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L'Io e l'Altro

Aperto da 0xdeadbeef, 11 Marzo 2019, 20:43:56 PM

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0xdeadbeef

A mio modo di vedere la filosofia ebraica, e in particolare quella di E.Levinas, è l'unica "risposta"
credibile al dilagante nichilismo del periodo post nietzschiano.
L'"accusa" di Levinas all'intera filosofia occidentale così come venuta a costituirsi è precisa:
l'intero "sguardo sul mondo" della filosofia occidentale è null'altro che una "ontologia dell'io".
L'"io", ovvero, ha nel suo percorso di emersione fagogitato ogni cosa. La "sintesi" idealistica, che
vede nell'"io" il proprio termine finale, è secondo Levinas cominciata già con Parmenide, verso il
quale c'è stato un "parricidio" soltanto apparente, visto che con Platone il molteplice è, sì, affermato,
ma in maniera subordinata all'uno.
Scrive Levinas: "a partire da Platone, l'ideale verrà sempre cercato nella fusione".
La radice filosofica con cui Levinas intende opporsi all'intero pensiero occidentale è esplicata nel
concetto di "altro". Ma cosa intende Levinas con "altro"?
L'"altro" è tutto ciò che è irriducibilmente "altro-dall'io", e che all'"io" non è riducibile.
L'"altro" sono "gli altri" e qualunque oggetto; l'"altro" è lo stesso "io" come sarà nel tempo ("altro"
è soprattutto il tempo, dice Levinas).
L'"io", in questo "universo-altro", è solo una briciola, non il signore indiscusso come nello "sguardo"
occidentale...
saluti

paul11

ciao Mauro(Oxdeadbeaf).
Levinas l'ho letto a suo tempo  a pezzettini e bocconi e trovo, come spesso nei  bravi filosofi che a fianco di una intuizione di verità vi sia sempre una contraddizione..
Sul nichilismo........dipende da quale pulpito culturale ci si ponga.Per Nietzsche è la tradizione, per i materialisti e naturalisti la metafisica,
per gli empiristi positivisti l'idealismo. Per Levinas?
Levinas è influito da Heidegger e dall'incontro con un saggio talmudista oltre che dalla sua biografia,dalla sua esistenza storica.

Ritenere che l'essere abbia poco senso ,come in fondo l'invenzione del dasein ,dell'esser-ci heideggeriano come risposta al non senso dell'essere, bensì come esistenza, mi pare intravvedere la stessa posizione di Levinas.
Lo trovo contraddittorio, perchè l'esistenza non è una verità in sè e per sè (è semmai la manifestazione dell'Essere) non è affatto vero che l'Essere parmenideo abbia costituito il soggetto a cui l'universo vi si riconduce, negando l'alterità, contrapponendo poi storicamente 
l'Io dall'Altrui .Il sintomo indicato da Levinas è esatto, ma non la causa ,ma proprio perchè ogni  Io è una storia per certi versi incomunicabile e irriducibile e ogni Altrui è un Io.Il sintomo che giustamente Levinas ci informa è ridurre l'Altrui al "nostro" pensiero, appiattirlo per fagocitarlo, ma se l'Altrui ,che ribadisco è un altro Io diverso dal Me stesso, compie la stessa fagocitazione, noi smettiamo di comunicare la nostra esistenza alla prossimità storica e al prossimo umano dell'Altrui, per farci infine guerra o cmunque incomunicabilità.
Non penso affatto che l'Essere sia l'ontologia dell'Io , ma l'esigenza di una verità ancora più alta dell'esistenza dell'IO .Semmai abbiamo obnulato, dimenticato, l'Essere per appiattirci sull' Io e finire nell'Ego Abbiamo smesso di essere persone ,per diventare nell'ultimo secolo solo corpo, bios e questo è soprattutto chiaro a Levinas che fu deportato dal nazismo.
L'irriducibilità è impossibile nell'Io e nella singola esistenza di ogni Altrui .Se ogni Io si confondesse perdendo il proprio Io nell'Altrui , diventeremmo Nessuno .Forse è una strada di risoluzione, ma forse anche di serio nichilismo autodistruttivo

