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L'Io e l'Altro

Aperto da 0xdeadbeef, 11 Marzo 2019, 20:43:56 PM

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sgiombo

Per caso qualcuno qui si é mai "corrucciato"?

Io no di certo.

Ho già risposto nell ' interveto #71 (in particolare nel periodo finale).

Ipazia

Basta non confondere ontologia con gnoseologia e il "pensato" si risolve da sè. L'idealismo ciulla sul manico della gnoseologia spacciandola per ontologia.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

0xdeadbeef

Citazione di: Ipazia il 26 Marzo 2019, 18:30:56 PM
Basta non confondere ontologia con gnoseologia e il "pensato" si risolve da sè. L'idealismo ciulla sul manico della gnoseologia spacciandola per ontologia.

Ciao Ipazia
Sarebbe interessante sapere come fa il pensato a risolversi da sé...
(Levinas non fa certo dell'ontologia, ma è ben consapevole della difficoltà di "uscire" dal recinto posto dall'Idealismo)
saluti

Ipazia

Il pensato si risolve da sè avendo chiara la differenza tra i piani logici degli enti (ta onta) e della loro conoscenza (gnosi/episteme). Il cavallo esiste a prescindere dalla sua concettualizzazione e anche se non giungiamo, e neppure ci serve giungere, alla sua noumenica cavallinità, abbiamo tutti gli strumenti per conoscerlo nella sua fenomenica realtà che è la sommatoria di tutto quello che sappiamo di lui. E se ci mettiamo anche un briciolo di empatia, visto che anche il cavallo è un essere senziente, arriveremo pure a scoprire il cavallo per sè, oltre ad un più sfumato e opinabile cavallo in sè, che volentieri lascio ai metafisici. Anche F.Nietzsche, presso il limite della sua follia, scoprì il cavallo per sè, e questa "ecce cavallinità" lo sconvolse a tal punto da abbandonare per sempre la condizione umana, troppo ferocemente umana.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

paul11

#79
Citazione di: 0xdeadbeef il 24 Marzo 2019, 10:14:19 AM
Ciao Paul
A me sembra che l'Essere di Levinas abbia molto in comune con quello di Platone...
Dice infatti questo nel "Sofista": "cosa c'è di comune fra le cose corporee e quelle
incorpoee, posto che di entrambe si dice che sono?".
Ecco, allo stesso modo a me sembra che Levinas "dichiari" l'Essere non legato a
nessuna "esistenza", ed evidentemente eterno soprattutto nel pensare l'eterno nei termini
dell'"y'a".
Sicuramente l'Essere di Levinas, in quanto "multiplo e scisso in Medesimo e Altro", non
è l'Essere monolitico di Parmenide, ma questo può forse voler dire che l'Essere levinasiano
è un Essere che coincide con l'esistenza? Io non credo (credo invece, con Levinas, che proprio
questa, diciamo, "monolicità" dell'Essere parmenideo costituisca il fondamento di quella
"ontologia dell'io" da cui è partito tutto questo discorso - chiaramente non che Parmenide
abbia soggettivato l'Essere in un Io, ci mancherebbe).
Perciò non sarei così sbrigativo nel dichiarare la totale estraneità di Parmenide alla
modernità proprio nel senso, cui accennavo, indicatoci da Levinas (il quale dice: "la
concezione eleatica dell'Essere domina la filosofia di Platone, nella quale la
molteplicità è subordinata all'Uno...a partire da Platone l'ideale verrà sempre cercato
nella fusione").
Non è forse così nel Neoplatonismo, nel Cristianesimo o nell'Idealismo? Ma perfino nel
nichilismo odierno, direi, non è forse rinvenibile una traccia di quella antica monoliticità
(chiaramente "tradita", disillusa)?
saluti
ciao Mauro(Oxdeadbeef),
francamente non trovo similitudini fra l'Essere di Platone e quello di Levinas(il y a che tanto per chiarire signifca"c'è".
La fenomenologia di Levinas semmai trovo sia simile nella scrittura a quella di Heidegger,pur trattando su argomentazioni diversi.
C'è sempre una lievità, uno sfumato che sta fra fisicità e "Essere",ma stanno entrambi attenti di non superare il limite per arrivare
alla metafisica antica,quindi non è appunto simile a Platone.Perchè Husserl ha fatto sua le filosofie precedenti empirismo-criticismo kantiano-idealismo e ci teneva a cercare di trovare una sintesi fra psicologismo(soggettività) e diciamo realtà fisica.
Una caratteristica per chi legge i libri della fenomenologia è il linguaggio che è difficile a volte, ma ha spunti interessanti.

