Nel sentir discorrere intorno alle scienze mi par di capire che la conoscenza sia diretta verso orizzonti sempre più vasti, ma non tanto estesi da poter comprendere il sapere della cosa in sé. Il metodo sperimentale per sua natura non può allontanarsi dal fenomenico ma, dal mio punto di vista almeno, un universo che fosse solo fenomenico sarebbe assurdo. Se si considera la materia solo nel suo agire e non anche in ciò per cui agisce, allora noi assistiamo solo a delle manifestazioni, ma manifestazioni di cosa? Essendo la materia in ultima analisi energia, e non avendo l'energia una forma che permane nel tempo, dovremmo quindi giungere alle medesime conclusioni di Cratilo. Ossia che non possiamo dare un nome a nessuna cosa ma, al massimo, possiamo riferirci ad essa soltanto indicandola. Perché non appena diciamo che x è un bambino, x è già diventato uomo. E quando diciamo x è un uomo, è già un cumulo di ossa. Ciò che ha senso per noi lo ha solo in virtù che qualche manciata di anni a noi pare un'eternità, ma nella prospettiva dell'eternità noi nasciamo, viviamo e moriamo in un granello insignificante di tempo. Il punto di vista dell'eternità potrebbe corrispondere al noumeno, all'essere in sé che noi non siamo nemmeno in grado di definire con precisione. Quindi facciamo lunghe disquisizioni sul sapere tralasciandone l'essenza stessa. Forse è questa la differenza fra la nostra cultura e quella orientale: per noi ciò che pensiamo intorno alle cose è la loro essenza, per la cultura orientale invece il pensiero e funzione dell'essenza. La quale è inconoscibile e indefinibile.
Personalmente ritengo che storicamente l'orientale è legato più a come il pensiero ha pensato il reale, noi occidentali ci siamo invece approcciati alla realtà fisica mettendo in dubbio i nostri pensieri: per noi il focus è la realtà fisica poichè e descrivibile e logicamente falsa o vera e scientificamente dimostrabile nelle sue reiterazioni fenomeniche.
Quindi per noi il razionale e vero equivale al mondo là fuori, per l'orientale il vero equivale al suo pensiero ed è falsa la realtà.
E di nuovo ritorna la filosofia del reale metafisico greco contro il reale sperimentale della scienza moderna , il mondo del deduttivo contro l'induttivo.
Citazione di: paul11 il 02 Maggio 2016, 18:26:04 PM
Personalmente ritengo che storicamente l'orientale è legato più a come il pensiero ha pensato il reale, noi occidentali ci siamo invece approcciati alla realtà fisica mettendo in dubbio i nostri pensieri: per noi il focus è la realtà fisica poichè e descrivibile e logicamente falsa o vera e scientificamente dimostrabile nelle sue reiterazioni fenomeniche.
Quindi per noi il razionale e vero equivale al mondo là fuori, per l'orientale il vero equivale al suo pensiero ed è falsa la realtà.
E di nuovo ritorna la filosofia del reale metafisico greco contro il reale sperimentale della scienza moderna , il mondo del deduttivo contro l'induttivo.
Per quel poco che ne posso dire nella filosofia orientale l'essere è un qualcosa di interiore da cui scaturiamo noi stessi, pensieri compresi. Il mondo esterno è l'ingannatore velo di Maya, ed anche per la filosofia greca il senso è ingannatore, quindi ciò che proviene da fuori. Perciò aveva senso la metafisica, perché solo della ragione ci si può fidare, si pensava. Da Aristotele in poi, credo, lo strumento (organon) della ragione è diventato più importante della ragione stessa. La ragione non è più un entità ma un criterio, meglio se esprimibile in modo formale, così da eliminare possibilità di equivoci. Questo è l'inganno della nostra cultura (almeno secondo il mio miserrimo punto di vista): i mezzi sono diventati più importanti del fine. Tutta questa scienza per cosa? Per vivere di più? Per vivere meglio? Purtroppo è già parecchio tempo che la nostra civiltà ha smesso di interrogarsi su ciò che è meglio. È meglio il benessere, su questo non abbiamo dubbi. Ma la filosofia del benessere porta all'egocentrismo e, in ultima analisi, all'indifferenza verso tutto ciò che non serve ad alimentare il piacere. E ancor peggio, l'egoismo o individualismo porta a smettere di interrogarsi su quell'essere inconoscibile e indefinibile da cui scaturiamo. Detto questo, se sto male vado dal medico e non dal santone.
Cvc ha scritto:
CitazioneIl punto di vista dell'eternità potrebbe corrispondere al noumeno, all'essere in sé che noi non siamo nemmeno in grado di definire con precisione. Quindi facciamo lunghe disquisizioni sul sapere tralasciandone l'essenza stessa. Forse è questa la differenza fra la nostra cultura e quella orientale: per noi ciò che pensiamo intorno alle cose è la loro essenza, per la cultura orientale invece il pensiero e funzione dell'essenza. La quale è inconoscibile e indefinibile.
Non mi par proprio che per la "cultura orientale" il pensiero sia "funzione dell'essenza". La tendenza prevalente mi pare che invece sia che il pensiero, sotto la spinta dell'ego, con i suoi desideri e la sua intrinseca limitatezza, maschera, nasconde, distorce l'essenza.
E neppure che questa "essenza" sia inconoscibile (indefinibile, magari, sì). Per molti pensatori e mistici orientali (ma non solo) l'essenza del "tutto" è "conoscibile" per fusione della coscienza individuale con quella universale attraverso pratiche meditative (che non sono pratiche di pensiero, ma ne implicano il superamento).
Ma bisogna precisare che in molti dibattiti filosofici del mondo occidentale si parla di "pensiero" con significati assai diversi, e certamente molto diversi dalla concezione "orientale" (o "orientaleggiante") come rappresentante del mondo psichico in generale, oppure come fonte archetipica delle forme tangibili (le idee platoniche), o altro ancora.
Nella cultura orientale spesso il pensiero non è tenuto in gran considerazione, ma ritenuto un mezzo pittosto rozzo e imperfetto di conoscenza della "realtà", che necessita dello sviluppo di "sensi superiori" per poter essere in qualche modo afferrata.
E in effetti credo sia innegabile che nessuna logica ci potrà mai fornire alcuna risposta a domande sui fondamenti dell'esistenza (può invece smontare delle asserzioni gratuite o incongrue in proposito). La prima difficoltà, secondo me insormontabile, sta nel definire l"esistenza". Cosa vuol dire che qualcosa esiste o non esiste?
Citazione di: Donalduck il 03 Maggio 2016, 22:00:55 PM
Cvc ha scritto:
CitazioneIl punto di vista dell'eternità potrebbe corrispondere al noumeno, all'essere in sé che noi non siamo nemmeno in grado di definire con precisione. Quindi facciamo lunghe disquisizioni sul sapere tralasciandone l'essenza stessa. Forse è questa la differenza fra la nostra cultura e quella orientale: per noi ciò che pensiamo intorno alle cose è la loro essenza, per la cultura orientale invece il pensiero e funzione dell'essenza. La quale è inconoscibile e indefinibile.
Non mi par proprio che per la "cultura orientale" il pensiero sia "funzione dell'essenza". La tendenza prevalente mi pare che invece sia che il pensiero, sotto la spinta dell'ego, con i suoi desideri e la sua intrinseca limitatezza, maschera, nasconde, distorce l'essenza.
E neppure che questa "essenza" sia inconoscibile (indefinibile, magari, sì). Per molti pensatori e mistici orientali (ma non solo) l'essenza del "tutto" è "conoscibile" per fusione della coscienza individuale con quella universale attraverso pratiche meditative (che non sono pratiche di pensiero, ma ne implicano il superamento).
Ma bisogna precisare che in molti dibattiti filosofici del mondo occidentale si parla di "pensiero" con significati assai diversi, e certamente molto diversi dalla concezione "orientale" (o "orientaleggiante") come rappresentante del mondo psichico in generale, oppure come fonte archetipica delle forme tangibili (le idee platoniche), o altro ancora.
Nella cultura orientale spesso il pensiero non è tenuto in gran considerazione, ma ritenuto un mezzo pittosto rozzo e imperfetto di conoscenza della "realtà", che necessita dello sviluppo di "sensi superiori" per poter essere in qualche modo afferrata.
E in effetti credo sia innegabile che nessuna logica ci potrà mai fornire alcuna risposta a domande sui fondamenti dell'esistenza (può invece smontare delle asserzioni gratuite o incongrue in proposito). La prima difficoltà, secondo me insormontabile, sta nel definire l"esistenza". Cosa vuol dire che qualcosa esiste o non esiste?
La filosofia orientale a differenza di quella occidentale non è incentrata sulla costruzione di edifici razionali ma sulla meditazione. Swami Sivananda dice che lo scopo del saggio è di coltivate i pensieri puri ed eliminare quelli cattivi. Perciò è centrale l'autocontrollo. Il pensiero è funzione dell'essenza in quanto è un mezzo per raggiungere la perfezione interiore. Ci sono molti punti in comune con la filosofia antica, nella quale Hadot individuò nella scrittura stessa una forma di meditazione. Dall'avvento del cristianesimo in poi la filosofia ha assunto i tratti della sistematicità che poi sarà tipica dell'esposizione scientifica. In questo modo di trattare sistematico, efficace ed efficiente in ambito scientifico, il filosofo sembra preoccuparsi di comprendere la realtà, ma non di intuirla. E il fatto che la scienza abbia mostrato come molti fenomeni fisici siano contro intuitivi, ha contribuito a svalutare questa facoltà. Nonostante molte scoperte scientifiche siano sorte proprio per intuizione. Occorre rivalutare l'aspetto intuitivo dell'esistenza, e le filosofie orientali e antiche mi pare abbiano proprio questa prerogativa di curare l'intuizione. Il sapere non è utile solo per se stesso, ma per l'effetto liberatorio che produce sulle afflizioni dell'anima.
Citazione di: cvc il 02 Maggio 2016, 16:31:00 PM
Nel sentir discorrere intorno alle scienze mi par di capire che la conoscenza sia diretta verso orizzonti sempre più vasti, ma non tanto estesi da poter comprendere il sapere della cosa in sé. Il metodo sperimentale per sua natura non può allontanarsi dal fenomenico ma, dal mio punto di vista almeno, un universo che fosse solo fenomenico sarebbe assurdo. Se si considera la materia solo nel suo agire e non anche in ciò per cui agisce, allora noi assistiamo solo a delle manifestazioni, ma manifestazioni di cosa? Essendo la materia in ultima analisi energia, e non avendo l'energia una forma che permane nel tempo, dovremmo quindi giungere alle medesime conclusioni di Cratilo. Ossia che non possiamo dare un nome a nessuna cosa ma, al massimo, possiamo riferirci ad essa soltanto indicandola. Perché non appena diciamo che x è un bambino, x è già diventato uomo. E quando diciamo x è un uomo, è già un cumulo di ossa. Ciò che ha senso per noi lo ha solo in virtù che qualche manciata di anni a noi pare un'eternità, ma nella prospettiva dell'eternità noi nasciamo, viviamo e moriamo in un granello insignificante di tempo. Il punto di vista dell'eternità potrebbe corrispondere al noumeno, all'essere in sé che noi non siamo nemmeno in grado di definire con precisione. Quindi facciamo lunghe disquisizioni sul sapere tralasciandone l'essenza stessa. Forse è questa la differenza fra la nostra cultura e quella orientale: per noi ciò che pensiamo intorno alle cose è la loro essenza, per la cultura orientale invece il pensiero e funzione dell'essenza. La quale è inconoscibile e indefinibile.
Eppure proprio nel nuovo materialismo (a cui avevo accennato in questa discussione nel vecchio forum:
http://www.riflessioni.it/forum/filosofia/14689-il-transindividuale-ultima-frontiera-del-materialismo-speculativo.html)
partendo dalla concezione di un'esperienza assoluta originaria, pura praxis, che precede ogni soggetto e oggetto e in cui ogni essere vivente è immerso in un totale presente del tutto immanente e in atto, si perviene a una concezione metafisica forte che richiama l'
apeiron presocratico. Senza dubbio è filosoficamente interessante, anche da un punto di vista spirituale (materia e spirito si confondono fino a coincidere qualora si consideri le cose sotto la prospettiva di una pura fenomenologia del divenire, seguendo quello che Gentile definì metodo dell'immanenza in contrapposizione con il metodo della trascendenza che ha dominato il pensiero occidentale di impostazione antropocentrica e coscienziale a partire da Platone (con la verità collocata al di sopra e al di fuori della esperienza e con la funzione demiurgica che crea come un artigiano dando forma poietica alla materia sensibile secondo progetto).
Mi pare che questa concezione metafisica che si considera del tutto immanente richiami alcune considerazioni svolte soprattutto nel precedente forum da alcuni utenti che sostenevano la priorità della percezione, se intesa come esperienza una percettiva in sé, ossia un'esperienza che non è di niente e di nessuno, o, se si preferisce, una sorta di coscienza primaria senza l'io e quindi senza l'uomo, pura meccanicità insita nella natura.
Occorre riconoscere che questa concezione mi pare molto vicina proprio al pensiero orientale (penso soprattutto al taoismo e ad alcune forme di buddismo), la cui spiritualità elevatissima si presenta del tutto immanente e pragmatica (il puro gesto zen, ma anche la meditazione trascendentale dello Yoga, che in ambito induista assolutizza l'esperienza del respiro senza creare alcun disegno trascendente). In Occidente forse questo senso di assoluta immanenza ricorre solo in alcune forme di grande misticismo del passato, ma è rimasta abbastanza marginale nell'evoluzione platonica del pensiero occidentale, dominato dall'io e dal rapporto che sussiste tra un soggetto e un oggetto originari.
Dal mio punto di vista trovo che, pur esprimendo una concezione molto interessante, questa impostazione che fa dell'esperienza un assoluto, mostra una contraddizione evidente soprattutto nel modo occidentale di trattarla attraverso il linguaggio, il logos, che comunque resta ascritto al progetto del tutto cosciente e soggettivo di chi ne parla: ossia, anche se questa esperienza la si dichiara assoluta essa è trattata comunque come oggetto di un soggetto e dunque è del tutto relativa ad essi.
Tra gli esponenti italiani di questo nuovo materialismo, senza dubbio c'è Rocco Ronchi, molto legato al pensiero di Deleuze. Allego il link a un filmato Youtube molto interessante (è piuttosto lungo, ma merita) in cui presenta con grande chiarezza questa linea di pensiero ad "Harmonia Mundi" per legarla alla fenomenologia esoterica, mostrandone come può darne ragione filosofica:
https://www.youtube.com/watch?v=8yQF1OlALsI(Interessante tra l'altro anche la perplessità finale di uno degli ascoltatori che, avendo basato la sua crescita spirituale sul distacco dall'esperienza, si ritrova messo in crisi da una linea di pensiero che legge la crescita spirituale in direzione del tutto opposta.)
Non so se in passato ne avete già parlato, ma non esiste un'unica accezione per il noumeno.
Mettendo a confronto le due che conosco, quella di Kant e quella di Schopenhauer mi sento più vicino a quest'ultimo.
