L'oblio del fine nella cultura dell'eterno presente

Aperto da 0xdeadbeef, 06 Giugno 2019, 19:03:12 PM

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0xdeadbeef

L'esempio forse più eclatante è quello dell'economia ("lo studio dei mezzi più efficaci per
raggiungere un fine prestabilito" - L.Robbins); ma un pò dappertutto lo scientismo dilagante
attribuisce alla scienza compiti che non solo non le sono propri, ma che le sono spesso
addirittura antitetici.
E', questo dell'indistinzione fra mezzo e fine, uno dei tratti più peculiari della contemporaneità.
Già M.Weber, ne: "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", edita mi pare nel 1904,
intuiva come il capitalismo fosse entrato in una "gabbia d'acciaio", ovvero in una forma-mentis
nella quale i soldi servivano solo a fare altri soldi (concetto ormai macroscopicamente evidente
nella speculazione finanziaria).
Il concetto è ribadito in una ormai vasta saggistica, fra cui particolarmente interessante mi
sembra quella di E.Severino ("Intorno al senso del nulla"), il quale afferma che scopo della volontà di
potenza è di accrescere se stessa; e ciò vuol dire che non vi è uno scopo, un fine, perchè ormai il mezzo
ne ha preso il posto rendendo anacronistica la loro distinzione.
Mi sono spesso chiesto quali processi e quali dinamiche abbiano potuto determinare tutto questo,
e sono arrivato alla "conclusione" (si fa per dire...) che tutto questo è accaduto perchè nell'
uomo moderno, che è essenzialmente individuo, si è obliato il tempo.
Si sono obliati sia il passato che il futuro, e l'uomo moderno vive ormai in un "eterno presente"
che non è più "nel" mondo, come intendeva Heidegger, ma nel luogo "del" mondo ove l'individuo si
trova in quel momento presente.
Che senso ha "progettare" qualcosa in vista di un certo fine quando si vive solo ed esclusivamente
nel presente?
saluti

viator

Salve Ox. Cinicamente, come mio solito, preferisco dare la mia approvazione alla mancanza di un fine.
Mi sembra tu sottintenda che - in epoche passate - l'operare umano fosse finalistico mentre oggi non lo sia più.
E allora spiegami quale fine si proponevano i nostri progenitori.........(no, lasciamo perdere, argomento troppo confuso!).....spiegami invece se le generazioni e culture trascorse - tendendo ad un fine - lo abbiano raggiunto e quale esso sia stato.
Ora, è ovvio che :

  • se ebbero un fine e non lo raggiunsero, sbagliarono nel consumare vanamente le loro esistenze;
  • se ebbero un fine e lo raggiunsero, questo dovrebbe essere ora davanti ai nostri occhi. Indicamelo (che non sia per caso lo stato attuale del mondo ?);
  • e comunque, se raggiunsero un qualsiasi fine, ciò significò semplicemente che, raggiunto il fine dovettero arrestarsi e scomparire (il fine è sempre UNA FINE). Nel caso in cui invece avessero avanzato oltre il fine già raggiunto, ciò semplicemente avrebbe mostrato che quello appena raggiunto era stato un fine provvisorio, temporaneo, illusorio. Esattamente come per noi ora sono le miriadi di scopi e "fini" mutevoli che riempiono la vita attuale.

In realtà "nulla di nuovo sotto il sole". Le "novità" appaiono tali a chi è costretto (noi tutti, appunto) a comprimere il senso delle cose all'interno del breve spazio della nostra esistenza biologica.

