L'intelligenza e l'empatia rendono felici o infelici?

Aperto da Socrate78, 31 Dicembre 2018, 16:10:29 PM

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Socrate78

Secondo me un quesito difficile da risolvere riguarda il fatto se l'intelligenza e l'empatia (doti sicuramente UTILI...) rendono però l'uomo effettivamente più felice oppure portino ad aumentare complessivamente le ragioni di infelicità. Sicuramente essere intelligenti porta ad avere una maggiore istruzione (anche se non necessariamente....) e un buon livello di inserimento sociale, lavori più renumerativi, maggiore capacità di badare alla propria salute e al proprio benessere, tutti fattori che in teoria contribuiscono alla felicità. Avere intelligenza emotiva (empatia) porta poi anche a comprendere le intenzioni delle persone e quindi a tutelarsi, ad aiutarle meglio. Tuttavia, chi è molto intelligente soprattutto a livello emotivo oltre che cognitivo, proprio per il suo acume, si accorgerà prima degli altri delle ipocrisie, del fatto che gli altri agiscono spesso solo per il proprio meschino tornaconto, sono vili oppure sono conformisti come un gregge di pecore, spesso compiono azioni senza alcun senso vero e solo per conformismo e quindi l'intelligenza e la sensibilità lo porteranno ad essere più infelice e pessimista. Se si pensa oltretutto al caso di un bambino geniale e intelligentissimo, molto probabilmente sarà isolato dagli altri oppure egli stesso, per la sua intelligenza, tenderà a voler star da solo perché troverà gli altri (in fondo a ragione...) più stupidi e immaturi di lui, disprezzerà i loro giochi e i loro discorsi e questo causerà problemi al suo inserimento sociale. Molti psicologi stanno sempre di più notando come alcuni presunti disturbi della condotta e del comportamento siano addirittura associati a QI molto alti negli adolescenti e i problemi forse nascono proprio dal fatto che il soggetto iper-intelligente nota come determinate regole sociali (l'obbedienza a prescindere alle varie autorità ad esempio) e il conformismo siano in fondo delle routine immotivate e senza un vero fondamento, quindi finisce per sviluppare un carattere ribelle.
Di conseguenza secondo voi l'intelligenza contribuisce alla felicità oppure ne è un ostacolo? Ovviamente voglio solo discuterne, non pretendo di risolvere in un thread una questione così complessa.



viator

Salve Socrate78 : Nulla di per sè è in grado di rendere felice od infelice la vita di un uomo.

La felicità (che io preferisco chiamare la soddisfazione esistenziale) se risulta raggiunta in modo stabile ed immutabile si chiama morte, se raggiunta per un breve attimo soltanto di chiama gioia, se fatta di nuvolette che giocano tra loro si chiama mutevole equilibrio.

Diciamo che l'intelligente avrà maggiori possibilità di vivere infelicemente se sarà circondato da imbecilli, mentre per l'mbecille dovrebbe accadere l'inverso (gli imbecilli sono dappertutto e si trovano bene quasi dappertutto).

Chi invece cerca e suscita empatia corre ugual rischio di venir sfruttato dai furbi o, a seconda delle vicende, aiutato dagli onesti.

Ma il contenuto esistenziale della vita del singolo rappresenta sempre l'inesplorabile. Saluti ed auguroni quasi in extremis.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

thomas_dQ

Forse per le persone intellettivamente dotate la felicità è possibile se si accompagna ad una forza interiore che nei momenti decisivi della vita spinge a non guardarsi indietro, a concentrarsi sul piacere che viene dallo smascherare le illusioni e le ipocrisie piuttosto che sulla nostalgia di una maggiore integrazione sociale a tutti i costi.
Perché anche la conoscenza di tipo distruttivo dà piacere, gioia, quindi parziale felicità.

Non capisco la seguente frase di Viator: "La felicità (che io preferisco chiamare la soddisfazione esistenziale) se risulta raggiunta in modo stabile ed immutabile si chiama morte..."

La felicità coincide con il nulla? Con l'assenza di desideri?