Lou

"Io non esisto come un essere spirituale, come un sorriso o un vento che soffia, non sono libero di responsabilità. Il mio essere si carica di un avere...la materialità non esprime la caduta contingente dello spirito nella tomba o nella prigione di un corpo. Essa accompagna – necessariamente – la nascita del soggetto, nella sua libertà di esistente. Comprendere così il corpo a partire dalla materialità – evento concreto della relazione fra Io e Sé – significa ricondurlo a un evento ontologico. Le relazioni ontologiche non sono legami disincarnati. La relazione tra Io e Sé non è un'inoffensiva riflessione del pensiero su di sé. E' tutta la materialità dell'uomo."
Questo passo, che amo assai, a mio parere è emblematico dell'operazione di rovesciamento dell'idealismo che in Levinas ritengo si compia in una opera soggettivazione del soggetto e proprio come accennava Ox nell'incipit del suo intervento, una risposta, se non l'unica, dove in ogni caso si possono rintracciare tracce di filosofie "occidentali" quali la fenomenologia di Merleau Ponty, al dilagare nichilista. La declinazione che Levinas persegue trovo anch'io risponda a una esigenza prima etica che teoretica: il tema dell'altro, della responsabilità, dell'ascolto, del tempo, dell' "altrimenti che essere" sono ascrivibili al recupero di una dimensione che è posizione antinichilistica.
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

davintro

il riconoscimento dell'Altro in quanto "Altro" è reso possibile sempre sulla base dell'Io, cioè sulla base di un raffronto di distanza tra il mio Io e l'Alter Ego, ed è questo margine di distanza che ci consente di non riconoscere la nostra soggettività come l'unica possibile. Trovo inevitabile che ogni punto di vista sul mondo sia sempre incentrato sull'Io, sul soggetto pensante che elabora il punto di vista, utilizzando i propri parametri di giudizio teorico e di valore, se così non fosse l'Io non sarebbe tale, assorbirebbe in modo del tutto passivo e acritico gli stimoli del mondo esterno, senza alcuna traccia di intenzionalità, che presuppone sempre un orientamento dell'Io intenzionante sulla base di strutture e categorie interiori, a partire da cui aprirsi al riconoscimento di un mondo trascendente, altro, e entro cui comprendere anche la presenza di altri soggetti. Il problema di quando questa centralità dell'Io assume ripercussioni morali, credo dipenda dallo stabilire se dobbiamo intendere l'Io nell'accezione trascendentale, l'Io inteso come semplice punto originario degli atti di esperienza del mondo, e l'Io inteso come Io empirico, la mia persona particolare, con la sua individualità ed anche con i suoi limiti e mancanze. I due piani non coincidono in toto, l'arroganza del soggetto che pone la sua esistenza come l'unica degna di valore e importanza e vede l'alterità come un ostacolo da superare per i suoi fini soggettivi riguarda l'Io nella seconda accezione, il mio Io individuale. Nella sua prima accezione, l'Io come soggetto riflettente, l'lo ha la possibilità di esprimersi a livello autocritico, riconoscendo l'imperfezione dell'Io individuale, i suoi limiti, i suoi torti, e conseguentemente anche la positività della relazione con l'Altro, la sua autonomia da rispettare ecc. Penso sia stato un errore dell'idealismo immanentista far coincidere i due livelli dell'Io, passando dall'Io come punto di partenza metodologico della filosofia, l'indubitabilità della coscienza come fondamento razionale della conoscenza della realtà, all'Io che assolutizza se stesso come esistenza negando ogni alterità, ogni ulteriorità del mondo rispetto a se stesso. Ma non è affatto detto che quest'ultimo fosse l'unico esito teoretico possibile  a partire dall'Io come premessa metodologico, come ad esempio è inteso da Cartesio (il fatto che storicamente sia stato così non esclude percorsi alternativi a livello teoretico, dato che un conto è la valutazione teoretica un altra quella storico-filosofica), Resta sempre valido quel filone ad esempio di tipo agostiniano (che nel complesso si può accettare anche a prescindere dall'adesione confessionale, a livello laico-filosofico), che pur partendo dalla certezza dell'Io pensante e vivente, riconosce anche come questo Io viva sempre in connessione con qualcosa che trascende i limiti dell'esistenza individuale in cui questo Io si realizza, un'alterità, sia nel senso "orizzontale" interumano, sia nel senso verticale della Trascendenza divina, connessioni che si rivelano nei conflitti interiori (pensiamo alle Confessioni) di un'esistenza mai del tutto padrona di se stessa, e quindi impossibilitata a risolvere nella sua immanenza assolutizzata i problemi che la attraversano, e conseguentemente necessitata a riconoscere l' "Altro", riconoscimento che però non ha implicato l'abbandono del piano di ricerca dell'Io, dell'interiorità, della coscienza soggettiva, bensì proprio il suo coerente approfondimento

