISICA di cui il noumeno è "modello celeste". Quindi non è vero che, come scrivi: <<l'idea platonica è ...il modello che possiamo riscontrare nella molteplicità>>


Non vedo cos'altro possa essere l'idea platonica se non, dicevo: "il modello unitario che possiamo riscontrare
nella molteplicità".
E' come (ma non c'è davvero bisogno di specificarlo, visto che tutta la filosofia è, nei millenni, concorde
con questa definizione) se io dicessi "l'uomo" intendendo con ciò non "un" uomo, ma l'archetipo dell'uomo,
il modello, l'ideale, ciò che è costituito dalla "sostanza" (l'umanità) cui la molteplicità degli uomini
"partecipa".
Quanto alla "cosa in sè" essa è l'oggetto cui il "segno" (semiotico) si riferisce. E questo è il suo
significato, che chiaramente non è un mulla come tu affermi.
Ovvero: se il "segno" (parola o altro) è segno di qualcosa, allora la "cosa in sè" è questo qualcosa.
Personalmente considero grave errore concettuale il ritenere il "noumeno", o "cosa in sè", come
un essenza metafisica (e il "fenomeno" come una sostanza fisica).
La "cosa in sè" è una "cosa" fisica, visto che è l'oggetto cui il segno semiotico si riferisce (è l'oggetto
che, nel momento in cui è "conosciuto" dal soggetto interpretante, diventa un interpretato -cioè diventa
un "fenomeno").
In altre parole, il "noumeno" e il "fenomeno" sono/è lo stesso oggetto. Prima di essere interpretato dal
soggetto è "noumeno", mentre dopo è "fenomeno" (la questione è, per così dire, tutta "linguistica" e
"temporale", e la metafisica o la fisica non c'entrano nulla).
Per quanto riguarda la questione della fede e della scienza, a me non pare proprio che Kant sia un
"agnostico materialista". L'idea di Dio è anzi centrale nella sua riflessione (tanto che a quest'idea
egli si riallaccia in quella che, apparentemente, è una frattura - e forse lo è - fra la Ragion Pura e
quella Pratica).
Certo per Kant Dio, essendo indimostrabile, è "speranza", non "certezza" (ed in questo sì, anch'io lo
vedo come "discepolo" di S.Francesco - ma come del resto lo è tutta la Riforma protestante).
saluti

Carlo Pierini

Citazione di: 0xdeadbeef il 01 Luglio 2018, 20:35:33 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 01 Luglio 2018, 12:19:16 PM
CARLO
Platone non fonde insieme - identificandoli - il modello ideale METAFISICO (il noumeno) e la cosa FISICA di cui il noumeno è "modello celeste". Quindi non è vero che, come scrivi: <<l'idea platonica è ...il modello che possiamo riscontrare nella molteplicità>>


Non vedo cos'altro possa essere l'idea platonica se non, dicevo: "il modello unitario che possiamo riscontrare
nella molteplicità".

CARLO
"Nella molteplicità" osservi NON il modello METAFISICO, ma le "cose" FISICHE che da quel modello discendono.

OXDEADBEEF
E' come (ma non c'è davvero bisogno di specificarlo, visto che tutta la filosofia è, nei millenni, concorde
con questa definizione) se io dicessi "l'uomo" intendendo con ciò non "un" uomo, ma l'archetipo dell'uomo,
il modello, l'ideale, ciò che è costituito dalla "sostanza" (l'umanità) cui la molteplicità degli uomini
"partecipa".

CARLO
Esattamente: l'archetipo, il progetto esistente in sé metafisicamente come idea divina, al quale si può virtualmente risalire (nel tempo) con l'intelletto (consustanziale all'intelletto divino) attraverso la conoscenza della "cosa" di cui l'archetipo è modello. Questa è la concezione platonica. Mentre Kant - fondendolo ILLEGITTIMAMENTE (con-fondendolo) con la "cosa" (la "cosa" fisica è ALTRO dal suo modello metafisico) - ottiene questo aborto concettuale che chiama la "cosa in sé", che non corrisponde né con la cosa fisica, né col suo archetipo, un "flatus vocis" assolutamente privo di senso, un fantasma inosservabile e inconoscibile che contagia della sua fantasmaticità-inconoscibilità tutto ciò che tocca, dal mondo fisico delle "cose" al mondo metafisico del noumeno divino. Un vero e proprio virus letale che paralizza sia la filosofia che la conoscenza

OXDEADBEEF
Quanto alla "cosa in sè" essa è l'oggetto cui il "segno" (semiotico) si riferisce.

CARLO
Non diciamo cazzate. C'è UN segno per indicare la "cosa" (fenomenica) e UN ALTRO segno per indicare il suo noumeno-archetipo. La loro fusione non è altro che una CON-FUSIONE.

OXDEADBEEF
Certo per Kant Dio, essendo indimostrabile, è "speranza", non "certezza" (ed in questo sì, anch'io lo
vedo come "discepolo" di S.Francesco - ma come del resto lo è tutta la Riforma protestante).
saluti