Meglio che gli umani non raggiungano mai un vero "fine". Che senso avrebbe l'arrivare e doversi fermare quando è così interessante viaggiare ?? E' questa secondo me  la risposta al tuo quesito finale in cui domandi : "Che senso ha "progettare" qualcosa in vista di un certo fine quando si vive solo ed esclusivamente
nel presente?"
. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

paul11

#2
ciao Mauro (Ox...)
l'uomo si costruisce durante la vita, non siamo su un treno a vedere il paesaggio,da osservatori. Noi costruiamo relazioni e queste sono temporali.La mente umana riesce a "presentifcare" il passato mnemonico,  e in questo trascorso c'è già l'inidirizzo di senso verso il futuro.
Perchè ogni cosa ha un verso, una direzione, un suo ciclo.
Vivamo il presente,oggi, perchè la prevalenza del cretinismo ,è quello di far finta di essere eternamente giovani, la sindrome di petere pan, perchè abbiamo paura da sempre di morire, e adatto che Dio è morto, secondo la cultura imperante, c'è un vuoto assoluto di senso, un abisso di mancanza di senso che non è colmabile..In politica nessuno progetta, gli statisti erano coloro che pensavano per generazioni, oggi pensano alal sedia del potere, alle public relation quando lasceranno la "cadrega", perchè tutti vogliono tutto e subito.Il sacrificio oggi è una ridicola e vetusta etica/morale. Bisogna arrivare al top.
Questo anche grazie al pragmatismo americano con la sua cultura di potere esportata, in una società di plastica e liquida.
Il cretinismo è quello del godersela, significa consumare, aver soldi, fregarsene altamente dei problemi come avere cura degli altri, del pianeta, direi persino di se stessi. Poi passano la vita a tracannare alcolici, a farsi di cocaina, a riempirsi di ansiolitici.Perchè un umano privo di spessore, è incapace di costruire relazioni solide, per cui bisogna sempre fare una"toccata e fuga",
Perchè la coscienza intenzionale ce l'hanno tutti, anche la prevalenza del cretinismo, e "morde" la coscienza stessa, perchè cerca relazioni serie, non banali e superfiziali, ha necessità di un senso logico, emotivo, spirituale,
L'uomo deve sentirsi coinvolto anima e corpo in qualcosa e la vita ,come dicevo, è un costruirsi attraverso i rapporti ,le relazioni umane, conoscenze, Non esiste forse un fine, ma la consapevolezza che qualcosa dentro di noi ha senso e cerca un senso, la trovaimo quindi nell'immanenza, negli attimi dopo attimi, nel tempo che scorre, in un amore che si trasforma e trasforma noi stessi, in delusioni, ma anche "vittorie".Non c'è un bilancio, non c'è un fine, perchè la fine è nota ,ma temporalmente è una sorpresa...e poi chissà?

0xdeadbeef

Citazione di: viator il 06 Giugno 2019, 21:41:43 PM
Salve Ox. Cinicamente, come mio solito, preferisco dare la mia approvazione alla mancanza di un fine.
Mi sembra tu sottintenda che - in epoche passate - l'operare umano fosse finalistico mentre oggi non lo sia più.


Ciao Viator
No. non mi riferisco tanto a questioni, per così dire, finalistico-escatologiche quanto a questioni
molto più concrete e terra-terra, come ad esempio quelle cui accennavo (l'economia che da scienza dei
mezzi diviene "decisore politico" sui fini; i soldi - che fino a prova contaria sono un mezzo - che
nella finanza divengono fine - tant'è che ormai la massa monetaria circolante ammonta a decine di
volte il PIL mondiale), cui se ne possono aggiungere tante altre, come la mancata programmazione
di farsi una famiglia, acquistare una casa, mettere al mondo dei bambini.
Manca una qualsiasi progettualità forse perchè, in fondo, è un senso ed uno scopo questa volta
finalisticamente inteso che manca (lo scopo, il "senso" della vita, insomma). Ma, sia chiaro, questo
non si risolve nella solita ed ormai stucchevole diatriba fra, chiamiamoli, fisici e metafisici, bensì
si riversa in maniera drammatica nella realtà di tutti i giorni (mi viene in mente anche l'esempio di
una politica - beninteso di tutti i partiti - che abbandona ogni programmaticità e vive ormai di "tweet"
e di messaggi che hanno la loro unica ragion d'essere nell'immediatezza del "qui ed ora")
saluti