In Kant il noumeno rappresenta un limite invalicabile, in Schopenhauer questo limite può venire valicato. Il noumeno di Schopenhauer è espresso dalla volontà a cui si accede attraverso i sensi. Per Kant il noumeno è oggetto di intuizione non sensibile e resta, nella sua essenza, inconoscibile.
l'esperienza immediata o prassi pura da quel che mi sembra di aver capito affermerebbe che siano i nostri pensieri (?) se non proprio le nostre immediate percezioni a determinare il reale nel suo svolgersi in atto,in pura praxis..
ma allora questa esperienza che si vuole assoluta originaria,da dove prenderebbe la sua stessa origine?
e che fine farebbe l'immaginazione o le idee e i concetti stessi?
e se tutta la cosiddetta realtà rientrerebbe solo in questa pura praxis,attraverso i nostri sensi immediati quindi nella nostra immediata percezione che fine farebbe l'auto coscienza?
a meno che non si voglia appunto negarla,ma non sarebbe comunque una contraddizione voler affermare un idea o un concetto e poi negare implicitamente (visto che come viene detto sopra: "ossia un esperienza che non e' di niente e di nessuno,o se si preferisce,una sorta di coscienza primaria senza l'io e quindi senza l'uomo"..) l'esistenza stessa dell'idea o il concetto espressi un attimo prima? (e chi sarebbe dunque l'autore di tale concezione? ..niente e/o nessuno?!?)
il "pensiero" orientale o diciamo spirituale a differenza di quanto sopra,arriva a coincidere con la coscienza suprema ed immutabile e la differenza e' che vi sarebbe consapevole coincidenza,che tra l'altro non ha nulla a che vedere col distacco dall'esperienza
Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 02:55:13 AM
ma allora questa esperienza che si vuole assoluta originaria,da dove prenderebbe la sua stessa origine?
e che fine farebbe l'immaginazione o le idee e i concetti stessi?
e se tutta la cosiddetta realtà rientrerebbe solo in questa pura praxis,attraverso i nostri sensi immediati quindi nella nostra immediata percezione che fine farebbe l'auto coscienza?
a meno che non si voglia appunto negarla,ma non sarebbe comunque una contraddizione voler affermare un idea o un concetto e poi negare implicitamente (visto che come viene detto sopra: "ossia un esperienza che non e' di niente e di nessuno,o se si preferisce,una sorta di coscienza primaria senza l'io e quindi senza l'uomo"..) l'esistenza stessa dell'idea o il concetto espressi un attimo prima? (e chi sarebbe dunque l'autore di tale concezione? ..niente e/o nessuno?!?)
Non credo sia necessario ammettere che oltre gli immediati dati sensibili (fenomenici) dell' esperienza sia reale qualcosaltro: la realtà potrebbe benissimo anche limitarsi ad essi (ma ciò non toglie che lo credo di fatto, per fede; solo che il mio razionalismo mi impone di essere consapevole dell' indimostrabilità, dell' arbitrarietà delle mie credenze che eccedono l' esisteza dei soli dati fenomenici o sensibili di coscienza di cui é immediatamente evidente l' accadere).
Dunque "un esperienza che non e' di niente e di nessuno, o se si preferisce, una sorta di coscienza primaria senza l'io e quindi senza l'uomo" potrebbe essere tutto ciò che é reale, che costituisce la realtà.
Credere all' esistenza di se stessi (ammettere la realtà dell' autocoscienza) e di altri si può indimostrabilmente, per fede, ma non necessariamente per cogenza logica (e sono anche convinto si debba di fatto se si é psichicamente sani).
Citazione di: maral il 04 Maggio 2016, 19:43:28 PM
Citazione di: cvc il 02 Maggio 2016, 16:31:00 PM
Nel sentir discorrere intorno alle scienze mi par di capire che la conoscenza sia diretta verso orizzonti sempre più vasti, ma non tanto estesi da poter comprendere il sapere della cosa in sé. Il metodo sperimentale per sua natura non può allontanarsi dal fenomenico ma, dal mio punto di vista almeno, un universo che fosse solo fenomenico sarebbe assurdo. Se si considera la materia solo nel suo agire e non anche in ciò per cui agisce, allora noi assistiamo solo a delle manifestazioni, ma manifestazioni di cosa? Essendo la materia in ultima analisi energia, e non avendo l'energia una forma che permane nel tempo, dovremmo quindi giungere alle medesime conclusioni di Cratilo. Ossia che non possiamo dare un nome a nessuna cosa ma, al massimo, possiamo riferirci ad essa soltanto indicandola. Perché non appena diciamo che x è un bambino, x è già diventato uomo. E quando diciamo x è un uomo, è già un cumulo di ossa. Ciò che ha senso per noi lo ha solo in virtù che qualche manciata di anni a noi pare un'eternità, ma nella prospettiva dell'eternità noi nasciamo, viviamo e moriamo in un granello insignificante di tempo. Il punto di vista dell'eternità potrebbe corrispondere al noumeno, all'essere in sé che noi non siamo nemmeno in grado di definire con precisione. Quindi facciamo lunghe disquisizioni sul sapere tralasciandone l'essenza stessa. Forse è questa la differenza fra la nostra cultura e quella orientale: per noi ciò che pensiamo intorno alle cose è la loro essenza, per la cultura orientale invece il pensiero e funzione dell'essenza. La quale è inconoscibile e indefinibile.
Eppure proprio nel nuovo materialismo (a cui avevo accennato in questa discussione nel vecchio forum:http://www.riflessioni.it/forum/filosofia/14689-il-transindividuale-ultima-frontiera-del-materialismo-speculativo.html)
partendo dalla concezione di un'esperienza assoluta originaria, pura praxis, che precede ogni soggetto e oggetto e in cui ogni essere vivente è immerso in un totale presente del tutto immanente e in atto, si perviene a una concezione metafisica forte che richiama l'apeiron presocratico. Senza dubbio è filosoficamente interessante, anche da un punto di vista spirituale (materia e spirito si confondono fino a coincidere qualora si consideri le cose sotto la prospettiva di una pura fenomenologia del divenire, seguendo quello che Gentile definì metodo dell'immanenza in contrapposizione con il metodo della trascendenza che ha dominato il pensiero occidentale di impostazione antropocentrica e coscienziale a partire da Platone (con la verità collocata al di sopra e al di fuori della esperienza e con la funzione demiurgica che crea come un artigiano dando forma poietica alla materia sensibile secondo progetto).
Mi pare che questa concezione metafisica che si considera del tutto immanente richiami alcune considerazioni svolte soprattutto nel precedente forum da alcuni utenti che sostenevano la priorità della percezione, se intesa come esperienza una percettiva in sé, ossia un'esperienza che non è di niente e di nessuno, o, se si preferisce, una sorta di coscienza primaria senza l'io e quindi senza l'uomo, pura meccanicità insita nella natura.
Occorre riconoscere che questa concezione mi pare molto vicina proprio al pensiero orientale (penso soprattutto al taoismo e ad alcune forme di buddismo), la cui spiritualità elevatissima si presenta del tutto immanente e pragmatica (il puro gesto zen, ma anche la meditazione trascendentale dello Yoga, che in ambito induista assolutizza l'esperienza del respiro senza creare alcun disegno trascendente). In Occidente forse questo senso di assoluta immanenza ricorre solo in alcune forme di grande misticismo del passato, ma è rimasta abbastanza marginale nell'evoluzione platonica del pensiero occidentale, dominato dall'io e dal rapporto che sussiste tra un soggetto e un oggetto originari.
Dal mio punto di vista trovo che, pur esprimendo una concezione molto interessante, questa impostazione che fa dell'esperienza un assoluto, mostra una contraddizione evidente soprattutto nel modo occidentale di trattarla attraverso il linguaggio, il logos, che comunque resta ascritto al progetto del tutto cosciente e soggettivo di chi ne parla: ossia, anche se questa esperienza la si dichiara assoluta essa è trattata comunque come oggetto di un soggetto e dunque è del tutto relativa ad essi.
Tra gli esponenti italiani di questo nuovo materialismo, senza dubbio c'è Rocco Ronchi, molto legato al pensiero di Deleuze. Allego il link a un filmato Youtube molto interessante (è piuttosto lungo, ma merita) in cui presenta con grande chiarezza questa linea di pensiero ad "Harmonia Mundi" per legarla alla fenomenologia esoterica, mostrandone come può darne ragione filosofica:
https://www.youtube.com/watch?v=8yQF1OlALsI
(Interessante tra l'altro anche la perplessità finale di uno degli ascoltatori che, avendo basato la sua crescita spirituale sul distacco dall'esperienza, si ritrova messo in crisi da una linea di
Sulla questione fra immanenza e trascendenza io sospendo volentieri il giudizio, pur non esimendomi dall'osservare che una volta scoperchiato il vaso di Pandora dello sdoppiamento delle due realtà, concettuale e fisica, diventa un'impresa immane (e tuttora non riuscita) quella di ricomporre l'originaria unità del pensiero filosofico. Platone mediò dando però rango di realtà suprema alle idee e relegando il sensibile a realtà subordinata. Quindi il più grande tentativo di mediazione, quello platonico, è tuttavia in un certo senso fazioso. L'apeiron è stato identificato nel concetto, ma una volta che lo si identifica con qualcosa, lo si snatura.
Alla fine nella nostra civiltà è prevalso il platonismo, d'altronde gli atomi e le particelle non sono forse idee? Chi ha mai visto o esperito un atomo? Però il genio greco che ci ha fatto tanto progredire aveva in seno i suoi difetti. Ad esempio la fissazione di poter spiegare l'inspiegabile, di poter trovare la quadratura del cerchio con righello e compasso (cosa peraltro dimostratasi impossibile) tralasciando con ciò gli aspetti più pratici. Cosa che non fecero i romani che passarono dalla matematica astratta greca alla matematica applicata. Ma nell'economia della sfera morale, che è ciò che più mi interessa, è importante fissare dei limiti alla speculazione umana. Non si può quadrare il cerchio, e non si può conoscere il noumeno. Ma ciò non significa che ciononostante non si possa progredire spiritualmente. Socrate docet. Il quale fra l'altro usò il concetto non tanto come prova di possesso di una conoscenza superiore ma, piuttosto, per smontare le pretese dell'umana sapienza
Citazione di: HollyFabius il 04 Maggio 2016, 23:47:58 PM
Il noumeno di Schopenhauer è espresso dalla volontà a cui si accede attraverso i sensi. Per Kant il noumeno è oggetto di intuizione non sensibile e resta, nella sua essenza, inconoscibile.
Penso ci sia differenza fra esperire e conoscere. Vivere non significa conoscere la vita, infatti si commettono spesso gli stessi errori. La conoscenza sensoriale per essere tale deve essere consapevole. Nella differenza fra conoscenza concettuale ed esperienziale troverebbe collocazione una riflessione sull'intellettualismo socratico, alla base del quale credo ci sia un fraintendimento.
Citazione di: sgiombo il 05 Maggio 2016, 08:07:59 AM
Non credo sia necessario ammettere che oltre gli immediati dati sensibili (fenomenici) dell' esperienza sia reale qualcosaltro: la realtà potrebbe benissimo anche limitarsi ad essi (ma ciò non toglie che lo credo di fatto, per fede; solo che il mio razionalismo mi impone di essere consapevole dell' indimostrabilità, dell' arbitrarietà delle mie credenze che eccedono l' esisteza dei soli dati fenomenici o sensibili di coscienza di cui é immediatamente evidente l' accadere).
Dunque "un esperienza che non e' di niente e di nessuno, o se si preferisce, una sorta di coscienza primaria senza l'io e quindi senza l'uomo" potrebbe essere tutto ciò che é reale, che costituisce la realtà.
Credere all' esistenza di se stessi (ammettere la realtà dell' autocoscienza) e di altri si può indimostrabilmente, per fede, ma non necessariamente per cogenza logica (e sono anche convinto si debba di fatto se si é psichicamente sani).
Citazione di: cvc il 05 Maggio 2016, 08:25:24 AM
Non si può quadrare il cerchio, e non si può conoscere il noumeno. Ma ciò non significa che ciononostante non si possa progredire spiritualmente. Socrate docet. Il quale fra l'altro usò il concetto non tanto come prova di possesso di una conoscenza superiore ma, piuttosto, per smontare le pretese dell'umana sapienza
Noumeno, inconscibilità, immediato sensibile queste sono le parole chiave.
La nostra sensibilità è la porta di accesso alla trasformazione del noumeno verso il fenomenico. La conoscenza (prima intuitiva, poi razionalizzante, poi razionalizzata) è l'atto di trasformazione del noumeno in fenomeno.
Questa evoluzione è in atto, lo constatiamo nella trasformazione della nostra realtà fenomenica che aggiunge entità oggettuali dove prima mancavano.
Portatrice di questo cambiamento è la spinta del mondo della Tecnica, e avanguardie di queste nuove rappresentazioni sono gli scienziati e gli artisti.
Ma questo cambiamento si può supporre non limitato al logos condiviso, alla conoscenza immateriale che cresce; si può supporre che nel trascorrere del tempo, delle generazioni, cambi anche il nostro corpo, aggiungendo forza all'apparato sensibile. L'uomo di oggi è diverso dall'uomo di mille anni fa e sarà ancora diverso tra mille anni.
Come verrà trasformato il nostro corpo dopo decine di generazioni che vivano nello spazio privo di gravità?
Certo per alcuni, e forse anche per me, può esistere (e la cosa appare anche naturale, comprensibile e spiegabile) un limite alla possibile trasformazione del noumeno in fenomeno. Siamo corpo con limiti temporali, invecchiamo e dobbiamo alimentarci per sopravvivere, i nostri sensi porta del fenomeno potranno lentamente trasformarsi ma non sappiamo e difficilmente sapremo quanti altri sensi siano possibili in natura.
Rispetto al passato, rispetto ai pensatori greci e anche solo ai grandi pensatori del '700 e '800 noi conosciamo un mondo conoscitivo condiviso che travalica il singolo uomo, che ha sede altrove rispetto all'uomo e altrove rispetto al logos del libro, possiamo intravede delle potenzialità che erano oltre il confine cognitivo di questi pensatori.
Citazione di: cvc il 05 Maggio 2016, 09:02:35 AM
Citazione di: HollyFabius il 04 Maggio 2016, 23:47:58 PM
Il noumeno di Schopenhauer è espresso dalla volontà a cui si accede attraverso i sensi. Per Kant il noumeno è oggetto di intuizione non sensibile e resta, nella sua essenza, inconoscibile.
Penso ci sia differenza fra esperire e conoscere. Vivere non significa conoscere la vita, infatti si commettono spesso gli stessi errori. La conoscenza sensoriale per essere tale deve essere consapevole. Nella differenza fra conoscenza concettuale ed esperienziale troverebbe collocazione una riflessione sull'intellettualismo socratico, alla base del quale credo ci sia un fraintendimento.
La differenza tra Schopenhauer e Kant credo che sia proprio nell'ordine tra esperire e conoscere. Per Kant viene prima il conoscere e poi l'esperire, per Schopenhauer prima l'esperire e poi il conoscere.
Io penso che abbia ragione Schopenhauer, si può vivere anche senza darsi rappresentazioni e modelli cognitivi, fai prima esperienza diretta ed immediata della realtà, poi se ne hai capacità di razionalizzare aumenti la tua conoscenza, e questo vale non solo per l'uomo ma per ogni essere che vive. Vivi, vivendo esperisci, ricordando (e per l'uomo razionalizzando) conosci. Nel caso dell'uomo la conoscenza viene pure condivisa socialmente.
Da tempo penso che sostanzialmente ciò che viene problematizzato alla fine è l'ESISTENZA che con essa ha dentro tutti gli elementi che ne derivano, esperienza, conoscenza, pensieri sensibili, immaginari ; eterno, divenire,, linguaggio formale ,ecc.
Per questo sospetto che da Nietzsche, passando per Kierkiegaard ,Schopenauer e arrivando ad Heidegger e la fenomenologia, rimangono ancor oggi l'ultimo punto di riferimento della filosofia.
Ogni pensatore poi decide la sua costruzione teorica e pratica.
Ciò che intendeva fare Kant era una costruzione filosofica che fosse però scientifica, ecco perchè si ferma al "noumeno", perchè lì dentro ci sono gli indimostrabili e se vuole rimanere "scentifico" non può far trascendere i concetti e allora si arresta.
Hegel invece prosegue il "viaggio" conoscitivo perchè non accetta la scienza sperimentale dell'osservazione del solo "fisico" è proprio nettamente contrario, anzi ritiene che la vera scienza sia la filosofia con i concetti dentro il noumeno in cui Kant si è arrestato. Allora si trovano nei suoi scritti il concreto e l'astratto la coscienza e l'autocoscienza, la legge del cuore, ecc. Non li definisce questi concetti ,non si preoccupa di una loro costruzione ontologica, semplicemente li bypassa come tautologie,.Come dire che se la scienza fisica li ritiene indimostrabili ,altrettanto non li può negare come esistenza perchè li "viviamo" come l i vive lo stesso scienziato che li nega come indimostrabili.
E ritengo che proprio questo sia il punto di equilibrio della nostra cultura. Esistono i concetti del noumeno, tutti lo sappiamo, ma scientificamente non sono fenomenologicamente osservabili, quantificabili gestibili in leggi fisiche attuali.
Vale a dire sono tautologie, lo sappiamo perchè li viviamo ma non assiomatizzabili dentro una logica.
L'altra grande problematica è proprio fra il trascendete e il pragmatico di quel noumeno.
