L'inconoscibilità del noumeno non implica la sua inesistenza

Aperto da cvc, 02 Maggio 2016, 16:31:00 PM

Discussione precedente - Discussione successiva

maral

Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 02:55:13 AM
l'esperienza immediata o prassi pura da quel che mi sembra di aver capito affermerebbe che siano i nostri pensieri (?) se non proprio le nostre immediate percezioni a determinare il reale nel suo svolgersi in atto,in pura praxis..
No, questa esperienza è intesa come assoluto originario (e quindi non ha origine, ma è eterna origine di tutto) i nostri pensieri, le nostre percezioni e sensazioni vengono dopo (il soggetto con l'oggetto dell'esperienza viene dopo), sono dall'esperienza determinate e non il contrario come abbiamo sempre creduto. Nel video Ronchi per richiamarne il senso fa l'esempio dell'urlo del bambino appena nato che ha fame, quell'urlo è un assoluto, non è qualcosa di quel bambino. E' la madre che, offrendo al bambino il seno dà a quell'urlo il significato di una relazione con l'oggetto che rende possibile il cominciare a formarsi di un soggetto umano (che potrà trasformare quell'urlo assoluto in un mio grido, una mia fame).

Citazionee se tutta la cosiddetta realtà rientrerebbe solo in questa pura praxis,attraverso i nostri sensi immediati quindi nella nostra immediata percezione che fine farebbe l'auto coscienza?
a meno che non si voglia appunto negarla,ma non sarebbe comunque una contraddizione voler affermare un idea o un concetto e poi negare implicitamente (visto che come viene detto sopra: "ossia un esperienza che non e' di niente e di nessuno,o se si preferisce,una sorta di coscienza primaria senza l'io e quindi senza l'uomo"..) l'esistenza stessa dell'idea o il concetto espressi un attimo prima?  (e chi sarebbe dunque l'autore di tale size=2]concezione? ..niente e/o nessuno?!?)[/size]
Ripeto, no il "pensiero" orientale o diciamo spirituale a differenza di quanto sopra,arriva a coincidere con la coscienza suprema ed immutabile e la differenza e' che vi sarebbe consapevole coincidenza,che tra l'altro non ha nulla a che vedere col distacco dall'esperienza
Secondo questa concezione immanente (o metodo dell'immanenza per avvicinarsi al noumeno) l'io è solo il prodotto di questa esperienza primaria che è senza io e il pensiero concettuale, astratto che fa perno sulla coscienza dell'io è solo un riassunto molto schematico a posteriori di questa originaria esperienza assoluta (e la conserva come la figura che resta sempre legata come sfondo). Questo riassunto astratto è per certi versi ingannatore proprio perché immagina l'io all'origine e non più l'esperienza primaria e senza io da cui è tratto.
Il legame con il pensiero orientale è evidente, il cuore della meditazione orientale (sia nel buddismo che nell'induismo) è tutto nel superamento della posizione egoica, solo se si abbandona l'io (i propri pensieri, le proprie soggettive aspirazioni e desideri) il Nirvana è possibile, ma il Nirvana (l'illuminazione della realtà in sé) la si ritrova solo nella pura esperienza fisiologica corporale e non nella ricerca di una superiore trascendenza fuori dal corpo, ma nel recupero totale dell'immanenza del corpo stesso, nell'energia materia di cui è fatto. Ronchi si rifà qui al termine aristotelico di energheia (un divenire assoluto, senza direzione) in contrapposizione a quello di katakinesis che esprime un movimento direzionato, ossia volto a uno scopo che sta fermo fuori da esso, ossia un progetto guidato da un'idea.

La contraddizione che io trovo in questa immanenza assoluta che l'Occidente vorrebbe recuperare è che essa continua a venire espressa nei termini di un discorso, di un logos, che è quanto di più lontano possibile da questa esperienza assoluta di cui parla. E' il logos come l'Occidente lo ha costruito che continua a raccontarci la sua  metafisica trascendente presentandola come immanente, è sempre una poiesis a raccontarci una praxis e dunque a presentarla, nel suo progetto originario, come originaria assenza di progetto. Diverso è invece il discorso per l'Oriente, ove la filosofia dell'immanenza assoluta può davvero essere fondamentalmente praxis. Il maestro zen non spiega nulla al discepolo con le parole e se fa un discorso lo fa solo per evidenziare la contraddizione di ogni argomentazione logico dicorsiva: solo il puro gesto fisico nella sua perfezione tecnica, del tutto autoreferente, permette di cogliere la verità. Per dare conto effettivo di questa esperienza pura occorre che sia il corpo stesso a fare filosofia, non il linguaggio (un po' come fanno i maestri yoga o, se vogliamo, in ambito occidentale, fecero anticamente in Grecia i Cinici e gli Scettici)

acquario69

Citazione di: maral il 05 Maggio 2016, 15:19:17 PM
il Nirvana è possibile, ma il Nirvana (l'illuminazione della realtà in sé) la si ritrova solo nella pura esperienza fisiologica corporale e non nella ricerca di una superiore trascendenza fuori dal corpo, ma nel recupero totale dell'immanenza del corpo stesso, nell'energia materia di cui è fatto. Ronchi si rifà qui al termine aristotelico di energheia (un divenire assoluto, senza direzione) in contrapposizione a quello di katakinesis che esprime un movimento direzionato, ossia volto a uno scopo che sta fermo fuori da esso, ossia un progetto guidato da un'idea.