paul11

#4
Citazione di: davintro il 12 Marzo 2019, 20:21:59 PM....
Penso sia stato un errore dell'idealismo immanentista far coincidere i due livelli dell'Io, passando dall'Io come punto di partenza metodologico della filosofia, l'indubitabilità della coscienza come fondamento razionale della conoscenza della realtà, all'Io che assolutizza se stesso come esistenza negando ogni alterità, ogni ulteriorità del mondo rispetto a se stesso. Ma non è affatto detto che quest'ultimo fosse l'unico esito teoretico possibile  a partire dall'Io come premessa metodologico, come ad esempio è inteso da Cartesio (il fatto che storicamente sia stato così non esclude percorsi alternativi a livello teoretico, dato che un conto è la valutazione teoretica un altra quella storico-filosofica),
....
sono abbastanza d'accordo sull'argomentazione generale del post.
Specificherei qualche passaggio dell'idealismo che a mio parere, ma sono in buona compagnia di insigni filosfi, è stato profondamente travisato soprattutto dagli empiristi-positivisti e dai materialisti-naturalisti. Il marxismo-egelismo  è pieno di contradizioni sull'idealismo, per fare un esempio.
Hegel è definito idealista, a mio parere è una definizione contrabbandata proprio da coloro che ne furono suo detrattore.
Hegel instaura ,per dirla succintamente, un metodo gnoseologico,La conoscenza degli oggetti della realtà viene portata in deduzione nella coscienza, luogo centrale nel movimento dialettico del metodo conoscitivo. Quando un oggetto reale diventa pensiero e infine sapere signifca che l'oggetto reale "trascende" la materialità per porsi come oggetto appunto del sapere .il movimento opposto del sapere che entra nelle prassi è immanentistico.
Questo processo manca totalmente in Levinas. Non esiste una prassi per cui l'Io depaupera se stesso per essere assorbito dall'Altrui, sarebbe un annichilimento del proprio essere per gonfiare quello dell'Altrui .e poi chi sarebbe l'Altrui? E' ugualmente ben disposto anch'esso ad accettare a sua volta l'Altrui?Storicamente chi si è dato all'Altrui è finito male proprio grazie agli Altrui.
Manca il parametro per cui la Persona(volutamente maiuscolo) con ogni singola storia, sapere , cultura, esperienza, possa proporsi vesro l'Altrui su un livello superiore e nessuna etica può essere condvisa se al di sopra non c'è una stessa Giustizia condivisa. La Persona deve accettare il proprio limite affinchè l'incontro con l'Altrui non sia solo confronto ma assimilazione, assorbimento, disposizione anche della propria anima a perdersi pur di accettare l'Altrui.Ma qualunque Giustizia, spirtuale o filosfica che sia, ha nella sua premessa il giusto e lo sbagliato, il bene e il male.Senza la categoria di Giustizia la teoretica etica in questo caso  non ha fondamento e la pratica non può che fallire, perchè troverà l'abbietto, il furbetto, l'avido,pronto ad annichilirlo,ad asservirlo.
Levinas è importante come pensatore fuori dal coro( scrisse un bellissimo testo sul nazismo e Hitler nel 1936,se non ricordo male) ed è all'opposto di Nietzsche , ma la posizione di Nietzsche ha più fondamento, perchè nega l'etica e accetta il naturalismo,esattamente il contrario di Levinas.L'errore di quest'ultimo è di stare in sospensione fra trascendenza e immanenza, non è sull'Essere e non ha forza pratica.Trovo semmai più importante nel suo pensiero la denuncia dell'ipocrisia umana nella modernità.
Perchè se una cultura come quella nazista ha potutto assurgere a potenza signifca che il germe della contraddizione è dentro la cultura occidentale.Ma sbaglia l'analisi teoretica della storia filosofica, lo stesso errore anche se diverso è in Heidegger, seppure sia un gran filosofo con notevoli intuizioni. Focalizzare la Persona e credere di trovarvi una verità nella relazione fra Io e altrui ,significa perdersi nella contraddizione della natura umana stessa,capace di grandi gesti umani e solidali quanto di altrettanti abomini e stermini.