0xdeadbeef

Ciao Paul
Mi chiedo se questo non sia lo sbocco "necessario", il "destino dell'occidente" che è ormai destino di
tutto il mondo, visto che tutto il mondo è occidente.
Se così fosse, starei guardingo prima di parlare di "cretinismo", come se la situazione attuale
riguardasse in fondo solo una parte (appunto quella dei cretini).
Alla fin fine se la nostra vita è come quella degli animali perchè non godersela finchè si è in
tempo e se se ne hanno le possibilità (dice, in punto di morte, il nichilista Bazarov - "Padri e Figli"
alla donna amata: "vivete, questo è importante, e approfittatene finchè siete in tempo".
E allora: non sono forse più cretini quelli che, pur potendo, non "vivono e non approfittano della vita"?
Non ne era forse, di questo, consapevole anche Leopardi laddove sembrava rattristarsi di avere uno
"spirito" incline allo studio e non alla "vita"?
saluti

davintro

l'assunzione di un fine è un tratto essenziale, che contraddistingue l'agire di un essere per definizione razionale, come l'essere umano. Questo è un dato che non può perdersi e ogni ricerca dell'utile la conferma: per definizione, l'utile è sempre tale in relazione a un fine a cui è subordinato, il linguaggio lo dimostra, "utile a...". Dal punto di vista sociologico-culturale anch'io ho spesso la netta impressione di assistere a un ipertrofia dell' "utile", un'esasperazione dell'importanza del pragmatismo e della vita pratica, a scapito di una svalutazione di tutto ciò che è valore in se stesso, da cui trarre piacere disinteressato. D'altra parte però questo fenomeno non inficia l'inevitabilità dell'assunzione del fine come condizione per ogni azione umana possibile. Riflettendo meglio si nota come anche chi appare come focalizzarsi sugli interessi presenti e immediati non stia affatto rigettando in generale un finalismo, bensì persegua un diverso fine, che non consisterà in un valore immateriale, spirituale, come può essere l'amore per la conoscenza, o la salvezza oltremondana, ma nel possesso di beni materiali, di cui abbiamo un'esperienza fisica contingente. Possesso che però non è dal loro punto di vista "utile", ma fine ultimo in base a cui pensare a una strategia d'azione. La retorica dell' "utile" non si può pensare come oblio in senso assoluto del fine, ma più come un lasciare quest'ultimo implicito, non apertamente tematizzato, ma in fondo basta un po' di maieutica perché anche il più utilitarista degli uomini sia portato a riconoscere che tutti i suoi calcoli non avrebbero alcun senso in assenza di un fine ultimo a cui subordinare la rilevanza degli "utili" passaggi intermedi dell'azione. Il fine, proprio perché condizione essenziale dell'agire razionale, è prima di tutto una forma, il cui quid, il cui contenuto determinato può riempire in modo diverso sulla base delle differenti sensibilità soggettive degli individui, ed è un errore di prospettiva pensare che ci siano persone che hanno perso la coscienza del fine, solo perché perseguono fini diversi da quelli che perseguiremmo noi, proprio perché non esiste un determinato fine necessariamente implicato nell'idea di finalità intesa come categoria formale indeterminata. I vari Boldrin, o Forchielli o altri opinionisti che in tv  e non solo, raccomandano ai giovani di non iscriversi a facoltà per il puro piacere di studiare, come le umanistiche, ma a quelle più utili per trovare in fretta lavoro, non solo "utilitaristi" che hanno perso il senso del fine, semplicemente muovono da fini o valori di tipo materialistico (il successo economico come primario parametro di valutazione della realizzazione personale) a differenza di chi considera la formazione dello spirito come fine in relazione a cui trovare utile, per l'appunto, un certo corso di laurea "umanistico". Chi si iscrive a filosofia per un desiderio di formazione spirituale, non è affatto meno utilitarista di chi si iscrive a ingegneria sperando di trovare al più presto un lavoro ben remunerato, entrambi perseguono un fine a cui attribuiscono diverse determinazioni. Non trovo dunque un vero e proprio conflitto tra "utilitarismo" e "teleologismo", che invece si richiamano fra loro necessariamente, ma fra diverse scale di valori (come ad esempio materialismo vs spiritualismo) con cui ciascuno di noi riempie la categoria, di per sé, indeterminata, generica e formale di "fine", che resta per tutti il comune riferimento ultimo che contraddistingue ogni razionalità. Non a caso, entrando un attimo in un piano più teoretico, tutti i vari immanentismi, pur fermando la visione del reale al complesso degli contingenti di cui abbiamo un'esperienza mondana, devono giocoforza attribuire a tale complesso un carattere di "fine" o "senso ultimo", non meno di come il trascendentista attribuisce questi caratteri all'idea di una realtà extramondana: cambia il substrato a cui applicare la categoria di "fine", ma non il riconoscimento della necessità di tale categoria, ragion per cui, senza generalizzazioni forzate, ha senso considerare ogni immanentismo come secolarizzazione di categorie che non vengono mai cancellate, ma solo trasferite dal riferimento a una realtà trascendente, come il Dio del teismo, a realtà immanenti, poste come "assoluti", "motori della storia", "valori sommi" ecc, siano essi la "materia", la "razza", "lo stato etico", "la classe", "la logica dialettica immanente al processo storico nel suo complesso", l' "atto puro dello spirito" ecc.