Jacopus

A mio parere intelligenza/empatia sono prive di nesso con felicità/infelicità. Inoltre si può essere empatici e stupidi e/o non empatici e intelligenti.
Piccola nota a margine: empatico non coincide con altruista/buono. Molti serial killers sono empatici perché devono mettersi nei panni delle vittime per ghermirle o nei panni della polizia per non farsi scoprire.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

viator

Salve thomas-dQ. Benvenuto e Buon Anno. Certo, impossibile capire quanto ho scritto circa la felicità come condizione statica e permanente. Il senso, che qui riporto come estratto da quanto ho scritto in passato in questo Forum, sarebbe il seguente :

"La felicità consiste nello stato in cui risultino soddisfatti tutti i bisogni e tutti i desideri.

Nessuno la raggiunge da vivo poiché i bisogni (che solo semplicemente l'insieme di quelli detti "fisiologici") si rinnovano automaticamente mentre i desideri (che sono l'insieme delle facoltà, cioè di tutto cio che vorremmo fare una volta liberi dalla costrizione dei bisogni, e che consistono quindi semplicemente nella ricerca del piacere) ci perseguiteranno per tutta la vita a causa del nostro invincibile amore per le novità ed appunto i piaceri.

L'unica possibilità di raggiungere una felicità definitiva consiste quindi nell'eliminare in via definitiva sia i bisogni che i desideri.


Ovvio che solo la morte realizzi tale ultima e definitiva condizione.

Perciò la ricerca della vera felicità consiste nel voler trovare ciò da cui - se raggiunto - tutti vorrebbero sfuggire".

Ecco per quale ragione io sto alla larga dalla felicità assoluta, non cercandola, preferendo la "soddisfacente condizione esistenziale". Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

everlost

Citazione di: Jacopus il 01 Gennaio 2019, 11:11:59 AM
A mio parere intelligenza/empatia sono prive di nesso con felicità/infelicità. Inoltre si può essere empatici e stupidi e/o non empatici e intelligenti.
Piccola nota a margine: empatico non coincide con altruista/buono. Molti serial killers sono empatici perché devono mettersi nei panni delle vittime per ghermirle o nei panni della polizia per non farsi scoprire.
E' vero.
Non so se dipenda da un pregiudizio, in genere però si dà per scontato che i superdotati intellettualmente non siano emotivi, empatici o ipersensibili, ma al contrario freddi e distaccati per un eccesso di razionalità che li allontana dalla gente normale. Sarebbe interessante scoprire se c'è un fondamento in questa opinione popolare, oppure se si tratta della solita bufala.
Ma ammettendo che un cervellone possieda anche il dono di un'empatia molto sviluppata, io credo che dovrebbe sentirsi terribilmente infelice scoprendo in quale valle di lacrime vive e constatando che i  meno dotati intorno a lui/lei non sono in grado di capire, condividere o apprezzare la sua superiorità e le sue idee fuori del comune.
Cit. da Viator:

CitazioneDiciamo che l'intelligente avrà maggiori possibilità di vivere infelicemente se sarà circondato da imbecilli, mentre per l'mbecille dovrebbe accadere l'inverso (gli imbecilli sono dappertutto e si trovano bene quasi dappertutto).
Infatti c'è questo rischio, non solo perché gli intelligenti mal sopportano la stupidità, soprattutto a lungo andare, ma anche perché, viceversa, i poco dotati e i mediocri hanno una caratteristica molto spiacevole: soffrono di antipatia  (a volte proprio di odio viscerale) nei confronti di chi sentono diverso o peggio superiore a loro. 
Invece di ammirarlo, lo deridono ed escludono. 
In questi casi l'empatia non è d'aiuto, anzi complica le cose. Meglio forse l'indifferenza di chi si cura solo dei propri studi, per quanto faccia un po' tristezza pensare a una vita del genere, chiusi in una torre d'avorio.

Ipazia

Citazione di: Jacopus il 01 Gennaio 2019, 11:11:59 AM
A mio parere intelligenza/empatia sono prive di nesso con felicità/infelicità. Inoltre si può essere empatici e stupidi e/o non empatici e intelligenti.
Piccola nota a margine: empatico non coincide con altruista/buono. Molti serial killers sono empatici perché devono mettersi nei panni delle vittime per ghermirle o nei panni della polizia per non farsi scoprire.