Ipazia

L'Io è il settemiliardesimo di sette miliardi di Altri. La solitudine dei numeri primi naufraga nella complessità dei grandi numeri. Cosa su cui certamente Nietzsche, a differenza dei metafisici, disse qualcosa. Così come, più fecondamente, Marx.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Sariputra

Se riuscissimo a vedere l'io  non come una monade, un' entità unitaria, indivisa, ma come un 'processo' perennemente in mutazione, cangiante come le nuvole nel cielo e di fronte a questo "io" cangiante l'altro , anche lui come processo cangiante , in trasformazione perenne, non ci sarebbe un annichilimento, ma bensì una profonda consapevolezza dell'interdipendenza reciproca. Allora si potrebbe forse vedere l'io e l'altro come fenomeni che si alimentano a vicenda. Io sono anche un pò dell'altro, nel senso che me ne nutro, lo assorbo, ne vengo educato e viceversa l'altro è anche un pò di me, nel senso che lo nutro, mi assorbe e lo educo...
Ragionare non più in termini di '"entità" ma di "processi" che si attivano sempre in relazione l'uno con l'altro e non autoesistenti, non dotati di sostanza inerente, ma che hanno la loro consistenza nella reciprocità della connessione, oltre a togliere gran parte del 'fantasma' che accompagna la sensazione dell'Io, ossia l'ego, il senso del "mio", solleva anche da un gran peso. Il peso cioè di spendere un sacco di energie per 'sostenere' questa monade illusoria e difenderla dall' altro, anche lui preda del suo fantasma...
Rompere la relazione dell'io con il mio , lungi dal significare annichilimento, perché la consapevolezza di sè è là, ben presente, ma libera dall'attaccamento al "mio" io, esalta il carattere 'puro' di questa coscienza che è allora vera coscienza dei processi di interdipendenza in atto in ogni momento del nostro esistere.  :)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Lou

