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L'Io e l'Altro

Aperto da 0xdeadbeef, 11 Marzo 2019, 20:43:56 PM

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paul11

Citazione di: 0xdeadbeef il 16 Marzo 2019, 23:56:58 PM
A Paul (e a tutti quelli che leggono, ovviamente)
Non dico che Levinas sia LA risposta definitiva a Nietzsche: dico che in un mondo nel quale Nietzsche
domina pressochè incontrastato (e aggiungerei non compreso nella sua abissale profondità - vedi
quanti non capiscono che "tutto è lecito" (se "Dio è morto"), quello di Levinas è perlomeno un
abbozzo "serio" di risposta...
Concordo senz'altro quando affermi che in Levinas "manca il parametro" (in fondo cos'è che "dirime"
nell'incontro dell'"io" con l'"altro"?); ma il parametro, ritengo, non può essere trovato finchè l'"io"
pensa di ridurre a se stesso tutto l'universo (mi piace a tal proposito citare un tipo che una volta
sentii in un bar esclamare: "il giorno che muoio io finisce il mondo").
Non siamo forse, noi occidentali, addirittura arrivati a pensare che nulla esiste al di fuori del
soggetto pensante? Da dove pensiamo scaturisca una frase come quella che prima riportavo (quella
del tipo del bar, che sapeva si e no leggere e scrivere)?
Ecco, a parer mio il grande pregio di Levinas è di riportare la discussione all'evidenza (e
l'evidenza è, ad esempio, il pensare che esista un oggetto senza un soggetto che lo pensa).
Quanto all'"Essere" della tradizione filosofica occidentale, io credo che Levinas non abbia poi
tutti i torti quando lo vede un pò alla radice di questa "ontologia dell'io" che è diventata
lo "sguardo occidentale sul mondo".
Come disse Aristotele, l'"Essere" si dice in molti modi "ma uno solo è il suo significato primario
e fondamentale". E questo può solo e soltanto significare una "reductio ad unum", lo sappiamo (come
del resto sappiamo anche che senza questa "riduzione" viene a mancare il parametro...).
Quindi, ecco, la filosofia di Levinas non come "risposta" (quando mai poi la filosofia ha "risposto"...),
ma come domanda "ulteriore" che rimette in discussione, semmai, le presunte risposte di "altri"...
saluti
ciao Mauro(Oxdeadbeef)
non penso che Nietzsche(altro grande filosfo di grandi intuizioni e forti contraddizioni) domini questo tempo, tutt'altro.
Se si chiedesse ai filo nitzcheani, probabilemnte ti direbbero che il nchilismo permane in attesa del superuomo.

Il parametro infatti è un fondamento accettato e condiviso da io e l'altrui ed è qualcosa che viene prima del sociale e prima del politico: è l'umano. Affinchè decada il mio e il tuo e venga accettato il nostro, come "necessità" e quindi l'incontro o si fonda su un "bene superiore" che non è, ribadisco, una sovrastruttura del socio-politico o la struttura del socio-sconomico, la condivisione deve far decadere il possesso inteso come soverchiamento, come possibilità che l'io o l'altrui annullino l'altro invece di apririsi e accettare umanamente, non solo come simile, come fratellanza, l'altrui.Il fondativo non può essere l'agone politico ed economico, per questo le retoriche delle Costituzioni non hanno migliorato l'uomo, il sociale, il politico, è nell'abisso dell'animo umano che va ricercata la fratellanza originaria.

Fino al nomos la filosfia non accettava che l'uomo potesse oltrepassare il limite di un codice universale senza recare danno a se stesso, alla natura e alle regole universali.E trovo, come dire, risibile( per non dire drammatico e tragio) che oggi ci si muova per l'ambiente, per il pianeta terra, quando da circa duemila anni l'uomo ha cercato potere e denaro, egoismo e lo ha pure benedetto culturalmente nella modernità.
E' il limite ma l'io e l'altrui, fra noi umani e la natura, fra il pianeta Terra e l'intero firmamento che culturalmente è stato disgregato.
Ben venga un Levinas, se ci fa riflettere che se oggi il potere della'artifico tecnico umano può soverchiare le leggi naturali e portarci ad una fase di non ritorno, questo stesso limite fu superato fra l'io e l'altrui, con il possesso, con il potere sui destini altrui.

Aristotele non ha la colpa originaria sull 'Io, ma sul divenire.E' ovvio che il procedimento gnoseologico che nella modernità è diventato con la supremazia scientifica, epistemolologia, ponga un soggetto relazionale conoscitivo, un io pensante. L'errore semmai fu di cadere nella prassi e di pensare che l'esperienza pratica fosse più veritativa delal teoretica.Da quì il passo nella modernità è credere che la verità dimostrativa sia ciò che appare e diviene e l'uomo è divenuto se stesso apparenza e non sostanza.Credere la verità nel divenire e nelle apparenze fu la premessa degli errori e orrori contemporanei.

0xdeadbeef

Ciao Paul
In un passo che ritemgo estremamente interessante Levinas si chiede: "in che modo l'io potrà
restare io in un tu, senza essere tuttavia l'io che io sono nel mio presente, cioè un io che
ritorna fatalmente a sé? In che modo l'io potrà diventare altro nei confronti di se stesso?".
E a ciò risponde: "questo è possibile in un modo soltanto: con la paternità".
Mi chiedo allora: è solo attraverso il vincolo del "sangue" che può essere superata l'
irriducibilità della dicotomia io-altro? E a quali possibili conseguenze politiche può portare
un simile fondamento? Non rischia, questo concetto, di annullare tutte quelle che a me sembrano
le "buone intenzioni" della filosofia di Levinas?
Allo stesso modo, ritengo che se tu affermi il "parametro" come fondamento necessario affinchè
decada il "mio" e il "tuo" (e si affermi il "nostro"); ma escludi che questo possa essere
frutto ("parto") della sfera socio-politica, finisci irrimediabilmente nel medesimo "cul se sac"
in cui si infila Levinas nel momento in cui afferma la paternità come unica maniera in cui
può essere superata l'irriducibilità della "alterità".
Voglio dire: che rapporto può mai legare un io e un altro fra i quali non intercorre alcun
legame "di sangue"? Su quale altra sfera che non sia quella, sovrastrutturale, socio-politica
può mai fondarsi la "comunione" di due entità che nulla hanno in comune?
saluti