viator

Salve Ox. Okey. Dovendo restringere l'argomento, secondo me la fine della cultura è paradossalmente generata dall'esplosione della cultura.
Cioè la cultura nel suo insieme - essendosi dilatata e ramificata fuor di misura - non risulta più organizzabile e gestibile da parte di singoli o piccoli nuclei. E' questo che provoca la perdita della sua visione d'insieme e del suo senso-fine.
Gli eclettici, gli autodidatti ma in definitiva anche i genialoidi oggi non hanno più spazio.
Tutti devono essere specialisti di qualcosa ma nessuno è in grado di stabilire cosa uscirà dalla confluenza di questi qualcosa. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

0xdeadbeef

Ciao Davintro
Devo francamente dire di non condividere il tuo punto di vista.
Sicuramente il titolo che ho scelto per questa discussione non è azzeccatissimo, ma credevo fosse chiaro
che non era mio intento affermare l'oblio del, chiamiamolo, "retto fine"...
Dicevo infatti che uno dei tratti più peculiari della contemporaneità è l'indistizione fra il mezzo e il fine.
Riprendendo gli esempi che facevo, alla luce delle tue annotazioni mi sembra di rilevare che, ad esempio
nel caso della proliferazione incontrollata di massa monetaria, il fine (i soldi) coincide con il mezzo (sempre
i soldi). Cioè i soldi servono a fare altri soldi, come diceva Weber...
Cosa c'entra l'utile? Mi sembra chiaro che la finanza globale ritiene che il proprio utile sia fare soldi per
poi poterne fare altri; ma proprio per questo a parer mio si può parlare di indistinzione fra mezzo e fine,
non credi?
Come si fa a non vedere che nella contemporaneità è assente non "una certa" progettualità (ad esempio
quella "retta"...), ma la progettualità stessa?
Ad esempio nel caso di coloro che decidono di non metter su famiglia o/e di non fare figli (o, per meglio
dire, che decidono di vivere la vita giorno per giorno). Certamente ritengono sia questo il loro utile, ma è
forse questa "progettualità"?
Magari si dirà: beh, anche questa è una forma di progettualità, perchè costoro, bene o male, sono persuasi
di star perseguendo il proprio utile. Certo, chi lo mette in dubbio, ma la progettualità è un'altra cosa, perchè
si situa necessariamente nel futuro laddove questo utile si situa nell'immediato.
Alla fin fine anche un criminale può avere un progetto, un fine, quindi non è di questo che si tratta...
saluti