. Il maestro zen non spiega nulla al discepolo con le parole e se fa un discorso lo fa solo per evidenziare la contraddizione di ogni argomentazione logico dicorsiva: solo il puro gesto fisico nella sua perfezione tecnica, del tutto autoreferente, permette di cogliere la verità. Per dare conto effettivo di questa esperienza pura occorre che sia il corpo stesso a fare filosofia, non il linguaggio (un po' come fanno i maestri yoga o, se vogliamo, in ambito occidentale, fecero anticamente in Grecia i Cinici e gli Scettici)

su questi due punti sopra avrei delle perplessità..

ritengo che rimettere tutto all'esperienza fisiologica corporale,non sia corretto perché se e' pur vero che non e' il linguaggio a cogliere il reale non può esserlo a mio avviso nemmeno il corpo (il linguaggio del resto non proverrebbe dallo stesso corpo?)
i maestri zen oltre a voler far intuire che bisogna trascendere il linguaggio credo proprio che intendano farlo per l'essere stesso di cui il corpo,nella sua esperienza fisiologica ne farebbe parte a pieno titolo e che sarebbe solo una forma,
la forma ha origine dalla non forma,come il non essere (senza forma) e' all'origine dell'essere (forma) oppure analogamente il non manifesto all'origine del manifesto..ed il corpo,compreso il suo logos e' a tutti gli effetti nel manifesto (dal suo punto di vista,poiché il reale avendo origine dal non manifesto comprende entrambi senza distinzione,cioè la distinzione la facciamo noi ma e' appunto relativa)
ed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto

HollyFabius

Citazione di: sgiombo il 05 Maggio 2016, 15:12:48 PM
Citazione di: HollyFabius il 05 Maggio 2016, 09:12:59 AMNoumeno, inconscibilità, immediato sensibile queste sono le parole chiave.
La nostra sensibilità è la porta di accesso alla trasformazione del noumeno verso il fenomenico. La conoscenza (prima intuitiva, poi razionalizzante, poi razionalizzata) è l'atto di trasformazione del noumeno in fenomeno.
Questa evoluzione è in atto, lo constatiamo nella trasformazione della nostra realtà fenomenica che aggiunge entità oggettuali dove prima mancavano.
Portatrice di questo cambiamento è la spinta del mondo della Tecnica, e avanguardie di queste nuove rappresentazioni sono gli scienziati e gli artisti.
Ma questo cambiamento si può supporre non limitato al logos condiviso, alla conoscenza immateriale che cresce; si può supporre che nel trascorrere del tempo, delle generazioni, cambi anche il nostro corpo, aggiungendo forza all'apparato sensibile. L'uomo di oggi è diverso dall'uomo di mille anni fa e sarà ancora diverso tra mille anni.
Come verrà trasformato il nostro corpo dopo decine di generazioni che vivano nello spazio privo di gravità?
Certo per alcuni, e forse anche per me, può esistere (e la cosa appare anche naturale, comprensibile e spiegabile) un limite alla possibile trasformazione del noumeno in fenomeno. Siamo corpo con limiti temporali, invecchiamo e dobbiamo alimentarci per sopravvivere, i nostri sensi porta del fenomeno potranno lentamente trasformarsi ma non sappiamo e difficilmente sapremo quanti altri sensi siano possibili in natura.
Rispetto al passato, rispetto ai pensatori greci e anche solo ai grandi pensatori del '700 e '800 noi conosciamo un mondo conoscitivo condiviso che travalica il singolo uomo, che ha sede altrove rispetto all'uomo e altrove rispetto al logos del libro, possiamo intravede delle potenzialità che erano oltre il confine cognitivo di questi pensatori.


Rispondo:

Ma se per "fenomeno" si intende l' apparire di ciò che è sensibile, cosciente e per "noumeno" si intende "ciò che è in sé, senza apparire alla coscienza" non vedo come sia possibile, che senso possa vere una "trasformazione del noumeno in fenomeno": più che di trasformazione (cambiamento di "forma" di un' unica entità) si tratterebbe di una negazione (il cessare di esistere) di una determinata entità e affermazione (l' iniziare ad esistere) di una determinata altra completamente diversa entità.

Se per conoscenza si intende "predicazione vera, cioè conforme alla realtà", allora, potendo essa accadere unicamente nell' ambito di un' esperienza cosciente (si tratta delle sensazioni interiori o mentali di pensieri, di predicati per l' appunto), potrà accadere unicamente di fenomeni, sensazioni coscienti e non di cose in sé o noumeno.
Se vedo il Cervino e penso "vedo il Cervino", allora per definizione ho una conoscenza (del fatto di vedere il Cervino); ma lo stesso non posso dire del noumeno.
Quest' ultimo lo si può unicamente pensare come un concetto "oscuro" (quasi letteralmente: non visibile, né altrimenti sensibile, non apparente alla coscienza), si può dirne che unicamente esiste o che non esiste opoco più, magari allusivamente o metaforicamente); e se si dice che esiste (oppure che non esiste) non si può per definizione verificare, constatare (in ultima analisi percepire sensibilmente, coscientemente) la verità o meno di questa affermazione, in quanto ciò che si può percepire sensibilmente, coscientemente non è noumeno ma fenomeno.