0xdeadbeef

#17
Citazione di: Lou il 12 Marzo 2019, 18:15:31 PM
"Io non esisto come un essere spirituale, come un sorriso o un vento che soffia, non sono libero di responsabilità. Il mio essere si carica di un avere...la materialità non esprime la caduta contingente dello spirito nella tomba o nella prigione di un corpo. Essa accompagna – necessariamente – la nascita del soggetto, nella sua libertà di esistente. Comprendere così il corpo a partire dalla materialità – evento concreto della relazione fra Io e Sé – significa ricondurlo a un evento ontologico. Le relazioni ontologiche non sono legami disincarnati. La relazione tra Io e Sé non è un'inoffensiva riflessione del pensiero su di sé. E' tutta la materialità dell'uomo."
Questo passo, che amo assai, a mio parere è emblematico dell'operazione di rovesciamento dell'idealismo che in Levinas ritengo si compia in una opera soggettivazione del soggetto e proprio come accennava Ox nell'incipit del suo intervento, una risposta, se non l'unica, dove in ogni caso si possono rintracciare tracce di filosofie "occidentali" quali la fenomenologia di Merleau Ponty, al dilagare nichilista. La declinazione che Levinas persegue trovo anch'io risponda a una esigenza prima etica che teoretica: il tema dell'altro, della responsabilità, dell'ascolto, del tempo, dell' "altrimenti che essere" sono ascrivibili al recupero di una dimensione che è posizione antinichilistica.


Ciao Lou
Come dicevo, siamo ahimè ancora ben lungi dal dare una risposta non dico "risolutiva" (cosa
invero impossibile), ma anche solo "importante" al devastante pensiero nichilista degli
ultimi secoli.
Ciò non toglie che quella di Levinas sia una filosofia che, in un panorama che a me sembra davvero
avvilente per la sua pochezza, offre spunti di grande interesse.
Per cominciare, non bisogna necessariamente identificare l'"altro" levinasiano con un soggetto/persona.
L'"altro" è un soggetto ma non solo un soggetto: è tutto ciò che non è il "presente" del soggetto (è
persino il futuro di quello stesso soggetto): l'"altro" è essenzialmente "Mistero" (in quanto già la
conoscenza significherebbe aprire all'impossessamento dell'"altro" da parte dell'"io").
In un raffronto con la concezione classica occidentale dell'"Essere" (e contro la prima tesi di Heidegger
circa la coincidenza di "Essere" e "Tempo"), l'"altro" si "sublima" e viene a coincidere proprio con
il tempo (in quanto è "nel" tempo che viene a situarsi quel "totalmente-altro" che è la morte del
soggetto).
Quindi sì, quella di Levinas è una esigenza certamente etica, ma è anche teoretica, visto che intende
"attaccare" nei suoi stessi fondamenti la visione filosofica occidentale.
A parer mio, sarebbe oltremodo interessante un confronto/parallelo fra le tesi di Levinas e quelle
di Kant (il filosofo "meno occidentale" fra tutti quelli della modernità - forse proprio perchè meno moderno....).
saluti

paul11

#18
ciao Mauro(Oxdeadbeef)
Levinas è influenzato dalla fenomenologia di Husserl e ancora di più dal suo "discepolo" Heidegger.
L'Essere e il Tempo sono ancora centrali anche in Levinas.

L'Altrui, per Levinas, è un asimmetria, una differenza, una diseguaglianza.La comunicazione con l'Altrui avviene con l'eros, con l'amore.
Per questo Levinas inserisce,a sorpresa, la femminilità e poi la conseguenza dell'eros, la paternità.perchè il figlio è nello stesso tempo Altrui e Io.
La rappresentazione della paternità e l'eros comunicativo con la femminilità(diversità ,asimmetria) sono le figure più rappresentative per configurare la relazione Io e Altrui. Perchè l'Altrui è ancora diversità nel figllio ma "sono ancora io" pur non essendo Io, ma essendo Altrui.
Il Tempo è ancora fondamentale perchè l'incontro anticipa in qualche modo il futuro, apre prospettive.Quì vi è il pensiero di Heidegger che lo pone con il dasein , l'esser-ci, nel progetto di un orizzonte temporale che deve anticipare la morte. La morte è ancora presente, come finitezza del destino.
Il Tempo è centrale dalla fenomenologia in poi nel pensiero filosofico;celebre fu un incontro sull'interpretazione del tempo fra Einstein e Bergson.
La mente umana presentifica il passato e il futuro, questo è il "senso".le diversità le asimmetrie permettono il "movimento" del pensiero che si muove per contrasti, per differenze, per comparazioni.Il trascendente non avvine sul piano metafisco "antico", è più simile alla trascendenza anche del tempo kantiana che permette l'appercezione dell'oggetto.Il tempo è continuità e simultaneità e agisce fisicamente ,ma la mente lavora su più piani temporali, costruendo intenzioni, pro-getti, prospettive, ed è chiaro che se l'Essere viene nascosto od obnulato per inserire in primo piano l'Esistenza, l'orizzonte temporale in cui vivamo, il senso, il movimento temporale fisco e dell'essere deve cercarsi appunto nel vissuto esperito.
In questo la relazione Io e altrui può dare nello stesso momento un senso e un orizzonte per Levinas.