CARLO
Anche la "cosa in sé" è indimostrabile, quindi "speranza". La "speranza" di distruggere le fondamenta filosofiche della conoscenza (il mondo è inconoscibile, Dio è inconoscibile: quindi andate al mare invece di sprecare il vostro tempo a studiare scienza e teologia)

sgiombo

Citazione di: 0xdeadbeef il 01 Luglio 2018, 20:35:33 PM
CitazioneQuanto alla "cosa in sè" essa è l'oggetto cui il "segno" (semiotico) si riferisce. E questo è il suo
significato, che chiaramente non è un mulla come tu affermi.
Ovvero: se il "segno" (parola o altro) è segno di qualcosa, allora la "cosa in sè" è questo qualcosa.
Personalmente considero grave errore concettuale il ritenere il "noumeno", o "cosa in sè", come
un essenza metafisica (e il "fenomeno" come una sostanza fisica).
La "cosa in sè" è una "cosa" fisica, visto che è l'oggetto cui il segno semiotico si riferisce (è l'oggetto
che, nel momento in cui è "conosciuto" dal soggetto interpretante, diventa un interpretato -cioè diventa
un "fenomeno").
In altre parole, il "noumeno" e il "fenomeno" sono/è lo stesso oggetto. Prima di essere interpretato dal
soggetto è "noumeno", mentre dopo è "fenomeno" (la questione è, per così dire, tutta "linguistica" e
"temporale", e la metafisica o la fisica non c'entrano nulla).

Per poterci intendere io distinguerei fra denotazione o estensione reale (quando c'é; non sempre necessariamente, contrariamente al significato inteso come connotazione o intensione teorica, mentale) di un concetto da una parte e noumeno o cosa in sé dall' altra.

Comunemente le denotazioni o intensioni reali dei concetti sono "oggetti (enti o eventi) fenomenici".
Oggetti fenomenici materiali (res extensa) come per esempio un cavallo realmente esistente (denotazione o estensione reale del concetto di "cavallo" la cui connotazione o intensione é la definizione " grosso mammifero erbivoro con testa lunga, collo diritto rivestito di criniera coda corta con peli lunghissimi, orecchie corte e diritte, arti con un solo dito coperto dallo zoccolo"; mentre invece per esempio il concetto di "ippogrifo" non ha alcuna denotazione o estensione reale ma solo la connotazione o intensione "cavallo alato").
Oppure oggetti fenomenici mentali (res cogitans) come per esempio un sentimento (odio, amore, ecc. che realmente si provino, denotazioni o estensioni reali dei rispettivi concetti), un immaginazione (il fatto di realmente pensare a un ippogrifo, denotazione o estensione reale del concetto di "pensiero o immaginazione fantastica di un ippogrifo, ovvero di un cavallo alato"), un concetto o una qualità astratta (la denotazione o estensione reale -per quanto stratta- del concetto di "mammifero" o di quello di "intelligenza"; mentre i concetti di "mammiferi a sangue freddo" o di "cavallo alato" o di "angelo" non hanno denotazioni o estensioni reali), un predicato (l' affermazione o pensiero -reale, se accade realmente- "esiste un cavallo", denotazione o estensione reale del concetto di "predicazione dell' esistenza reale di un cavallo"), ecc.

Ma esiste anche il concetto di "cose in sé" o "noumeno", di cui non é possibile dimostrare, né men che meno (per definizione!) mostrare empiricamente, che esistano e nemmeno che non esistano denotazioni o estensioni reali, oltre al significato nel senso di connotazione o estensione: "ciò che é reale indipendentemente dal fatto che sia pure realmente oggetto di sensazioni fenomeniche; ovvero dal fatto che siano reali anche le corrispondenti sensazioni fenomeniche".
Per esempio ciò che continua ad esistere -se realmente esiste, e non é come gli ippogrifi o gli angeli- anche allorché non vedo il magnifico cedro del Libano nel giardino del mio vicino di casa e che fa sì che ogni volta che mi colloco nella giusta posizione e guardo dalla parte giusta (oppure semplicemente riapro gli occhi dopo averli chiusi) puntualmente (ri-) vedo lo splendido albero (=torna puntualmente ad esistere quell' insieme di sensazioni fenomeniche -verde fogliame, tronco e rami marroni, stormire del vento fra la fronde, odore di resina, ecc.- che costituisce quel cedro del Libano e che quando avevo gli occhi e gli orecchi e il naso chiusi o ero altrove non esisteva punto realmente; tutt' al più potevo immaginare esistesse, ovvero poteva esistere il mero pensiero di esso: ben altra cosa!).


davintro

Per Sgiombo

 

Il limite che mi è parso di cogliere nella critica kantiana non è il non aver sostanzializzato le categorie dell'intelletto ( anzi ritengo che la sostanzializzazione cartesiana del cogito come "res cogitans", "anima" sia stato un errore che ha condotto a un'antropologia eccessivamente dualista circa il rapporto spirito-materia), ma il non aver considerato le forme trascendentali dell'intelletto dal punto di vista di una "materia", nel senso di un contenuto specifico di un certo tipo di conoscenza che è quella su cui la critica dovrebbe far leva. Un tipo di conoscenza che per essere adeguato alla natura di questi contenuti, riconosciuti come universali e intelligibili, dovrebbe consistere in un tipo di intuizione diversa da quella disposta a ricevere il materiale sensibile empirico, cioè un'intuizione intellettuale che colga un contenuto a sua volta intelligibile e costitutivo di strutture mentali operanti al di là delle circostanze empiriche in cui l'uomo si trova storicamente a esistere. Cioè non dico affatto che Kant avrebbe dovuto considerare le categorie apriori come delle realtà in sé, trascendenti la mente, sostanzializzandole, ma che una critica capace di individuare la presenza nella mente di tali categorie avrebbe dovuto implicare l'ammettere all'interno del conoscibile, non solo i fenomeni sensibili, ma anche quelli intelligibili, il noumeno, liberando il piano dell'ideale e dell'intelligibile (il modo d'essere dell'apriori) dall'inconoscibilità e dall'indeterminazione, allargando così l'ambito delle possibilità della conoscenza scientifica (a meno di non dover concludere che la critica è capace di delimitare il campo della scienza senza essere essa stessa scienza, perché renderebbe conto di qualcosa di non-empirico e dunque al di fuori dei limiti che essa stessa impone alla scienza, ma sarebbe una conclusione abbastanza assurda e paradossale, una critica che dovrebbe ammettere di essere dogmatica)