Infatti I cambiamenti che la tecnica rende possibili sono cambiamenti nell' insieme dei fenomeni, tant' é vro che si constatano (= "appaiono" ai sensi, alla coscienza).



Ho scritto sopra che esistono due possibili interpretazioni di fenomeno e noumeno, in quella kantiana è effettivamente come scrivi tu il noumeno rimane inaccessibile ai sensi e alla ragione. La seconda è quella di Schopenhauer dove il noumeno non è inaccessibile.  Io penso sia corretta l'interpretazione di S.

maral

Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 16:51:53 PM
su questi due punti sopra avrei delle perplessità..

ritengo che rimettere tutto all'esperienza fisiologica corporale,non sia corretto perché se e' pur vero che non e' il linguaggio a cogliere il reale non può esserlo a mio avviso nemmeno il corpo (il linguaggio del resto non proverrebbe dallo stesso corpo?)
Se il linguaggio proviene dal corpo, il linguaggio è espressione dell'immanenza del corpo, non lo trascende.
Il punto è comunque che l'esperienza pura (in qualsiasi forma si realizzi) è esperienza priva di soggetto, priva di un io, sia corporeo che spirituale, poiché è essa stesso a determinarlo e non il contrario.
Citazionei maestri zen oltre a voler far intuire che bisogna trascendere il linguaggio credo proprio che intendano farlo per l'essere stesso di cui il corpo,nella sua esperienza fisiologica ne farebbe parte a pieno titolo e che sarebbe solo una forma,
la forma ha origine dalla non forma,come il non essere (senza forma) e' all'origine dell'essere (forma) oppure analogamente il non manifesto all'origine del manifesto..ed il corpo,compreso il suo logos e' a tutti gli effetti nel manifesto (dal suo punto di vista,poiché il reale avendo origine dal non manifesto comprende entrambi senza distinzione,cioè la distinzione la facciamo noi ma e' appunto relativa)
ed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto
Immanente nel senso di presente, del tutto coincidente con l'atto. L'esperienza è presente in atto che non conosce limiti e dunque non ha né passato né futuro (senza origine né fine), è l'istante eterno dell'atto. Non nel senso di interno in contrapposizione con un esterno, poiché nell'esperienza pura non vi è ciò che discrimina l'interno dall'esterno, non c'è l'io e quindi non c'è nulla che possa definirsi interno o esterno a esso. Quel vuoto è  pieno in modo traboccante, come il vuoto quantistico, una continua oscillazione senza tempo di forme metastabili che sono e non sono. E' il gioco di un divenire assoluto che le parole non possono rendere, ma che è esperienza primaria comune a tutto il vivente, dalle piante, agli animali, all'uomo. E questa esperienza primaria si rivela nell'atto puro, quello che nello zen si tenta appunto di realizzare nel gesto perfettamente concluso in se stesso, come una tautologia.

acquario69

#19
Citazione di: maral il 05 Maggio 2016, 22:03:35 PM
Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 16:51:53 PM
su questi due punti sopra avrei delle perplessità..

ritengo che rimettere tutto all'esperienza fisiologica corporale,non sia corretto perché se e' pur vero che non e' il linguaggio a cogliere il reale non può esserlo a mio avviso nemmeno il corpo (il linguaggio del resto non proverrebbe dallo stesso corpo?)
Se il linguaggio proviene dal corpo, il linguaggio è espressione dell'immanenza del corpo, non lo trascende.
Il punto è comunque che l'esperienza pura (in qualsiasi forma si realizzi) è esperienza priva di soggetto, priva di un io, sia corporeo che spirituale, poiché è essa stesso a determinarlo e non il contrario.
Citazionei maestri zen oltre a voler far intuire che bisogna trascendere il linguaggio credo proprio che intendano farlo per l'essere stesso di cui il corpo,nella sua esperienza fisiologica ne farebbe parte a pieno titolo e che sarebbe solo una forma,
la forma ha origine dalla non forma,come il non essere (senza forma) e' all'origine dell'essere (forma) oppure analogamente il non manifesto all'origine del manifesto..ed il corpo,compreso il suo logos e' a tutti gli effetti nel manifesto (dal suo punto di vista,poiché il reale avendo origine dal non manifesto comprende entrambi senza distinzione,cioè la distinzione la facciamo noi ma e' appunto relativa)
ed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto
Immanente nel senso di presente, del tutto coincidente con l'atto. L'esperienza è presente in atto che non conosce limiti e dunque non ha né passato né futuro (senza origine né fine), è l'istante eterno dell'atto. Non nel senso di interno in contrapposizione con un esterno, poiché nell'esperienza pura non vi è ciò che discrimina l'interno dall'esterno, non c'è l'io e quindi non c'è nulla che possa definirsi interno o esterno a esso. Quel vuoto è  pieno in modo traboccante, come il vuoto quantistico, una continua oscillazione senza tempo di forme metastabili che sono e non sono. E' il gioco di un divenire assoluto che le parole non possono rendere, ma che è esperienza primaria comune a tutto il vivente, dalle piante, agli animali, all'uomo. E questa esperienza primaria si rivela nell'atto puro, quello che nello zen si tenta appunto di realizzare nel gesto perfettamente concluso in se stesso, come una tautologia.

si questo lo avevo appunto capito e posso solo dire e concludere che la tua concezione e' agli antipodi da cio che penso io,perché lo avvertirei come un ribaltamento,anche in riferimento allo stesso zen a cui si sarebbe fatto riferimento..(il "vuoto" delle dottrine Tradizionali,di cui lo zen,non e' secondo me  immanente,ma trascendente dove scompare l'individuale e il soggetto stesso,) dunque per me sarebbe il post-umano,il puro meccanismo e la cesura totale.
una reductio ad unum come un punto privato di estensione (sia spaziale che temporale) e dove nessun orizzonte può essere più possibile,proprio perché reso ormai inconcepibile.