Interessante questa estensione del concetto di empatia, che la interpreta in combinazione con l'intelligenza. Criminale in questo caso, ma nulla esclude che possa essere anche di segno e carattere opposto. Anche nella sua genesi, intendendo l'intelligenza come veicolo indispensabile per l'empatia. Per essere empatici bisogna, innanzitutto, capire cosa alberga nell'altro. E questo è un esercizio di intelligenza.

Sulla domanda dell'argomento propenderei, illuministicamente, per la risposta positiva. Intendendo la felicità come consapevolezza di sè e del mondo di cui siamo parte. L'approccio al quale non può che essere empatico per essere felice. Col che non intendo il buonismo, ma per ora mi fermo qui.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Socrate78

Il non empatico che però è intelligente secondo voi è comunque svantaggiato nelle relazioni e nella vita  rispetto a uno di intelligenza normale/mediocre ma con alto tasso di empatia?

viator

Salve Ipazia. "Intendendo la felicità come consapevolezza di sè e del mondo di cui siamo parte".

Scusa ma trovo fumoso il concetto. Sto pensando alla consapevolezza di sè di chi nasca tetraplegico e cieco ed alla sua eventuale consapevolezza di vivere magari in isolamento all'interno di un mondo a lui circostante in cui regna eventualmente una profonda miseria.

Il grado di felicità di ciascuno non è valutabile da alcuno. Per questo, secondo me, possiamo solo aggrapparci a disgustose, aride, lapidarie definizioni di una felicità astratta e solo tendenziale. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Ipazia

Citazione di: viator il 02 Gennaio 2019, 15:52:24 PM
Salve Ipazia. "Intendendo la felicità come consapevolezza di sè e del mondo di cui siamo parte".

Scusa ma trovo fumoso il concetto. Sto pensando alla consapevolezza di sè di chi nasca tetraplegico e cieco ed alla sua eventuale consapevolezza di vivere magari in isolamento all'interno di un mondo a lui circostante in cui regna eventualmente una profonda miseria.

Il grado di felicità di ciascuno non è valutabile da alcuno. Per questo, secondo me, possiamo solo aggrapparci a disgustose, aride, lapidarie definizioni di una felicità astratta e solo tendenziale. Saluti.

Penso che Stephen Hawking sarebbe stato più d'accordo con me che con te. Ma anche un altro fisico, certamente più pessimista, Steven Weinberg si affida alla conoscenza:

«Lo sforzo di capire l'universo è tra le pochissime cose che innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa, conferendole un po' della dignità di una tragedia.»
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Lou

Citazione di: Socrate78 il 31 Dicembre 2018, 16:10:29 PM
Secondo me un quesito difficile da risolvere riguarda il fatto se l'intelligenza e l'empatia (doti sicuramente UTILI...) rendono però l'uomo effettivamente più felice oppure portino ad aumentare complessivamente le ragioni di infelicità. Sicuramente essere intelligenti porta ad avere una maggiore istruzione (anche se non necessariamente....) e un buon livello di inserimento sociale, lavori più renumerativi, maggiore capacità di badare alla propria salute e al proprio benessere, tutti fattori che in teoria contribuiscono alla felicità. Avere intelligenza emotiva (empatia) porta poi anche a comprendere le intenzioni delle persone e quindi a tutelarsi, ad aiutarle meglio. Tuttavia, chi è molto intelligente soprattutto a livello emotivo oltre che cognitivo, proprio per il suo acume, si accorgerà prima degli altri delle ipocrisie, del fatto che gli altri agiscono spesso solo per il proprio meschino tornaconto, sono vili oppure sono conformisti come un gregge di pecore, spesso compiono azioni senza alcun senso vero e solo per conformismo e quindi l'intelligenza e la sensibilità lo porteranno ad essere più infelice e pessimista. Se si pensa oltretutto al caso di un bambino geniale e intelligentissimo, molto probabilmente sarà isolato dagli altri oppure egli stesso, per la sua intelligenza, tenderà a voler star da solo perché troverà gli altri (in fondo a ragione...) più stupidi e immaturi di lui, disprezzerà i loro giochi e i loro discorsi e questo causerà problemi al suo inserimento sociale. Molti psicologi stanno sempre di più notando come alcuni presunti disturbi della condotta e del comportamento siano addirittura associati a QI molto alti negli adolescenti e i problemi forse nascono proprio dal fatto che il soggetto iper-intelligente nota come determinate regole sociali (l'obbedienza a prescindere alle varie autorità ad esempio) e il conformismo siano in fondo delle routine immotivate e senza un vero fondamento, quindi finisce per sviluppare un carattere ribelle.
Di conseguenza secondo voi l'intelligenza contribuisce alla felicità oppure ne è un ostacolo? Ovviamente voglio solo discuterne, non pretendo di risolvere in un thread una questione così complessa.
Di per sè non trovo siano garanzia di felicità: per uno stato d'animo di benessere, appagamento compiuto e duraturo, per come intendo la felicità, occorre un mix di ingredienti, componenti e disposizioni individuali e contestuali assai complesse. Tuttavia possono essere elementi che concorrono e contribuiscono al poterla vivere, a mio parere.
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