Questa problematica infatti è dentro lo scontro fra Husserl ed Heidegger nell'interpretazione fenomenologica dell'esistenza.
Ed è vero come dice Maral, la spiritualità, ma lo allargherei alla cultura, orientale è più pragmatica che trascendetnale , vale a dire la rendono pratica vivendola. La medicina orientale le pratiche yoga,respiratorie e di concentrazione hanno paradigmi "invisibili" come il prana, ma che sono dentro il mondo fisico compreso il corpo umano, quindi lo praticano con delle tecniche non lo trascendono, vale a dire non lo separano dal corpo fisico in quanto energia . Anche per questo motivo la cultura orientale arriva in Occidente e la influisce nel pensiero.
Citazione di: HollyFabius il 05 Maggio 2016, 09:12:59 AMNoumeno, inconscibilità, immediato sensibile queste sono le parole chiave.
La nostra sensibilità è la porta di accesso alla trasformazione del noumeno verso il fenomenico. La conoscenza (prima intuitiva, poi razionalizzante, poi razionalizzata) è l'atto di trasformazione del noumeno in fenomeno.
Questa evoluzione è in atto, lo constatiamo nella trasformazione della nostra realtà fenomenica che aggiunge entità oggettuali dove prima mancavano.
Portatrice di questo cambiamento è la spinta del mondo della Tecnica, e avanguardie di queste nuove rappresentazioni sono gli scienziati e gli artisti.
Ma questo cambiamento si può supporre non limitato al logos condiviso, alla conoscenza immateriale che cresce; si può supporre che nel trascorrere del tempo, delle generazioni, cambi anche il nostro corpo, aggiungendo forza all'apparato sensibile. L'uomo di oggi è diverso dall'uomo di mille anni fa e sarà ancora diverso tra mille anni.
Come verrà trasformato il nostro corpo dopo decine di generazioni che vivano nello spazio privo di gravità?
Certo per alcuni, e forse anche per me, può esistere (e la cosa appare anche naturale, comprensibile e spiegabile) un limite alla possibile trasformazione del noumeno in fenomeno. Siamo corpo con limiti temporali, invecchiamo e dobbiamo alimentarci per sopravvivere, i nostri sensi porta del fenomeno potranno lentamente trasformarsi ma non sappiamo e difficilmente sapremo quanti altri sensi siano possibili in natura.
Rispetto al passato, rispetto ai pensatori greci e anche solo ai grandi pensatori del '700 e '800 noi conosciamo un mondo conoscitivo condiviso che travalica il singolo uomo, che ha sede altrove rispetto all'uomo e altrove rispetto al logos del libro, possiamo intravede delle potenzialità che erano oltre il confine cognitivo di questi pensatori.
Rispondo:
Ma se per "fenomeno" si intende l' apparire di ciò che è sensibile, cosciente e per "noumeno" si intende "ciò che è in sé, senza apparire alla coscienza" non vedo come sia possibile, che senso possa vere una "trasformazione del noumeno in fenomeno": più che di trasformazione (cambiamento di "forma" di un' unica entità) si tratterebbe di una negazione (il cessare di esistere) di una determinata entità e affermazione (l' iniziare ad esistere) di una determinata altra completamente diversa entità.
Se per conoscenza si intende "predicazione vera, cioè conforme alla realtà", allora, potendo essa accadere unicamente nell' ambito di un' esperienza cosciente (si tratta delle sensazioni interiori o mentali di pensieri, di predicati per l' appunto), potrà accadere unicamente di fenomeni, sensazioni coscienti e non di cose in sé o noumeno.
Se vedo il Cervino e penso "vedo il Cervino", allora per definizione ho una conoscenza (del fatto di vedere il Cervino); ma lo stesso non posso dire del noumeno.
Quest' ultimo lo si può unicamente pensare come un concetto "oscuro" (quasi letteralmente: non visibile, né altrimenti sensibile, non apparente alla coscienza), si può dirne che unicamente esiste o che non esiste o poco più, magari allusivamente o metaforicamente); e se si dice che esiste (oppure che non esiste) non si può per definizione verificare, constatare (in ultima analisi percepire sensibilmente, coscientemente) la verità o meno di questa affermazione, in quanto ciò che si può percepire sensibilmente, coscientemente non è noumeno ma fenomeno.
Infatti I cambiamenti che la tecnica rende possibili sono cambiamenti nell' insieme dei fenomeni, tant' é vro che si constatano (= "appaiono" ai sensi, alla coscienza).
Citazione di: HollyFabius il 05 Maggio 2016, 09:12:59 AM
Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 02:55:13 AM
l'esperienza immediata o prassi pura da quel che mi sembra di aver capito affermerebbe che siano i nostri pensieri (?) se non proprio le nostre immediate percezioni a determinare il reale nel suo svolgersi in atto,in pura praxis..
No, questa esperienza è intesa come assoluto originario (e quindi non ha origine, ma è eterna origine di tutto) i
nostri pensieri, le
nostre percezioni e sensazioni vengono dopo (il soggetto con l'oggetto dell'esperienza viene dopo), sono dall'esperienza determinate e non il contrario come abbiamo sempre creduto. Nel video Ronchi per richiamarne il senso fa l'esempio dell'urlo del bambino appena nato che ha fame, quell'urlo è un assoluto, non è qualcosa di quel bambino. E' la madre che, offrendo al bambino il seno dà a quell'urlo il significato di una relazione con l'oggetto che rende possibile il cominciare a formarsi di un soggetto umano (che potrà trasformare quell'urlo assoluto in un mio grido, una mia fame).
Citazionee se tutta la cosiddetta realtà rientrerebbe solo in questa pura praxis,attraverso i nostri sensi immediati quindi nella nostra immediata percezione che fine farebbe l'auto coscienza?
a meno che non si voglia appunto negarla,ma non sarebbe comunque una contraddizione voler affermare un idea o un concetto e poi negare implicitamente (visto che come viene detto sopra: "ossia un esperienza che non e' di niente e di nessuno,o se si preferisce,una sorta di coscienza primaria senza l'io e quindi senza l'uomo"..) l'esistenza stessa dell'idea o il concetto espressi un attimo prima? (e chi sarebbe dunque l'autore di tale size=2]concezione? ..niente e/o nessuno?!?)[/size]
Ripeto, no il "pensiero" orientale o diciamo spirituale a differenza di quanto sopra,arriva a coincidere con la coscienza suprema ed immutabile e la differenza e' che vi sarebbe consapevole coincidenza,che tra l'altro non ha nulla a che vedere col distacco dall'esperienza
Secondo questa concezione immanente (o metodo dell'immanenza per avvicinarsi al noumeno) l'io è solo il prodotto di questa esperienza primaria che è senza io e il pensiero concettuale, astratto che fa perno sulla coscienza dell'io è solo un riassunto molto schematico a posteriori di questa originaria esperienza assoluta (e la conserva come la figura che resta sempre legata come sfondo). Questo riassunto astratto è per certi versi ingannatore proprio perché immagina l'io all'origine e non più l'esperienza primaria e senza io da cui è tratto.
Il legame con il pensiero orientale è evidente, il cuore della meditazione orientale (sia nel buddismo che nell'induismo) è tutto nel superamento della posizione egoica, solo se si abbandona l'io (i propri pensieri, le proprie soggettive aspirazioni e desideri) il Nirvana è possibile, ma il Nirvana (l'illuminazione della realtà in sé) la si ritrova solo nella pura esperienza fisiologica corporale e non nella ricerca di una superiore trascendenza fuori dal corpo, ma nel recupero totale dell'immanenza del corpo stesso, nell'energia materia di cui è fatto. Ronchi si rifà qui al termine aristotelico di energheia (un divenire assoluto, senza direzione) in contrapposizione a quello di katakinesis che esprime un movimento direzionato, ossia volto a uno scopo che sta fermo fuori da esso, ossia un progetto guidato da un'idea.
La contraddizione che io trovo in questa immanenza assoluta che l'Occidente vorrebbe recuperare è che essa continua a venire espressa nei termini di un discorso, di un logos, che è quanto di più lontano possibile da questa esperienza assoluta di cui parla. E' il logos come l'Occidente lo ha costruito che continua a raccontarci la sua metafisica trascendente presentandola come immanente, è sempre una poiesis a raccontarci una praxis e dunque a presentarla, nel suo progetto originario, come originaria assenza di progetto. Diverso è invece il discorso per l'Oriente, ove la filosofia dell'immanenza assoluta può davvero essere fondamentalmente praxis. Il maestro zen non spiega nulla al discepolo con le parole e se fa un discorso lo fa solo per evidenziare la contraddizione di ogni argomentazione logico dicorsiva: solo il puro gesto fisico nella sua perfezione tecnica, del tutto autoreferente, permette di cogliere la verità. Per dare conto effettivo di questa esperienza pura occorre che sia il corpo stesso a fare filosofia, non il linguaggio (un po' come fanno i maestri yoga o, se vogliamo, in ambito occidentale, fecero anticamente in Grecia i Cinici e gli Scettici)
Citazione di: maral il 05 Maggio 2016, 15:19:17 PM
il Nirvana è possibile, ma il Nirvana (l'illuminazione della realtà in sé) la si ritrova solo nella pura esperienza fisiologica corporale e non nella ricerca di una superiore trascendenza fuori dal corpo, ma nel recupero totale dell'immanenza del corpo stesso, nell'energia materia di cui è fatto. Ronchi si rifà qui al termine aristotelico di energheia (un divenire assoluto, senza direzione) in contrapposizione a quello di katakinesis che esprime un movimento direzionato, ossia volto a uno scopo che sta fermo fuori da esso, ossia un progetto guidato da un'idea.
. Il maestro zen non spiega nulla al discepolo con le parole e se fa un discorso lo fa solo per evidenziare la contraddizione di ogni argomentazione logico dicorsiva: solo il puro gesto fisico nella sua perfezione tecnica, del tutto autoreferente, permette di cogliere la verità. Per dare conto effettivo di questa esperienza pura occorre che sia il corpo stesso a fare filosofia, non il linguaggio (un po' come fanno i maestri yoga o, se vogliamo, in ambito occidentale, fecero anticamente in Grecia i Cinici e gli Scettici)
su questi due punti sopra avrei delle perplessità..ritengo che rimettere tutto all'esperienza fisiologica corporale,non sia corretto perché se e' pur vero che non e' il linguaggio a cogliere il reale non può esserlo a mio avviso nemmeno il corpo (il linguaggio del resto non proverrebbe dallo stesso corpo?)i maestri zen oltre a voler far intuire che bisogna trascendere il linguaggio credo proprio che intendano farlo per l'essere stesso di cui il corpo,nella sua esperienza fisiologica ne farebbe parte a pieno titolo e che sarebbe solo una forma,la forma ha origine dalla non forma,come il non essere (senza forma) e' all'origine dell'essere (forma) oppure analogamente il non manifesto all'origine del manifesto..ed il corpo,compreso il suo logos e' a tutti gli effetti nel manifesto (dal suo punto di vista,poiché il reale avendo origine dal non manifesto comprende entrambi senza distinzione,cioè la distinzione la facciamo noi ma e' appunto relativa)ed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto
Citazione di: sgiombo il 05 Maggio 2016, 15:12:48 PM
Citazione di: HollyFabius il 05 Maggio 2016, 09:12:59 AMNoumeno, inconscibilità, immediato sensibile queste sono le parole chiave.
La nostra sensibilità è la porta di accesso alla trasformazione del noumeno verso il fenomenico. La conoscenza (prima intuitiva, poi razionalizzante, poi razionalizzata) è l'atto di trasformazione del noumeno in fenomeno.
Questa evoluzione è in atto, lo constatiamo nella trasformazione della nostra realtà fenomenica che aggiunge entità oggettuali dove prima mancavano.
Portatrice di questo cambiamento è la spinta del mondo della Tecnica, e avanguardie di queste nuove rappresentazioni sono gli scienziati e gli artisti.
Ma questo cambiamento si può supporre non limitato al logos condiviso, alla conoscenza immateriale che cresce; si può supporre che nel trascorrere del tempo, delle generazioni, cambi anche il nostro corpo, aggiungendo forza all'apparato sensibile. L'uomo di oggi è diverso dall'uomo di mille anni fa e sarà ancora diverso tra mille anni.
Come verrà trasformato il nostro corpo dopo decine di generazioni che vivano nello spazio privo di gravità?
Certo per alcuni, e forse anche per me, può esistere (e la cosa appare anche naturale, comprensibile e spiegabile) un limite alla possibile trasformazione del noumeno in fenomeno. Siamo corpo con limiti temporali, invecchiamo e dobbiamo alimentarci per sopravvivere, i nostri sensi porta del fenomeno potranno lentamente trasformarsi ma non sappiamo e difficilmente sapremo quanti altri sensi siano possibili in natura.
Rispetto al passato, rispetto ai pensatori greci e anche solo ai grandi pensatori del '700 e '800 noi conosciamo un mondo conoscitivo condiviso che travalica il singolo uomo, che ha sede altrove rispetto all'uomo e altrove rispetto al logos del libro, possiamo intravede delle potenzialità che erano oltre il confine cognitivo di questi pensatori.
Rispondo:
Ma se per "fenomeno" si intende l' apparire di ciò che è sensibile, cosciente e per "noumeno" si intende "ciò che è in sé, senza apparire alla coscienza" non vedo come sia possibile, che senso possa vere una "trasformazione del noumeno in fenomeno": più che di trasformazione (cambiamento di "forma" di un' unica entità) si tratterebbe di una negazione (il cessare di esistere) di una determinata entità e affermazione (l' iniziare ad esistere) di una determinata altra completamente diversa entità.
Se per conoscenza si intende "predicazione vera, cioè conforme alla realtà", allora, potendo essa accadere unicamente nell' ambito di un' esperienza cosciente (si tratta delle sensazioni interiori o mentali di pensieri, di predicati per l' appunto), potrà accadere unicamente di fenomeni, sensazioni coscienti e non di cose in sé o noumeno.
Se vedo il Cervino e penso "vedo il Cervino", allora per definizione ho una conoscenza (del fatto di vedere il Cervino); ma lo stesso non posso dire del noumeno.
Quest' ultimo lo si può unicamente pensare come un concetto "oscuro" (quasi letteralmente: non visibile, né altrimenti sensibile, non apparente alla coscienza), si può dirne che unicamente esiste o che non esiste opoco più, magari allusivamente o metaforicamente); e se si dice che esiste (oppure che non esiste) non si può per definizione verificare, constatare (in ultima analisi percepire sensibilmente, coscientemente) la verità o meno di questa affermazione, in quanto ciò che si può percepire sensibilmente, coscientemente non è noumeno ma fenomeno.
Infatti I cambiamenti che la tecnica rende possibili sono cambiamenti nell' insieme dei fenomeni, tant' é vro che si constatano (= "appaiono" ai sensi, alla coscienza).
Ho scritto sopra che esistono due possibili interpretazioni di fenomeno e noumeno, in quella kantiana è effettivamente come scrivi tu il noumeno rimane inaccessibile ai sensi e alla ragione. La seconda è quella di Schopenhauer dove il noumeno non è inaccessibile. Io penso sia corretta l'interpretazione di S.
Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 16:51:53 PM
su questi due punti sopra avrei delle perplessità..
ritengo che rimettere tutto all'esperienza fisiologica corporale,non sia corretto perché se e' pur vero che non e' il linguaggio a cogliere il reale non può esserlo a mio avviso nemmeno il corpo (il linguaggio del resto non proverrebbe dallo stesso corpo?)
Se il linguaggio proviene dal corpo, il linguaggio è espressione dell'immanenza del corpo, non lo trascende.
Il punto è comunque che l'esperienza pura (in qualsiasi forma si realizzi) è esperienza priva di soggetto, priva di un io, sia corporeo che spirituale, poiché è essa stesso a determinarlo e non il contrario.