Jacopus

Mi riconosco nel discorso che fa Ox e provo a declinarlo, a interpretarlo, per scovare altri possibili significati. La fine della progettualita' è equiparabile alla fine della vita. Questo vivere in un fasullo eterno presente serve a demonizzare il pensiero della morte e a farci "consumare" il più possibile. Paradossalmente questa dinamica, questa cultura dominante, produce l'esatto effetto contrario, perché dal ripudio della morte, dal nostro senso di immortalità discende la inutilità di procreare figli. E dal declino demografico discende il declino dei consumi, proprio ciò che si combatteva.
Ogni progetto in effetti è un unico progetto: lasciare un mondo migliore alle generazioni successive, sia che ciò sia visto in modo collettivo o familiare. Ma se si crede di non dover lasciare il mondo, non dobbiamo neppure migliorarlo. Insomma solo attraverso l'accettazione della nostra finitezza possiamo pensare di progettare e si progetta solo se si dona la propria vita alle generazioni successive.
Non sono esattamente le considerazioni di Weber, ma forse possiamo trovare un legame con esse e volevo condividerle con voi.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

paul11

#9
Non è chiaro l'argomento, per cui se non si comprende la logica è difficile avere un esercizio critico.
"Presentificare" non è irrazionale o illogico, è una scelta in una storia  in cui domina ,come nel forum, fisicalismo, materialismo e naturalismo.
Significa non rimandare al doman e vivere l'attimo, perchè la morta è il "nulla",  fine di tutto. Domani essendo già oltre il presente,
potrebbe già essere la fine.
La precarietà esistenziale impone la presentifcazione del fare quì e ora.
Se è questo che si vuol dire, non hanno importanza le definizioni di mezzo o fine, e nemmeno di debiti o crediti, perchè rimandano ancora al domani.

Il problema ,ribadisco se questo è il fulcro della discussione, è che manca il senso, il nesso fra ieri, oggi e domani,Per cui è implicita la rottura temporale e la discontinuità.
Ma è la cultura che lo impone, è il sistema politico ed economico coerente alla cultura.nessuno è in grado di sapere cosa avverrà fra 5 anni.
essendo tumultuoso il futuro, allora il rischio lo si presentifica vivendo assolutamente l'oggi, per non perderlo già domani.
Quindi l'occasione dell'attimo fuggente è da cogliere al volo.Il rimpianto è lasciare le occasioni per strada.

Non c'è il senso dell'immortalità, questo mondo ha  assetti precari e i tempi del cambiamento sono velocissimi, questo non permette la pianifcazione. Siamo in tempi di migranti per lavoro di alti livelli come di poveri cristi che mgrano per il mondo in cerca di luoghi più fortunati.
Tutti sono comunque accomunati dallo spostarsi. Creare qualcosa di "solido", una famiglia ,una casa, in un tempo in cui oggi sei in un luogo e domani devi necessariamente per  lavoro spostarti, porta con sè una cultura della dislocazione continua della mobilità fisica e mentale,della'dattamento. continuo.Fare figli è un "impedimento", una condizione, un bagaglio con annessi e connessi.Infatti chi non si muove o sono troppo giovani o troppo veccchi, la via dimezzo l'età del tempo del lavoro che sostiene giovani e vecchi è spinta a scegliere, da condizoni a lei esterne, più che per sua scelta volontaria.Certo alla fine sceglie, ma in base al contesto che gli sta attorno.
La famiglia è precaria, il lavoro è precario, la vita è precaria, i politici sono eternamente precari, l'economia è precaria priva di sicurezze.
Allora o ci si deprime in una eterna incertezza dove più nulla è sicuro, è "rifugio"e tanto vale spendere oggi piuttosto che risparimiare per il domani.
Nelle nuove generazioni è in atto da tempo: non sanno se arriveranno ad una pensione, meglio non pensarci, meglio non pensare più a problemi privi di soluzione nell'oggi.
Quindi la differenza di chi progettava nel passato  era nel fare sacrifici oggi per ottenre un utile domani, la nuova generazione è fortemente condizionata dall'esterno e sceglie di vivere oggi perchè è inutile fare sacrifici. La contraddizone sta nel fatto che i giovani possono permettersolo essendo coperti alle spalle dalla vecchia gnerazione che li auta economicamente, perchè aveva fatto quei sacrifici.
Finiti i risparmi ne vedremo delle belle.
Stiamo bruciando quindi i sacrifici per il risparmio ,stiamo bruciando il futuro.Il rischio è accettare qualunque cosa proporrà il futuro, perchè si è perso il senso che teneva insieme il passato-presente-futuro.