 

 

Il messaggio sulle essenze nella fenomenologia come fenomeni di una coscienza voleva essere una replica rispetto all'idea di vedere la coincidenza fenomeno-essenza come tipica di un idealismo in cui la verità assoluta finisce con l'essere prodotto del pensiero di un singolo individuo, che confonde il suo punto di vista particolare con la realtà oggettiva. Volevo far notare l'equivoco che può nascere nell'intendere come "essenza" qualcosa di effettivamente reale. Su questo presupposto sarebbe corretto concludere che se l'essenza coincide con i fenomeni, allora la realtà coincide con l'idea che la coscienza ne ha (idealismo). Ma se si comprende che l "essenza" non è la fattualità, ma il residuo della "cosa" dopo che la riduzione fenomenologica ha sospeso il giudizio riguardo l'esistenza o meno della cosa, allora è chiaro che l'essenza della cosa coincida proprio col darsi come fenomeno, contenuto della mia esperienza cosciente, l'idea al di là del suo esistere in un certo contesto al di fuori di me. Distinta l'essenza dall'esistenza non ha più senso la pretesa di identificare i fenomeni della coscienza con una realtà oggettivamente esistente. Stabilire che la realtà esista o meno come dipendente dal pensiero vorrebbe dire restare ancora nell'ambito del problema dell'esistenza, mentre se fenomenologicamente mi limito a sostenere che il metodo per una conoscenza il più possibile rigorosa si basa sull'analisi del senso dei fenomeni della coscienza non sto dicendo nulla sul fatto che la realtà fuori di me esista come indipendente dal mio pensiero, quindi l'accusa di idealismo e solipsismo non è appropriata. Posso decidere metodologicamente di impostare una filosofia come descrizione essenziali dei fenomeni della mia coscienza senza ritenere che la realtà fuori di me non esista, o se esiste debba coincidere con questi fenomeni. Sono due ordini di problemi distinti e non sovrapponibili

sgiombo

CitazionePer Davintro
 
Dissento dal ritenere i contenuti del pensiero (più o meno astratti "a partire dalle" sensazioni particolari concrete, come credo di fatto avvenga; più o meno "di diritto" stabiliti arbitrariamente a priori per definizione o postulati, intesi come assiomi) qualcosa di reale (men che meno di "materiale", sia pure con le virgolette) se non nella loro mera "concettualità" (o "realtà meramente concettuale", contrapposta a "realtà effettiva, fattuale"), nel loro essere mero pensiero.
Si tratta di concetti che di per sé non é detto siano "dotati" di o "accompagnati" (anche) da un' estensione o denotazione reale (oltre ovviamente che da in intensione o connotazione "cogitativa").
Dunque ritengo che i giudizi a priori, per me necessariamente analitici, non escano dall' "ambito concettuale o di pensiero", non ci dicano nulla su ciò che realmente accade o meno (oltre ad essi; e che, se correttamente svolti, siano certi, certamente veri: certezza "pagata" con la loro ineludibile "sterilità conoscitiva" circa ciò che, esulando dal o eccedendo il concettuale, realmente é/accede o meno).
Solo i giudizi sintetici a posteriori possono essere predicazioni circa la realtà di concetti (eventualmente, non necessariamente: "fecondità conoscitiva" circa ciò che, esulando dal o eccedendo il concettuale, realmente é/accede o meno "pagata" con la loro ineludibile incertezza) "dotati" di o "accompagnati" da un' estensione o denotazione reale (e dunque circa la realtà fattuale e non meramente concettuale o cogitativa).
 
Dunque un' ipotetica critica alternativa a quella kantiana e capace di individuare la presenza nella mente delle kantiane categorie a priori e che implicasse l'ammettere all'interno del conoscibile (della realtà fattuale e non meramente concettuale conoscibile), non solo i fenomeni sensibili, ma anche quelli intelligibili, il noumeno, liberando il piano dell'ideale e dell'intelligibile (il modo d'essere dell'apriori) dall'inconoscibilità (come realtà fattuale e non meramente concettuale) e dall'indeterminazione, allargando così l'ambito delle possibilità della conoscenza scientifica, secondo me é impossibile perché costituirebbe un indebito (scorretto, falso) slittamento dalla realtà (meramente) concettuale (a priori) alla realtà effettiva, fattuale (a posteriori).
 
 
 
 
Sulla questione delle essenze nella fenomenologia i miei limiti culturali mi impediscono una piena comprensione di quanto argomenti.
Mi limito ad alcune osservazioni "naives" che onestamente non saprei dire se e quanto siano pertinenti.
 
Non saprei che cosa possa essere un' "essenza", ma mi pare di poter dire, come immediata constatazione empirica a posteriori, che i dati coscienti fenomenici (le sensazioni, materiali-esteriori e mentali-interiori), se e quanto realmente accadono (dubitabilità dei ricordi), sono reali (in quanto tali: non come cose in sé, non indipendentemente dal loro essere sensibilmente percepite): la realtà (almeno parte della realtà) coincide coi fenomeni i quali, in quanto eventualmente conosciuti, sono estensioni o denotazioni reali di concetti pensati: sono qualcosa di diverso e ulteriore rispetto a "l'idea che la coscienza ne ha (idealismo)".
 