Il mio pensiero rimane che la verità deve essere incontrovertibile nel principio originario, se non si vuole relativizzare il pensiero.
Non ha  senso cercare un senso, solo nell'arco temporale di un esistenza, troveremmo che ogni esistenza umana potrebbe avere "un suo senso personale incondivisibile e in quanto tale incomunicabile e quindi "bloccare" l'eros, la comunicazione dell'amore.
Mi trovo invece d'accordo, aldilà dei contenuti molto condivisibili di  Levinas(e anche Heidegger), che comunque vivere deve avere un senso, ma solo se ricondubile ad un piano più alto, per questo ritengo che il parametro deve essere superiore ai singoli sensi esistenziali umani ,comunuqe diversi, poichè l'Io non può annullare l'Altrui, lo può sopprimere persino, ma mai annullarlo. Se è venuto ad esistere l'Altrui anche questo deve avere un senso.El'Altrui è un Io per lui e Io sono un Altrui per lui.

L'evidenza ci insegna che due persone funzionano relazionalmente  se sono compatibili per indole, carattere, personalità o sanno limare le differenze in maniera intelligente.La politica ha inventato il termine tolleranza.Ma la tolleranza è già un accettarsi pur sapendo le incompatibilità.
Una sovrastruttura, come la politica non può negare le differenze piallandole o peggio fingendo che siamo tutti eguali.
Insomma, le differnze elementari si amplificano in domini superiori, in altri termini se vi è già una contraddizione originaria nel sociale elementare fra un Io e l'Altrui, la complessità finge di farla tacere quando invece porta con sè miliardi di queste contraddizioni. Le pacifica solo armandosi (loStato)contro i disarmati(i cittadini che dovrebbe rappresentare). E' solo un conflitto in seno al dominio politico in attesa del momento che confliggerà. Levinas non supera questa contraddizione e come Heidegger ,rimane una filosofia monca

Lou

#19
Citazione di: 0xdeadbeef il 17 Marzo 2019, 17:58:34 PM
Ciao Lou
Come dicevo, siamo ahimè ancora ben lungi dal dare una risposta non dico "risolutiva" (cosa
invero impossibile), ma anche solo "importante" al devastante pensiero nichilista degli
ultimi secoli.
Ciò non toglie che quella di Levinas sia una filosofia che, in un panorama che a me sembra davvero
avvilente per la sua pochezza, offre spunti di grande interesse.
Per cominciare, non bisogna necessariamente identificare l'"altro" levinasiano con un soggetto/persona.
L'"altro" è un soggetto ma non solo un soggetto: è tutto ciò che non è il "presente" del soggetto (è
persino il futuro di quello stesso soggetto): l'"altro" è essenzialmente "Mistero" (in quanto già la
conoscenza significherebbe aprire all'impossessamento dell'"altro" da parte dell'"io").
In un raffronto con la concezione classica occidentale dell'"Essere" (e contro la prima tesi di Heidegger
circa la coincidenza di "Essere" e "Tempo"), l'"altro" si "sublima" e viene a coincidere proprio con
il tempo (in quanto è "nel" tempo che viene a situarsi quel "totalmente-altro" che è la morte del
soggetto).
Quindi sì, quella di Levinas è una esigenza certamente etica, ma è anche teoretica, visto che intende
"attaccare" nei suoi stessi fondamenti la visione filosofica occidentale.
A parer mio, sarebbe oltremodo interessante un confronto/parallelo fra le tesi di Levinas e quelle
di Kant (il filosofo "meno occidentale" fra tutti quelli della modernità - forse proprio perchè meno moderno....).
saluti
Direi che certamente il parallelo con Kant lo trovo fecondo: l'alterità in Levinas ricorda assai il noumeno kantiano, irriducibile è indicibile a oggetto di conoscenza, solo pensabile. Resta da accordarci però su due punti, il noumeno in Kant è concetto limite, mentre in Levinas l'alterità esula la concettualità stessa, l'altro, nell'epifania del volto è autosignificante, non è concettualizzabile. Non è nemmeno altro inteso come alter-ego, in analogia con me stesso. Questa irruzione del trascendente nell'epifania del volto, però mi crea una sorta di imbarazzo poichè, da un lato ritengo che Levinas intenda mantenere una certa trascendenza del trascendente, non lo immanentizza del tutto, per altro verso lo fenomenicizza in epifania, annuncio, l'altrimenti. Qui manifesto le mie perplessità e i miei limiti rispetto a alla filosofia di cui stiamo discutendo, come dici bene "Mistero", ma non alla maniera del noumeno kantiano, pare una rottura a livello del pensabile stesso, eppure, che si presentifica, in lessico "espone" Come posso considerare una fenomenologia dell'alterità quando l'alterità è sottrazione di fenomenologità affermandosi al contempo in presenza, o come vedi tu l'esporsi, fuor di relazione? Detto altrimenti, l'irruzione dell'evento che non si salda in un tempo e perciò nell'essere, non lascia interdetti? Non so se sono riuscita a chiarirti le mie perplessità, rispetto ad alcune linee che mi hai indicato, si intersecano altri approfondimenti credo, come l' y la, un brusio anonimo che non sono io,  il senso d'alterità in seno al soggetto stesso, ma non vorrei complicare.
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

baylham

Citazione di: 0xdeadbeef il 16 Marzo 2019, 23:56:58 PM
Concordo senz'altro quando affermi che in Levinas "manca il parametro" (in fondo cos'è che "dirime"
nell'incontro dell'"io" con l'"altro"?); ma il parametro, ritengo, non può essere trovato finchè l'"io"
pensa di ridurre a se stesso tutto l'universo (mi piace a tal proposito citare un tipo che una volta
sentii in un bar esclamare: "il giorno che muoio io finisce il mondo").
Non siamo forse, noi occidentali, addirittura arrivati a pensare che nulla esiste al di fuori del
soggetto pensante? Da dove pensiamo scaturisca una frase come quella che prima riportavo (quella
del tipo del bar, che sapeva si e no leggere e scrivere)?