Ipazia

E possibile che non abbiamo un futuro, ma un passato ce l'abbiamo e il confronto con le apocalissi passate ci aiuta a collocare nella sua proporzione quella attuale. Apocalisse serissima fu quella che precipitò la civis greco-romana nella barbarie medioevale che culminò nell'apocalisse più insulsa: mille e non più mille. Ci eravamo appena ripresi quando scoprimmo che non eravamo il centro dell'universo ma un pianeta che gira intorno ad un astro in un sistema solare ai margini dell'universo il quale era rimasto senza centro pure lui. Superata questa apocalisse, ennesima mazzata: tutti i soldi messi nella banca dell'aldilà volatilizzati dalla megatruffa epocale dei banchieri di Dio. Da allora la finanza religiosa si è ripresa ma i suoi funzionari non hanno più il carisma di una volta e i titoli celesti hanno perso gran parte del loro appeal, diversificandosi e personalizzandosi.

Apocalissi serie, alle quali siamo sopravissuti approdando all'hic et nunc. Apocalittico per chi non se lo sa godere. Per quanto devo ammettere che la transizione da Mosè a Freud non è stata proprio una passeggiata e le vittime della psiche non sono certo diminuite rispetto a quelle del peccato.

Il futuro. C'è ancora un luogo in cui ha significato e valore: la cono-scienza. Il futuro prevedibile non è solo il titolo di un libro ma pure quello che ci raccontarono gli ecologisti mezzo secolo fa nei "limiti dello svilupo". Oggi siamo nel bel mezzo dell'apocalisse della crescita infinita. Economica e demografica. Per cui fare pochi figli non è necessariamente sintomo apocalittico ma procreazione responsabile, che è altra cosa. La chiusura dei porti mi pare l'unica risposta razionale a chi non l'ha ancora capito, tenendoli aperti solo a chi se li merita. Perchè la novità, peraltro ampiamente prevedibile, di questa apocalisse è che il futuro non è più garantito da qualche nume o dalle tette possenti di mamma Gea, ma dobbiamo meritarcelo rispettando i suoi limiti. Di ciò ci aveva avvertito anche Anassimandro con la storia del filo da pagare. E non è proprio cosa di ieri: lo sappiamo da sempre ed oggi siamo nel pieno della restituzione del debito. Sui limiti dello sviluppo e la caduta degli dei, incluso quello pernicioso e pervadente della crescita infinita, si può fare della buona filosofia e costruire della buona etica adeguata alle questioni che la nostra apocalisse ci pone.

Sulla demografia direi che Malthus si prende una bella rivincita su Marx, ma il filosofo Marx ci consola affermando che l'umanità si pone solo i problemi che è in grado di risolvere e che quando si presentano la levatrice è già pronta fuori dalla porta. In un modo o nell'altro è sempre andata così. Vediamo se funziona anche stavolta. Il futuro è anche avventura, non solo programma. E la fine della storia può essere nient'altro che la fine di una brutta storia.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

0xdeadbeef

Citazione di: paul11 il 08 Giugno 2019, 02:11:40 AM
Non è chiaro l'argomento, per cui se non si comprende la logica è difficile avere un esercizio critico.
"Presentificare" non è irrazionale o illogico, è una scelta in una storia  in cui domina ,come nel forum, fisicalismo, materialismo e naturalismo.
Significa non rimandare al doman e vivere l'attimo, perchè la morta è il "nulla",  fine di tutto. Domani essendo già oltre il presente,
potrebbe già essere la fine.
La precarietà esistenziale impone la presentifcazione del fare quì e ora.
Se è questo che si vuol dire, non hanno importanza le definizioni di mezzo o fine, e nemmeno di debiti o crediti, perchè rimandano ancora al domani.