Se l "essenza" non è la fattualità, ma il residuo della "cosa" dopo che la riduzione fenomenologica ha sospeso il giudizio riguardo l'esistenza o meno della cosa, allora mi sembra che venga a coincidere con le mere connotazioni o intensioni mentali dei concetti delle cose a prescindere da eventuali loro denotazioni o estensioni reali, e che dunque non possa coincidere proprio col darsi come fenomeno effettivamente reale, contenuto dell' esperienza cosciente.
L'idea al di là del suo esistere in un certo contesto al di fuori di me (a prescindere dall' esistenza di un suo denotato o estensione reale o meno) mi sembra semplice realtà concettuale e non fattuale.
 
E se decido metodologicamente di impostare una filosofia come descrizione essenziale dei fenomeni della mia coscienza senza ritenere che la realtà fuori di me non esista, o se esiste debba coincidere con questi fenomeni, faccio qualcosa di diverso dallo Stabilire che la realtà esista o meno come dipendente dal pensiero.
Infatti il fatto che si tratti di "fenomeni della mia coscienza" e non di cose in sé indipendentemente dal fatto di essere sensibilmente percepite (reali fuori di me) non ne fa mera realtà concettuale (posso anche pensare a un ippogrifo il quale non é reale nemmeno come mero fenomeno, ma se penso a un cavallo realmente visto, allora penso a qualcosa di reale fattualmente e non in maniera meramente concettuale).
Semplicemente limito la (o mi rendo conto della limitatezza della) mia conoscibilità della realtà fattuale (indipendente dal pensiero, non meramente concettuale) al fenomenico e non alla cosa in sé.
 
La fenomenicità é diversa dalla concettualità e la noumenicità (l' "inseità") é diversa dalla relta fattuale ("fattualità").
Possono darsi fenomeni non realmente fattuali ma meramente concettuali (ippogrifi) e fenomeni realmente fattuali (cavalli reali).
Il noumeno o casa in sé può senz' altro darsi come realtà non fattuale ma meramente concettuale (può reamente essere pensata); ma potrebbe anche (non é dimostrabile né che lo sia né che non lo sia) darsi come realtà fattuale e non meramente concettuale (una denotazione o estensione reale del concetto di "noumeno" potrebbe realmente esistere o meno).
 
 
 
Mentre se si da realmente a posteriori un dato empirico (fenomenico) su cui predicare come denotato o estensione reale di un concettosi é garantiti sul fatto di predicare circa la realtà fattuale; invece se si predica analiticamente su concetti a priori (che siano di fatto astratti da dati empirici a posteriori, comunque "di diritto" stabiliti arbitrariamente a priori e considerati unicamente in quanto tali) nulla garantisce che essi siano "dotati" di o "accompagnati" a denotazioni o estensioni reali (oltre che a connotazioni o intensioni cogitative), e dunque che si stia predicando (ed eventualmente conoscendo) circa la realtà fattuale e non solo "elucubrando concettualmente".

sgiombo

#24
Citazione di: sgiombo il 02 Luglio 2018, 17:49:19 PM
Citazione di: 0xdeadbeef il 01 Luglio 2018, 20:35:33 PMAvevo scritto nell' ultima obiezione a Oxdeadbeef:

Ma esiste anche il concetto di "cose in sé" o "noumeno", di cui non é possibile dimostrare, né men che meno (per definizione!) mostrare empiricamente, che esistano e nemmeno che non esistano denotazioni o estensioni reali, oltre al significato nel senso di connotazione o estensione: "ciò che é reale indipendentemente dal fatto che sia pure realmente oggetto di sensazioni fenomeniche; ovvero dal fatto che siano reali anche le corrispondenti sensazioni fenomeniche".

Per esempio ciò che continua ad esistere -se realmente esiste, e non é come gli ippogrifi o gli angeli- anche allorché non vedo il magnifico cedro del Libano nel giardino del mio vicino di casa e che fa sì che ogni volta che mi colloco nella giusta posizione e guardo dalla parte giusta (oppure semplicemente riapro gli occhi dopo averli chiusi) puntualmente (ri-) vedo lo splendido albero (=torna puntualmente ad esistere quell' insieme di sensazioni fenomeniche -verde fogliame, tronco e rami marroni, stormire del vento fra la fronde, odore di resina, ecc.- che costituisce quel cedro del Libano e che quando avevo gli occhi e gli orecchi e il naso chiusi o ero altrove non esisteva punto realmente; tutt' al più potevo immaginare esistesse, ovvero poteva esistere il mero pensiero di esso: ben altra cosa!).

Aggiungo:
Oppure ciò che continua ad esistere -se realmente esiste, e non é come gli ippogrifi o gli angeli- anche allorché non avverto più pensieri, sentimenti, ricordi, ragionamenti, ecc. (res cogitans) e che fa sì che ogni volta che rivolgo nuovamente l' attenzione alla mia "interiorità", ai miei pensieri, sentimenti, ecc., essi puntualmente tornano ad esistere mentre quando non ci facevo caso non esistevano.

Dunque se é reale la cosa in sé o noumeno (se il rispettivo concetto presenta anche una denotazione o estensione reale (oltre ovviamente a una connotazione o intensione cogitativa) essa comprende gli oggetti delle sensazioni fenomeniche soggettive (eventualmente intersoggettive quelle materiali o res extensa), i loro soggetti (riflessivamente anche oggetti nel caso di quelle mentali o res cogitans).