"il giorno che muoio io finisce il mondo" mi appare in linea con il nucleo della filosofia di Levinas qui proposta: la relazione asimmetrica tra l'Io e l'Altro: se muore l'Io muore la relazione.  
Levinas non ha bisogno di presupporre alcun "parametro" perché ciò che vale è la relazione, che trascende l'Io e l'Altro.

Credo che ci siano molti occidentali che pensano che la loro morte non sia la fine del mondo. Addirittura molti credono che la loro stessa morte sia un'illusione.

Lou

#21
Invece io su questo punto non sono in accordo, il perno non è la relazione, ma si da nell'irrelato che da pensare, l'irrelato, ciò che vale, e per l'appunto non è, esonda dall'essere, proprio perchè vale, al di là dell'essere-in-relazione.
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

paul11

Se Kant è influito dalla meccanica galileana e  newtoniana e dall'empirismo, la fenomenologia è influita dalla rivoluzione scientifica di fine Ottocento e inizi Novecento.
Nella fenomenologia il processo gnoseologico muta l'ontologia, non c'è più la netta separazione fra soggettività e oggettività che infatti la quantistica ontologicamente ed epistemologicamente ha mutato . 
Il soggetto "sfuma" nell'oggetto e a sua volta l'oggetto altera in qualche modo il soggetto .Il sistema di relazione è lo strumento che permette la dialogia fra un Io e Altro (come persona o come oggetto) e crea una "sospensione" temporale.
Potremmo dire che ogni incontro, visto come relazione di conoscenza, qualcosa di noi cambia e potremmo dire ,in altro modo, che sia questa l'esperienza.Diventa positivo ,per Levinas se entra nella relazione l'eros , l'amore(che sfugge tipicamente nella fenomenologia al linguaggio puramente logico), per cui è la totalità di  me stesso che è "investita" nella relazione mediante l'eros, e le diversità che incontriamo in tanto  o poco ci mutano, nel senso che ora non siamo più qualcosa che eravamo prima dell'incontro.
Il linguaggio in Heidegger e Levinas è quasi sempre in sospensione temporale perchè presentifica sempre un qualcosa dell'avvenire, proprio perchè mi sta cambiando in ciò che ero prima.

In questo c'è qualcosa di affascinante, perchè c'è una verità e probabilmente il (o "un")senso dell'esistere, fatto di incontri, di esperienze.
Ma l'eros è ambiguo per sua natura, non è detto che l'incontro non possa diventare scontro .In questo trovo Levinas "romanticista" e poco"realista".O si è tutti disponibili a non avere pre-attaccamenti (ma è un assurdo) per cui ogni incontro diventa apertura senza pre-giudizi (di nuovo assurdo, perchè altri precedenti incontri, altre esperienze ci hanno "formato").Perchè solo un'apertura totalizzante, che investe fisica e anima, può nello stesso tempo  prendere e capire le differenze con ogni Altrui e ontologicamente mutarci(perchè ora l'Altrui è anche nostro senza annullarlo, ma com-prendendolo, inglobandolo in noi stessi. questo può valere  nell'esempio della femminilità e della paternità, in un amore totalizzante....ma con ogni altro simile ,nel prossimo ? E' possible solo se in ogni volto del mondo noi incontriamo un fratello.

davintro

il momento fondativo della fenomenologia è l'epoche, cioè la sospensione del giudizio riguardo il piano esistenziale e fattuale della realtà a cui si attestano le scienze naturali, quindi non penso che la fenomenologia possa vedersi come influsso, almeno non diretto, dell'evoluzioni della fisica. Al contrario trovo la fenomenologia come pervasa dalle sue fondamenta da una chiara critica al positivismo, in difesa dell'autonomia della filosofia, o comunque del modello di scienza trascendentale, rispetto alle scienze empiriche, sia dal punto di vista metodologico che del contenuto oggettivo di indagine (i due piani sono correlati), quindi nel dover dipendere dagli sviluppi di una scienza sperimentale, la fenomenologia negherebbe la sua stessa ragion d'essere. Sono d'accordo nel pensare la fenomenologia come superamento della rigida separazione soggetto-oggetto, in particolare nell'accezione del dualismo kantiano fenomeno-noumeno: l'essenza delle cose, che la riduzione mira a evidenziare, non è più un noumeno trascendente, separato e inconoscibile, ma coincide proprio con la cosa nella sua accezione di "fenomeno", contenuto intenzionale di coscienza, vale a dire l'accezione per la quale la cosa è vista nel suo carattere di assoluta indubitabilità, cioè come fenomeno immanente a una coscienza, al di là della possibilità della sua non-esistenza esterna. Però questo, come era per Cartesio, è solo un passaggio metodologico finalizzato a riguadagnare un punto di vista il più possibile oggettivo e adeguato al rispecchiamento delle "cose stesse", che è un recupero inevitabilmente di natura teoretica; accanto alle asserzioni delle scienze sperimentali, a essere messe fuori circuito sono le nostre arbitrarie proiezioni sulla visione delle cose, compresi i nostri condizionamenti storici, i nostri valori morali soggettivi, per lasciare che le cose stesse si manifestino il più possibile per come sono, al di là delle nostre precomprensioni. In questo la distanza soggetto-oggetto resta anche per la fenomenologia fondamentale, e il superamento della rigida separazione (per cui la cosa diviene "fenomeno") è più un necessario passaggio procedurale per delineare una distanza su basi più razionali