L'Essere per Levinas è tripartito :il y a, e l'ipostatico evento della separazione e dell'incontro.La fenomenologia tende ad un "movimento", la caratteristica di chi legge testi dell'antica Grecia è una staticità, una fissità. I greci dovevano istituire una filosofia, quindi si trattava di sancire i termini e di collocarli  in un piano argomentativo. La fenomenologia si muove fra gli essenti e l'Essere.
Levinas quando costituisce il y a (ed il "c'è" è diverso dall'" è", nel c'è vi è esistenza nell'è vi è una fissità, una immobilità) lo intende come anonimo, impersonale Lo intende come quando si dice "piove", "fa caldo".Il y a viene descritto come rifiuto ad assumere una forma personale , quindi come "essere in generale".E' una presenza assenza e scrive Levinas "come una pienezza del vuoto o come il mormorio del silenzio".

Questa caratteristica di un linguaggio "poetante" ha senso nel momento in cui l'esistenza si muove fra due limiti imperscrutabili ,l'impossibilità di svelare i segreti della vita fisica e dall'altra quella dell'Essere.Per questo Heidegger dirà ad esempio che non trovava più le parole, per poi cercarle nell'arte.
Levinas ad esempio scrive: "Si dice di Dio che nessun nome può nominarlo. Ciò vale per me: nessun concetto mi esprime,niente di quanto mi viene indicato come mia essenza mi esaurisce; solo nomi"
La parola non esaurisce il pensiero ,così come l'Essere (l' il y a di Levians) sfugge o con il termine heideggeriano preso dall'antica grecia, aletheia, disvelamento, ciò che è velato , nascosto e che a volte ci viene dato per poi di nuovo velarsi.Questo darsi e ritrarsi dell'Essere in Levinas potrebbe essere ,per certi versi, separazione e l'incontro con l'Altrui

paul11

FRA SOGGETTO E OGGETTO 
giustamente è entrata nella discussione la problematica della"realtà".Perchè l'esistenza è in rapporto alla realtà ,in quanto condizione fisica e del processo gnoseologico(conoscenza)
Bisogna partire da Kant per capire come Hegel svolgerà poi nella dialettica (importante anche per il marxismo per capire il materialismo storico e il materialismo dialettico) e quindi nella fenomenologia  di Husserl, il rapporto fra"mondo di fatto" e quindi eventi naturali nel dominio del sensibile  e"mondo delle idee" dove l'uomo procede alla sintesi mente/cervello/coscienza.
Penso che solo seguendo una strada metodologica già eseguita da Kant (ma originato dal limite della soggettività umana  a capire il mondo di fatto e l'indimostrabilità della causazione, rapporto meccanicistico causa/effetto, posta dall'empirismo di Hume) sia possibile criticamente entrare nel processo dell'analitica e della sintesi attraverso il rapporto coscienza/trascendenza della deduzione.
I termini coscienza e trascendenza sono il passaggio del come Kant, Hegel e Husserl ritengono appunto svolgere e finalizzare e persino  a giustificare ad esempio l'etica/morale(Kant arriverà alla "Critica del giudizio" dopo quelle della ragion pura e pratica.
Sono interessantissimi  e con sviluppi contraddittori tant'è che  il percorso filosofico poi ha cercato anche nella logica e nella filosofia del linguaggio la possibilità di una teoria della conoscenza

Ritornando a Levinas, se  quindi Levinas pone l'Etica al centro della filosofia ,bisogna capire come si "sostanzia" un'etica ontologicamente.
Se l'etica fosse "interpretazione", ognuno(ogni Altrui) si sentirebbe  libero dai vincoli ontologici a sviluppare una propria morale e quindi comportamento e sarebbe giustificato proprio dal fatto che non c'è una"verità" etica.