E si può postulare (ovviamente non dimostrare logicamente né tantomeno mostrare empiricamente) che un' unica (la stessa) "situazione in sé" corrisponda alle determinate mie sensazioni mentali o materiali (fenomeni cogitantes o extensi) nell' ambito della mia esperienza fenomenica cosciente** e ai determinati processi neurofisiologici che accadono nel mio cervello  nell' ambito di altre esperienze fenomeniche coscienti* (più precisamente nell' ambito delle rispettive sensazioni materiali: fenomeni extensi): le stesse cose in sé soggetto della mia esperienza fenomenica cosciente**, oggetto di quelle* di "osservatori" (in quanto il mio cervello da loro osservato facente parte della res extensa), riflessivamente soggetto-oggetto (in quest' ultima veste in quanto pensieri, sentimenti, ecc.: res cogitans) sempre nella mia**.



Inoltre sottolineo l' importanza della differenza fra la soggettività delle sensazioni coscienti (materiali o mentali: fenomeni; e casomai intersoggettività nel caso di quelle materiali) in rapporto all' oggettività (se realmente si dà, cosa indimostrabile) della cosa in sé o noumeno (che se reale é appunto oggetto delle sensazioni fenomeniche; e anche i loro soggetti sono cosa in sé o noumeno) da una parte; e dall' altra la soggettività concettuale dei concetti circa i quali si predica (o comunque che si possono immaginare, pensare come "portatori" di, dotati di una connotazione o intensione cogitativa) in rapporto all' oggettività (se realmente si dà; cioè nei casi in cui realmente la si dà, per esempio nel caso di cavalli reali ma non di ippogrifi) dei loro denotati o estensioni reali (fenomeniche o in sé che siano: diversa differenza questa, rispetto a quella fra realtà di fatto e realtà concettuale).

0xdeadbeef

Citazione di: Carlo Pierini il 02 Luglio 2018, 12:21:29 PM
OXDEADBEEF
Quanto alla "cosa in sè" essa è l'oggetto cui il "segno" (semiotico) si riferisce.

CARLO
Non diciamo cazzate. C'è UN segno per indicare la "cosa" (fenomenica) e UN ALTRO segno per indicare il suo noumeno-archetipo. La loro fusione non è altro che una CON-FUSIONE.


Allora, posto che (finalmente...) siamo arrivati a concordare sull'idea platonica come "archetipo";
come ciò che vi è di unitario nella molteplicità; ora ritengo sia arrivato il momento di discutere
seriamente (...) della filosofia kantiana in merito alla "cosa in sè".
Mi verrebbe da iniziare con "a mio parere" (come del resto faccio spessissimo), ma questa volta proprio
no; perchè questa volta non è un mio parere personale.
Stai continuando imperterrito a sostenere un'assurdità, e cioè che Kant "fonde illegittimamente", nel
concetto di "cosa in sè", il modello metafisico (l'idea platonica) e la cosa fisica, il "fenomeno".
Con ogni evidenza, non hai compreso per nulla quel concetto (la "cosa in sè").
Poco male, direi (sai quante volte io non ho compreso un concetto...). Senonchè chiami "cazzate" i
miei tentativi di spiegartelo, e questo invece è male assai (per modo di dire, perchè il vero male
è ben altro).
Allora tento di rispiegartelo meglio: la "cosa in sè" non è nessuna "fusione"; nessuna "lega" ottenuta
da quel materiale e da quell'altro. Essa è lo stesso oggetto fenomenico, la stessa cosa fisica PRIMA
che un qualche interprete la "nomini" (la "segni", anche col solo pensiero, cioè la introduca all'interno
di quella che in semiotica viene chiamata "catena segnica").
Naturalmente, la "cosa in sè" è inconoscibile; ma non perchè trattasi di un qualcosa di metafisico ed
indimostrabile; ma perchè, come dice Peirce, già il solo pensare è "interpretare" (dunque a rigor di
logica non potremmo neppure pensare la "cosa in sè" - tant'è che Kant la chiama appunto "noumeno" per
sottolinearne la mera "intuibilità" per mezzo dell'intelletto).
La semiotica chiama la "cosa in sè" "oggetto primo"; "primum assoluto" o in altri modi, indicando con
tali termini quel "qualcosa" che il segno indica (un qualcosa chè "c'è" indubitabilmente, ma che è
conoscibile appunto solo attraverso il segno appostovi almeno da un primo interprete).
Dunque, se c'è un segno si parla necessariamente di "fenomeno", mentre il segno riferito alla "cosa
in sè" è mera convenzione, finzione direi (ma una finzione necessaria).
In conclusione, non vedo proprio come la "cosa in sè" possa essere una "speranza" (sperare cosa?
Che esista un oggetto qualsiasi?). Quello che noi uomini chiamiamo "albero" viene forse visto dagli
insetti o dalle muffe che vi abitano come un qualcosa da cui ricavare ombra per proteggersi dal
sole? O legna da bruciare per scaldarsi o costruire suppellettili?
Come può essere conosciuto l'oggetto-albero fuori dal segno interpretativo che differenti specie
vi appongono? Ma questo vuol forse dire che non esiste un qualcosa che sta al di fuori di quei
certi segni?
In questo modo va intesa la "cosa in sè" kantiana. Poi se ne può discutere in molti modi, e anche
criticare questo concetto, ma in questo modo è stata teorizzata da Kant.
saluti

Carlo Pierini

#26
Citazione di: 0xdeadbeef il 03 Luglio 2018, 17:00:43 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 02 Luglio 2018, 12:21:29 PM
OXDEADBEEF
Quanto alla "cosa in sè" essa è l'oggetto cui il "segno" (semiotico) si riferisce.

CARLO
Non diciamo cazzate. C'è UN segno per indicare la "cosa" (fenomenica) e UN ALTRO segno per indicare il suo noumeno-archetipo. La loro fusione non è altro che una CON-FUSIONE.