baylham

Citazione di: Socrate78 il 31 Dicembre 2018, 16:10:29 PM
Tuttavia, chi è molto intelligente soprattutto a livello emotivo oltre che cognitivo, proprio per il suo acume, si accorgerà prima degli altri delle ipocrisie, del fatto che gli altri agiscono spesso solo per il proprio meschino tornaconto, sono vili oppure sono conformisti come un gregge di pecore, spesso compiono azioni senza alcun senso vero e solo per conformismo e quindi l'intelligenza e la sensibilità lo porteranno ad essere più infelice e pessimista. Se si pensa oltretutto al caso di un bambino geniale e intelligentissimo, molto probabilmente sarà isolato dagli altri oppure egli stesso, per la sua intelligenza, tenderà a voler star da solo perché troverà gli altri (in fondo a ragione...) più stupidi e immaturi di lui, disprezzerà i loro giochi e i loro discorsi e questo causerà problemi al suo inserimento sociale. 

Un uomo relativamente intelligente non pensa quanto sopra ed è consapevole di essere ignorante.
L'intelligenza relativa non procura la felicità, la gioa, solo in qualche occasione, ma la serenità e l'accettazione della vita.

viator

Salve Ipazia. "«Lo sforzo di capire l'universo è tra le pochissime cose che innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa, conferendole un po' della dignità di una tragedia.»"

Sono d'accordo con te, con Weinberg e quindi presumibilmente anche con Hawking.
Ma noi quattro siamo tutto sommato dei privilegiati. Mica vorrai eleggerci a parametro di base della felicità esistenziale.

C'è un sacco di gente che è costretta vivere senza disporre di tempo e risorse per speculare su ciò che non gli urge affatto, tipo l'universo. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

everlost

Ciao Ipazia e buon anno!   :-*
La percezione della felicità - perché forse la felicità in sé non esiste - è del tutto soggettiva.
Steven Hawking apprezzava la vita anche se immobilizzato da una malattia dei neuroni, ma chissà, forse  lui la felicità non la trovava nella prestanza fisica quanto nello studio del cosmo, della matematica e della fisica, e grazie al cielo le sue meravigliose facoltà mentali non erano intaccate dalla malattia, tanto che poteva scrivere libri e tenere conferenze su quel suo trabiccolo ipertecnologico .
Ma mi chiedo se, ad esempio, un campione sportivo finito in carrozzella nel bel mezzo della carriera agonistica riesca ad accettare la sorte con altrettanto coraggio e ottimismo.

@ Baylham
CitazioneUn uomo relativamente intelligente non pensa quanto sopra ed è consapevole di essere ignorante.
L'intelligenza relativa non procura la felicità, la gioa, solo in qualche occasione, ma la serenità e l'accettazione della vita.