0xdeadbeef

Citazione di: Ipazia il 27 Marzo 2019, 00:57:14 AM
Il pensato si risolve da sè avendo chiara la differenza tra i piani logici degli enti (ta onta) e della loro conoscenza (gnosi/episteme). Il cavallo esiste a prescindere dalla sua concettualizzazione e anche se non giungiamo, e neppure ci serve giungere, alla sua noumenica cavallinità, abbiamo tutti gli strumenti per conoscerlo nella sua fenomenica realtà che è la sommatoria di tutto quello che sappiamo di lui. E se ci mettiamo anche un briciolo di empatia, visto che anche il cavallo è un essere senziente, arriveremo pure a scoprire il cavallo per sè, oltre ad un più sfumato e opinabile cavallo in sè, che volentieri lascio ai metafisici. Anche F.Nietzsche, presso il limite della sua follia, scoprì il cavallo per sè, e questa "ecce cavallinità" lo sconvolse a tal punto da abbandonare per sempre la condizione umana, troppo ferocemente umana.

Ciao Ipazia
Che dire? A parte la "numenica cavallinità", che a parer mio denota una malcomprensione del
concetto kantiano di "noumeno" (semmai la "cavallinità" è relazionata alla "sostanza" aristotelica),
posso dire senz'altro di condividere.
In particolare, condivido quello che è il punto dirimente: la cosa (animale) che in italiano chiamiamo
"cavallo" esiste a prescindere dalla sua concettualizzazione.
Su cosa stiamo polemizzando, allora? Forse sul fatto che l'"in sé", o "per sé" dal punto di vista del
cavallo, non è conoscibile -o è conoscibile- dal particolare punto di vista del "per noi"
(cioè perchè si sta sostenendo, contro una conoscenza che può essere solo soggettiva, la possibilità
di una conoscenza oggettiva)?
saluti

0xdeadbeef

Su "fra soggetto e oggetto" (Paul11)
A parer mio è necessario distinguere fra "esistenza" e "conoscenza" dell'oggetto.
L'esistenza significa lo "stare saldamente fuori", e va intesa, da parte dell'oggetto, come il suo
stare saldamente fuori dal soggetto interpretante (cioè l'essere "cosa in sé").
La conoscenza, nel suo significato generale, è invece l'avere, da parte del soggetto, una qualche
informazione circa l'oggetto.
Queste informazioni sull'oggetto, durante la storia del pensiero, sono ricavate in due modi
fondamentali. Il primo, quello della "conoscenza oggettiva", è ben esplicato da Platone: ("ciò
che assolutamente è, è assolutamente conoscibile") in un principio nel quale è evidente quell'
analogia fra "essenza" e "conoscenza" che porterà, prima, S.Agostino a formulare nella conoscenza
la sintesi di conoscente e conosciuto, poi l'Idealismo a decretare l'identità di reale e razionale.
Il secondo modo fondamentale non ha questa evidentissima radice metafisica, e nasce con Cartesio,
per il quale la distinzione fra "reale" e "pensato" non rende più possibile l'identificazione
platonica ed agostiniana (né, chiaramente, quella che di fatto è la creazione idealistica dell'
oggetto da parte del soggetto).
Personalmente, tendo ad escudere del tutto il primo modo, quello per cui la conoscenza è
immediatamente oggettiva, e a privilegiare il secondo  modo, quello di una conoscenza soggettiva,
cioè fenomenica (una conoscenza meno "impregnata" di metafisica ma che non rinuncia ad una sua
"oggettività").
saluti

davintro

intanto premetto che non vorrei rischiare di finire a far brutta pubblicità alla fenomenologia, che è molto più ricca delle modalità in cui penso di averla compresa e in cui cerco di esprimerne i contenuti. Del resto, come per ogni cosa, non mi considero un esperto o uno specialista, ma cerco di trarne degli stimoli per riformularli in un modo mio personale, che può anche divergere dall'ispirazione originaria...