Ad una rilettura mi sembra pure Che Le due versioni risultino per certi versi concordanti e pero non capisco perche allora avresti fatto riferimento in precedenza al corpo e alle sue sensazioni individuali se poi da questo tuo ultimo commento escluderesti l'Io e nulla Che possa definirsi...per l'appunto cio Che lo rende possibile e' il trascendere l'individualita e non la sua ipertrofia

sgiombo

Citazione di: HollyFabius il 05 Maggio 2016, 17:10:22 PM

Ho scritto sopra che esistono due possibili interpretazioni di fenomeno e noumeno, in quella kantiana è effettivamente come scrivi tu il noumeno rimane inaccessibile ai sensi e alla ragione. La seconda è quella di Schopenhauer dove il noumeno non è inaccessibile.  Io penso sia corretta l'interpretazione di S.

Rispondo:

Beh, non si tratta di una qustione di "interpretazione (di fatti)" ma di "definizioni di concetti", del senso che arbitrariamente si conviene di dare alle parole.
Personalmente conosco un po' Kant, pochissimo, quasi per niente Schopenhauer (dal solo studio obbliatorio al liceo).

Comunque poiché storicamente i concetti di "fenomeno" e "noumeno" sono stati introdotti da Kant (a quanto mi risulta; e comunque da lui impiegati ben prima di Schopenhauer), credo che parlandone senza ulteriori precisazione si dovrebbero intendere "a la Kant" e che sarebbe necessario esplicitarlo nel caso si intendano invece "a la Schopenhauer".

Peraltro non conprendo il senso del concetto schopenhaueriano di un "noumeno" che può diventare "fenomeno": come? Che significa questa espressione? Che sgnificano i concetti di "fenomeno" e di "noumeno" a la Schopenhauer? (Se é possibile dirlo in poche parole, naturalmente; che altrimenti se fossi interessato dovrei leggere i suoi scritti).

maral

Citazione di: acquario69 il 06 Maggio 2016, 04:54:41 AM
si questo lo avevo appunto capito e posso solo dire e concludere che la tua concezione e' agli antipodi da cio che penso io,perché lo avvertirei come un ribaltamento,anche in riferimento allo stesso zen a cui si sarebbe fatto riferimento..(il "vuoto" delle dottrine Tradizionali,di cui lo zen,non e' secondo me  immanente,ma trascendente dove scompare l'individuale e il soggetto stesso,) dunque per me sarebbe il post-umano,il puro meccanismo e la cesura totale.
una reductio ad unum come un punto privato di estensione (sia spaziale che temporale) e dove nessun orizzonte può essere più possibile,proprio perché reso ormai inconcepibile.

Ad una rilettura mi sembra pure Che Le due versioni risultino per certi versi concordanti e pero non capisco perche allora avresti fatto riferimento in precedenza al corpo e alle sue sensazioni individuali se poi da questo tuo ultimo commento escluderesti l'Io e nulla Che possa definirsi...per l'appunto cio Che lo rende possibile e' il trascendere l'individualita e non la sua ipertrofia
La concezione che ho presentato (a cui non necessariamente sento di aderire, anzi come ho detto, soprattutto in un ambito filosofico occidentale, la trovo contraddittoria, per quanto interessante), è opposta alla tua quanto la via della trascendenza è opposta alla via dell'immanenza, anche se entrambe conducono al medesimo punto (che ritengo comunque metafisico). La prima pare salire teleologicamente, la seconda scendere, ma questo salire e scendere forse è solo apparente, dato che l'individuale (l'io) scompare in ogni caso, nella prima l'io è punto di partenza (come per Cartesio) per andare oltre l'esperienza, nella seconda è una sorta di punto virtuale da cui occorre discendere per ritrovare il fondamento esperenziale autentico, non quindi un cammino verso il post umano, ma un ritorno al pre umano che sta a fondamento dell'umano e di tutto ciò che esiste: un'esperienza di niente e di nessuno, puro atto che accade solo per se stesso, senza progetto che lo sovrasti e lo indirizzi.
Questo consente ad esempio a Ronchi di intendere la tecnica non come alienazione dell'umano (come ad esempio nell'esistenzialismo umanistico), né come realizzazione poietica umana (come nel positivismo), ma come sfondo naturale originario che l'umano reca comunque con sé. La tecnica è intesa come natura naturans, sempre in divenire. Ed è proprio in questo senso che mi appare l'analogia con certe pratiche orientali volte all'assoluto secondo un tecnicismo gestuale perfettamente immanente all'accadere (per citare alcuni esempi: l'arte del tiro con l'arco, del servire il tè, di tracciare ideogrammi, la tecnica della respirazione, tutti atti come non portano per nulla fuori dalla esperienza immanente in cerco di altro da essa: l'atto di scagliare la freccia o anche di respirare è l'assoluto).
Come rientra il corpo in tutto questo? Il corpo non vi rientra come mio o tuo corpo, come corpo soggettuale, ma come mezzo privo di  proprietà soggettiva per un'esperienza pura da cui inizia l'ontogenesi continua di un individuo che è solo un processo in atto.