Citazionei maestri zen oltre a voler far intuire che bisogna trascendere il linguaggio credo proprio che intendano farlo per l'essere stesso di cui il corpo,nella sua esperienza fisiologica ne farebbe parte a pieno titolo e che sarebbe solo una forma,
la forma ha origine dalla non forma,come il non essere (senza forma) e' all'origine dell'essere (forma) oppure analogamente il non manifesto all'origine del manifesto..ed il corpo,compreso il suo logos e' a tutti gli effetti nel manifesto (dal suo punto di vista,poiché il reale avendo origine dal non manifesto comprende entrambi senza distinzione,cioè la distinzione la facciamo noi ma e' appunto relativa)
ed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto
Immanente nel senso di presente, del tutto coincidente con l'atto. L'esperienza è presente in atto che non conosce limiti e dunque non ha né passato né futuro (senza origine né fine), è l'istante eterno dell'atto. Non nel senso di interno in contrapposizione con un esterno, poiché nell'esperienza pura non vi è ciò che discrimina l'interno dall'esterno, non c'è l'io e quindi non c'è nulla che possa definirsi interno o esterno a esso. Quel vuoto è pieno in modo traboccante, come il vuoto quantistico, una continua oscillazione senza tempo di forme metastabili che sono e non sono. E' il gioco di un divenire assoluto che le parole non possono rendere, ma che è esperienza primaria comune a tutto il vivente, dalle piante, agli animali, all'uomo. E questa esperienza primaria si rivela nell'atto puro, quello che nello zen si tenta appunto di realizzare nel gesto perfettamente concluso in se stesso, come una tautologia.
Citazione di: maral il 05 Maggio 2016, 22:03:35 PM
Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 16:51:53 PM
su questi due punti sopra avrei delle perplessità..
ritengo che rimettere tutto all'esperienza fisiologica corporale,non sia corretto perché se e' pur vero che non e' il linguaggio a cogliere il reale non può esserlo a mio avviso nemmeno il corpo (il linguaggio del resto non proverrebbe dallo stesso corpo?)
Se il linguaggio proviene dal corpo, il linguaggio è espressione dell'immanenza del corpo, non lo trascende.
Il punto è comunque che l'esperienza pura (in qualsiasi forma si realizzi) è esperienza priva di soggetto, priva di un io, sia corporeo che spirituale, poiché è essa stesso a determinarlo e non il contrario.
Citazionei maestri zen oltre a voler far intuire che bisogna trascendere il linguaggio credo proprio che intendano farlo per l'essere stesso di cui il corpo,nella sua esperienza fisiologica ne farebbe parte a pieno titolo e che sarebbe solo una forma,
la forma ha origine dalla non forma,come il non essere (senza forma) e' all'origine dell'essere (forma) oppure analogamente il non manifesto all'origine del manifesto..ed il corpo,compreso il suo logos e' a tutti gli effetti nel manifesto (dal suo punto di vista,poiché il reale avendo origine dal non manifesto comprende entrambi senza distinzione,cioè la distinzione la facciamo noi ma e' appunto relativa)
ed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto
Immanente nel senso di presente, del tutto coincidente con l'atto. L'esperienza è presente in atto che non conosce limiti e dunque non ha né passato né futuro (senza origine né fine), è l'istante eterno dell'atto. Non nel senso di interno in contrapposizione con un esterno, poiché nell'esperienza pura non vi è ciò che discrimina l'interno dall'esterno, non c'è l'io e quindi non c'è nulla che possa definirsi interno o esterno a esso. Quel vuoto è pieno in modo traboccante, come il vuoto quantistico, una continua oscillazione senza tempo di forme metastabili che sono e non sono. E' il gioco di un divenire assoluto che le parole non possono rendere, ma che è esperienza primaria comune a tutto il vivente, dalle piante, agli animali, all'uomo. E questa esperienza primaria si rivela nell'atto puro, quello che nello zen si tenta appunto di realizzare nel gesto perfettamente concluso in se stesso, come una tautologia.
si questo lo avevo appunto capito e posso solo dire e concludere che la tua concezione e' agli antipodi da cio che penso io,perché lo avvertirei come un ribaltamento,anche in riferimento allo stesso zen a cui si sarebbe fatto riferimento..(il "vuoto" delle dottrine Tradizionali,di cui lo zen,non e' secondo me immanente,ma trascendente dove scompare l'individuale e il soggetto stesso,) dunque per me sarebbe il post-umano,il puro meccanismo e la cesura totale.
una reductio ad unum come un punto privato di estensione (sia spaziale che temporale) e dove nessun orizzonte può essere più possibile,proprio perché reso ormai inconcepibile.
Ad una rilettura mi sembra pure Che Le due versioni risultino per certi versi concordanti e pero non capisco perche allora avresti fatto riferimento in precedenza al corpo e alle sue sensazioni individuali se poi da questo tuo ultimo commento escluderesti l'Io e nulla Che possa definirsi...per l'appunto cio Che lo rende possibile e' il trascendere l'individualita e non la sua ipertrofia
Citazione di: HollyFabius il 05 Maggio 2016, 17:10:22 PM
Ho scritto sopra che esistono due possibili interpretazioni di fenomeno e noumeno, in quella kantiana è effettivamente come scrivi tu il noumeno rimane inaccessibile ai sensi e alla ragione. La seconda è quella di Schopenhauer dove il noumeno non è inaccessibile. Io penso sia corretta l'interpretazione di S.
Rispondo:
Beh, non si tratta di una qustione di "interpretazione (di fatti)" ma di "definizioni di concetti", del senso che arbitrariamente si conviene di dare alle parole.
Personalmente conosco un po' Kant, pochissimo, quasi per niente Schopenhauer (dal solo studio obbliatorio al liceo).
Comunque poiché storicamente i concetti di "fenomeno" e "noumeno" sono stati introdotti da Kant (a quanto mi risulta; e comunque da lui impiegati ben prima di Schopenhauer), credo che parlandone senza ulteriori precisazione si dovrebbero intendere "a la Kant" e che sarebbe necessario esplicitarlo nel caso si intendano invece "a la Schopenhauer".
Peraltro non conprendo il senso del concetto schopenhaueriano di un "noumeno" che può diventare "fenomeno": come? Che significa questa espressione? Che sgnificano i concetti di "fenomeno" e di "noumeno" a la Schopenhauer? (Se é possibile dirlo in poche parole, naturalmente; che altrimenti se fossi interessato dovrei leggere i suoi scritti).
Citazione di: acquario69 il 06 Maggio 2016, 04:54:41 AM
si questo lo avevo appunto capito e posso solo dire e concludere che la tua concezione e' agli antipodi da cio che penso io,perché lo avvertirei come un ribaltamento,anche in riferimento allo stesso zen a cui si sarebbe fatto riferimento..(il "vuoto" delle dottrine Tradizionali,di cui lo zen,non e' secondo me immanente,ma trascendente dove scompare l'individuale e il soggetto stesso,) dunque per me sarebbe il post-umano,il puro meccanismo e la cesura totale.
una reductio ad unum come un punto privato di estensione (sia spaziale che temporale) e dove nessun orizzonte può essere più possibile,proprio perché reso ormai inconcepibile.
Ad una rilettura mi sembra pure Che Le due versioni risultino per certi versi concordanti e pero non capisco perche allora avresti fatto riferimento in precedenza al corpo e alle sue sensazioni individuali se poi da questo tuo ultimo commento escluderesti l'Io e nulla Che possa definirsi...per l'appunto cio Che lo rende possibile e' il trascendere l'individualita e non la sua ipertrofia
La concezione che ho presentato (a cui non necessariamente sento di aderire, anzi come ho detto, soprattutto in un ambito filosofico occidentale, la trovo contraddittoria, per quanto interessante), è opposta alla tua quanto la via della trascendenza è opposta alla via dell'immanenza, anche se entrambe conducono al medesimo punto (che ritengo comunque metafisico). La prima pare salire teleologicamente, la seconda scendere, ma questo salire e scendere forse è solo apparente, dato che l'individuale (l'io) scompare in ogni caso, nella prima l'io è punto di partenza (come per Cartesio) per andare oltre l'esperienza, nella seconda è una sorta di punto virtuale da cui occorre discendere per ritrovare il fondamento esperenziale autentico, non quindi un cammino verso il post umano, ma un ritorno al pre umano che sta a fondamento dell'umano e di tutto ciò che esiste: un'esperienza di niente e di nessuno, puro atto che accade solo per se stesso, senza progetto che lo sovrasti e lo indirizzi.
Questo consente ad esempio a Ronchi di intendere la tecnica non come alienazione dell'umano (come ad esempio nell'esistenzialismo umanistico), né come realizzazione poietica umana (come nel positivismo), ma come sfondo naturale originario che l'umano reca comunque con sé. La tecnica è intesa come
natura naturans, sempre in divenire. Ed è proprio in questo senso che mi appare l'analogia con certe pratiche orientali volte all'assoluto secondo un tecnicismo gestuale perfettamente immanente all'accadere (per citare alcuni esempi: l'arte del tiro con l'arco, del servire il tè, di tracciare ideogrammi, la tecnica della respirazione, tutti atti come non portano per nulla fuori dalla esperienza immanente in cerco di altro da essa: l'atto di scagliare la freccia o anche di respirare è l'assoluto).
Come rientra il corpo in tutto questo? Il corpo non vi rientra come
mio o
tuo corpo, come corpo soggettuale, ma come mezzo privo di proprietà soggettiva per un'esperienza pura da cui inizia l'ontogenesi continua di un individuo che è solo un processo in atto.
Grazie maral per la spiegazione,ora mi sembra tutto più chiaro.
personalmente non sarei molto d'accordo con Ronchi quando dice che ci sarebbe una certa analogia tra un certo tecnicismo gestuale di pratiche,quali il servire il te,il tiro con l'arco ecc e la tecnica (tout court) che viviamo noi oggi in particolare (anche se entrambi perfettamente immanenti all'accadere),perché secondo me la differenza sta nel fatto che la tecnica e' distaccata ed asettica (alienante a mio giudizio,proprio perché separa ma si potrebbe anche aggiungere che in quel caso e' solo l'IO che diventa assoluto) mentre le altre al contrario coinvolgono la persona nella sua più intima essenza che a me viene da dire spirituale,quindi sarebbe un rito
(a mio avviso da non confondere percio col tecnicismo gestuale) nel quale l'esperienza stessa diventa il tramite per raggiungere il proprio centro che equivale all'unita,ossia un aderenza totale del reale poiché privo di distinzioni (distinzioni quale può esserlo tra soggetto ed oggetto)
Citazione di: maral il 06 Maggio 2016, 16:59:30 PMCitazione di: acquario69 il 06 Maggio 2016, 04:54:41 AMsi questo lo avevo appunto capito e posso solo dire e concludere che la tua concezione e' agli antipodi da cio che penso io,perché lo avvertirei come un ribaltamento,anche in riferimento allo stesso zen a cui si sarebbe fatto riferimento..(il "vuoto" delle dottrine Tradizionali,di cui lo zen,non e' secondo me immanente,ma trascendente dove scompare l'individuale e il soggetto stesso,) dunque per me sarebbe il post-umano,il puro meccanismo e la cesura totale. una reductio ad unum come un punto privato di estensione (sia spaziale che temporale) e dove nessun orizzonte può essere più possibile,proprio perché reso ormai inconcepibile. Ad una rilettura mi sembra pure Che Le due versioni risultino per certi versi concordanti e pero non capisco perche allora avresti fatto riferimento in precedenza al corpo e alle sue sensazioni individuali se poi da questo tuo ultimo commento escluderesti l'Io e nulla Che possa definirsi...per l'appunto cio Che lo rende possibile e' il trascendere l'individualita e non la sua ipertrofia
La concezione che ho presentato (a cui non necessariamente sento di aderire, anzi come ho detto, soprattutto in un ambito filosofico occidentale, la trovo contraddittoria, per quanto interessante), è opposta alla tua quanto la via della trascendenza è opposta alla via dell'immanenza, anche se entrambe conducono al medesimo punto (che ritengo comunque metafisico). La prima pare salire teleologicamente, la seconda scendere, ma questo salire e scendere forse è solo apparente, dato che l'individuale (l'io) scompare in ogni caso, nella prima l'io è punto di partenza (come per Cartesio) per andare oltre l'esperienza, nella seconda è una sorta di punto virtuale da cui occorre discendere per ritrovare il fondamento esperenziale autentico, non quindi un cammino verso il post umano, ma un ritorno al pre umano che sta a fondamento dell'umano e di tutto ciò che esiste: un'esperienza di niente e di nessuno, puro atto che accade solo per se stesso, senza progetto che lo sovrasti e lo indirizzi. Questo consente ad esempio a Ronchi di intendere la tecnica non come alienazione dell'umano (come ad esempio nell'esistenzialismo umanistico), né come realizzazione poietica umana (come nel positivismo), ma come sfondo naturale originario che l'umano reca comunque con sé. La tecnica è intesa come natura naturans, sempre in divenire. Ed è proprio in questo senso che mi appare l'analogia con certe pratiche orientali volte all'assoluto secondo un tecnicismo gestuale perfettamente immanente all'accadere (per citare alcuni esempi: l'arte del tiro con l'arco, del servire il tè, di tracciare ideogrammi, la tecnica della respirazione, tutti atti come non portano per nulla fuori dalla esperienza immanente in cerco di altro da essa: l'atto di scagliare la freccia o anche di respirare è l'assoluto). Come rientra il corpo in tutto questo? Il corpo non vi rientra come mio o tuo corpo, come corpo soggettuale, ma come mezzo privo di proprietà soggettiva per un'esperienza pura da cui inizia l'ontogenesi continua di un individuo che è solo un processo in atto.
Citazione di: Jothin Cook il 15 Maggio 2016, 05:16:23 AM
Citazione di: paul11 il 02 Maggio 2016, 18:26:04 PMPersonalmente ritengo che storicamente l'orientale è legato più a come il pensiero ha pensato il reale, noi occidentali ci siamo invece approcciati alla realtà fisica mettendo in dubbio i nostri pensieri: per noi il focus è la realtà fisica poiché è descrivibile e logicamente falsa o vera e scientificamente dimostrabile nelle sue reiterazioni fenomeniche. Quindi per noi il razionale e vero equivale al mondo là fuori, per l'orientale il vero equivale al suo pensiero ed è falsa la realtà. E di nuovo ritorna la filosofia del reale metafisico greco contro il reale sperimentale della scienza moderna , il mondo del deduttivo contro l'induttivo.
Già... ma Eraclito, il cui pensiero sicuramente era scevro da concezioni metafisiche, - visto che la μετά τα Φυσικά deriva dal nome di una trattazione aristotelica che veniva catalogata in testi collocati, appunto, dopo la Fisica, - poiché di molto precedente a queste, diceva, riferendosi alla sua riflessione e studio della Natura: "Ho indagato me stesso!". E questa semplice affermazione, la dice lunga su "cosa" fondamentalmente si voglia significare quando si parla di realtà: la parabola temporale che va dagli empiristi, attraverso Berkeley, Locke, col suo saggio sull'intelletto umano, fino a Kant e poi gli idealisti e infine Schopenhauer e Nietzsche, non sono altro che un immenso corollario o commento a quell'aforisma eracliteo... Nietzsche chiude questa parabola, negando qualsiasi organicità, e quindi ordinamento, oggettiva al reale, riducendolo a puro caos cui l'uomo imprime un significato, un ordine razionale e, quindi, una valutazione che scaturisce dalla sua volontà di potenza intesa come conoscenza, che attribuisce significato alle cose soltanto per poter vivere, annullando in un sol colpo mortale tutte le illusioni e le "favole" del passato, tramite le quali ci si era baloccati nella speranza in verità assolute che deprivavano la sua coscienza della consapevolezza della loro natura eminentemente antropocentrica. Questa concezione, squisitamente protagorea, viene pervicacemente rimossa, dal pensiero che segue, il quale fugge dal riconoscimento della "rivelazione" nietzschiana, per tornare, proprio con Heidegger, anche se in maniera davvero magistrale, a quel senso nascosto dell'essere che invece rimane tutta opera dell'uomo e del suo tentativo di attribuire un significato, anziché, come si vorrebbe credere, di ritrovarlo nelle cose stesse. Sicché, ancora riecheggia nella nostra civiltà straziata dalla "morte di dio", il detto di Eraclito: "Ho indagato me stesso"!