Per questo, quando ho l'impressione che nel momento in cui con Levinas si parla di "etica come filosofia prima" venga tradito l'assunto fenomenologica del ritorno alle cose stesse. Tale ritorno coincide con una visione teoretica che l'epoche dovrebbe mirare a ripulire della componente di arbitrarietà soggettiva, per la quale la visione teoretica rischierebbe di essere confusa con la visione della realtà come vorremmo fosse in base ai nostri valori, oppure la visione di come potremmo utilizzarla pragmaticamente per i nostri soggettivi fini. Quindi il metodo fenomenologico deve mirare a una conoscenza il più possibile disinteressata, contemplativa, insomma a porre non l'etica, ma la teoretica come filosofia prima. Il che non vuol dire che il fenomenologo ortodosso non si occupi di etica... se ne occuperà ma tematizzandola come OGGETTO di riflessione, una delle modalità in cui si articola il complesso delle esperienze con cui la coscienza si rapporta al mondo, una delle tante. Ma non potrà porre il suo approccio, l'impostazione formale delle sue riflessioni come "etica", pena la perdita dello sguardo disinteressato sulle cose stesse, l'etica per lui dovrebbe solo essere un tema da affrontare in modo assiologicamente neutrale, teoretico appunto. Se invece si parla di etica come filosofia prima, mi pare che forse siamo al di là di una fenomenologia dell'etica. Forse più che prosecutore dell'indirizzo fenomenologico, Levinas, da francese (naturalizzato)  si è per questo aspetto più avvicinato agli orientamenti e al clima di tipo esistenzialistico, dove la rivendicazione, se non di un primato, quantomeno di un'autonomia, dell'etica dalla teoretica è molto forte.

0xdeadbeef

A Paul e Lou
Riassumo in una sola risposta perchè la tesi che cerco di illustrare risponde (anzi: intenderebbe
rispondere...) sia a Paul e che a Lou.
Chiedevo: cos'è che "dirime" fra l'io e l'altro (cos'è che fa sì che l'incontro non diventi scontro)?
Questo Levinas non ce lo dice; ma ci dice, e lo trovo importante, che c'è un "altro" che è all'"io"
irriducibile; un esistere che "c'è" (l'"y'a") anche senza un esistente; un (non)-interpretato che
appare anche senza che venga ad esistere un soggetto che lo interpreti.
Non mi pare francamente poco per una forma-mentis, la nostra, che riesce a pensare l'oggettività solo
all'interno di un "campo" (o "contesto", come Severino fa notare, banalizzandone la portata, a M.Gabriel
all'interno della discussione sul "Nuovo Realismo" di qualche anno fa).
Ora, ciò che "dirime" non può essere altro che una "verità incontrovertibile"; ma è, questa, posta
nella sfera dell'esistente o in quella di ciò che "dovrebbe esistere"?
Ciò che "dirime" (e ciò che dirime è la "verità incontrovertibile"), in altre parole, può essere
frutto del solo "nomos" (che è la mia tesi) o lo è anche/solo della "physis"?
Perchè, chiaramente, escludere (come fa Paul) che possa essere frutto della sfera socio-politica
vuol dire escludere che possa essere esclusivo frutto del "nomos" (cioè vuol dire aprire alla
necessità che sia frutto esclusivo della "physis" - e, per dirla con Hegel, "nell'arena della physis
non v'è pretore" - che non sia la volontà di potenza, ovviamente).
Da questo punto di vista, l'unico pensatore la cui filosofia, muovendosi come Levinas all'interno
di uno "sguardo" che mantiene la differenza fra l'io e l'altro, non risulta "monca" è Kant. Ma
Kant, sappiamo bene, "postula" soltanto una verità incontrovertibile, che "dirime", appunto tenendola
ben saldamente fuori da ogni "fondabilità teoretica" di tipo, per così dire, "fisico"...
Quanto alla Fenomenologia, devo ancora capire di cosa consiste oltre ad una (per me arbitrarissima)
"elevazione" del fenomeno ad essenza (al proposito leggerò con vero piacere quanto scrive l'amico
Davintro).
saluti

0xdeadbeef

Ciao Davintro
Ma se quella che chiamavo "elevazione" del fenomeno ad essenza è solo un: "passaggio metodologico
finalizzato a riguadagnare un punto di vista il più possibile oggettivo", che bisogno c'era di
non prendere in considerazione l'"io penso" kantiano (come unità originaria dell'appercezione)?
Voglio dire, questo "passaggio metodologico" già era stato individuato da Kant, non credi?
Ma non solo, direi che lo era stato su basi molto (ma molto) più razionali, che evitano (come la
peste...) le conseguenze inevitabili della sintesi idealistica di soggetto e oggetto (fra cui,
la principale, il considerare il soggetto come creatore dell'oggetto).
Una di queste (per me nefaste) conseguenze è visibile proprio nel concetto di "epoché", cioè di
quel qualcosa che: "dovrebbe ripulire dalla componente di arbitraria soggettività" ("mirando ad
una conoscenza il più possibile disinteressata, contemplativa").
Su questa base, l'affermare che il "fenomenologo ortodosso si occuperà dell'etica tematizzandola
come OGGETTO" significa null'altro che affermare la coincidenza di reale e razionale, come fa Hegel.
Nulla di particolarmente sbagliato, ma c'è a parer mio da essere consapevoli del fondamento
idealistico di tutta la costruzione fenomenologica (che, come ben argomenta Levinas, finisce col
risolversi in una "ontologia dell'io").
saluti