acquario69

#22
Grazie maral per la spiegazione,ora mi sembra tutto più chiaro.

personalmente non sarei molto d'accordo con Ronchi quando dice che ci sarebbe una certa analogia tra un certo tecnicismo gestuale di pratiche,quali il servire il te,il tiro con l'arco ecc e la tecnica (tout court) che viviamo noi oggi in particolare (anche se entrambi perfettamente immanenti all'accadere),perché secondo me la differenza sta nel fatto che la tecnica e' distaccata ed asettica (alienante a mio giudizio,proprio perché separa ma si potrebbe anche aggiungere che in quel caso e' solo l'IO che diventa assoluto) mentre le altre al contrario coinvolgono la persona nella sua più intima essenza che a me viene da dire spirituale,quindi sarebbe un rito
(a mio avviso da non confondere percio col tecnicismo gestuale) nel quale l'esperienza stessa diventa il tramite per raggiungere il proprio centro che equivale all'unita,ossia un aderenza totale del reale poiché privo di distinzioni (distinzioni quale può esserlo tra soggetto ed oggetto)  

Jothin Cook

#23
Citazione di: maral il 06 Maggio 2016, 16:59:30 PM
Citazione di: acquario69 il 06 Maggio 2016, 04:54:41 AMsi questo lo avevo appunto capito e posso solo dire e concludere che la tua concezione e' agli antipodi da cio che penso io,perché lo avvertirei come un ribaltamento,anche in riferimento allo stesso zen a cui si sarebbe fatto riferimento..(il "vuoto" delle dottrine Tradizionali,di cui lo zen,non e' secondo me immanente,ma trascendente dove scompare l'individuale e il soggetto stesso,) dunque per me sarebbe il post-umano,il puro meccanismo e la cesura totale. una reductio ad unum come un punto privato di estensione (sia spaziale che temporale) e dove nessun orizzonte può essere più possibile,proprio perché reso ormai inconcepibile. Ad una rilettura mi sembra pure Che Le due versioni risultino per certi versi concordanti e pero non capisco perche allora avresti fatto riferimento in precedenza al corpo e alle sue sensazioni individuali se poi da questo tuo ultimo commento escluderesti l'Io e nulla Che possa definirsi...per l'appunto cio Che lo rende possibile e' il trascendere l'individualita e non la sua ipertrofia
La concezione che ho presentato (a cui non necessariamente sento di aderire, anzi come ho detto, soprattutto in un ambito filosofico occidentale, la trovo contraddittoria, per quanto interessante), è opposta alla tua quanto la via della trascendenza è opposta alla via dell'immanenza, anche se entrambe conducono al medesimo punto (che ritengo comunque metafisico). La prima pare salire teleologicamente, la seconda scendere, ma questo salire e scendere forse è solo apparente, dato che l'individuale (l'io) scompare in ogni caso, nella prima l'io è punto di partenza (come per Cartesio) per andare oltre l'esperienza, nella seconda è una sorta di punto virtuale da cui occorre discendere per ritrovare il fondamento esperenziale autentico, non quindi un cammino verso il post umano, ma un ritorno al pre umano che sta a fondamento dell'umano e di tutto ciò che esiste: un'esperienza di niente e di nessuno, puro atto che accade solo per se stesso, senza progetto che lo sovrasti e lo indirizzi. Questo consente ad esempio a Ronchi di intendere la tecnica non come alienazione dell'umano (come ad esempio nell'esistenzialismo umanistico), né come realizzazione poietica umana (come nel positivismo), ma come sfondo naturale originario che l'umano reca comunque con sé. La tecnica è intesa come natura naturans, sempre in divenire. Ed è proprio in questo senso che mi appare l'analogia con certe pratiche orientali volte all'assoluto secondo un tecnicismo gestuale perfettamente immanente all'accadere (per citare alcuni esempi: l'arte del tiro con l'arco, del servire il tè, di tracciare ideogrammi, la tecnica della respirazione, tutti atti come non portano per nulla fuori dalla esperienza immanente in cerco di altro da essa: l'atto di scagliare la freccia o anche di respirare è l'assoluto). Come rientra il corpo in tutto questo? Il corpo non vi rientra come mio o tuo corpo, come corpo soggettuale, ma come mezzo privo di proprietà soggettiva per un'esperienza pura da cui inizia l'ontogenesi continua di un individuo che è solo un processo in atto.

Jothin Cook

#24
Citazione di: Jothin Cook il 15 Maggio 2016, 05:16:23 AM
Citazione di: paul11 il 02 Maggio 2016, 18:26:04 PMPersonalmente ritengo che storicamente l'orientale è legato più a come il pensiero ha pensato il reale, noi occidentali ci siamo invece approcciati alla realtà fisica mettendo in dubbio i nostri pensieri: per noi il focus è la realtà fisica poiché è descrivibile e logicamente falsa o vera e scientificamente dimostrabile nelle sue reiterazioni fenomeniche. Quindi per noi il razionale e vero equivale al mondo là fuori, per l'orientale il vero equivale al suo pensiero ed è falsa la realtà. E di nuovo ritorna la filosofia del reale metafisico greco contro il reale sperimentale della scienza moderna , il mondo del deduttivo contro l'induttivo.