Citazione di: Jothin Cook il 15 Maggio 2016, 06:06:56 AMCitazione di: Jothin Cook il 15 Maggio 2016, 05:16:23 AMCitazione di: paul11 il 02 Maggio 2016, 18:26:04 PMPersonalmente ritengo che storicamente l'orientale è legato più a come il pensiero ha pensato il reale, noi occidentali ci siamo invece approcciati alla realtà fisica mettendo in dubbio i nostri pensieri: per noi il focus è la realtà fisica poiché è descrivibile e logicamente falsa o vera e scientificamente dimostrabile nelle sue reiterazioni fenomeniche. Quindi per noi il razionale e vero equivale al mondo là fuori, per l'orientale il vero equivale al suo pensiero ed è falsa la realtà. E di nuovo ritorna la filosofia del reale metafisico greco contro il reale sperimentale della scienza moderna , il mondo del deduttivo contro l'induttivo.
Già... ma Eraclito, il cui pensiero sicuramente era scevro da concezioni metafisiche, - visto che la μετά τα Φυσικά deriva dal nome di una trattazione aristotelica che veniva catalogata in testi collocati, appunto, dopo la Fisica, - poiché di molto precedente a queste, diceva, riferendosi alla sua riflessione e studio della Natura: "Ho indagato me stesso!". E questa semplice affermazione, la dice lunga su "cosa" fondamentalmente si voglia significare quando si parla di realtà: la parabola temporale che va dagli empiristi, attraverso Berkeley, Locke, col suo saggio sull'intelletto umano, fino a Kant e poi gli idealisti e infine Schopenhauer e Nietzsche, non sono altro che un immenso corollario o commento a quell'aforisma eracliteo... Nietzsche chiude questa parabola, negando qualsiasi organicità, e quindi ordinamento, oggettiva al reale, riducendolo a puro caos cui l'uomo imprime un significato, un ordine razionale e, quindi, una valutazione che scaturisce dalla sua volontà di potenza intesa come conoscenza, che attribuisce significato alle cose soltanto per poter vivere, annullando in un sol colpo mortale tutte le illusioni e le "favole" del passato, tramite le quali ci si era baloccati nella speranza in verità assolute che deprivavano la sua coscienza della consapevolezza della loro natura eminentemente antropocentrica. Questa concezione, squisitamente protagorea, viene pervicacemente rimossa, dal pensiero che segue, il quale fugge dal riconoscimento della "rivelazione" nietzschiana, per tornare, proprio con Heidegger, anche se in maniera davvero magistrale, a quel senso nascosto dell'essere che invece rimane tutta opera dell'uomo e del suo tentativo di attribuire un significato, anziché, come si vorrebbe credere, di ritrovarlo nelle cose stesse. Sicché, ancora riecheggia nella nostra civiltà straziata dalla "morte di dio", il detto di Eraclito: "Ho indagato me stesso"!
Per quanto mi riguarda è fuori di dubbio che tutto abbia origine da un' indagine di se stesso, perchè è il punto originario conoscitivo e anche qualora si cerchino verità esterne ad esso ,daccapo tutta la conoscenza viene ricondotta ad una sintesi su se stessi
Cercando di richiamare tutti gli interessanti spunti che gli interventi hanno messo in tavola, propongo, seppur tardivamente, qualche osservazione.Citazione di: paul11 il 05 Maggio 2016, 10:36:46 AMEsistono i concetti del noumeno, tutti lo sappiamo, ma scientificamente non sono fenomenologicamente osservabili, quantificabili gestibili in leggi fisiche attuali. Vale a dire sono tautologie, lo sappiamo perchè li viviamo ma non assiomatizzabili dentro una logica.
Credo che il noumeno possa essere inquadrato come un concetto-limite (e,come tutti i concetti, non può essere oggetto di esperimenti o verifiche scientifiche), un postulato che, in quanto tale, è necessario per fondare tutta la struttura teoretica a cui si riferisce e deve essere indimostrabile, indecidibile (v. Godel) altrimenti non sarebbe un assioma (così come in matematica, anzi, nelle matematiche, gli assiomi sono notoriamente le premesse indimostrabili da cui tutto consegue, basta cambiarne uno, e si ottiene con effetto domino un'altra matematica, come quelle non euclidee). Credo sia accostabile un po' al concetto di "infinito": è illogico, ma "funziona" e "serve", anche se è inverificabile, perché dall'esterno, delimita la matematica o altri ambiti che lo richiedono (alcune religioni ad esempio); parimenti il noumeno funge, in molte filosofie, da "ingiustificato" che giustifica la possibilità di conoscenza.Citazione di: maral il 04 Maggio 2016, 19:43:28 PM
Dal mio punto di vista trovo che, pur esprimendo una concezione molto interessante, questa impostazione che fa dell'esperienza un assoluto, mostra una contraddizione evidente soprattutto nel modo occidentale di trattarla attraverso il linguaggio, il logos, che comunque resta ascritto al progetto del tutto cosciente e soggettivo di chi ne parla: ossia, anche se questa esperienza la si dichiara assoluta essa è trattata comunque come oggetto di un soggetto e dunque è del tutto relativa ad essi.
[Postilla puntigliosa sull'espressione "pensiero orientale": è sempre un peccato considerarlo un unico calderone, perchè significa mortificarne l'eterogeneità (di fronte al sillogismo in 5 fasi di un logico Nyaya, un buddista sorriderebbe di cuore... perchè e come accomunarli?). Tuttavia, per amore di sintesi, concordo nell'usare l'impervia generalizzazione "occidente" e "oriente"]Come accennavi, soprattutto la "scuola" zen allude ad un accantonamento (più che "superamento") del linguaggio, ad esempio con i koan (il cui significato autentico non è mai quello linguistico), indicando con le parole la loro medesima inadeguatezza. Il superamento della metafisica proposto dalla decostruzione (Derrida e altri), si scontra anch'esso con un linguaggio ormai in difficoltà (ne sono sintomi tutti i seri "giochi di parole" con cui si cerca di ricombinare il linguaggio), ma, a differenza dello zen, resta comunque in ambito puramente speculativo, ignorando il ruolo del corpo (che invece in oriente è stato sempre considerato degno compagno di viaggio dell'uomo, non mero involucro di un'anima eterna: scherzando, il corpo inteso "all'occidentale" fa stretching, il corpo inteso "all'orientale" è strumento di meditazione assieme alla mente). Proprio la corporeità non-trascendentale dell'esperienza non-linguistica (perchè se non erro il velo di Maya è retto dai sensi, ma anche dalle parole), proprio i vissuti individuano quello che in occidente viene chiamato soggetto e che, nel pensiero orientale, non si scioglie con lo spogliarsi delle strutture linguistiche o concettuali: ciò accade solo nelle prospettive più misticheggianti e "eremitiche", ma, ad esempio, un buddista distingue bene sé stesso come soggetto-oggetto del proprio lavoro di purificazione-illuminazione e l'Altro come "oggetto di compassione" (nell'accezione buddista). Nell'abbandono dell'egoismo (genitivo oggettivo) e nel riconoscersi "ingranaggio del cosmo", non viene destituita la responsabilità etica individuale e soggettiva del proprio agire (Nirvana e Samsara coincidono empiricamente, al netto delle credenze popolari, sono solo vissuti differentemente dal singolo "risvegliato" in quanto individuo; egli si adopera per risvegliarsi, è un'esperienza che fonda una "nuova" soggettività, magari blanda e trasparente, ma pur sempre individuale). Eloquente, secondo me, la celeberrima "parabola del bue" che (vado a memoria, quindi potrei sbagliarmi), nella decima e ultima scena, rappresenta il protagonista che ritorna al mercato, e quindi non si isola dalla comunità mondana, si relaziona ancora in quanto soggetto, seppur con consapevolezza differente (e in ciò risiede il versante più socialmente percorribile della prospettiva buddista, senza chiudersi nell'auto-referenzialità di un monastero).Citazione di: maral il 06 Maggio 2016, 16:59:30 PMcerte pratiche orientali volte all'assoluto secondo un tecnicismo gestuale perfettamente immanente all'accadere (per citare alcuni esempi: l'arte del tiro con l'arco, del servire il tè, di tracciare ideogrammi, la tecnica della respirazione, tutti atti come non portano per nulla fuori dalla esperienza immanente in cerco di altro da essa: l'atto di scagliare la freccia o anche di respirare è l'assoluto). Come rientra il corpo in tutto questo? Il corpo non vi rientra come mio o tuo corpo, come corpo soggettuale, ma come mezzo privo di proprietà soggettiva per un'esperienza pura da cui inizia l'ontogenesi continua di un individuo che è solo un processo in atto.
Secondo me non c'è necessariamente esclusione fra "corpo soggettuale" e "individuo come processo": il mio corpo e la mia (auto)coscienza di individuo sono inevitabilmente processuali, e questo processo può comprendere (in entrambi i sensi) esperienze di pura immanenza e (auto)consapevolezza come lo scoccare una freccia o il fare zazen (e in entrambi i casi non riscontro nulla di "assoluto", se non l'assoluta assenza di trascendenza...)Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 16:51:53 PMed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto[/font]
Forse non sono abbastanza forgiato nello zen, ma credo che gran parte dei mestri zen aborrino ogni forma di trascendenza, preferendo invece proprio la presenza immanente ("retta consapevolezza-concentrazione" dell'ottuplice sentiero), per questo rispondono con "bastonate didattiche" alle domande speculative dei loro allievi ed hanno incentrato le loro attività pratiche come "allenamenti all'immanenza" (compiere ogni azione con consapevolezza e compresenza al gesto). Spesso la lettura di termini. tanto cruciali quanto ambigui, viene deformata (in buona fede) dai nostri vocabolari concettuali: "vuoto", "assoluto", "negazione", "soggetto"... sono parole ricche di storia in occidente, storia che rischia di essere una precomprensione "viziata" quando importiamo questi concetti dall'oriente (rischiamo di riscrivere le "istruzioni per l'uso" di quelle espressioni basandoci sull'assonanza della traduzione; forse funzionerebbero meglio dei neologismi o usare le parole "originali", ma sarebbe poi più ostico l'approccio linguistico...).P.s. Mi scuso in caso di eventuale off topic "orientaleggiante" e per la lunghezza biblica del messaggio...
Non ho ben capito cosa si intende per noumeno ma, se si avvicina alla definizione che ne dà la Treccani con riferimento a Kant, credo che - può essere che qualcuno vi abbia già accennato prima in questo thread che confesso di aver letto veolcemente - l'unica via per viverlo/conoscerlo soggettivamente e oggettivamente sia quella mistica che personalmente conosco. Quindi lo ritengo possibile, anche se non razionalmente.
Citazione di: Phil il 22 Maggio 2016, 12:43:15 PM
Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 16:51:53 PMed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto[/font]
Forse non sono abbastanza forgiato nello zen, ma credo che gran parte dei mestri zen aborrino ogni forma di trascendenza, preferendo invece proprio la presenza immanente ("retta consapevolezza-concentrazione" dell'ottuplice sentiero), per questo rispondono con "bastonate didattiche" alle domande speculative dei loro allievi ed hanno incentrato le loro attività pratiche come "allenamenti all'immanenza" (compiere ogni azione con consapevolezza e compresenza al gesto). Spesso la lettura di termini. tanto cruciali quanto ambigui, viene deformata (in buona fede) dai nostri vocabolari concettuali: "vuoto", "assoluto", "negazione", "soggetto"... sono parole ricche di storia in occidente, storia che rischia di essere una precomprensione "viziata" quando importiamo questi concetti dall'oriente (rischiamo di riscrivere le "istruzioni per l'uso" di quelle espressioni basandoci sull'assonanza della traduzione; forse funzionerebbero meglio dei neologismi o usare le parole "originali", ma sarebbe poi più ostico l'approccio linguistico...).
non so se alla fine stiamo pure dicendo le stesse cose e credo sappiamo entrambi che provare a descriverle ci riporterebbe al punto di partenza,dunque quello che possiamo fare qui (nei nostri impliciti umani limiti) mentre stiamo scrivendo e' cogliere cio che non si può formulare.il maestro zen che all'improvviso da una bastonata al suo allievo :)non lo fa certo a casaccio ma avrebbe intuito diciamo così,un motivo per farlo.quindi,lo scopo del maestro zen era quello di aiutare il discepolo a trascendere la mente,a staccarsi dal suo IO individuale,a "raggiungere" il vuoto,dove soggetto ed oggetto diventano UNO,dove non ci sono più distinzioni,aderente al Reale...ripeto anche queste sono descrizioni,ma e' inevitabile! cio che conta e' che ci porti comunque all'intuizione.
Concordo; le mie perplessità erano principalmente linguistiche, soprattutto nell'uso della parola "trascendenza", molto (troppo, direi) impregnata di metafisica occidentale... il "trascendere la mente" potrebbe essere inteso da qualcuno come un gesto mistico (quasi alchemico) che ci solleva dal Reale; invece, credo che lo zen alluda piuttosto ad uno "scendere dalla mente", dalle sue discriminanti elucubrazioni, dai suoi falsi problemi sofistici, proprio per restare con i piedi (e la mente) per terra... già, la parola chiave credo sia quella che proponi: "intuizione", che intenderei come forma di "comprensione non-verbalizzata" (né verbalizzabile), e proprio per questo al riparo dai dualismi cognitivi che ci fanno salire sulla mongolfiera della speculazione (con tutte le aporie che ne conseguono...)
Citazione di: acquario69 il 23 Maggio 2016, 02:05:51 AManche queste sono descrizioni,ma e' inevitabile! cio che conta e' che ci porti comunque all'intuizione.
Diciamo che queste descrizioni non ci portano all'intuizione, ma descrivono dove dovrebbe portarci l'intuizione? ;)
Citazione di: Phil il 23 Maggio 2016, 18:34:10 PM
Concordo; le mie perplessità erano principalmente linguistiche, soprattutto nell'uso della parola "trascendenza", molto (troppo, direi) impregnata di metafisica occidentale... il "trascendere la mente" potrebbe essere inteso da qualcuno come un gesto mistico (quasi alchemico) che ci solleva dal Reale; invece, credo che lo zen alluda piuttosto ad uno "scendere dalla mente", dalle sue discriminanti elucubrazioni, dai suoi falsi problemi sofistici, proprio per restare con i piedi (e la mente) per terra... già, la parola chiave credo sia quella che proponi: "intuizione", che intenderei come forma di "comprensione non-verbalizzata" (né verbalizzabile), e proprio per questo al riparo dai dualismi cognitivi che ci fanno salire sulla mongolfiera della speculazione (con tutte le aporie che ne conseguono...)
secondo me questa riflessione può portare ad un ulteriore considerazione,ossia del fatto che quando intendiamo "mondo" come sopra,questo non sia qualcosa di separato rispetto ad un ipotetico "altro mondo".la trascendenza allora diventa più semplicemente consapevolezzapenso che,come dici tu,la parola intuizione sia stata da molto tempo fraintesa,concepita appunto come qualcosa di misticheggiante e fuori dal mondo,invece io credo che sia vero proprio il contrario e che sia appunto un aderenza effettiva e più che mai concreta del reale,mondo compreso.la dicotomia nasce a mio avviso proprio attraverso la ragione e diventa alienante nel momento stesso che se ne fa un uso esclusivo.chiaro che non sto dicendo affatto che non bisogna pensare o ragionare ma di non cadere nella sua trappolala sola ragione allora finisce per considerare le cose solo in vista di qualcos'altro,ma che questo altro diventa fittizio,inesistente in realtà,quindi si estranea e direi pure nella maniera più riduttiva e utilitaristica e dimentica cosi (non visualizza più) cio che (di reale) ha davanti a se un giorno il maestro, atteso dalla comunità dei monaci per un discorso, non fece altro che sollevare un fiore e mostrarlo, senza dire una parola. Tutti si interrogavano sul significato di quel gesto. Ma esso non aveva alcun significato. "Amici, perdervi nei pensieri vi impedisce di entrare in contatto con la vita" in tutto questo non ce assolutamente niente di strano ed appunto non e' necessario ne ambire a diventare un buddha,o isolarsi come un eremita a fare o non fare chissa che,questi sono soltanto pregiudizi tra l'altro secondo me molto radicati,ogni momento,ogni gesto,anche il più ordinario il più semplice e banale,(apparentemente banale) ,soli o in mezzo alla gente,del nostro vissuto diventa (e') trascendentale,e' consapevolezza...sta qui,non chissa dovecerto il contesto in cui viviamo non facilita affatto le cose,ce la fretta,le distrazioni che si sono nel frattempo pure moltiplicate in maniera esponenziale,e che per molti sono pure considerati dei valori!..e che vanno in direzione contraria alla quiete e alla concentrazione (che come al solito vengono considerati anch'essi in maniera pregiudiziale) non siamo più centrati ma decentrati,votati così all'esterno e non all'interno...per me questo significa solo essere alienati,oggi stiamo tutti vivendo in un grave stato di allucinazione..questo penso!quindi non un aggiungere,un accumulare ma un togliere...e' il "vuoto" che allora diventa pieno
Citazione di: acquario69 il 24 Maggio 2016, 03:25:21 AMCitazione di: Phil il 23 Maggio 2016, 18:34:10 PMConcordo; le mie perplessità erano principalmente linguistiche, soprattutto nell'uso della parola "trascendenza", molto (troppo, direi) impregnata di metafisica occidentale... il "trascendere la mente" potrebbe essere inteso da qualcuno come un gesto mistico (quasi alchemico) che ci solleva dal Reale; invece, credo che lo zen alluda piuttosto ad uno "scendere dalla mente", dalle sue discriminanti elucubrazioni, dai suoi falsi problemi sofistici, proprio per restare con i piedi (e la mente) per terra... già, la parola chiave credo sia quella che proponi: "intuizione", che intenderei come forma di "comprensione non-verbalizzata" (né verbalizzabile), e proprio per questo al riparo dai dualismi cognitivi che ci fanno salire sulla mongolfiera della speculazione (con tutte le aporie che ne conseguono...)