Per Sgiombo

La passività nell'apprensione dei dati fenomenici motiva l'ulteriorità del reale rispetto al pensiero, nel senso che se l'apprensione dei dati è passiva allora la causa, agente e attiva che produce l'evento della sensazione deve essere "altra" rispetto all'Io che li riceve, quindi posta in un mondo di cose oggettive, il che non vuol dire che ogni fenomeno sensibile necessariamente sia corrisposto a un fatto reale (realismo ingenuo), ma che esiste pur sempre un'oggettività X, indeterminata, responsabile del darsi in noi dell'apprensione di tali fenomeni, non necessariamente esistente con le proprietà che a noi si manifestano, ma comunque causa del loro prodursi. Il fatto che l'assenza di arbitrarietà sia constatabile anche nell'accadere di fenomeni psichici, come il ricordo, pensieri ossessivi non contravviene questo principio per il motivo che l' "ulteriorità" o "oggettività" non si riduce necessariamente alla cose fisiche del mondo esterno, ma può indicare anche una realtà psichica, interiore all'Io ma distinta da esso, da cui scaturiscono determinati contenuti, che l'Io non crea a partire da sé, riceve da qualcosa che deriva dal suo interno. Va cioè distinto l'Io inteso come puro soggetto libero e responsabile di propri atti coscienti, e l'individualità psichica su cui l'Io cosciente e volontario ha un potere di controllo solo parziale (da questa dicotomia discendono tutti i conflitti interiori, le indecisioni, il trovare anche in noi stessi delle resistenze mentali ai nostri propositi) e che si pone come realtà oggettiva, anche se interiore, che interagisce con l'Io suggerendo pensieri non completamente voluti o posti arbitrariamente da esso, alla stessa stregua dell'oggettività delle cose fisiche, esterne, che interagiscono dall'esterno col nostro corpo. Questa oggettività interiore in fondo credo sia quello che la psicanalisi ha tematizzato come "inconscio", in contrapposizione con l'Ego conscio, ma penso che anche utilizzando categorie diverse da quelle della psicanalisi per concettualizzarle, se la psicanalisi non convince, questa dimensione sia comunque sempre riconoscibile.

Per quanto riguarda Cartesio preciso che personalmente approvo il metodo della radicalizzazione del dubbio, indipendentemente dal giudizio sulla validità delle effettive applicazioni cartesiane, su cui si possono condividere delle perplessità


Per Oxdeadbeef

non trovo un nesso logico necessitante tra l'ammissione di una componente di pregiudizi e condizionamenti soggettivi nella visione del mondo e il rassegnarsi all'impossibilità di una conoscenza oggettiva, al di là delle interpretazioni. Il tentativo fenomenologico di evidenziazione delle essenze non pretende di essere tuttologia, ma di portare alla luce un livello di conoscenze certe e oggettive che sia fondamento di tutti gli altri livelli, corrispondenti alla molteplicità delle scienze particolari, e sui quali il sapere delle essenze si fa da parte per lasciare il posto a delle metodologie, di tipo empirico, in cui la provvisorietà, l'incertezza sono da sempre accettati come componente ineliminabile nei loro risultati. Questo livello fondamentale, trascendentale, non esaurisce tutta la realtà in sé, quindi la sua parzialità è coerente con la parzialità del margine entro cui possiamo svincolarci dai condizionamenti che ci vincolano alla nostra contingenza soggettiva, senza dunque  che sia in conflitto o contraddizione con il riconoscimento di tali condizionamenti. Parzialità non vuol dire falsità, ma solo delimitazione dell'ambito di ricerca, sui cui però, fintanto che si resta al suo interno, si può legittimare la verità oggettiva di alcuni discorsi. Del resto, la stessa riflessione sui condizionamenti, sulla relatività delle interpretazioni, testimonia quel margine di distacco del pensiero rispetto ad essi, la possibilità di tematizzarli, oggettivarli, quindi di potersene, almeno in parte affrancare per poter fare su di essi le considerazioni che ora, anche in questa discussione, tutti stiamo facendo. Se fossimo del tutto immersi nella relatività delle interpretazioni non saremmo nemmeno in grado di accorgercene, non avremmo a disposizione quel margine di distanza che ci consente di svolgere una considerazione oggettiva su di essa, anche quando la si riconosce come presente. Insomma, come si dice... "il riconoscere la propria malattia è il primo sintomo di guarigione"

sgiombo

Per Davintro
 
Concordo con la distinzione fra parzialità (o limitatezza) della conoscibilità del reale oggettivo e pretesa (relativistica insuperabile) soggettività integrale delle conoscenze possibili che opponi ad Oxdeadbeef.
 