Già... ma Eraclito, il cui pensiero sicuramente era scevro da concezioni metafisiche, - visto che la  μετά τα Φυσικά deriva dal nome di una trattazione aristotelica che veniva catalogata in testi collocati, appunto, dopo la Fisica, - poiché di molto precedente a queste, diceva, riferendosi alla sua riflessione e studio della Natura: "Ho indagato me stesso!". E questa semplice affermazione, la dice lunga su "cosa" fondamentalmente si voglia significare quando si parla di realtà: la parabola temporale che va dagli empiristi, attraverso Berkeley, Locke, col suo saggio sull'intelletto umano, fino a Kant e poi gli idealisti e infine Schopenhauer e Nietzsche, non sono altro che un immenso corollario o commento a quell'aforisma eracliteo... Nietzsche chiude questa parabola, negando qualsiasi organicità, e quindi ordinamento, oggettiva al reale, riducendolo a puro caos cui l'uomo imprime un significato, un ordine razionale e, quindi, una valutazione che scaturisce dalla sua volontà di potenza intesa come conoscenza, che attribuisce significato alle cose soltanto per poter vivere, annullando in un sol colpo mortale tutte le illusioni e le "favole" del passato, tramite le quali ci si era baloccati nella speranza in verità assolute che deprivavano la sua coscienza della consapevolezza della loro natura eminentemente antropocentrica. Questa concezione, squisitamente protagorea, viene pervicacemente rimossa, dal pensiero che segue, il quale fugge dal riconoscimento della "rivelazione" nietzschiana, per tornare, proprio con Heidegger, anche se in maniera davvero magistrale, a quel senso nascosto dell'essere che invece rimane tutta opera dell'uomo e del suo tentativo di attribuire un significato, anziché, come si vorrebbe credere, di ritrovarlo nelle cose stesse. Sicché, ancora riecheggia nella nostra civiltà straziata dalla "morte di dio", il detto di Eraclito: "Ho indagato me stesso"!

paul11

Citazione di: Jothin Cook il 15 Maggio 2016, 06:06:56 AM
Citazione di: Jothin Cook il 15 Maggio 2016, 05:16:23 AM
Citazione di: paul11 il 02 Maggio 2016, 18:26:04 PMPersonalmente ritengo che storicamente l'orientale è legato più a come il pensiero ha pensato il reale, noi occidentali ci siamo invece approcciati alla realtà fisica mettendo in dubbio i nostri pensieri: per noi il focus è la realtà fisica poiché è descrivibile e logicamente falsa o vera e scientificamente dimostrabile nelle sue reiterazioni fenomeniche. Quindi per noi il razionale e vero equivale al mondo là fuori, per l'orientale il vero equivale al suo pensiero ed è falsa la realtà. E di nuovo ritorna la filosofia del reale metafisico greco contro il reale sperimentale della scienza moderna , il mondo del deduttivo contro l'induttivo.
Già... ma Eraclito, il cui pensiero sicuramente era scevro da concezioni metafisiche, - visto che la μετά τα Φυσικά deriva dal nome di una trattazione aristotelica che veniva catalogata in testi collocati, appunto, dopo la Fisica, - poiché di molto precedente a queste, diceva, riferendosi alla sua riflessione e studio della Natura: "Ho indagato me stesso!". E questa semplice affermazione, la dice lunga su "cosa" fondamentalmente si voglia significare quando si parla di realtà: la parabola temporale che va dagli empiristi, attraverso Berkeley, Locke, col suo saggio sull'intelletto umano, fino a Kant e poi gli idealisti e infine Schopenhauer e Nietzsche, non sono altro che un immenso corollario o commento a quell'aforisma eracliteo... Nietzsche chiude questa parabola, negando qualsiasi organicità, e quindi ordinamento, oggettiva al reale, riducendolo a puro caos cui l'uomo imprime un significato, un ordine razionale e, quindi, una valutazione che scaturisce dalla sua volontà di potenza intesa come conoscenza, che attribuisce significato alle cose soltanto per poter vivere, annullando in un sol colpo mortale tutte le illusioni e le "favole" del passato, tramite le quali ci si era baloccati nella speranza in verità assolute che deprivavano la sua coscienza della consapevolezza della loro natura eminentemente antropocentrica. Questa concezione, squisitamente protagorea, viene pervicacemente rimossa, dal pensiero che segue, il quale fugge dal riconoscimento della "rivelazione" nietzschiana, per tornare, proprio con Heidegger, anche se in maniera davvero magistrale, a quel senso nascosto dell'essere che invece rimane tutta opera dell'uomo e del suo tentativo di attribuire un significato, anziché, come si vorrebbe credere, di ritrovarlo nelle cose stesse. Sicché, ancora riecheggia nella nostra civiltà straziata dalla "morte di dio", il detto di Eraclito: "Ho indagato me stesso"!

Per quanto mi riguarda è fuori di dubbio che tutto abbia origine da un' indagine di se stesso, perchè è il punto originario conoscitivo  e anche qualora si cerchino verità esterne ad esso ,daccapo tutta la conoscenza viene ricondotta ad una sintesi su se stessi

Phil

Cercando di richiamare tutti gli interessanti spunti che gli interventi hanno messo in tavola, propongo, seppur tardivamente, qualche osservazione.