secondo me questa riflessione può portare ad un ulteriore considerazione,ossia del fatto che quando intendiamo "mondo" come sopra,questo non sia qualcosa di separato rispetto ad un ipotetico "altro mondo". la trascendenza allora diventa più semplicemente consapevolezza penso che,come dici tu,la parola intuizione sia stata da molto tempo fraintesa,concepita appunto come qualcosa di misticheggiante e fuori dal mondo,invece io credo che sia vero proprio il contrario e che sia appunto un aderenza effettiva e più che mai concreta del reale,mondo compreso. la dicotomia nasce a mio avviso proprio attraverso la ragione e diventa alienante nel momento stesso che se ne fa un uso esclusivo. chiaro che non sto dicendo affatto che non bisogna pensare o ragionare ma di non cadere nella sua trappola la sola ragione allora finisce per considerare le cose solo in vista di qualcos'altro,ma che questo altro diventa fittizio,inesistente in realtà,quindi si estranea e direi pure nella maniera più riduttiva e utilitaristica e dimentica cosi (non visualizza più) cio che (di reale) ha davanti a se un giorno il maestro, atteso dalla comunità dei monaci per un discorso, non fece altro che sollevare un fiore e mostrarlo, senza dire una parola. Tutti si interrogavano sul significato di quel gesto. Ma esso non aveva alcun significato. "Amici, perdervi nei pensieri vi impedisce di entrare in contatto con la vita" in tutto questo non ce assolutamente niente di strano ed appunto non e' necessario ne ambire a diventare un buddha,o isolarsi come un eremita a fare o non fare chissa che,questi sono soltanto pregiudizi tra l'altro secondo me molto radicati,ogni momento,ogni gesto,anche il più ordinario il più semplice e banale,(apparentemente banale) ,soli o in mezzo alla gente,del nostro vissuto diventa (e') trascendentale,e' consapevolezza...sta qui,non chissa dove certo il contesto in cui viviamo non facilita affatto le cose,ce la fretta,le distrazioni che si sono nel frattempo pure moltiplicate in maniera esponenziale,e che per molti sono pure considerati dei valori!..e che vanno in direzione contraria alla quiete e alla concentrazione (che come al solito vengono considerati anch'essi in maniera pregiudiziale) non siamo più centrati ma decentrati,votati così all'esterno e non all'interno...per me questo significa solo essere alienati,oggi stiamo tutti vivendo in un grave stato di allucinazione..questo penso! quindi non un aggiungere,un accumulare ma un togliere...e' il "vuoto" che allora diventa pieno
Imbrigliare la mente è come voler legare una scimmia. La consapevolezza , se costante, il che è tutt'altro che facile, è consapevolezza proprio di questa natura della nostra mente. Attenzione poi a vedere l'intuizione e la consapevolezza come estranei a questo flusso , a questo affanno continuo della mente. Esercitandosi nella pratica dell'attenzione si diventa sempre più consapevoli di questo flusso continuo, ma non lo si arresta, se non per brevi, brevissimi momenti. In quegli attimi si sperimenta lo stato prima del pensiero, la "sorgente" per così dire, se non fosse pure questo un concetto mentale.
Il maestro zen mostra il fiore e sta in silenzio. Se solo avesse chiesto:"Cos'è
questo ?" il suo sarebbe stato un gesto che avrebbe dato vita ad un intero mondo di concetti, di speculazioni, di definizioni. Il maestro vuole che i monaci
vedano il fiore con la mente che non discrimina. Il satori dello zen è uno stato indicibile, ineffabile. Si può vivere il satori, ma non descriverlo. Se io dico :"Il satori è questo!" non lo è più, se ne è andato, perduto. Il satori visto da noi occidentali, ritenuto un
puro esser-ci, manca però di un elemento fondamentale, che è la saggezza inerente a questo puro esserci. L'attenzione priva di saggezza non ha un grande significato. E' la saggezza che nasce dall'attenzione il vero satori. Pertanto, visto lo zen come centrato sull'insegnamento del Buddha, è saggezza riguardo alle tre caratteristiche fondamentali, le tre "stigmate" dell'esistenza nella sua totalità: l'impermanenza di tutti i fenomeni, il loro carattere insoddisfacente, l'assenza di un Sè nelle cose. Nel caso del maestro che mostra il fiore, i monaci , osservandolo, con consapevolezza dovrebbero
vedere il sorgere e lo svanire del "fiore", il suo carattere insoddisfacente in quanto impossibilitato a soddisfare il loro desiderio di possederlo, l'assenza di un Sè nel fiore, ossia il suo essere vuoto dal concetto di "fiore". Senza comprensione della natura dei fenomeni , la pura attenzione o concentrazione o consapevolezza che dir si voglia non porta al risveglio. Il problema non è il pensiero, ma la sua degenerazione, il suo prolificare incontrollato, il suo diventare come una scimmia che si aggrappa ad ogni ramo della foresta. Nella sua purezza, che nasce dalla consapevolezza, il pensiero è un'arma affilata che taglia le radici dell'illusione in cui viviamo.
Citazione di: Sariputra il 24 Maggio 2016, 09:36:46 AMNel caso del maestro che mostra il fiore, i monaci , osservandolo, con consapevolezza dovrebbero vedere il sorgere e lo svanire del "fiore", il suo carattere insoddisfacente in quanto impossibilitato a soddisfare il loro desiderio di possederlo, l'assenza di un Sè nel fiore, ossia il suo essere vuoto dal concetto di "fiore". Senza comprensione della natura dei fenomeni , la pura attenzione o concentrazione o consapevolezza che dir si voglia non porta al risveglio. Il problema non è il pensiero, ma la sua degenerazione, il suo prolificare incontrollato, il suo diventare come una scimmia che si aggrappa ad ogni ramo della foresta. Nella sua purezza, che nasce dalla consapevolezza, il pensiero è un'arma affilata che taglia le radici dell'illusione in cui viviamo.
e perché mai dovrebbe essere insoddisfacente la contemplazione di un fiore (io direi della natura in generale) a me ad esempio quando mi e' capitato mi ha ispirato ad una beatitudine che e' per l'appunto ineffabile e indescrivibile :)e in quei momenti posso dire che ero al massimo della concentrazione..che chiaramente non va intesa come sforzo
Citazione di: acquario69 il 24 Maggio 2016, 10:16:04 AMCitazione di: Sariputra il 24 Maggio 2016, 09:36:46 AMNel caso del maestro che mostra il fiore, i monaci , osservandolo, con consapevolezza dovrebbero vedere il sorgere e lo svanire del "fiore", il suo carattere insoddisfacente in quanto impossibilitato a soddisfare il loro desiderio di possederlo, l'assenza di un Sè nel fiore, ossia il suo essere vuoto dal concetto di "fiore". Senza comprensione della natura dei fenomeni , la pura attenzione o concentrazione o consapevolezza che dir si voglia non porta al risveglio. Il problema non è il pensiero, ma la sua degenerazione, il suo prolificare incontrollato, il suo diventare come una scimmia che si aggrappa ad ogni ramo della foresta. Nella sua purezza, che nasce dalla consapevolezza, il pensiero è un'arma affilata che taglia le radici dell'illusione in cui viviamo.
e perché mai dovrebbe essere insoddisfacente la contemplazione di un fiore (io direi della natura in generale) a me ad esempio quando mi e' capitato mi ha ispirato ad una beatitudine che e' per l'appunto ineffabile e indescrivibile :) e in quei momenti posso dire che ero al massimo della concentrazione..che chiaramente non va intesa come sforzo
Insoddisfacente perchè transitoria, impermanente, soggetta a mutare, trasformarsi, dissolversi. Non è l'osservare il fiore, o la natura, che desta in noi beatitudine. E' la beatitudine che è in noi che si meraviglia della bellezza del puro fiore. La mente non discriminante non trova differenze tra l'ammirare un fiore o pulire le latrine. Il frutto della concentrazione è la beatitudine (samadhi). Ma la beatitudine non è il risveglio. E' un frutto da cogliere, per me, sul sentiero per il risveglio. Il satori ( o chiamiamolo Nirvana, illuminazione, risveglio, ecc.) non è uno stato estatico. E' uno stato di liberazione da...di estinzione della sofferenza interiore...La differenza fondamentale tra la beatitudine e il "satori" è che la prima è temporanea mentre il secondo è uno stato continuo e definitivo. Non è uno stato ordinario l'illuminazione, nonostante molte tradizioni orientali vedano "illuminati" dappertutto, andando incontro alle istanze fideistiche delle masse. Pochi esseri sono in grado di raggiungere questo stato duraturo , veramente pochi, mentre molti hanno come dei flash d'intuizione che però, non sorretti dalla pratica e dalla moralità (
"Ecco la virtù, ecco la meditazione, ecco la sapienza" Siddharta) producono effetti positivi (
entrati nella corrente) che potranno portare a questa meta, ma che al momento appaiono passeggeri. I legami del mondo sono molto forti in noi...
Citazione di: Sariputra il 24 Maggio 2016, 11:49:10 AM
Insoddisfacente perchè transitoria, impermanente, soggetta a mutare, trasformarsi, dissolversi. Non è l'osservare il fiore, o la natura, che desta in noi beatitudine. E' la beatitudine che è in noi che si meraviglia della bellezza del puro fiore. La mente non discriminante non trova differenze tra l'ammirare un fiore o pulire le latrine. Il frutto della concentrazione è la beatitudine (samadhi). Ma la beatitudine non è il risveglio. E' un frutto da cogliere, per me, sul sentiero per il risveglio. Il satori ( o chiamiamolo Nirvana, illuminazione, risveglio, ecc.) non è uno stato estatico. E' uno stato di liberazione da...di estinzione della sofferenza interiore...La differenza fondamentale tra la beatitudine e il "satori" è che la prima è temporanea mentre il secondo è uno stato continuo e definitivo. Non è uno stato ordinario l'illuminazione, nonostante molte tradizioni orientali vedano "illuminati" dappertutto, andando incontro alle istanze fideistiche delle masse. Pochi esseri sono in grado di raggiungere questo stato duraturo , veramente pochi, mentre molti hanno come dei flash d'intuizione che però, non sorretti dalla pratica e dalla moralità ("Ecco la virtù, ecco la meditazione, ecco la sapienza" Siddharta) producono effetti positivi (entrati nella corrente) che potranno portare a questa meta, ma che al momento appaiono passeggeri. I legami del mondo sono molto forti in noi...
certo e' transitorio ma non per questo e' motivo di insoddisfazione...perché (almeno per me) e' un esperienza che ti ricollega a qualcosa che non e' al contempo transitorio e ne hai la certezza nonostante come e' ovvio che sia siamo legati al mondo..finche siamo nel mondo.
Citazione di: acquario69 il 24 Maggio 2016, 12:46:19 PMCitazione di: Sariputra il 24 Maggio 2016, 11:49:10 AMInsoddisfacente perchè transitoria, impermanente, soggetta a mutare, trasformarsi, dissolversi. Non è l'osservare il fiore, o la natura, che desta in noi beatitudine. E' la beatitudine che è in noi che si meraviglia della bellezza del puro fiore. La mente non discriminante non trova differenze tra l'ammirare un fiore o pulire le latrine. Il frutto della concentrazione è la beatitudine (samadhi). Ma la beatitudine non è il risveglio. E' un frutto da cogliere, per me, sul sentiero per il risveglio. Il satori ( o chiamiamolo Nirvana, illuminazione, risveglio, ecc.) non è uno stato estatico. E' uno stato di liberazione da...di estinzione della sofferenza interiore...La differenza fondamentale tra la beatitudine e il "satori" è che la prima è temporanea mentre il secondo è uno stato continuo e definitivo. Non è uno stato ordinario l'illuminazione, nonostante molte tradizioni orientali vedano "illuminati" dappertutto, andando incontro alle istanze fideistiche delle masse. Pochi esseri sono in grado di raggiungere questo stato duraturo , veramente pochi, mentre molti hanno come dei flash d'intuizione che però, non sorretti dalla pratica e dalla moralità ("Ecco la virtù, ecco la meditazione, ecco la sapienza" Siddharta) producono effetti positivi (entrati nella corrente) che potranno portare a questa meta, ma che al momento appaiono passeggeri. I legami del mondo sono molto forti in noi...
certo e' transitorio ma non per questo e' motivo di insoddisfazione... perché (almeno per me) e' un esperienza che ti ricollega a qualcosa che non e' al contempo transitorio e ne hai la certezza nonostante come e' ovvio che sia siamo legati al mondo..finche siamo nel mondo.
Nella concezione buddhista una soddisfazione temporanea è vista come insoddisfacente, in più viene addirittura equiparata a sofferenza in formazione. La mente cercherà di ripetere l'esperienza, ne avrà nostalgia, soffrirà per non riuscire a riviverla, ecc. Ma questo non è un "male" come viene inteso nella tradizione giudaico-cristiana. La beatitudine è uno stato positivo, uno stato di crescita e sviluppo interiore. L'importante è non aggrapparsi a questi stati, altrimenti diventano un altro ostacolo sulla via. In particolar modo quando si identificano questi stati con il concetto mentale di Vero o Santo. Può essere una trappola insidiosissima se non viene vista come un ristoro, un'oasi serena nel mare del divenire. Comunque, nemmeno fare esperienza di vera beatitudine è una cosa comune nel mondo attuale...
Per legami intendo tutto ciò che ci vincola, che ci tiene in suo potere. Legami interiori ed esteriori.
Citazione di: Sariputra il 24 Maggio 2016, 15:00:23 PMNella concezione buddhista una soddisfazione temporanea è vista come insoddisfacente, in più viene addirittura equiparata a sofferenza in formazione
Se la soddisfazione temporanea non è soddisfazione di un desiderio pregresso (brama), ma è intesa come piacere consapevole del vissuto, serenità nell'atto presente (senza proiezioni o attaccamento), non credo venga sconsigliata dal buddismo, anzi, può essere indice di una retta attitudine (mi viene in mente il racconto dell'uomo che gusta la fragola appeso nel burrone sopra le tigri...).
Citazione di: Phil il 24 Maggio 2016, 16:42:05 PMCitazione di: Sariputra il 24 Maggio 2016, 15:00:23 PMNella concezione buddhista una soddisfazione temporanea è vista come insoddisfacente, in più viene addirittura equiparata a sofferenza in formazione
Se la soddisfazione temporanea non è soddisfazione di un desiderio pregresso (brama), ma è intesa come piacere consapevole del vissuto, serenità nell'atto presente (senza proiezioni o attaccamento), non credo venga sconsigliata dal buddismo, anzi, può essere indice di una retta attitudine (mi viene in mente il racconto dell'uomo che gusta la fragola appeso nel burrone sopra le tigri...).
Infatti non le sconsiglia . Invita solo a vederle per quello che sono...cioè temporanee e a non aggrapparvisi in quanto l'attaccamento a quelle soddisfazioni è possibile causa di futura sofferenza. La fragola è molto buona...il difficile è non desiderare assaggiarne ancora, e poi ancora e ancora...