#7
Citazione di: davintro il 12 Marzo 2019, 20:21:59 PM
il riconoscimento dell'Altro in quanto "Altro" è reso possibile sempre sulla base dell'Io, cioè sulla base di un raffronto di distanza tra il mio Io e l'Alter Ego, ed è questo margine di distanza che ci consente di non riconoscere la nostra soggettività come l'unica possibile. Trovo inevitabile che ogni punto di vista sul mondo sia sempre incentrato sull'Io, sul soggetto pensante che elabora il punto di vista, utilizzando i propri parametri di giudizio teorico e di valore, se così non fosse l'Io non sarebbe tale, assorbirebbe in modo del tutto passivo e acritico gli stimoli del mondo esterno, senza alcuna traccia di intenzionalità, che presuppone sempre un orientamento dell'Io intenzionante sulla base di strutture e categorie interiori, a partire da cui aprirsi al riconoscimento di un mondo trascendente, altro, e entro cui comprendere anche la presenza di altri soggetti. Il problema di quando questa centralità dell'Io assume ripercussioni morali, credo dipenda dallo stabilire se dobbiamo intendere l'Io nell'accezione trascendentale, l'Io inteso come semplice punto originario degli atti di esperienza del mondo, e l'Io inteso come Io empirico, la mia persona particolare, con la sua individualità ed anche con i suoi limiti e mancanze. I due piani non coincidono in toto, l'arroganza del soggetto che pone la sua esistenza come l'unica degna di valore e importanza e vede l'alterità come un ostacolo da superare per i suoi fini soggettivi riguarda l'Io nella seconda accezione, il mio Io individuale. Nella sua prima accezione, l'Io come soggetto riflettente, l'lo ha la possibilità di esprimersi a livello autocritico, riconoscendo l'imperfezione dell'Io individuale, i suoi limiti, i suoi torti, e conseguentemente anche la positività della relazione con l'Altro, la sua autonomia da rispettare ecc. Penso sia stato un errore dell'idealismo immanentista far coincidere i due livelli dell'Io, passando dall'Io come punto di partenza metodologico della filosofia, l'indubitabilità della coscienza come fondamento razionale della conoscenza della realtà, all'Io che assolutizza se stesso come esistenza negando ogni alterità, ogni ulteriorità del mondo rispetto a se stesso. Ma non è affatto detto che quest'ultimo fosse l'unico esito teoretico possibile  a partire dall'Io come premessa metodologico, come ad esempio è inteso da Cartesio (il fatto che storicamente sia stato così non esclude percorsi alternativi a livello teoretico, dato che un conto è la valutazione teoretica un altra quella storico-filosofica), Resta sempre valido quel filone ad esempio di tipo agostiniano (che nel complesso si può accettare anche a prescindere dall'adesione confessionale, a livello laico-filosofico), che pur partendo dalla certezza dell'Io pensante e vivente, riconosce anche come questo Io viva sempre in connessione con qualcosa che trascende i limiti dell'esistenza individuale in cui questo Io si realizza, un'alterità, sia nel senso "orizzontale" interumano, sia nel senso verticale della Trascendenza divina, connessioni che si rivelano nei conflitti interiori (pensiamo alle Confessioni) di un'esistenza mai del tutto padrona di se stessa, e quindi impossibilitata a risolvere nella sua immanenza assolutizzata i problemi che la attraversano, e conseguentemente necessitata a riconoscere l' "Altro", riconoscimento che però non ha implicato l'abbandono del piano di ricerca dell'Io, dell'interiorità, della coscienza soggettiva, bensì proprio il suo coerente approfondimento
Il fatto è che la prospettiva aperta da Levinas, è, per come l'ho capita, mi riconosco "Io" in forza della chiamata dell' Altro, in questo senso ne sono "ostaggio", è grazie all'Altro che mi trovo "Me"( al completo oggetto ): è così che ho l'occasione di riconoscermi libero verso chi mi chiama a responsabilità, poichè è il sentirsi responsabili l'apertura alla libertà propria dell'Io, che lo fa emergere.
A mio parere, ribalta un tantino le dinamiche di riconoscimento, le sconquassa un po', come dicevo, l" "Io" sorge perchè chiamato a rispondere all'Altro.
Poi certamente sono in accordo con te sul punto che è un approfondimento della soggettività.
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

Ipazia

Citazione di: Sariputra il 13 Marzo 2019, 08:44:40 AM
Se riuscissimo a vedere l'io  non come una monade, un' entità unitaria, indivisa, ma come un 'processo' perennemente in mutazione, cangiante come le nuvole nel cielo e di fronte a questo "io" cangiante l'altro , anche lui come processo cangiante , in trasformazione perenne, non ci sarebbe un annichilimento, ma bensì una profonda consapevolezza dell'interdipendenza reciproca. Allora si potrebbe forse vedere l'io e l'altro come fenomeni che si alimentano a vicenda. Io sono anche un pò dell'altro, nel senso che me ne nutro, lo assorbo, ne vengo educato e viceversa l'altro è anche un pò di me, nel senso che lo nutro, mi assorbe e lo educo...
Ragionare non più in termini di '"entità" ma di "processi" che si attivano sempre in relazione l'uno con l'altro e non autoesistenti, non dotati di sostanza inerente, ma che hanno la loro consistenza nella reciprocità della connessione, oltre a togliere gran parte del 'fantasma' che accompagna la sensazione dell'Io, ossia l'ego, il senso del "mio", solleva anche da un gran peso. Il peso cioè di spendere un sacco di energie per 'sostenere' questa monade illusoria e difenderla dall' altro, anche lui preda del suo fantasma...
Rompere la relazione dell'io con il mio , lungi dal significare annichilimento, perché la consapevolezza di sè è là, ben presente, ma libera dall'attaccamento al "mio" io, esalta il carattere 'puro' di questa coscienza che è allora vera coscienza dei processi di interdipendenza in atto in ogni momento del nostro esistere.  :)