Allora, posto che (finalmente...) siamo arrivati a concordare sull'idea platonica come "archetipo";
come ciò che vi è di unitario nella molteplicità; ora ritengo sia arrivato il momento di discutere
seriamente (...) della filosofia kantiana in merito alla "cosa in sè".
Mi verrebbe da iniziare con "a mio parere" (come del resto faccio spessissimo), ma questa volta proprio
no; perchè questa volta non è un mio parere personale.
Stai continuando imperterrito a sostenere un'assurdità, e cioè che Kant "fonde illegittimamente", nel
concetto di "cosa in sè", il modello metafisico (l'idea platonica) e la cosa fisica, il "fenomeno".
Con ogni evidenza, non hai compreso per nulla quel concetto (la "cosa in sè").
Poco male, direi (sai quante volte io non ho compreso un concetto...). Senonchè chiami "cazzate" i
miei tentativi di spiegartelo, e questo invece è male assai (per modo di dire, perchè il vero male
è ben altro).
Allora tento di rispiegartelo meglio: la "cosa in sè" non è nessuna "fusione"; nessuna "lega" ottenuta
da quel materiale e da quell'altro. Essa è lo stesso oggetto fenomenico, la stessa cosa fisica PRIMA
che un qualche interprete la "nomini" (la "segni", anche col solo pensiero, cioè la introduca all'interno
di quella che in semiotica viene chiamata "catena segnica").
Naturalmente, la "cosa in sè" è inconoscibile; ma non perchè trattasi di un qualcosa di metafisico ed
indimostrabile; ma perchè, come dice Peirce, già il solo pensare è "interpretare" (dunque a rigor di
logica non potremmo neppure pensare la "cosa in sè" - tant'è che Kant la chiama appunto "noumeno" per
sottolinearne la mera "intuibilità" per mezzo dell'intelletto).
La semiotica chiama la "cosa in sè" "oggetto primo"; "primum assoluto" o in altri modi, indicando con
tali termini quel "qualcosa" che il segno indica (un qualcosa chè "c'è" indubitabilmente, ma che è
conoscibile appunto solo attraverso il segno appostovi almeno da un primo interprete).
Dunque, se c'è un segno si parla necessariamente di "fenomeno", mentre il segno riferito alla "cosa
in sè" è mera convenzione, finzione direi (ma una finzione necessaria).
In conclusione, non vedo proprio come la "cosa in sè" possa essere una "speranza" (sperare cosa?
Che esista un oggetto qualsiasi?). Quello che noi uomini chiamiamo "albero" viene forse visto dagli
insetti o dalle muffe che vi abitano come un qualcosa da cui ricavare ombra per proteggersi dal
sole? O legna da bruciare per scaldarsi o costruire suppellettili?
Come può essere conosciuto l'oggetto-albero fuori dal segno interpretativo che differenti specie
vi appongono? Ma questo vuol forse dire che non esiste un qualcosa che sta al di fuori di quei
certi segni?
In questo modo va intesa la "cosa in sè" kantiana. Poi se ne può discutere in molti modi, e anche
criticare questo concetto, ma in questo modo è stata teorizzata da Kant.
saluti

Andiamo al concreto, senza impiccarci con circonvoluzioni verbali.
Nella realtà fisica chiamiamo "cosa" (p. es.: "elettrone") una bella "X" incognita che desumiamo sia la CAUSA di un insieme di fenomeni - osservabili e misurabili - riconducibili ad essa. Pertanto la "cosa" e la "cosa in sé" si riferiscono entrambe a quella "X",  cioè, sono SINONIMI (l'"in sé" aggiunto alla "cosa" non è che una ridondanza verbale).
Domanda: si tratta di una "X" assolutamente e totalmente inconoscibile?
Risposta: se per "conoscenza" di una "cosa" intendiamo la conoscenza delle sue proprietà osservabili, allora quella "X" è *conoscibile*; se invece per "conoscenza" intendiamo l'ONNISCIENZA (cioè la conoscenza di TUTTE le sue proprietà), allora potremmo parlare di *inconoscibilità*, ma SOLO SE fossimo certi che il numero delle sue proprietà sia infinito. Tuttavia, questa certezza non ce l'abbiamo, quindi non si può escludere a-priori nemmeno l'onniscienza.
Ergo, è del tutto arbitrario sentenziare l'inconoscibilità della "cosa in sé".

In altre parole, quella "X" è la "cosa in sé" compiuta, completa di TUTTE le sue proprietà conosciute e non ancora conosciute.
Il noumeno, invece, da almeno duemila anni, NON indica "X", NON indica la "cosa in sé", ma indica il modello METAFISICO di "X", della cosa (o della "cosa in sé), il suo archetipo, l'idea originaria che la esprime in TUTTA la sua compiutezza.
Questo significa che tra "noumeno" e "cosa in sé" non c'è IDENTITA', ma CORRISPONDENZA-COMPLEMENTARITA', come quella che esiste tra l'espressione METAFISICA (matematica) di una legge (p.es.: F=ma) e l'insieme dei fenomeni FISICI che quella legge governa.
Ergo, è illegittimo FONDERE (cioè, CON-FONDERE) una legge FISICA (che riguarda l'ordine con cui si relazionano delle grandezze fisiche) con la sua espressione METAFISICA (che riguarda l'ordine logico con cui si relazionano i numeri e i concetti).
Torniamo, cioè, alla dialettica spinoziano-platonica tra idea e cosa, che si sintetizza nel motto: <<Ordo et connexio rerum idem est ac ordo et connexio idearum>>.