Citazione di: paul11 il 05 Maggio 2016, 10:36:46 AMEsistono i concetti del noumeno, tutti lo sappiamo, ma scientificamente non sono fenomenologicamente osservabili, quantificabili gestibili in leggi fisiche attuali. Vale a dire sono tautologie, lo sappiamo perchè li viviamo ma non assiomatizzabili dentro una logica.
Credo che il noumeno possa essere inquadrato come un concetto-limite (e,come tutti i concetti, non può essere oggetto di esperimenti o verifiche scientifiche), un postulato che, in quanto tale, è necessario per fondare tutta la struttura teoretica a cui si riferisce e deve essere indimostrabile, indecidibile (v. Godel) altrimenti non sarebbe un assioma (così come in matematica, anzi, nelle matematiche, gli assiomi sono notoriamente le premesse indimostrabili da cui tutto consegue, basta cambiarne uno, e si ottiene con effetto domino un'altra matematica, come quelle non euclidee). Credo sia accostabile un po' al concetto di "infinito": è illogico, ma "funziona" e "serve", anche se è inverificabile, perché dall'esterno, delimita la matematica o altri ambiti che lo richiedono (alcune religioni ad esempio); parimenti il noumeno funge, in molte filosofie, da "ingiustificato" che giustifica la possibilità di conoscenza.

Citazione di: maral il 04 Maggio 2016, 19:43:28 PM
Dal mio punto di vista trovo che, pur esprimendo una concezione molto interessante, questa impostazione che fa dell'esperienza un assoluto, mostra una contraddizione evidente soprattutto nel modo occidentale di trattarla attraverso il linguaggio, il logos, che comunque resta ascritto al progetto del tutto cosciente e soggettivo di chi ne parla: ossia, anche se questa esperienza la si dichiara assoluta essa è trattata comunque come oggetto di un soggetto e dunque è del tutto relativa ad essi. 
[Postilla puntigliosa sull'espressione "pensiero orientale": è sempre un peccato considerarlo un unico calderone, perchè significa mortificarne l'eterogeneità (di fronte al sillogismo in 5 fasi di un logico Nyaya, un buddista sorriderebbe di cuore... perchè e come accomunarli?). Tuttavia, per amore di sintesi, concordo nell'usare l'impervia generalizzazione "occidente" e "oriente"]
Come accennavi, soprattutto la "scuola" zen allude ad un accantonamento (più che "superamento") del linguaggio, ad esempio con i koan (il cui significato autentico non è mai quello linguistico), indicando con le parole la loro medesima inadeguatezza. Il superamento della metafisica proposto dalla decostruzione (Derrida e altri), si scontra anch'esso con un linguaggio ormai in difficoltà (ne sono sintomi tutti i seri "giochi di parole" con cui si cerca di ricombinare il linguaggio), ma, a differenza dello zen, resta comunque in ambito puramente speculativo, ignorando il ruolo del corpo (che invece in oriente è stato sempre considerato degno compagno di viaggio dell'uomo, non mero involucro di un'anima eterna: scherzando, il corpo inteso "all'occidentale" fa stretching, il corpo inteso "all'orientale" è strumento di meditazione assieme alla mente). 
Proprio la corporeità non-trascendentale dell'esperienza non-linguistica (perchè se non erro il velo di Maya è retto dai sensi, ma anche dalle parole), proprio i vissuti individuano quello che in occidente viene chiamato soggetto e che, nel pensiero orientale, non si scioglie con lo spogliarsi delle strutture linguistiche o concettuali: ciò accade solo nelle prospettive più misticheggianti e "eremitiche", ma, ad esempio, un buddista distingue bene sé stesso come soggetto-oggetto del proprio lavoro di purificazione-illuminazione e l'Altro come "oggetto di compassione" (nell'accezione buddista). Nell'abbandono dell'egoismo (genitivo oggettivo) e nel riconoscersi "ingranaggio del cosmo", non viene destituita la responsabilità etica individuale e soggettiva del proprio agire (Nirvana e Samsara coincidono empiricamente, al netto delle credenze popolari, sono solo vissuti differentemente dal singolo "risvegliato" in quanto individuo; egli si adopera per risvegliarsi, è un'esperienza che fonda una "nuova" soggettività, magari blanda e trasparente, ma pur sempre individuale). Eloquente, secondo me, la celeberrima "parabola del bue" che (vado a memoria, quindi potrei sbagliarmi), nella decima e ultima scena, rappresenta il protagonista che ritorna al mercato, e quindi non si isola dalla comunità mondana, si relaziona ancora in quanto soggetto, seppur con consapevolezza differente (e in ciò risiede il versante più socialmente percorribile della prospettiva buddista, senza chiudersi nell'auto-referenzialità di un monastero).

Citazione di: maral il 06 Maggio 2016, 16:59:30 PMcerte pratiche orientali volte all'assoluto secondo un tecnicismo gestuale perfettamente immanente all'accadere (per citare alcuni esempi: l'arte del tiro con l'arco, del servire il tè, di tracciare ideogrammi, la tecnica della respirazione, tutti atti come non portano per nulla fuori dalla esperienza immanente in cerco di altro da essa: l'atto di scagliare la freccia o anche di respirare è l'assoluto). Come rientra il corpo in tutto questo? Il corpo non vi rientra come mio o tuo corpo, come corpo soggettuale, ma come mezzo privo di proprietà soggettiva per un'esperienza pura da cui inizia l'ontogenesi continua di un individuo che è solo un processo in atto. 
Secondo me non c'è necessariamente esclusione fra "corpo soggettuale" e "individuo come processo": il mio corpo e la mia (auto)coscienza di individuo sono inevitabilmente processuali, e questo processo può comprendere (in entrambi i sensi) esperienze di pura immanenza e (auto)consapevolezza come lo scoccare una freccia o il fare zazen (e in entrambi i casi non riscontro nulla di "assoluto", se non l'assoluta assenza di trascendenza...)

Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 16:51:53 PMed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto[/font]
Forse non sono abbastanza forgiato nello zen, ma credo che gran parte dei mestri zen aborrino ogni forma di trascendenza, preferendo invece proprio la presenza immanente ("retta consapevolezza-concentrazione" dell'ottuplice sentiero), per questo rispondono con "bastonate didattiche" alle domande speculative dei loro allievi ed hanno incentrato le loro attività pratiche come "allenamenti all'immanenza" (compiere ogni azione con consapevolezza e compresenza al gesto). Spesso la lettura di termini. tanto cruciali quanto ambigui, viene deformata (in buona fede) dai nostri vocabolari concettuali: "vuoto", "assoluto", "negazione", "soggetto"... sono parole ricche di storia in occidente, storia che rischia di essere una precomprensione "viziata" quando importiamo questi concetti dall'oriente (rischiamo di riscrivere le "istruzioni per l'uso" di quelle espressioni basandoci sull'assonanza della traduzione; forse funzionerebbero meglio dei neologismi o usare le parole "originali", ma sarebbe poi più ostico l'approccio linguistico...).

P.s. Mi scuso in caso di eventuale off topic "orientaleggiante" e per la lunghezza biblica del messaggio...

Elvio

Non ho ben capito cosa si intende per noumeno ma, se si avvicina alla definizione che ne dà la Treccani con riferimento a Kant, credo che - può essere che qualcuno vi abbia già accennato prima in questo thread che confesso di aver letto veolcemente - l'unica via per viverlo/conoscerlo soggettivamente e oggettivamente sia quella mistica che personalmente conosco. Quindi lo ritengo possibile, anche se non razionalmente.

acquario69

#28
Citazione di: Phil il 22 Maggio 2016, 12:43:15 PM
Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 16:51:53 PMed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto[/font]
Forse non sono abbastanza forgiato nello zen, ma credo che gran parte dei mestri zen aborrino ogni forma di trascendenza, preferendo invece proprio la presenza immanente ("retta consapevolezza-concentrazione" dell'ottuplice sentiero), per questo rispondono con "bastonate didattiche" alle domande speculative dei loro allievi ed hanno incentrato le loro attività pratiche come "allenamenti all'immanenza" (compiere ogni azione con consapevolezza e compresenza al gesto). Spesso la lettura di termini. tanto cruciali quanto ambigui, viene deformata (in buona fede) dai nostri vocabolari concettuali: "vuoto", "assoluto", "negazione", "soggetto"... sono parole ricche di storia in occidente, storia che rischia di essere una precomprensione "viziata" quando importiamo questi concetti dall'oriente (rischiamo di riscrivere le "istruzioni per l'uso" di quelle espressioni basandoci sull'assonanza della traduzione; forse funzionerebbero meglio dei neologismi o usare le parole "originali", ma sarebbe poi più ostico l'approccio linguistico...).

non so se alla fine stiamo pure dicendo le stesse cose e credo sappiamo entrambi che provare a descriverle ci riporterebbe al punto di partenza,dunque quello che possiamo fare qui (nei nostri impliciti umani limiti) mentre stiamo scrivendo e' cogliere cio che non si può formulare.

il maestro zen che all'improvviso da una bastonata al suo allievo :)
non lo fa certo a casaccio ma avrebbe intuito diciamo così,un motivo per farlo.
quindi,lo scopo del maestro zen era quello di aiutare il discepolo a trascendere la mente,a staccarsi dal suo IO individuale,a "raggiungere" il vuoto,dove soggetto ed oggetto diventano UNO,dove non ci sono più distinzioni,aderente al Reale...ripeto anche queste sono descrizioni,ma e' inevitabile!
cio che conta e' che ci porti comunque all'intuizione.

Phil

Concordo; le mie perplessità erano principalmente linguistiche, soprattutto nell'uso della parola "trascendenza", molto (troppo, direi) impregnata di metafisica occidentale... il "trascendere la mente" potrebbe essere inteso da qualcuno come un gesto mistico (quasi alchemico) che ci solleva dal Reale; invece, credo che lo zen alluda piuttosto ad uno "scendere dalla mente", dalle sue discriminanti elucubrazioni, dai suoi falsi problemi sofistici, proprio per restare con i piedi (e la mente) per terra... già, la parola chiave credo sia quella che proponi: "intuizione", che intenderei come forma di "comprensione non-verbalizzata" (né verbalizzabile), e proprio per questo al riparo dai dualismi cognitivi che ci fanno salire sulla mongolfiera della speculazione (con tutte le aporie che ne conseguono...)

Citazione di: acquario69 il 23 Maggio 2016, 02:05:51 AManche queste sono descrizioni,ma e' inevitabile! cio che conta e' che ci porti comunque all'intuizione.
Diciamo che queste descrizioni non ci portano all'intuizione, ma descrivono dove dovrebbe portarci l'intuizione?  ;)

Discussioni simili (5)