La metafisica occidentale è rimasta ferma ad un ego-centrismo neonatale che al massimo riconosce l'Altro come il neonato riconosce la tetta della mamma. E da lì non si schioda, rispecchiandosi come Narciso in un Altro che sono sempre Io. Mentre nella realtà non esiste l'Altro, ma gli altri, che sono già miriadi all'interno della specie, cosa che il neonato scopre assai presto (dietro la tetta c'è la mamma, accanto alla mamma il papà, ...). E diventano miriadi di miriadi se contiamo le altre speci. E miriadi all'infinito contando i fenomeni che in un incessante divenire combinano tra loro le "monadi" della filosofia occidentale entrando fisicamente e metafisicamente fin dentro il loro sancta sanctorum: l'Io.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Lou

#9
Citazione di: Sariputra il 13 Marzo 2019, 08:44:40 AM
Se riuscissimo a vedere l'io  non come una monade, un' entità unitaria, indivisa, ma come un 'processo' perennemente in mutazione, cangiante come le nuvole nel cielo e di fronte a questo "io" cangiante l'altro , anche lui come processo cangiante , in trasformazione perenne, non ci sarebbe un annichilimento, ma bensì una profonda consapevolezza dell'interdipendenza reciproca. Allora si potrebbe forse vedere l'io e l'altro come fenomeni che si alimentano a vicenda. Io sono anche un pò dell'altro, nel senso che me ne nutro, lo assorbo, ne vengo educato e viceversa l'altro è anche un pò di me, nel senso che lo nutro, mi assorbe e lo educo...
Ragionare non più in termini di '"entità" ma di "processi" che si attivano sempre in relazione l'uno con l'altro e non autoesistenti, non dotati di sostanza inerente, ma che hanno la loro consistenza nella reciprocità della connessione, oltre a togliere gran parte del 'fantasma' che accompagna la sensazione dell'Io, ossia l'ego, il senso del "mio", solleva anche da un gran peso. Il peso cioè di spendere un sacco di energie per 'sostenere' questa monade illusoria e difenderla dall' altro, anche lui preda del suo fantasma...
Rompere la relazione dell'io con il mio , lungi dal significare annichilimento, perché la consapevolezza di sè è là, ben presente, ma libera dall'attaccamento al "mio" io, esalta il carattere 'puro' di questa coscienza che è allora vera coscienza dei processi di interdipendenza in atto in ogni momento del nostro esistere.  :)
Pur nel perenne mutare, una permanenza resta: la permanenza del mutare. Vedere il soggetto non come entità o sostanza, cosa che per altro, con tutti i limiti totalizzanti della filosofia occidentale, ritengo sia una prospettiva non a lei estranea, in molti casi - comunque pur in questa continua trasformazione una continuità tra quel che ero, è e sarò la vagheggiamo un po' tutti. O mi sbaglio? Non vi accompagna un senso di permanenza che attraversa i mutamenti? Una sorta di identità, ok un fantasma, una illusione con cui fare i conti, ma che resta irripetibile nelle sue trasformazioni?
La stessa prospettiva di "interdipendenza" non presuppone un "tra", ta me e te?
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