Lou

#26
Citazione di: 0xdeadbeef il 20 Marzo 2019, 15:32:42 PM
A Paul e Lou
Riassumo in una sola risposta perchè la tesi che cerco di illustrare risponde (anzi: intenderebbe
rispondere...) sia a Paul e che a Lou.
Chiedevo: cos'è che "dirime" fra l'io e l'altro (cos'è che fa sì che l'incontro non diventi scontro)?
Questo Levinas non ce lo dice; ma ci dice, e lo trovo importante, che c'è un "altro" che è all'"io"
irriducibile; un esistere che "c'è" (l'"y'a") anche senza un esistente; un (non)-interpretato che
appare anche senza che venga ad esistere un soggetto che lo interpreti.
Non mi pare francamente poco per una forma-mentis, la nostra, che riesce a pensare l'oggettività solo
all'interno di un "campo" (o "contesto", come Severino fa notare, banalizzandone la portata, a M.Gabriel
all'interno della discussione sul "Nuovo Realismo" di qualche anno fa).
Ora, ciò che "dirime" non può essere altro che una "verità incontrovertibile"; ma è, questa, posta
nella sfera dell'esistente o in quella di ciò che "dovrebbe esistere"?
Ciò che "dirime" (e ciò che dirime è la "verità incontrovertibile"), in altre parole, può essere
frutto del solo "nomos" (che è la mia tesi) o lo è anche/solo della "physis"?
Perchè, chiaramente, escludere (come fa Paul) che possa essere frutto della sfera socio-politica
vuol dire escludere che possa essere esclusivo frutto del "nomos" (cioè vuol dire aprire alla
necessità che sia frutto esclusivo della "physis" - e, per dirla con Hegel, "nell'arena della physis
non v'è pretore" - che non sia la volontà di potenza, ovviamente).
Da questo punto di vista, l'unico pensatore la cui filosofia, muovendosi come Levinas all'interno
di uno "sguardo" che mantiene la differenza fra l'io e l'altro, non risulta "monca" è Kant. Ma
Kant, sappiamo bene, "postula" soltanto una verità incontrovertibile, che "dirime", appunto tenendola
ben saldamente fuori da ogni "fondabilità teoretica" di tipo, per così dire, "fisico"...
Quanto alla Fenomenologia, devo ancora capire di cosa consiste oltre ad una (per me arbitrarissima)
"elevazione" del fenomeno ad essenza (al proposito leggerò con vero piacere quanto scrive l'amico
Davintro).
saluti
Mi sono un po' persa. Ora, l'y'a è l'elementare indistinto, si da in forma anonima, evento puro senza soggetto, una dimensione, originaria, prelogica e prefilosofica, forse l'arte riesce meglio a non tradirla. A me pare che le distinzioni comincino con l'ipostasi del soggetto.
"Physis" è un concetto eminentemente filosofico, potrei dire che è con esso che si inaugura la stagione filosofica propriamente detta ed è in forza d'esso che è possibile dirimere e discriminare tra ciò che è physis e ciò che non lo è. Un criterio.
Detto ciò, domando, perchè si possa arrivare a una concettualizzazione in termini di physis non occorre un sistema di "nomos" intesi quali aspetti socio-politici-economici-culturali che lo permettono? È un po' un gatto che si morde la coda, ma soprattutto e venendo all'y'a senza un soggetto giudicante, è possibile distinguere tra esistenza ed esistente? A chi appare il brusio incessante che basso ci acconmpagna?nell'insonnia, ok, a un soggetto passivo e inibito e agito, non agente.
La stessa epokè non è un ammirabile metodo di farsi da parte del soggetto? Ma il medodo è la la scelta di una via, un sentiero, e se non c'è soggetto, chi compie questa scelta metodologica?
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

paul11

#27
Citazione di: 0xdeadbeef il 20 Marzo 2019, 15:32:42 PM
A Paul e Lou
Riassumo in una sola risposta perchè la tesi che cerco di illustrare risponde (anzi: intenderebbe
rispondere...) sia a Paul e che a Lou.
Chiedevo: cos'è che "dirime" fra l'io e l'altro (cos'è che fa sì che l'incontro non diventi scontro)?
Questo Levinas non ce lo dice; ma ci dice, e lo trovo importante, che c'è un "altro" che è all'"io"
irriducibile; un esistere che "c'è" (l'"y'a") anche senza un esistente; un (non)-interpretato che
appare anche senza che venga ad esistere un soggetto che lo interpreti.
Non mi pare francamente poco per una forma-mentis, la nostra, che riesce a pensare l'oggettività solo
all'interno di un "campo" (o "contesto", come Severino fa notare, banalizzandone la portata, a M.Gabriel
all'interno della discussione sul "Nuovo Realismo" di qualche anno fa).
Ora, ciò che "dirime" non può essere altro che una "verità incontrovertibile"; ma è, questa, posta
nella sfera dell'esistente o in quella di ciò che "dovrebbe esistere"?
Ciò che "dirime" (e ciò che dirime è la "verità incontrovertibile"), in altre parole, può essere
frutto del solo "nomos" (che è la mia tesi) o lo è anche/solo della "physis"?
Perchè, chiaramente, escludere (come fa Paul) che possa essere frutto della sfera socio-politica
vuol dire escludere che possa essere esclusivo frutto del "nomos" (cioè vuol dire aprire alla
necessità che sia frutto esclusivo della "physis" - e, per dirla con Hegel, "nell'arena della physis
non v'è pretore" - che non sia la volontà di potenza, ovviamente).
Da questo punto di vista, l'unico pensatore la cui filosofia, muovendosi come Levinas all'interno
di uno "sguardo" che mantiene la differenza fra l'io e l'altro, non risulta "monca" è Kant. Ma
Kant, sappiamo bene, "postula" soltanto una verità incontrovertibile, che "dirime", appunto tenendola
ben saldamente fuori da ogni "fondabilità teoretica" di tipo, per così dire, "fisico"...
Quanto alla Fenomenologia, devo ancora capire di cosa consiste oltre ad una (per me arbitrarissima)
"elevazione" del fenomeno ad essenza (al proposito leggerò con vero piacere quanto scrive l'amico
Davintro).
saluti
ciao Mauro(Oxdeadbeef)
non c'è nulla che possa dirimere fra un incontro e uno scontro fra un Io e un Altrui.O accettano una condizione entrambi che "blocchi" la possibilità di uno scontro o tutto è possibile.
L'Io non è affatto irriducibile,perchè sono le componenti umane e l'uomo non ne ha una sola e le condizioni "interne" ed "esterne" all'Io che "motivano".