Apeiron

Rispondo alla risposta #9 di Carlo Pierini:

CitazioneCARLO
E' Kant, non io, che considera il "noumeno" - come "cosa in sé" - inconoscibile. Quindi è a lui che devi chiedere giustificazione di questa inconoscibilità, non a me.
Questo l'ho capito dal post di apertura  ;D  infatti ho cercato di dare una giustificazione a Kant. Nota che però 1) NON concordo con Kant su questa questione dell'incomprensibilità 2) non sono un esperto della filosofia kantiana (anche se, secondo me, ha i suoi lati positivi), quindile mie spiegazioni potrebbero non essere molto valide.


CitazioneCARLO
1 - Non si può usare un medesimo termine (noumeno) per riferirsi a due significati inconciliabili come quello platonico e quello kantiano. Quindi Kant avrebbe dovuto SOSTITUIRE il concetto di noumeno con quello di "cosa in se", invece di renderli SINONIMI.

2 - Se non possiamo conoscere il mondo sensibile, cos'altro possiamo conoscere?


1) su questo potrei darti ragione! purtroppo la filosofia è piena di cose del genere. Una simile critica è stata fatta da Schopenhauer (che per certi versi ha migliorato il kantismo, secondo la mia personalissima opinione). Ad ogni modo, ci sono alcuni studiosi che sono convinti che ci sia una sottile differenza tra i due termini nelle opere di Kant.

2) Penso che per Platone, l'unico oggetto di conoscenza fossero le Forme. Per Platone possiamo avere opinione sul mondo sensibile e vera conoscenza delle Forme. Per Platone quella che noi chiamiamo conoscenza è, in realtà, reminiscenza delle idee (anamnesis).

Citazione1 - Devi decidere: se mi dici, come hai fatto qualche riga fa, che <<il mondo sensibile non è conoscibile>> adesso non puoi dirmi che <<noi possiamo conoscere solo i fenomeni>>; che altro sarebbero i fenomeni, se non manifestazioni del mondo sensibile?

Chiedo scusa per la confusione. Per Platone non possiamo conoscere il mondo sensibile ma possiamo solo avere opinione di esso. Per Kant, possiamo conoscere i fenomeni e non la "X" della cosa-in-sé. Perchè? perchè la nostra mente organizza le sensazioni secondo le sue categorie. Per quanto mi riguarda, personalmente, ho un'opinione un po' diversa da entrambi. Come Kant ritengo che noi rappresentiamo le sensazioni attraverso le categorie (dunque, se le categorie cambiano, in linea di principio, la rappresentazione cambia). A differenza sua, però ritengo che la conoscenza della rappresentazione stessa sia solo parziale (i nostri concetti sono fissi e la nostra esperienza è mutevole, qui mi avvicino a Platone). Inoltre, Kant non spiega il motivo per cui sia possibile rappresentare una "X" indefinita attraverso le categorie. In fin dei conti, a priori, non c'è alcun motivo per cui ciò avvenga. Secondo me il motivo è che la "X" abbia una qualche "regolarità" e che quindi lo studio del mondo fenomenico ci fornisce anche una conoscenza parziale della "X" stessa. Riguardo alle Forme e alle categorie, secondo me sono più o meno la stessa cosa. E ritengo che esistano nella struttura della nostra mente (ovvero: che la nostra mente ha la caratteristica di "funzionare" in un certo modo). Su questo concordo (in parte) con Kant. Le Forme platoniche non esistono in un mondo "nell'iper-uranio" ma sono l'aspetto "formale" della nostra mente e delle cose (credo che Kant direbbe che sono l'aspetto "formale" della nostra mente e non delle cose).


Citazione2 - <<Conoscere i fenomeni secondo le categorie a-priori dell'intelletto>> è ciò che sostiene anche Platone, se per <<categorie a-priori>> si intendono le categorie del noumeno (i modelli archetipi a-priori, le idee platoniche) e per <<fenomeni>> si intendono le platoniche <<cose sensibili>>.  E non è un caso che il "platonico" Jung interpreti l'a-priori kantiano negli stessi termini:

"L'idea, in quanto astrazione, appare come un prodotto della funzione del pensare. [...] Ma considerata psicologicamente, essa esiste a priori come una possibilità, già data, di connessioni di pensieri in genere. Perciò l'idea nella sua essenza (non nella sua formulazione) è un'entità psicologica esistente a priori e determinante. In questo senso essa è per Platone l'immagine originaria delle cose, per Kant  «l'immagine originaria dell'uso dell'intelletto»".     [JUNG: Tipi psicologici - pg.485]

Insomma, dov'è la differenza tra le <<categorie a-priori>> di Kant e i modelli archetipi di Platone? E per quale motivo Kant avrebbe stabilito questa differenza?


Mi fermo qui, perché ogni discussione ulteriore creerebbe solo ulteriore confusione, se prima non chiariamo questi concetti-base

Credo che per Kant sono praticamente la stessa cosa. La differenza credo che stia "dove" risiedono per i due filosofi le categorie (o gli archetipi). Per Platone in un "altro mondo" di cui il mondo sensibile è un semplice riflesso. Per Kant, invece risiedono nella mente - più precisamente descrivono come "funziona" la nostra mente. Kant dunque ha voluto distinguere le categorie dalle forme platoniche perchè le forme, per Platone, dimorano nell'Iperuranio mentre le categorie rappresentano il modo in cui funziona la mente. Secondo me, la prospettiva di Kant è troppo riduttiva visto che non spiega come sia possibile che la mente riesca a dare una forma alle sensazioni seguendo le categorie. Sono dell'idea che tali proprietà siano anche l'aspetto "formale" delle cose. Per esempio, la matematica è certamente collegata alla nostra mente e anche al mondo naturale (lo sappiamo dal successo della fisica).  Studiare matematica significa capire le "regolarità" sia della nostra mente che della natura.  