Citazione di: Sariputra il 24 Maggio 2016, 15:00:23 PM
Nella concezione buddhista una soddisfazione temporanea è vista come insoddisfacente, in più viene addirittura equiparata a sofferenza in formazione. La mente cercherà di ripetere l'esperienza, ne avrà nostalgia, soffrirà per non riuscire a riviverla, ecc. Ma questo non è un "male" come viene inteso nella tradizione giudaico-cristiana. La beatitudine è uno stato positivo, uno stato di crescita e sviluppo interiore. L'importante è non aggrapparsi a questi stati, altrimenti diventano un altro ostacolo sulla via. In particolar modo quando si identificano questi stati con il concetto mentale di Vero o Santo. Può essere una trappola insidiosissima se non viene vista come un ristoro, un'oasi serena nel mare del divenire. Comunque, nemmeno fare esperienza di vera beatitudine è una cosa comune nel mondo attuale...
Per legami intendo tutto ciò che ci vincola, che ci tiene in suo potere. Legami interiori ed esteriori.
qualcosa non mi sarebbe ancora chiaro.a prescindere innanzitutto da cio che e' stato concepito dal buddhismo,o dai giudaico-cristiani o altro ancora (secondo me meglio non affidarsi troppo alle dottrine,religioni ecc,personalmente penso che potrebbe risultare anche questo come un attaccamento)a me sembra,almeno da come ne parli,(o ne parla il buddhismo?) che dai come per scontato,o quasi del tutto, che un esperienza simile debba comportare per tutti lo stesso identico effetto o le stesse identiche conseguenze.un po mi da pure l'idea,come a dire ; visto che e' scontato che le cose vanno così (partendo pero dal pregiudizio sopra) meglio precludere ogni possibilita,il che a me sembra anche una chiusura.in riferimento al maestro che mostra semplicemente il fiore ai suoi discepoli,non per questo la semplice osservazione deve "produrre" un estasi,ma piuttosto un distacco,e per come lo interpreto io sarebbe il cessare della mente,credo quei stessi legami interiori ed esteriori che dici tu...e il fiore non e' più un oggetto "esterno" al soggetto e secondo me questo significa "vedere" come il maestro si era proposto di far intuire ai monaci
Citazione di: acquario69 il 25 Maggio 2016, 05:30:28 AMCitazione di: Sariputra il 24 Maggio 2016, 15:00:23 PMNella concezione buddhista una soddisfazione temporanea è vista come insoddisfacente, in più viene addirittura equiparata a sofferenza in formazione. La mente cercherà di ripetere l'esperienza, ne avrà nostalgia, soffrirà per non riuscire a riviverla, ecc. Ma questo non è un "male" come viene inteso nella tradizione giudaico-cristiana. La beatitudine è uno stato positivo, uno stato di crescita e sviluppo interiore. L'importante è non aggrapparsi a questi stati, altrimenti diventano un altro ostacolo sulla via. In particolar modo quando si identificano questi stati con il concetto mentale di Vero o Santo. Può essere una trappola insidiosissima se non viene vista come un ristoro, un'oasi serena nel mare del divenire. Comunque, nemmeno fare esperienza di vera beatitudine è una cosa comune nel mondo attuale... Per legami intendo tutto ciò che ci vincola, che ci tiene in suo potere. Legami interiori ed esteriori.
qualcosa non mi sarebbe ancora chiaro. a prescindere innanzitutto da cio che e' stato concepito dal buddhismo,o dai giudaico-cristiani o altro ancora (secondo me meglio non affidarsi troppo alle dottrine,religioni ecc,personalmente penso che potrebbe risultare anche questo come un attaccamento) a me sembra,almeno da come ne parli,(o ne parla il buddhismo?) che dai come per scontato,o quasi del tutto, che un esperienza simile debba comportare per tutti lo stesso identico effetto o le stesse identiche conseguenze. un po mi da pure l'idea,come a dire ; visto che e' scontato che le cose vanno così (partendo pero dal pregiudizio sopra) meglio precludere ogni possibilita,il che a me sembra anche una chiusura. in riferimento al maestro che mostra semplicemente il fiore ai suoi discepoli,non per questo la semplice osservazione deve "produrre" un estasi,ma piuttosto un distacco,e per come lo interpreto io sarebbe il cessare della mente,credo quei stessi legami interiori ed esteriori che dici tu...e il fiore non e' più un oggetto "esterno" al soggetto e secondo me questo significa "vedere" come il maestro si era proposto di far intuire ai monaci
Attaccarsi ad una credenza o ad una filosofia è senz'altro, come dici, una forma di condizionamento. Nel ragionamento che stavamo facendo, riferito al maestro zen e al fiore mostrato ai monaci, ritenevo più corretto valutarlo all'interno della filosofia buddhista perchè è un isegnamento di Dharma che il maestro vuole dare. Quindi è alla luce di questo insegnamento che i monaci vedono il fiore. Diverso sarebbe il caso se fosse una persona qualunque a mostrare il fiore, rimanendo in silenzio. Ho cercato di delineare la differenza tra "risveglio" (Nirvana, Illumininazione) e stati estatici perchè , purtroppo, ma non è sicuramente il tuo caso, in Occidente, dai movimenti hippy in avanti, fino alla cosiddetta new age si è diffusa la convinzione che il Nirvana sia uno stato sensibile, estatico, di immersione nella totalità, di fusione con l'universo, di adesione a chissà quale forza vitale e chi più ne ha più ne metta ( spesso accompagnato da un bel "cannone" da fumare per dare un aiutino alla venuta del Nirvana :) ). Spesso mi trovo a verificare di persona questa convinzione, partecipando a congressi e conferenze varie tenute da maestri o monaci buddhisti, in cui, negli interventi, a volte interessantissimi, dei presenti si manifesta nettamente questa convinzione erronea. Nirvana, come tu sai (o Nibbana in pali ) significa letteralmente "estinzione"; nello specifico dell'insegnamento di Siddharta deve essere inteso come estinzione del dolore di vivere. Che poi purtroppo, anche all'interno delle varie tradizioni in cui si è divisa questa religione, abbia assunto a volte sfumature diverse e modalità di insegnamento varie, a volte inglobando elementi pre-buddistici presenti nelle varie culture ( e proprio lo zen ne è un esempio) con cui è venuto a contatto, questo non deve essere un pretesto per mutare il significato dell'insegnamento originale.
Hai perfettamente ragione quando dici che il maestro zen non ha assolutamente l'intenzione di produrre un'esperienza estatica nei monaci, mostrando in silenzio il fiore. In monaci particolarmenti sensibili e predisposti questa estasi può sorgere inaspettata però, anche semplicemente osservando quel fiore, e in questo sorgere non c'è assolutamente niente di sbagliato, ribadisco, anzi può essere la spontanea manifestazione di una grande purezza interiore ( purezza dai famosi legami che dicevamo sopra...). Solo che non bisogna fermarsi...solo questo volevo dire,per giungere a "vedere" veramente il fiore, come hai scritto giustamente.
Citazione di: paul11 il 02 Maggio 2016, 18:26:04 PM
Personalmente ritengo che storicamente l'orientale è legato più a come il pensiero ha pensato il reale, noi occidentali ci siamo invece approcciati alla realtà fisica mettendo in dubbio i nostri pensieri: per noi il focus è la realtà fisica poichè e descrivibile e logicamente falsa o vera e scientificamente dimostrabile nelle sue reiterazioni fenomeniche.
Quindi per noi il razionale e vero equivale al mondo là fuori, per l'orientale il vero equivale al suo pensiero ed è falsa la realtà.
E di nuovo ritorna la filosofia del reale metafisico greco contro il reale sperimentale della scienza moderna , il mondo del deduttivo contro l'induttivo.
Condivido il pieno il parere qui espresso da Paul11. E' vero, per l'occidentale l'Universo è
là fuori e non nell'
IO cosciente il quale è unico. ???
I sentiti sono tutte i tantissimi concetti che sono assolutamente refrattari alla loro definizione rigorosa, nel senso qualsiasi tentativo di definizione o finisce in una tautologia più o meno banale oppure impatta in uno o più altri sentiti che, perciò dovrebbero essere rigorosamente definiti per essere utilizzati, appunto, nelle definizioni.
A pensarci bene (come spesso tento di fare senza riuscirci) mi sorge il dubbio, che pare sempre più diventare certezza, che nessun concetto elaborato dalla Coscienza si possa rigorosamente dimostrarlo o definirlo, al massimo lo si può sostenere (leggasi pure dimostrare) poggiandosi su un numero limitato di basi, diciamo così, rigide, cioè su principi (leggasi sentiti) in numero finito e non deformate dal peso dei concetti che si vogliono sorreggere.
Qualcuno potrebbe allora chiedere: "ma cosa sono quei principi che sostengono le nostre conoscenze, non solo scientifiche ma astrattamente matematiche?"
RISPOSTA: Chiedetelo all'Osservatore, (con la O maiuscola) cioè all'IO!
Ma davvero possiamo assumere per definizione kantiana che il noumeno e' inconoscibile? Esistono cose che appaiono ai nostri sensi che non possiamo liquidare come fenomeni conoscibili unicamente nelle loro forme e non nel loro essere in se' e per se'. Quando ci guardiamo allo specchio osserviamo una apparenza del tutto inadeguata ad essere spiegata nelle forme piu' complesse del sapere umano, pero' , oltre a questa conoscenza puramente fisica e formale ,noi possiamo constatare di possederne una intimamente sostanziale , possiamo affermare che a quella immagine fenomenica che osserviamo nello specchio corrisponde il se'e per se' dell' IO SONO'. Quel fenomeno che io vedo allo specchio, o in una tomografia assiale computerizzata, non e' solamente un organismo di atomi, molecole, cluster e cellule logicamente organizzati, ma e' l' "in se'" che io sento attraverso la mia autocoscienza; in questo caso, attraverso lo specchio del reale fenomenico, io sono in grado di cogliere la sostanza noumenica che pervade la forma fenomenica del mio essere; quel fenomeno allo specchio smette di essere pura apparenza, ma diviene emanazione sostanziale dell' "IO SONO". Questa nostra conoscenza noumenica dell'" IO SONO" ci permette di compiere una considerazione rilevante sulla natura della conoscenza delle forme del Reale; che accadrebbe se in quello stesso specchio del reale dovesse apparire un altro identico fenomeno a quello che esprime l'"IO SONO"? tale relazione fra noumeno e fenomeno si rivelerebbe evidentemente non biunivoca, nel senso che allo stesso fenomeno non si potrebbe far corrispondere lo stesso noumeno, trovando in questo modo che la relazione fra i due stati della conoscenza del reale procede dal noumeno verso il fenomeno e non viceversa. L'IO SONO , quindi, pare essere logicamente la fonte reale della mia immagine fenomenica, ma , allo stesso modo, pare non consistere in essa
Citazione di: and1972rea il 24 Luglio 2016, 11:32:08 AM
Ma davvero possiamo assumere per definizione kantiana che il noumeno e' inconoscibile? Esistono cose che appaiono ai nostri sensi che non possiamo liquidare come fenomeni conoscibili unicamente nelle loro forme e non nel loro essere in se' e per se'. Quando ci guardiamo allo specchio osserviamo una apparenza del tutto inadeguata ad essere spiegata nelle forme piu' complesse del sapere umano, pero' , oltre a questa conoscenza puramente fisica e formale ,noi possiamo constatare di possederne una intimamente sostanziale , possiamo affermare che a quella immagine fenomenica che osserviamo nello specchio corrisponde il se'e per se' dell' IO SONO'. Quel fenomeno che io vedo allo specchio, o in una tomografia assiale computerizzata, non e' solamente un organismo di atomi, molecole, cluster e cellule logicamente organizzati, ma e' l' "in se'" che io sento attraverso la mia autocoscienza; in questo caso, attraverso lo specchio del reale fenomenico, io sono in grado di cogliere la sostanza noumenica che pervade la forma fenomenica del mio essere; quel fenomeno allo specchio smette di essere pura apparenza, ma diviene emanazione sostanziale dell' "IO SONO". Questa nostra conoscenza noumenica dell'" IO SONO" ci permette di compiere una considerazione rilevante sulla natura della conoscenza delle forme del Reale; che accadrebbe se in quello stesso specchio del reale dovesse apparire un altro identico fenomeno a quello che esprime l'"IO SONO"? tale relazione fra noumeno e fenomeno si rivelerebbe evidentemente non biunivoca, nel senso che allo stesso fenomeno non si potrebbe far corrispondere lo stesso noumeno, trovando in questo modo che la relazione fra i due stati della conoscenza del reale procede dal noumeno verso il fenomeno e non viceversa. L'IO SONO , quindi, pare essere logicamente la fonte reale della mia immagine fenomenica, ma , allo stesso modo, pare non consistere in essa
Citazione
Trovo il tuo argomentare interessante e profondo, ma ambiguo, e ti rivolgo due obiezioni (sperando di non farti l' impressione di chi cerca ad ogni costo il pelo nell' uovo: in pratica non ci sono differenze rilevanti fra quanto sostieni tu e quanto intendo precisare io; ma noi filosofi, direi per definizione, non ci limitiamo alla pratica ma cerchiamo una più profonda e chiara e ben definita conoscenza teorica).
Prima obiezione:
L' autocosciente sensazione interiore "io sono", puramente mentale, soggettiva, "in prima persona", "privata é diversa, altra cosa della sensazione (di fatto inevitabilmente indiretta, attraverso l' immagine riflessa dallo specchio o l' imaging neurologico: TC, o meglio PET o meglio ancora RM funzionale) del mio corpo o meglio, più precisamente, del mio cervello (la quale ultima fra l' altro é "pubblica" intersoggettiva, "in terza persona).
Trovo una certa ambiguità nelle tue parole dal momento che prima affermi che il primo (l' "io sono") corrisponde alla seconda (alla tua immagine fenomenica riflessa nello specchio), mentre successivamente sostieni che quel fenomeno che tu vedi allo specchio, o in una tomografia assiale computerizzata, non e' solamente un organismo di atomi, molecole, cluster e cellule logicamente organizzati, ma é l' "in se'" che tu senti attraverso la tua autocoscienza (o con un' ulteriore elemento di ambiguità l' "emanazione sostanziale" di esso: è evidente che "emanazione, sia pur sostanziale, di qualcosa" =/= "qualcosa" ).
Evidentemente "corrispondere a" =/= "essere" o "identificarsi con", e io trovo corretta la prima versione per così dire "corrispondentista" dei rapporti fra tua mente cosciente e tuo corpo (cervello), errata la seconda "identitista (o identitaria?)".
Fra le due esperienze fenomeniche coscienti (entrambe: la visione del tuo corpo -cervello- e le sensazioni costituenti tua esperienza cosciente) non si dà con tutta evidenza identità bensì necessaria "corrispondenza biunivoca": (sensazioni costituenti) il tuo cervello in una certa determinata condizione funzionale e solo in quella (neuroni, sinapsi, fatte di molecole, atomi, ecc.) da una parte e il tuo vedere un albero nel giardino, sentirti felice o pensare la dimostrazione del teorema di Pitagora dall' altra (sensazioni materiali o mentali, di sentimenti, pensieri, ecc. dall' altra) sono cose ben diverse, reciprocamente altre; anche se non si possono dare le une senza le altre e viceversa.
Seconda obiezione:
Quel fenomeno allo specchio non smette di essere pura apparenza (fenomenica: insieme e/o successione di sensazioni; cioè non smette di essere se stesso: e come potrebbe, non contraddittoriamente?), per divenire la tua coscienza, la quale pure non smette di essere pura apparenza (fenomenica: insieme e/o successione di sensazioni), allorché ti addormenti senza sognare e non esiste più realmente.
Dire che quando ciascuno dei due reciprocamente corrispondenti insiemi e/o successioni di sensazioni (fenomeni), tuo cervello e tua coscienza, smette di accadere (di essere reale, di esistere; ovvero non accade, non è reale, non esiste più) ancora c' è, ancora accade (è, reale, esiste) è una patente contraddizione.