Ipazia

Citazione di: paul11 il 12 Marzo 2019, 13:08:36 PM
Sul nichilismo........dipende da quale pulpito culturale ci si ponga.Per Nietzsche è la tradizione, per i materialisti e naturalisti la metafisica, per gli empiristi positivisti l'idealismo. Per Levinas?
Levinas è influito da Heidegger e dall'incontro con un saggio talmudista oltre che dalla sua biografia,dalla sua esistenza storica...
...Se ogni Io si confondesse perdendo il proprio Io nell'Altrui , diventeremmo Nessuno .Forse è una strada di risoluzione, ma forse anche di serio nichilismo autodistruttivo

Il nichilismo è uno, nessuno, centomila. In filosofia lo si dovrebbe usare sempre con l'asterisco accanto e chiave di significato incorporata. E' una categoria affetta da bias congenito. Come il suo compare cinismo che spesso lo accompagna.

Nella Critica della ragion cinica, Peter Sloterdijk distingue tra Kynismus, critica sociale dal p.d.v. dei dominati (Diogene cinico), e Zynismus, assenza di scrupoli, ovvero nichilismo, dei dominanti. Tale distinzione sfugge del tutto  all'analisi intrisa di bias classista di Nietzsche (morale di schiavi e signori)

Si tratta di categorie sociali inaccessibili alla filosofia idealistica dei numeri primi, che finisce col considerare essenziale quello che è soltanto epigenetico.

pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Jacopus

Accanto all'opposizione io-altro, nella tradizione occidentale vi è da Hegel in poi, anche la ricomposizione intersoggettiva dell'io, che può esistere solo attraverso il confronto e la reciproca crescita:
"L'autocoscienza è in e per sé, in quanto e perché essa è in e per sé per un'altra autocoscienza. Ossia essa è soltanto come un qualcosa di riconosciuto".( Hegel, Fenomenologia dello spirito). Ridurre tutta la tradizione occidentale ad un super-ego tecnicizzante ed oggettivante è inesatto.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

davintro

Citazione di: Ipazia il 13 Marzo 2019, 08:24:17 AML'Io è il settemiliardesimo di sette miliardi di Altri. La solitudine dei numeri primi naufraga nella complessità dei grandi numeri. Cosa su cui certamente Nietzsche, a differenza dei metafisici, disse qualcosa. Così come, più fecondamente, Marx.

dal punto di vista, quantitativo, certamente l'Io è solo un settemiliardesimo di altri Io, senza particolari tratti che lo contraddistinguono e lo valorizzano. ma da quello qualitativo, quello più legato alla concretezza, all'essere oggetto della nostra esperienza vissuta, le cose stanno molto diversamente. Su questo piano, il nostro Io non è solo uno dei tanti, ma possiede i criteri in base a cui alcune persone, i nostri cari, i nostri conoscenti acquisiscono un'importanza per la nostra vita ben superiore al resto dei sette miliardi. Un accadimento che colpisce, nel bene o nel male, uno di loro, ha per noi un peso insostituibile rispetto allo stesso accadimento riguardante una massa di estranei. E da ciò discende la possibilità di fare scelte, scegliere vuol dire selezionare, ogni momento passato con la nostra famiglia, con i nostri amici, è un momento che in tutta coscienza togliamo alla compagnia di qualunque altra persona. Senza tale differenziazione di valori, operata sulla base della sensibilità soggettiva del nostro Io, nessuna scelta sarebbe possibile, sulla base di una visione omologatoria, livellatrice, quantitativa, in cui ogni individuo è solo un' unità indifferenziata, il nostro impegno quotidiano nel coltivare relazioni umane smarrirebbe ogni senso, non avrebbe più coscienza di una meta verso cui rivolgersi, ogni scelta cadrebbe nell'indifferenza, perché il bene di ciascuna persona varrebbe come quella di chiunque altro, nessuna valutazione di priorità possibile. Ogni relazione cadrebbe nella superficialità del tentativo di espandersi a più persone possibili, seguendo un criterio meramente quantitativo, perdendo di vista la profondità, che invece presuppone il soffermarsi sull'ascolto di un singolo "tu", lasciando sullo sfondo tutti gli altri. Perché perdere minuti, ore ad ascoltare un amico, quando oltre lui ce si sarebbero miliardi di altre persone, di fronte a cui lui è solo uno dei tanti? Solo riferendoci a noi stessi, al mio Io, che recupero il senso di soffermarmi sulla relazione con il mio amico nella sua singolarità: lui non è uno dei tanti, lui è il MIO amico, merita dal MIO punto di vista un tempo, un'attenzione DECIDO di non dare agli altri. Quindi direi, questa soggettività, così demonizzata, superata, direi di tenercela stretta: solo partendo da essa preserviamo il senso delle differenze di valore, e conseguentemente del senso delle nostre scelte. L'appiattimento omologatorio del giudizio di valore fra tutti gli esseri umani non può che condurre alla stasi, cioè all'in-differenza delle scelte, cioè dell'agire vitale.