Non ho forse messo in luce abbastanza lo psicologismo che è fondamentale.ma lo psicologismo filosfico è nato dall'empirismo di Hume.
Brentano, maestro di Husserl, Steiner ed un certo Sigmund Freud (ed Husserl fondatore della fenomenologia è un mateamtico) è infatti celebre per aver scritto "Psicologia dal punto di vista empirico" Attenzione al termine empirico ,perchè non è più il razionalismo che da Cartesio passaper Leibniz e Spinoza. Dagli empiristi ,soprattutto Hume che mette in discussione la dimostrazione della causalità, il mondo si divide in "idee" e in "fatti" e l'empirismo e poi praticamente quasi tutte le filosfie moderne e contemporanee, scelgono la strada dove la verità è niente affatto incontrovertibile, perchè potrebbe esserlo solo nella metafisca.L'esperienza diventa fondamentale e da quì il passo all'Esistenza e alle relazioni fra il soggettivismo di kant ad arrivare al pragmatismo passando per la semiologia di Pierce e al linguaggio analitico di Wittgenstein, non è così distante come sembrerebbe. Tutti, quasi, cercano il "senso" semmai, ma la verità per Heidegger è una tensione attraverso aletheia(dis-velato) fra esistenza(esperienza) e una Verità che non si da, ma che solo l'esistenza e il senso di esso può protendendere .E' in questa chiave che Levinas costruise la "tensione" fra l'Io e l'Altrui come un "gioco" a disvelamento dove la verità non è ontologica, ma è nel "movimento" fra l'Io e l'Altrui ,nel sistema di relazione. Brentano apre al termine "intenzionalità",ma è uno psicologismo senza anima.

Quando Heidegger critica Platone e il concetto di Essere, di un "qualcosa" che è lì e che non ci dice nulla, Heidegger fra Essere ed Esistenza costruisce il dasein , l'esser-ci.L'essere gettati nel mondo è il dasein che attraverso l'esistenza fa esperienza nella tensione del senso dell'esistenza stessa, una  sorta di ricerca della verità nel tempo della vita.Ma la verità è nell'Esistenza o nell'Essere? Che potrebbe voler dire: la verità diviene e quindi è continuo mutamento di credenze e opinioni o è eterna e quindi irriducibile e in quanto tale incontrovertibile dinanzi al divenire delle esistenze? Come può essere incontrovertibile la relazione fra un Io e un Altrui? Impossibile.
E infatti da maestri a discepoli con il fulcro nella fenomenologia si ha cronologicamente : Brentano- Husserl- Heidegger e infine Gadamer,per cui la scuola tedesca finisce nell'ermeneutica di Gadamer, la verità è interpretazione(che ricorda strumentalmente una frase di  Nietzsche di cui avevi aperto una discussione su Umberto Eco, se non ricordo male....) e quindi daccapo esperienza empirica.La scuola tedesca della filosfia delega di fatto al pragmatismo e alla filosfia analitica(del linguaggio) americana(scuola anglosassone) il potere culturale del relativismo imperante e del postmodernismo.

Il nomos non nasce affatto dalla realtà emprica, la verità nel sesto secolo avanti Cristo era armonia di diversi domini fra loro interagenti: il divino- il cielo-la terra e semmai è  il contrario, perchè la terra e l'uomo non erano affatto in grado di trovare verità , semmai di calpestare la verità -
La politica rispondeva attraverso la sovranità che rappresentava la regola superiore con la regola inferiore degli egoismi umani .Erano i comportamenti umani a doversi "registrare", "armonizzarsi" al nomos e non che la politica diventa sostanzialmente dalla modernità in poi lo scontro pacificato dallo stato armato che attraverso la norma e la punizione accetta "di fatto"gli egoismi ,interessi singoli o di associazioni di potere .. Intendevo dire questo in un precedente post.

Stai incensendo troppo Kant e stai deprecando troppo Hegel.
Perchè alcuni termini cari alla fenomenologia vengono dallo psicologismo di Hume, dalla trascendentalità di Kant, dalla coscienza di Hegel, e dall' epochè che è praticamente in tutta la filosfia moderna:per forza, non è nè carne e nè pesce.
Una filosofia che sdogana la metafisca, ma che critica dall'altra la scienza sperimentale moderna, si colloca in "sospensione" nel non-luogo di nessuna verità. Kant si inventa la trascendentalità dopo aver studiato Hume.Che cos'è analitica e sintetica se non ancora la diversità fra idee(metafisca) e il "fatto"(empirico), esperienza (luogo dalla modernità ad oggi di una verità indimostrabile)Quando un epistemologo come Popper si inventa una teoria di falsificazione sullle leggi scientifiche, signifca che ogni legge deve poter essere falsiifcata. E' come dire c'è una verità, ma è necessario poterne  dire il contrario .Risultato la negazione si è fatta sistema culturale, e la contraddizone come porta bandiera culturale.
Il termine noumeno kantiano è la sua consapevolezza che se vuole stare nei limiti empirici esperienziali ,non può andare nella metafisica e lo inventa(prendendolo dall'antichità con tut'altra significazione)Basta leggere la prefazione della seconda edizione del testo "Critica della ragion pura".Kant non ha nessuna verità incontrovertibile.

La mia attuale posizione filosfica,ribadisco, è che vi sia una verità incontrovertibile e corrisponde con il termine antico di Archè, che è l'origine di tutto e tutti.E non è necessario puntare un telescopio per capirlo. L'esistenza è sì esperienza e il senso della vita  è semmai legato all'archè e non come un fungo che forse troverò nel bosco L'esistenza intesa ome esperienza fine a se stessa è una contraddizione in termini di qualunque filosfia la professi: non se ne esce.e infatti hanno fallito.

Manca semma  una metafisca contemporanea, che sappia misurare e armonizzare essere ed esistenza.L'errore fu,anticamente, di screditare l'esperienza umana e la vita così come  oggi al contrario , di mistificare la metafisca e credere che la verità sia in una realtà inconoscibile al limite umano, ma che comunque sia l'esistenza il solo luogo dove trovarvi verità......relative.