Invece se qualcosa ancora c' è, ancora accade (è, reale, esiste), e spiega come mai (e fa sì che) se guardi di nuovo allo specchio o nella RMf di nuovo puntualmente rivedi il tuo cervello e se ti svegli o sogni di nuovo puntualmente hai esperienze fenomeniche coscienti, se poni attenzione a te stesso di nuovo puntualmente sei autocosciente (cosciente dell' "io sono"), allora questo "qualcosa" non può che essere "altre cose" che le sensazioni fenomeniche che in tali circostanze non sono, qualcosa di ad entrambi i tipi di sensazioni fenomeniche non identico (altre "cose", non le stesse "cose") bensì" biunivocamente corrispondente. Non può che essere qualcosa che non è (costituito da) sensazioni fenomeniche coscienti (nelle circostanze nelle quali esse non esistono, non sono più reali) ma che semplicemente può essere pensato, congetturato (dal greco e a la Kant "noumeno"), qualcosa di "in sé" e non di apparente, non sensibile (dal greco e a la Kant "fenomeni").
Differenza fra "sentire" e conoscere":
I fenomeni si sentono, il noumeno non si sente e non si può sentire; tuttavia si può pensare, si può in qualche limitata misura, in qualche senso conoscere (se ne sa che per esempio "qualcosa di esso" corrisponde biunivocamente al tuo cervello se osservato, percepito "dall' esterno, estrinsecamente", nel modo in cui solitamente lo percepiscono gli altri, mentre corrisponde biunivocamente alla tua esperienza cosciente se osservato, percepito "dall' interno, intrinsecamente", nel modo in cui si percepisce da sé).
Citazione di: sgiombo il 24 Luglio 2016, 16:23:42 PM
Citazione di: and1972rea il 24 Luglio 2016, 11:32:08 AM
Ma davvero possiamo assumere per definizione kantiana che il noumeno e' inconoscibile? Esistono cose che appaiono ai nostri sensi che non possiamo liquidare come fenomeni conoscibili unicamente nelle loro forme e non nel loro essere in se' e per se'. Quando ci guardiamo allo specchio osserviamo una apparenza del tutto inadeguata ad essere spiegata nelle forme piu' complesse del sapere umano, pero' , oltre a questa conoscenza puramente fisica e formale ,noi possiamo constatare di possederne una intimamente sostanziale , possiamo affermare che a quella immagine fenomenica che osserviamo nello specchio corrisponde il se'e per se' dell' IO SONO'. Quel fenomeno che io vedo allo specchio, o in una tomografia assiale computerizzata, non e' solamente un organismo di atomi, molecole, cluster e cellule logicamente organizzati, ma e' l' "in se'" che io sento attraverso la mia autocoscienza; in questo caso, attraverso lo specchio del reale fenomenico, io sono in grado di cogliere la sostanza noumenica che pervade la forma fenomenica del mio essere; quel fenomeno allo specchio smette di essere pura apparenza, ma diviene emanazione sostanziale dell' "IO SONO". Questa nostra conoscenza noumenica dell'" IO SONO" ci permette di compiere una considerazione rilevante sulla natura della conoscenza delle forme del Reale; che accadrebbe se in quello stesso specchio del reale dovesse apparire un altro identico fenomeno a quello che esprime l'"IO SONO"? tale relazione fra noumeno e fenomeno si rivelerebbe evidentemente non biunivoca, nel senso che allo stesso fenomeno non si potrebbe far corrispondere lo stesso noumeno, trovando in questo modo che la relazione fra i due stati della conoscenza del reale procede dal noumeno verso il fenomeno e non viceversa. L'IO SONO , quindi, pare essere logicamente la fonte reale della mia immagine fenomenica, ma , allo stesso modo, pare non consistere in essa
Citazione
Trovo il tuo argomentare interessante e profondo, ma ambiguo, e ti rivolgo due obiezioni (sperando di non farti l' impressione di chi cerca ad ogni costo il pelo nell' uovo: in pratica non ci sono differenze rilevanti fra quanto sostieni tu e quanto intendo precisare io; ma noi filosofi, direi per definizione, non ci limitiamo alla pratica ma cerchiamo una più profonda e chiara e ben definita conoscenza teorica).
Prima obiezione:
L' autocosciente sensazione interiore "io sono", puramente mentale, soggettiva, "in prima persona", "privata é diversa, altra cosa della sensazione (di fatto inevitabilmente indiretta, attraverso l' immagine riflessa dallo specchio o l' imaging neurologico: TC, o meglio PET o meglio ancora RM funzionale) del mio corpo o meglio, più precisamente, del mio cervello (la quale ultima fra l' altro é "pubblica" intersoggettiva, "in terza persona).
Trovo una certa ambiguità nelle tue parole dal momento che prima affermi che il primo (l' "io sono") corrisponde alla seconda (alla tua immagine fenomenica riflessa nello specchio), mentre successivamente sostieni che quel fenomeno che tu vedi allo specchio, o in una tomografia assiale computerizzata, non e' solamente un organismo di atomi, molecole, cluster e cellule logicamente organizzati, ma é l' "in se'" che tu senti attraverso la tua autocoscienza (o con un' ulteriore elemento di ambiguità l' "emanazione sostanziale" di esso: è evidente che "emanazione, sia pur sostanziale, di qualcosa" =/= "qualcosa" ).
Evidentemente "corrispondere a" =/= "essere" o "identificarsi con", e io trovo corretta la prima versione per così dire "corrispondentista" dei rapporti fra tua mente cosciente e tuo corpo (cervello), errata la seconda "identitista (o identitaria?)".
Fra le due esperienze fenomeniche coscienti (entrambe: la visione del tuo corpo -cervello- e le sensazioni costituenti tua esperienza cosciente) non si dà con tutta evidenza identità bensì necessaria "corrispondenza biunivoca": (sensazioni costituenti) il tuo cervello in una certa determinata condizione funzionale e solo in quella (neuroni, sinapsi, fatte di molecole, atomi, ecc.) da una parte e il tuo vedere un albero nel giardino, sentirti felice o pensare la dimostrazione del teorema di Pitagora dall' altra (sensazioni materiali o mentali, di sentimenti, pensieri, ecc. dall' altra) sono cose ben diverse, reciprocamente altre; anche se non si possono dare le une senza le altre e viceversa.
Seconda obiezione:
Quel fenomeno allo specchio non smette di essere pura apparenza (fenomenica: insieme e/o successione di sensazioni; cioè non smette di essere se stesso: e come potrebbe, non contraddittoriamente?), per divenire la tua coscienza, la quale pure non smette di essere pura apparenza (fenomenica: insieme e/o successione di sensazioni), allorché ti addormenti senza sognare e non esiste più realmente.
Dire che quando ciascuno dei due reciprocamente corrispondenti insiemi e/o successioni di sensazioni (fenomeni), tuo cervello e tua coscienza, smette di accadere (di essere reale, di esistere; ovvero non accade, non è reale, non esiste più) ancora c' è, ancora accade (è, reale, esiste) è una patente contraddizione.
Invece se qualcosa ancora c' è, ancora accade (è, reale, esiste), e spiega come mai (e fa sì che) se guardi di nuovo allo specchio o nella RMf di nuovo puntualmente rivedi il tuo cervello e se ti svegli o sogni di nuovo puntualmente hai esperienze fenomeniche coscienti, se poni attenzione a te stesso di nuovo puntualmente sei autocosciente (cosciente dell' "io sono"), allora questo "qualcosa" non può che essere "altre cose" che le sensazioni fenomeniche che in tali circostanze non sono, qualcosa di ad entrambi i tipi di sensazioni fenomeniche non identico (altre "cose", non le stesse "cose") bensì" biunivocamente corrispondente. Non può che essere qualcosa che non è (costituito da) sensazioni fenomeniche coscienti (nelle circostanze nelle quali esse non esistono, non sono più reali) ma che semplicemente può essere pensato, congetturato (dal greco e a la Kant "noumeno"), qualcosa di "in sé" e non di apparente, non sensibile (dal greco e a la Kant "fenomeni").
Differenza fra "sentire" e conoscere":
I fenomeni si sentono, il noumeno non si sente e non si può sentire; tuttavia si può pensare, si può in qualche limitata misura, in qualche senso conoscere (se ne sa che per esempio "qualcosa di esso" corrisponde biunivocamente al tuo cervello se osservato, percepito "dall' esterno, estrinsecamente", nel modo in cui solitamente lo percepiscono gli altri, mentre corrisponde biunivocamente alla tua esperienza cosciente se osservato, percepito "dall' interno, intrinsecamente", nel modo in cui si percepisce da sé).
Quando affermo che la mia immagine riflessa nello specchio smette di essere pura apparenza e alterità per diventare emanazione dell"io sono" , intendo che quel fenomeno dismette i panni formali del fenomeno conoscibile razionalmente( ma più avanti dirò che nemmeno l'alterita' può considerarsi fuori DALL' "IO SONO") per diventare ente ,per così dire ,"sapibile" in un tutt'uno con la nostra consapevole coscienza di essere. Ammetto che è facile scorgere delle ambiguità nel mio intervento senza aver prima capito il mio modo di intendere il "soggettivo"; l'opinione che mi sono formato , per certi versi influenzata da parecchie suggestioni hegeliane, è che non si può logicamente considerare nulla di soggettivo se non in maniera e da un punto di vista oggettivo;nello stesso momento in cui noi distinguiamo il soggetto dall' oggetto, infatti, noi poniamo il soggetto sullo stesso piano dell'oggetto, e facciamo sussistere l'idea di soggetto solo in funzione di un piano oggettivo, parliamo di soggetto e di oggetto,dunque, ma finiamo inevitabilmente per discutere soltanto di due oggetti. In questo senso, quando considero ció che appare , considero la sensazione pura soltanto come una diversa declinazione dell "IO SONO", e tutto ciò che posso logicamente considerare oggettivo non può andare oltre , non può astrarsi, non può razionalmente considerarsi altro da ciò che " IO SONO". l'immagine che mi rimanda lo specchio è, dunque, parte di me, perchè nell'istante in cui cambia la più piccola proprietà di quell'immagine, e , ancor più, di quel fenomeno, io cambio insieme ad essa, ma non per semplice analogia o corrispondenza biunivoca, ma per intima e coesistente sincronicità; l'entità che appare , dunque, non puó che consistere "NELL'IO SONO", ma non si può affermare che l'IO SONO consista tutto in quel fenomeno, prova logica ne è il fatto che una ulteriore identica immagine riflessa in quello stesso specchio non consisterebbe nelle stesse sensazioni "sapute", "sentite" ( non , cioé, semplicemente, "conosciute") nella coscienza del mio essere Io; fenomeni identici, dunque, consistono diversamente fra loro nella autocoscienza del nostro essere, e mentre alcuni fenomeni li sentiamo più intimamente connessi alla nostra autocoscienza(per esempio, se agiamo chirurgicamente o chimicamente in alcune precise zone del nostro cervello FENOMENICO: memoria,funzioni emozionali etc...), altri ci appaiono più distanti (per esempio, se agiamo chirurgicamente o con farmaci in precise zone di un cervello che ci appare non essere il nostro), a tal punto da considerare quelle sensazioni in cui quelle apparenze consistono ,quasi altre da noi , quasi altre dall'"IO SONO". Esistono , dunque, fenomeni di cui evidentemente conosciamo in modo "sapiente", cioè profondo, assoluto, il nocciolo essenziale, perché quei fenomeni sono il Noi, cioè l'io in sé e per sé, altri fenomeni , a volte gli stessi identici, sono in apparenza distanti da noi, ma comunque non scindibili dalla coscienza del nostro "IO sono". Per le stesse ragioni è chiaro che non è possibile ridurre L'IO SONO ad un dato fenomenico, poiché sembrano proprio i fenomeni una proprietà dell "io sono" e non viceversa.
Citazione di: and1972rea il 18 Settembre 2016, 16:58:58 PM
Quando affermo che la mia immagine riflessa nello specchio smette di essere pura apparenza e alterità per diventare emanazione dell"io sono" , intendo che quel fenomeno dismette i panni formali del fenomeno conoscibile razionalmente( ma più avanti dirò che nemmeno l'alterita' può considerarsi fuori DALL' "IO SONO") per diventare ente ,per così dire ,"sapibile" in un tutt'uno con la nostra consapevole coscienza di essere. Ammetto che è facile scorgere delle ambiguità nel mio intervento senza aver prima capito il mio modo di intendere il "soggettivo"; l'opinione che mi sono formato , per certi versi influenzata da parecchie suggestioni hegeliane, è che non si può logicamente considerare nulla di soggettivo se non in maniera e da un punto di vista oggettivo;nello stesso momento in cui noi distinguiamo il soggetto dall' oggetto, infatti, noi poniamo il soggetto sullo stesso piano dell'oggetto, e facciamo sussistere l'idea di soggetto solo in funzione di un piano oggettivo, parliamo di soggetto e di oggetto,dunque, ma finiamo inevitabilmente per discutere soltanto di due oggetti. In questo senso, quando considero ció che appare , considero la sensazione pura soltanto come una diversa declinazione dell "IO SONO", e tutto ciò che posso logicamente considerare oggettivo non può andare oltre , non può astrarsi, non può razionalmente considerarsi altro da ciò che " IO SONO". l'immagine che mi rimanda lo specchio è, dunque, parte di me, perchè nell'istante in cui cambia la più piccola proprietà di quell'immagine, e , ancor più, di quel fenomeno, io cambio insieme ad essa, ma non per semplice analogia o corrispondenza biunivoca, ma per intima e coesistente sincronicità; l'entità che appare , dunque, non puó che consistere "NELL'IO SONO", ma non si può affermare che l'IO SONO consista tutto in quel fenomeno, prova logica ne è il fatto che una ulteriore identica immagine riflessa in quello stesso specchio non consisterebbe nelle stesse sensazioni "sapute", "sentite" ( non , cioé, semplicemente, "conosciute") nella coscienza del mio essere Io; fenomeni identici, dunque, consistono diversamente fra loro nella autocoscienza del nostro essere, e mentre alcuni fenomeni li sentiamo più intimamente connessi alla nostra autocoscienza(per esempio, se agiamo chirurgicamente o chimicamente in alcune precise zone del nostro cervello FENOMENICO: memoria,funzioni emozionali etc...), altri ci appaiono più distanti (per esempio, se agiamo chirurgicamente o con farmaci in precise zone di un cervello che ci appare non essere il nostro), a tal punto da considerare quelle sensazioni in cui quelle apparenze consistono ,quasi altre da noi , quasi altre dall'"IO SONO". Esistono , dunque, fenomeni di cui evidentemente conosciamo in modo "sapiente", cioè profondo, assoluto, il nocciolo essenziale, perché quei fenomeni sono il Noi, cioè l'io in sé e per sé, altri fenomeni , a volte gli stessi identici, sono in apparenza distanti da noi, ma comunque non scindibili dalla coscienza del nostro "IO sono". Per le stesse ragioni è chiaro che non è possibile ridurre L'IO SONO ad un dato fenomenico, poiché sembrano proprio i fenomeni una proprietà dell "io sono" e non viceversa.
CitazioneNon riesco a seguirti.
Mi sembrerebbe che l' "io sono" di cui parli si identifichi con l' esperienza fenomenica cosciente (tutto ciò che si sente).
Ma tutto ciò potrebbe anche accadere senza che esistano realmente (inoltre) un soggetto e un oggetto (cose in sé e non apparenze fenomeniche) delle apparenze fenomeniche stesse.
La realtà in toto, per quel che se ne sa, potrebbe limitarsi alle sensazioni fenomeniche costituenti nel loro accadere l' esperienza cosciente e nient' altro.
Il mio cervello, visto indirettamente nello specchio o con la RM, non é la mia esperienza cosciente (la quale può includere la visione del mio cervello, ma non si limita certamente ad essa).
la mia esperienza cosciente e il mio cervello (nell' ambito della mia o più correntemente di altre esperienze fenomeniche coscienti), se, come credo, é vero quanto ci dicono le neuroscienze, necessariamente si corrispondono biunivocamente.
E questo può spiegarsi ammettendo (indimostrabilmente) che lo stesso ente (o insieme di eventi) in sè o "noumenico" (costituente il soggetto della mia esperienza cosciente, e un oggetto di altre: "io") corrisponde biunivocamente al mio cervello se percepito fenomenicamente da altri -o al limite da se stesso ma "indirettamente" o "esteriormente", e ai miei pensieri, ragionamenti, immaginazioni, ricordi, sentimenti, ecc. (la "mia res cogitans") se percepito fenomenicamente -e "direttamente" o "interiormente"- da se stesso.