Ipazia

Citazione di: davintro il 16 Marzo 2019, 00:56:56 AM
dal punto di vista, quantitativo, certamente l'Io è solo un settemiliardesimo di altri Io, senza particolari tratti che lo contraddistinguono e lo valorizzano. ma da quello qualitativo, quello più legato alla concretezza, all'essere oggetto della nostra esperienza vissuta, le cose stanno molto diversamente...

La mia critica al dipolo Io-Altro è sul piano qualitativo, in quanto rappresentazione falsata della realtà antropologica. La relazione corretta è Io-Altri, perchè le relazioni umane sono di tipo plurale e anche se non possono abbracciare l'universo mondo già nel microcosmo esistenziale di ognuno di noi la relazione è uno-molti, con varie sfumature e priorità, non uno-due. L'errore di questa concezione è metafisico oltre che fisico.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
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0xdeadbeef

Citazione di: paul11 il 12 Marzo 2019, 13:08:36 PM
ciao Mauro(Oxdeadbeaf).
Levinas l'ho letto a suo tempo  a pezzettini e bocconi e trovo, come spesso nei  bravi filosofi che a fianco di una intuizione di verità vi sia sempre una contraddizione..

A Paul (e a tutti quelli che leggono, ovviamente)
Non dico che Levinas sia LA risposta definitiva a Nietzsche: dico che in un mondo nel quale Nietzsche
domina pressochè incontrastato (e aggiungerei non compreso nella sua abissale profondità - vedi
quanti non capiscono che "tutto è lecito" (se "Dio è morto"), quello di Levinas è perlomeno un
abbozzo "serio" di risposta...
Concordo senz'altro quando affermi che in Levinas "manca il parametro" (in fondo cos'è che "dirime"
nell'incontro dell'"io" con l'"altro"?); ma il parametro, ritengo, non può essere trovato finchè l'"io"
pensa di ridurre a se stesso tutto l'universo (mi piace a tal proposito citare un tipo che una volta
sentii in un bar esclamare: "il giorno che muoio io finisce il mondo").
Non siamo forse, noi occidentali, addirittura arrivati a pensare che nulla esiste al di fuori del
soggetto pensante? Da dove pensiamo scaturisca una frase come quella che prima riportavo (quella
del tipo del bar, che sapeva si e no leggere e scrivere)?
Ecco, a parer mio il grande pregio di Levinas è di riportare la discussione all'evidenza (e
l'evidenza è, ad esempio, il pensare che esista un oggetto senza un soggetto che lo pensa).
Quanto all'"Essere" della tradizione filosofica occidentale, io credo che Levinas non abbia poi
tutti i torti quando lo vede un pò alla radice di questa "ontologia dell'io" che è diventata
lo "sguardo occidentale sul mondo".
Come disse Aristotele, l'"Essere" si dice in molti modi "ma uno solo è il suo significato primario
e fondamentale". E questo può solo e soltanto significare una "reductio ad unum", lo sappiamo (come
del resto sappiamo anche che senza questa "riduzione" viene a mancare il parametro...).
Quindi, ecco, la filosofia di Levinas non come "risposta" (quando mai poi la filosofia ha "risposto"...),
ma come domanda "ulteriore" che rimette in discussione, semmai, le presunte risposte di "altri"...
saluti