Invece resto scettico circa la passività del dato fenomenico (esterno - materiale), su cui predica il pensiero, come garanzia del suo riferirsi o corrispondere a qualcosa di  extrafenomenico soggettivo ovvero oggettivo, in sé (che a mio parere, con Hume, non può razionalmente provarsi ma può solo essere fideisticamente creduto ad arbitrio del soggetto: contro il relativismo soggettivistico è ben possibile, ma comunque non necessario, non certo).
 
Infatti a proposito del fatto che l'assenza di arbitrarietà sia constatabile anche nell' accadere di fenomeni psichici, come il ricordo o pensieri ossessivi, non trovo sensato pensare a "una realtà psichica, interiore all' Io ma distinta da esso [sarebbe pur sempre una parte di "io oggetivo", nulla di oggettivo], da cui scaturiscono determinati contenuti, che l'Io non crea a partire da sé, riceve da qualcosa che deriva dal suo interno [qualcosa di derivante dall' interno dell' io ma diverso dall' io stesso, ovvero non parte di sé ma altro da se stesso, mi sembra un' evidente pseudoconcetto autocontraddittorio, assurdo, senza senso]"
Dal fatto poi che l'individualità psichica su cui l'Io cosciente e volontario ha un potere di controllo solo parziale di se stessa (ovvero conosce pulsioni e aspirazioni anche in ceti casi reciprocamente contraddittorie, incompatibili non può in nessun modo logicamente conseguire che non si tratti comunque di io-soggetto di sensazioni fenomeniche e di conoscenza di queste e nulla di oggettivo (si tratta comunque di realtà in parte autoconflittuale, ma comunque sempre soggettiva, interna al, costituente il soggetto dell' esperienza fenomenica cosciente; né  che lo stesso possa dirsi delle sensazioni materiali – esteriori; non ne consegue necessariamente (ma solo possibilmente; non certamente ma solo ipoteticamnte) una qualsiasi relazione delle sensazioni fenomeniche coscienti stesse con alcunché di extrafenomenico - extrasoggettivo, di in sé - oggettivo.
 
Peraltro anche soltanto il fatto che si diano le sensazioni fenomeniche (materiali – esteriori o mentali – interiori che siano) passivamente "recepite" e non "prodotte ad ibitum" considerato di per se stesso non è "garanzia" (non ne consegue la necessità logica) dell' esistenza di qualcosa di diverso da esse (né come soggetto di esse né come oggetti da esse distinti e ad esse "ulteriori" nella realtà: non è infatti autocontraddittoria l' ipotesi che la realtà stessa (in toto) sia limitata alle sensazioni fenomeniche stesse e nient' altro (anche se non susseguenti rispetto ad altre sensazioni interiori -che peraltro sarebbero a loro volta indesiderate,  a meno di cadere in un irrazionale regresso all' infinito-  di "desiderio che accadano" ).

Ipazia

#85
La garanzia dell'"oggettività" del fenomenico è data intersoggettivamente nel momento in cui l'Io e l'Altro diventano Noi. Il che può non piacere ha chi ha il culto dell'individualismo, ma sta alla base di una fenomenica ben collaudata e sperimentata gnosi e trascendenza ontologica. Ovvero scienza e realtà sub specie humana. Intesa quest'ultima nel senso del Tatsachenraum (spazio delle cose di fatto) postulato da Wittgenstein a cui possiamo ridurre il concetto di oggettività. Consapevoli che l'applicazione reale di quel concetto è contestuale, evolutiva e non dogmatica. Ma garantita dalla sua effettualità qui ed ora. Incontrovertibile fino a prova contraria.
.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

sgiombo

Dissento (anche) da Ipazia.