Ho dichiarato di essere una sorta di "platonico" anche se, personalmente, non condivido il platonismo in toto. Il problema del platonismo è la teoria dell'anamnesis, ovvero che noi comprendiamo le Forme tramite il ricordo. Secondo me non stanno così le cose. Noi "comprendiamo" (in parte) le regolarità dei fenomeni e della nostra mente e le concettualizziamo secondo le categorie, gli archetipi e così via. Inoltre sostengo pure che queste regolarità siano "eterne" (o più precisamente indipendenti dal tempo). Anche se il mondo fenomenico è in continuo mutamento, il modo in cui muta rimane lo stesso ecc  credo inoltre che le regolarità abbiano un'ontologia positiva (ovvero che non sia una semplice proiezione del nostro intelletto). Quindi da questo punto di vista concordo con Platone (ovvero sul dare uno status ontologico positivo alle regolarità)! Per quanto riguarda l'etica invece, ritengo che descriva delle proprietà della nostra mente (es: quando si parla di "purezza della mente/cuore" ecc). Gli "archetipi" relativi all'etica sono ddescrizioni concettuali di queste proprietà della mente.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Carlo Pierini

Citazione di: Apeiron il 03 Luglio 2018, 22:44:28 PM
Credo che per Kant sono praticamente la stessa cosa. La differenza credo che stia "dove" risiedono per i due filosofi le categorie (o gli archetipi). Per Platone in un "altro mondo" di cui il mondo sensibile è un semplice riflesso. Per Kant, invece risiedono nella mente - più precisamente descrivono come "funziona" la nostra mente. Kant dunque ha voluto distinguere le categorie dalle forme platoniche perchè le forme, per Platone, dimorano nell'Iperuranio mentre le categorie rappresentano il modo in cui funziona la mente. Secondo me, la prospettiva di Kant è troppo riduttiva visto che non spiega come sia possibile che la mente riesca a dare una forma alle sensazioni seguendo le categorie. Sono dell'idea che tali proprietà siano anche l'aspetto "formale" delle cose. Per esempio, la matematica è certamente collegata alla nostra mente e anche al mondo naturale (lo sappiamo dal successo della fisica).  Studiare matematica significa capire le "regolarità" sia della nostra mente che della natura.  

Ho dichiarato di essere una sorta di "platonico" anche se, personalmente, non condivido il platonismo in toto. Il problema del platonismo è la teoria dell'anamnesis, ovvero che noi comprendiamo le Forme tramite il ricordo. Secondo me non stanno così le cose. Noi "comprendiamo" (in parte) le regolarità dei fenomeni e della nostra mente e le concettualizziamo secondo le categorie, gli archetipi e così via. Inoltre sostengo pure che queste regolarità siano "eterne" (o più precisamente indipendenti dal tempo). Anche se il mondo fenomenico è in continuo mutamento, il modo in cui muta rimane lo stesso ecc  credo inoltre che le regolarità abbiano un'ontologia positiva (ovvero che non sia una semplice proiezione del nostro intelletto). Quindi da questo punto di vista concordo con Platone (ovvero sul dare uno status ontologico positivo alle regolarità)! Per quanto riguarda l'etica invece, ritengo che descriva delle proprietà della nostra mente (es: quando si parla di "purezza della mente/cuore" ecc). Gli "archetipi" relativi all'etica sono ddescrizioni concettuali di queste proprietà della mente.

Hai allargato troppo il discorso, tanto da rendere necessario un confronto di ...mesi.
Per tagliare la testa al ...topo, leggi la mia Risposta #26 a Oxdeadbeef, dove passo ad un esempio concreto e dettagliato, senza uscire dal tema della "cosa in sé" in relazione al "noumeno".

0xdeadbeef

Citazione di: davintro il 01 Luglio 2018, 13:58:31 PM

uscendo probabilmente per un attimo dal seminato del topic, mi interesserebbe chiarire che secondo me la coincidenza fenomenologica fra essenza e fenomeno non ha a che fare con un idealismo soggettivista per cui la realtà oggettiva diverrebbe una proiezione del pensiero soggettivo, nel quale "la verità per me" finirebbe col coincidere con "la verità in assoluto".
Ciao Davintro (piacere di fare la tua conoscenza)
No, per carità, non intendevo davvero tracciare paralleli impropri fra la Fenomenologia e l'Idealismo.
(riconosco del resto di averle, in quelle due righe, impropriamente e troppo accomunate).
Ti confesso in ogni caso di non aver mai troppo capito la Fenomenologia (certamente per un mio limite;
o forse semplicemente, spero, per non averla mai approfondita adeguatamente).
Non so, mi sembra quasi che "alla fine dei giochi" essa si accosti "pericolosamente" all'Idealismo
(soprattutto in Heidegger e nella sua concezione dell'"essere" - almeno fino alla "svolta" -, che
io trovo confusa nel suo, dell'"essere", darsi e non darsi, apparire e non apparire).
O nella stessa "epoché", con quel non ben definito atteggiamento contemplativo nel quale "può
rivelarsi" (...) l'essenza stessa delle cose - fino ad arrivare a quel, per me, enigmatico ma quasi
idealistico concetto di "ego assoluto".
Insomma, ci sarà senz'altro modo di parlare di queste cose in un post magari più inerente (mi farebbe
del resto molto piacere e mi aiuterebbe a capire meglio).
saluti

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