A Paul e Jacopus
In realtà lo scopo che mi ero prefisso presentando questo argomento era proprio quello di mostrare come
venendo meno la finalità, diciamo, escatologica ogni altra finalità segua necessariamente il medesimo
destino.
Perchè, come ben dice l'amico Jacopus, "ogni progetto è un unico progetto". E se alla vita manca il
"senso ultimo" allora non ha senso né l'intenzione di lasciare un mondo migliore alle nuove generazioni
né l'impegno per una, chiamiamola, "ricompensa futura" (qualsiasi cosa questo voglia dire).
Credo del resto che se non si fanno figli non è perchè si abbia un senso di immortalità, ma perchè i
figli costano e sono un impegno, e gli individui egotici contemporanei vogliono spendere per se stessi,
e non vogliono intralci.
Tutto ciò non rimane materia di studi sociologici o di riflessione filosofico/religiosa sui "massimi
sistemi". Tutto ciò ha una ricaduta reale, concreta, che vediamo tutti i giorni e che condiziona
pesantemente le nostre vite (pensiamo solo, come dicevo, alle ricadute politiche ed economiche).
Ed è per questi aspetti immanenti che le definizioni di "mezzo" e "scopo" hanno grande importanza.
Perchè la contemporaneità mostra chiaramente di aver obliato, con il "fine ultimo", qualsiasi parvenza
di progettualità futura.
E del resto (e su questo punto ritengo sia palese ciò che intendo), nello "spontaneismo" hayekiano,
che è l'autentico fondamento filosofico su cui poggia tutta la cultura attuale, lo scopo non ha
nessun senso, visto che la realtà si viene formando, appunto, spontaneamente (Von Hayek chiama, con
evidente intento derisorio, "costruttivisti" coloro che credono necessario darsi una progettualità
economico/politica).
saluti

baylham

Ritengo che l'eliminazione dei fini ultimi, degli ideali, delle utopie, riveli al contrario che l'uomo moderno ha un maggiore, acuto senso del fine, del progetto esistenziale rispetto al passato. L'angoscia dei filosofi esistenzialistici  è un esempio in tal senso.

Non fare figli è normalmente  la prospettiva consapevole di chi ha un progetto individuale e collettivo: la specie umana è infestante.

Non comprendo la sopravvalutazione di Von Hayek, i cui punti teorici essenziali sono sviluppi di nuclei già anticipati da altri esponenti della scuola austriaca. Scuola austriaca che è totalmente superata da Keynes in poi, un rifugio di fanatici ideologi del "libero mercato" refrattari ad ogni evidenza empirica.
Immagino Von Hayek che "spontaneamente" progetta la sua vita per non darsi un progetto economico politico, divertente.

0xdeadbeef

A Baylam
Stai dando, dell'uomo moderno, un giudizio qualitativo che è tutto da dimostrare.
Quanto al non fare figli, beh, sai bene che puoi parlare di scelta individuale ma non certo
collettiva, a meno che con quello tu voglia dire che l'occidente sceglie deliberatamente di
non fare figli perchè gli altri ne fanno troppi...
Quanto a Von Hayek non credo di sopravvalutarlo. Ti dirò anzi che per me è, dopo Nietzsche,
il pensatore più rappresentativo della modernità.
Non credo che altri prima di lui abbiano pensato con eguale rigore e coerenza le intime relazioni
che intercorrono fra economia e società. Non credo che altri prima di lui abbiano teorizzato
con una simile chiarezza lo svilupparsi "spontaneo" delle istituzioni collettive e di ogni altra
cosa (che è il punto che su questo discorso maggiormente mi interessa).
Von Hayek, come certo saprai, dice semplicemente che non occorre nessuna progettazione, quindi
che non occorre porsi nessuno scopo, visto che le cose si sistemano spontaneamente per il meglio.
Occorre quindi, continua, che ognuno persegua il proprio utile immediato, senza essere o sentirsi
"legato" da qualsivoglia idea, progetto o istituzione collettiva.
A me sembra proprio che chi lo ritiene superato non veda come le dinamiche economiche e sociali
(e direi persino antropologiche...) ne ricalchino alla perfezione le impronte.
saluti