0xdeadbeef

Ciao Lou
In un capitolo de: "Il tempo e l'altro" Levinas parla appunto dell'esistere senza l'esistente; concetto
da cui, in seguito, egli ricaverà il "c'è" (l'"y'a"), così chiamato proprio perchè, etimologicamente, non
può esservi un "esistere" senza l'esistente.
Dunque, diciamo, una raffinatezza semantica per indicare che "qualcosa" sussiste anche nella totale assenza
di qualsiasi soggetto interpretante (Levinas - forse come me sofferente di acufeni...- parla di un "ronzio
cosmico" che ci sarebbe anche nella completa assenza di alcunchè).
L'"y'a" quindi come radicale negazione della "ontologia dell'io"; come definitiva risposta ad ogni
riduzione dell'oggetto interpretato al soggetto interpretante.
La distinzione fra "physis" e "nomos" l'ho tirata in ballo in risposta all'amico Paul11, il quale sostiene
la necessità di una "verità incontrovertibile" che dirima fra le istanze dell'io e dell'altro (cosa sulla
quale Levinas non chiarisce), che per me non può situarsi nella "physis" - nella quale non può darsi
alcun concetto metafisico.
Sull'epoché fenomenologica ti rimando alla mia risposta all'amico Davintro. Da "kantiano", ritenendo
l'oggetto noumenico conoscibile solo come "fenomeno", non comprendo come sia possibile "ripulire di
arbitraria soggettività" la conoscenza dell'oggetto.
saluti

davintro

Citazione di: 0xdeadbeef il 20 Marzo 2019, 16:51:27 PMCiao Davintro Ma se quella che chiamavo "elevazione" del fenomeno ad essenza è solo un: "passaggio metodologico finalizzato a riguadagnare un punto di vista il più possibile oggettivo", che bisogno c'era di non prendere in considerazione l'"io penso" kantiano (come unità originaria dell'appercezione)? Voglio dire, questo "passaggio metodologico" già era stato individuato da Kant, non credi? Ma non solo, direi che lo era stato su basi molto (ma molto) più razionali, che evitano (come la peste...) le conseguenze inevitabili della sintesi idealistica di soggetto e oggetto (fra cui, la principale, il considerare il soggetto come creatore dell'oggetto). Una di queste (per me nefaste) conseguenze è visibile proprio nel concetto di "epoché", cioè di quel qualcosa che: "dovrebbe ripulire dalla componente di arbitraria soggettività" ("mirando ad una conoscenza il più possibile disinteressata, contemplativa"). Su questa base, l'affermare che il "fenomenologo ortodosso si occuperà dell'etica tematizzandola come OGGETTO" significa null'altro che affermare la coincidenza di reale e razionale, come fa Hegel. Nulla di particolarmente sbagliato, ma c'è a parer mio da essere consapevoli del fondamento idealistico di tutta la costruzione fenomenologica (che, come ben argomenta Levinas, finisce col risolversi in una "ontologia dell'io"). saluti


l'Io penso kantiano è insufficiente a legittimare a livello metodologico il riconoscimento di una realtà oggettiva, se viene visto solo come una forma vuota da riempirsi materialmente di fenomeni, cioè di mere apparenze soggettive, nell'accezione kantiana del termine, cioè, fenomeno (ciò che si può conoscere), rispetto a noumeno (inconoscibile). Restando nel dualismo fenomeno-noumeno, si priva il fenomeno di ogni ancoraggio alla realtà oggettiva, resta "manifestazione", apparenza a una coscienza soggettiva, l'esito inevitabile è lo scetticismo. La fenomenologia recupera la possibilità di una scienza rigorosa, superando questo dualismo, cioè considerando la cosa nel residuo di indubitabilità che resta, una volta messo fuori circuito gli aspetti dubitabili e contingenti della cosa. Il fenomeno si fa essenza, ma questo non implica idealismo, la riduzione del reale nel suo complesso con il pensabile o il fenomenico, per il motivo che la realtà delle cose non si riduce alla loro essenza, alla loro fenomenicità, l'essenza rispecchia la loro struttura apriorica, costante, necessaria, ma nell'esistenza l'essenza convive con gli aspetti empirici, contingenti, che l'epoche mette tra parentesi, ma di cui non pretende di negare l'esistenza. Il sapere delle essenze non pretende di essere sapere della realtà nella totalità, ma si limita evidenziare una struttura di leggi necessarie, che è fondamentale per la realtà, senza però esaurirla. Quindi non c'è una totale coincidenza tra pensiero e realtà, associare i fenomeni all'essenza fissa solo un livello di conoscenze necessarie ma non esaustive. Del resto, proprio l'identificare idealisticamente l'essere col pensiero, e porre il pensiero come atto creatore del reale sarebbe una prospettiva incompatibile con l'assunzione metodologica dell'epoche, che è proprio uno strumento di "purificazione", autocritica, del soggetto nei confronti della sue arbitrarie proiezioni della soggettività sul mondo. Se tale soggettività fosse il fondamento creativo, non avrebbe senso questo autoridimensionamento, questo farsi da parte per lasciar posto al manifestarsi delle cose stesse nella loro oggettività. Non sarebbe il soggetto chiamato a adeguarsi a ricevere la verità delle cose, ma quest'ultima a storicizzarsi per seguire la mutevolezza dell'uomo che la fonda. La visione del pensiero creatore della realtà la trovo una visione prettamente storicistica: dato che il pensiero umano muta storicamente, non esiste una verità che non muti, che non sia relativa a una contingenza storica, e non avrebbe senso il tentativo fenomenologico di mettere fuori circuito proprio i condizionamenti derivanti dalla tradizione, dalla storia delle idee che influenzano la soggettività, per mettere a fuoco l'essenza, la cosa stessa. Al contrario, questo tentativo testimonia, almeno nella mia fallibilissima lettura, la proposta di un realismo, del riconoscimento dell'autonomia delle cose dalla soggettività, ma che per porsi come realismo non ingenuo, ma critico, necessita metodologicamente di partire dall'evidenziazione dei fenomeni e della coscienza