Baylham, non so cosa intendi per 'intelligenza relativa'. Tutti sono relativamente intelligenti, ma qualcuno - obiettivamente - lo è di più.  :)
Se parli di un uomo poi sono d'accordo,  ma un bambino? Secondo te come sta un bambino quando capisce, perché lo si capisce anche a cinque anni, d'essere diverso dagli altri? D'accordo che un vero superdotato non si considera mai superiore, non è spocchioso, (non come il classico 'so tutto io' che alza sempre la mano), però se percepisce d'essere tenuto a distanza dai coetanei ci patisce, e non c'è ragionamento che lo possa consolare dalla tristezza della solitudine. 
Da piccoli è difficile accettare filosoficamente che gli amichetti non vogliano mai giocare con te, che i compagni di classe ti prendano in giro perché sei l'unico che sa sempre rispondere alla prof e non sbaglia un problema o una versione di latino. E poi pensa che gioia se durante l'adolescenza non ti invitano  alle feste perché ti trovano noioso e rompiscatole (magari perché loro adorano il rap e tu ti diverti solo con blues,  soul e jazz). 
Ti puoi confortare giocando a scacchi con il computer, ma insomma, per un teenager è abbastanza dura.
E non parliamo poi delle femminucce superdotate, che per loro tutto è più tremendo in ogni senso.  ::)
Da adulti i problemi diventano altri, e il fatto di svolgere una professione 'elevata' tra colleghi colti dovrebbe facilitare un minimo le cose.

A volte però c'è un lieto fine...crescendo, alcuni talenti precoci tanto brillanti e promettenti rincretiniscono, così il divario sparisce e tutto per fortuna si sistema.  
Sarà forse la livella che si prende una rivincita.  ;D

davintro

ho sempre avuto il forte sospetto che l'idea per cui intelligenza e felicità siano tra loro in antitesi sia una sorta di autoconsolazione per le persone, che siccome conducono una vita dove nel complesso la sofferenza e la negatività prevalgono sulle soddisfazioni (preferisco non parlare di "infelicità" dato che considero la felicità una condizione mondanamente irraggiungibile, a cui al massimo possiamo avvicinarci ma mai realizzarla compiutamente, quindi in-felici, chi più, chi meno lo siamo tutti), cercano motivo di conforto nell'orgoglio di sentirsi più intelligenti, o più in generale "migliori" rispetto agli altri, il cui benessere viene svalutato in quanto frutto di immaturità, non davvero meritato. Insomma, un po' come la favola in cui la volpe si autoconvince di schifare l'uva solo perché non riesce a prenderla. Questo è un atteggiamento che non mi sento di demonizzare, se riesce davvero a consolare persone (senza arrivare a portarle a rancore distruttivo verso gli "stupidi felici"...)che ne sentono il bisogno ben venga, però è chiaramente una falsificazione, un autoinganno. Al contrario, penso che l'intelligenza sia proprio ciò che occorre potenziare al massimo per avvicinarsi il più possibile alla felicità, intendendo l'intelligenza come la capacità, nei suoi diversi campi di applicazione, (ci comprendo anche l'intelligenza emotiva a cui va fatta riferire l'empatia, che sarebbe da intendersi come coglimento teoretico dei vissuti degli alter ego, e non come un sentimento morale o di affetto, e dunque ho trovato del tutto opportuna e condivisibile la precisazione in merito di Jacopus, il sadico che gode della sofferenza delle sue vittime è necessariamente un empatico) di risolvere problemi ed eliminare gli ostacoli che ci separano dal raggiungere i nostri obiettivi esistenziali, cioè ciò da cui facciamo dipendere il nostro benessere. All'idea che l'intelligenza possa essere foriera di frustrazione perché ci porta alla consapevolezza dei difetti dell'umanità, come l'ipocrisia o il conformismo, si può opporre l'idea che essa porti anche alla consapevolezza dei pregi, al riconoscimento dei talenti e delle qualità positive delle persone spesso nascosti, che magari restando in un'ottica superficiale non potrebbero emergere. Tutto dipende dalla componente di ottimismo/pessimismo presente nelle nostre visioni personali del mondo. Quindi mi pare che la questione in questo senso debba spostarsi dal rapporto intelligenza-felicità a quello ottimismo vs pessimismo, se sia più ragionevole l'una o l'altra impostazione, questione che mi pare molto problematica nel tematizzarsi in modo razionale, considerando il peso dei condizionamenti delle nostre esperienze vissute e dei nostri stati d'animo contingenti che finiscono con l'essere inevitabilmente chiamati in causa

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