paul11

#14
Ciao Mauro(Oxdeadbeaf)
ha delle buone ragioni anche Baylham.
Von Hayek crede ad uno spontaneismo economico,senza che il suo pensiero sia ancorato a nessuna filosofia.Lo spontaneismo dovrebbe essere collocato come naturalismo filosoficamente.
Ma l'uomo contemporaneo, è più cultura che natura.
Se non fa figli, va contro natura.Se accumula, va contro natura. Un leone non uccide un intero branco di gazzelle e poi le mette in banca.
Von Hayek è rappresentante di una ideologia dei poteri forti, che non ha nessi e senso, dal punto di vista filosofico e culturale.Non è "forte" come posizione culturale ,è forte per i poteri forti, quindi, privi di una cultura.

Trovo che sia la sottrazione della filosofia ad un suo dovere , una delle colpe, se colpa si può dire,
di essersi posta in subordine di fatto e come scelta alla scienza, dall'empirismo ad oggi.
Per quanto i massimi filosofi e pensatori del Novecento abbiano o abiurato o criticato fortemente il capitalismo, sostenuto dal lascia fare al mercato da Von Hayek,nessuno ha trovato un antidoto, compreso Marx.
Perché tutti non hanno costruito una filosofia capace di sostenere "il mondo della vita" e il "senso della vita".Non è l'anti mercato, l'anti-capitalismo ,non sarà l'ennesimo ambientalismo sventolato dai media(se fosse davvero contro il sistema attuale i media non lo promuoverebbero, e questo fa pensare....) a far cambiare la direzione di marcia dell'attuale cultura globale nella sua essenza.

E' chiaro che ogni individuo, ogni persona, collocata in questo sistema, accettato o meno, vi ritaglia i suoi spazi di vivibilità, che spesso significa adattarsi.Ognuno nonostante tutto vi cerca i suoi significati, vive insomma.
Tutti i pensatori e filosofi, hanno saputo anche brillantemente descrivere le nefaste ricadute esistenziali sull'uomo, ma ribadisco saper analizzare un sistema non significa averne trovato un'alternativa teoretica e soprattutto pratica, per poterne uscire in un mondo più vivibile.
Dopo diversi secoli di scientismo, tecnicismo, invenzioni e scoperte, anche ammaliati dall'enorme
luna park del capitalismo, temo che non siamo più abituati a pensare diversamente da questo sistema, siamo condizionati fino al midollo per trovarne alternative fattibili,ammesso che sia fattibile per via pacifica, perché questo potere finto democratico e finto libero, non lascia veri spazi e tempi di alternatività, Quindi ,abbiamo capito molto della parte distruttiva del pensiero moderno, ma non siamo in grado di costruirne uno seriamente alternativo, piegati al relativismo postmoderno. Che significa poi una cultura prostrata di fatto ad osservare il cinico mondo del "fotti l'altrui prima che ti fotta lui" che non è spontanesimo, perchè costruito sulla diffidenza, piuttosto che sulla fiducia, sull'ostilità e la sopraffazione, piuttosto che sulla compagnia sincera e amicizia.. Temo  che il risultato dell'adattabbilità ci stia insegnando a non più vivere
spontaneamente: questo è il paradosso sull'altro  spontaneismo di Von Hayek che non è affatto  spontaneità del gesto umano.
Non siamo macchine, siamo umani che piangono di gioia e di dolore.Dovremmo recuperare il gesto della vita.

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