Lungi da me il culto dell' individualismo, ovviamente, ma il fatto é che non c' é alcuna garanzia razionale che la realtà non sia limitata ai soli eventi fenomenici di coscienza immediatamente percepiti in quanto tali.

Il che non implica affatto che si debba abbracciare il solipsismo o qualsiasi forma di culto dell' individualismo, ma semplicemente ci dà (oltre alla possibilità di accettare in ultima analisi fideisticamente l' esistenza dell' oggettivo -e pure sociale- altro dal sé - soggettivo) anche la razionale consapevolezza dei limiti delle nostre conoscenze.

0xdeadbeef

Ciao Davintro
No, non è questione di rassegnarsi all'impossibilità di una conoscenza oggettiva, ma di
rendersi consapevoli che tale oggettività non riposa, diciamo, sull'"in sé" della cosa.
Bisogna, in altre parole, "partire" da Cartesio e dalla sua tesi per cui l'idea è il solo
oggetto immediato della conoscenza (vedi anche la mia risposta a Paul su : "fra soggetto
e oggetto").
Il tentativo fenomenologico non pretenderà di essere "tuttologia", ma pretende (e per me
la cosa è arbitraria) appunto di evindenziare l'essenza, di: "portare alla luce un livello
di conoscenze certe e oggettive", il ché è in contraddizione con il "giusto" fondamento
cartesiano per cui l'unica cosa di cui posso avere certezza è il "cogito".
Quindi, diciamo così, la "strada" per arrivare a capire il "dove" risiede l'oggettività
della conoscenza (e non abbandonarci al più disperato relativismo) non comincia da Aristotele
e dalla sua "essenza", ma comincia appunto da Cartesio (per proseguire con Hume, con Kant).
saluti

Ipazia

Citazione di: sgiombo il 28 Marzo 2019, 09:16:04 AM
Dissento (anche) da Ipazia.

Lungi da me il culto dell' individualismo, ovviamente, ma il fatto é che non c' é alcuna garanzia razionale che la realtà non sia limitata ai soli eventi fenomenici di coscienza immediatamente percepiti in quanto tali.

Il che non implica affatto che si debba abbracciare il solipsismo o qualsiasi forma di culto dell' individualismo, ma semplicemente ci dà (oltre alla possibilità di accettare in ultima analisi fideisticamente l' esistenza dell' oggettivo -e pure sociale- altro dal sé - soggettivo) anche la razionale consapevolezza dei limiti delle nostre conoscenze.

Non era riferito a te il culto dell'individualismo. Semmai dovreste interrogarvi, voi che ci credete, sul culto della cosa in se', altrettanto indimostrabile di Dio, che ha introdotto surrettiziamente il "mistero della fede" nell'atto conoscitivo, nella gnosi. Un conto è dire che la conoscenza è imperfetta e l'induzione implica anche una atto di fede sulla sua riproducibilità ed un conto è postulare un Dio/noumeno corrispettivo della gnosi perfetta, ma irraggiungibile. Scherzi da "metafisica a parte".
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0xdeadbeef

Citazione di: Ipazia il 28 Marzo 2019, 13:55:33 PM
Non era riferito a te il culto dell'individualismo. Semmai dovreste interrogarvi, voi che ci credete, sul culto della cosa in se', altrettanto indimostrabile di Dio, che ha introdotto surrettiziamente il "mistero della fede" nell'atto conoscitivo, nella gnosi. Un conto è dire che la conoscenza è imperfetta e l'induzione implica anche una atto di fede sulla sua riproducibilità ed un conto è postulare un Dio/noumeno corrispettivo della gnosi perfetta, ma irraggiungibile. Scherzi da "metafisica a parte".


Ciao Ipazia
Scusa ma come dicevo in una precedente risposta (che forse ti è sfuggita) mi sembri aver
malcompreso il concetto kantiano di "cosa in sé".
La "cosa in sé" è qualunque cosa non interpretata, quindi è null'altro che un mero oggetto.
Dal punto di vista di Kant, fra l'altro, Dio non avendo realtà (cioè non avendo nessuna estensione
spazio-temporale) è per forza di cose un'idea, e quindi necessariamente non è "cosa in sé".
saluti