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L'etica del nemico

Aperto da Jacopus, 17 Agosto 2018, 07:23:15 AM

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Jacopus

Il nemico, politico, religioso, etnico, di classe, viene descritto dalla controparte con connotati abitualmente bestiali e demoniaci. A meno che quel nemico non venga quasi sterminato, si determina una faida che inquina la vita di un paese per decenni, se non secoli.
Il caso dei fascisti/comunisti e' emblematico. Gli uni chiamano "topi" i loro nemici che adottano il non tanto diverso attributo di "zecche".
Personalmente mi riconosco nei valori della resistenza, ma i fascisti non erano e non sono forse persone come me? Hanno forse alcuni valori diversi dai miei, ma altri uguali, magari maggiormente interiorizzati e celebrati. Ma la fedelta' o l'onore non li vedo come valori da "topo". Sono stati moralmente piu' giustificabili i fascisti che per fedelta' seguirono fino all'ultimo il patto con i nazisti e morirono o i fascisti che divennero partigiani per opportunismo e fecero carriera nel dopoguerra all'ombra del tipico doppiogiochismo?
Spesso descriviamo i nostri nemici con una caricatura che ci permette di attaccarli e sentirli diversi da noi. Per scaricare su di loro tutto il nostro malessere.
Questo e' stato spesso un problema della cultura di sinistra, ma la cultura di destra e' ancora piu' infuocata in questa dinamica e tutto cio' e' un peso che ci separa e divide, che rallenta la nostra azione collettiva e che probabilmente ha anche un pesante costo economico.
Io penso che sia tempo di riconoscerci tutti come esseri umani con ideologie diverse, sottoponibili a discussioni e a valutazioni, ma tutte degne di rispetto  e dietro le quali non ci sono "sinistri", "pidioti", "cani infedeli", "ratti di fogna" ma persone umane.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

acquario69

Anch'io quando ero molto giovane pensavo che eravamo tutti "umani" ma inquadravo le cose in maniera distorta e rovesciata.
In realta' il "nemico" esiste ed e' sempre esistito e questo a prescindere da tutte le ideologie di presunta appartenenza.
non ero ancora a conoscenza della profonda natura umana che si,e' fondamentalmente uguale per tutti,poi pero bisogna tener conto del fatto essenziale che questa implica due tendenze, una verso il bene e l'altra verso il male per cui e' necessaria la discriminazione.
ed e' anche il criterio perché le cose non degenerino in una indistinzione che non permette per l'appunto il riconoscimento di alcunché cosi che ognuno potrà sentirsi svincolato da tutto e da tutti e di agire per esclusivo conto della sua presunta "umanità" e che risulterebbe a sua volta lontano da qualsiasi criterio di convivenza

Jacopus

La discriminazione e' necessaria. Sono d'accordo. Il conflitto in certe situazioni non puo' essere evitato. Il "restare umani" non significa nella mia accezione un "volemose bene". E' stato giusto il processo di Norimberga cosi come quello alle brigate rosse. Ma terminato il conflitto che separa, occorre riscoprire cio' che ci unisce, oltre le differenze, perche' altrimenti cadiamo non nel discrimine ma nella deumanizzazione. Anche Hitler o Stalin non erano certo dei demoni. Per molti, tuttora, sono considerati degli eroi. Hanno torto, ragione? La ragione la da la storia, ma e' compito della filosofia o del logos andare oltre per comprendere il cuore umano e per lanciare una sfida alla stessa cultura dell'uomo affinche' possa acqusire un atteggiamento critico verso la concezione tribale amico/nemico (che e' comunque ineliminabile).
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

0xdeadbeef

#3
Io credo che ad un livello molto profondo, cioè al livello della teoresi filosofica, appaia la necessità della
dicotomia amico-nemico PERCHE' si è persa, obliata, la dicotomia io-altro (dall'io).
Fin dagli inizi dell'800, l'Idealismo (che io reputo malattia mortale che ancora, eccome, ammorba in particolare
l'occidente - ma ormai l'intero mondo) ha creduto di ridurre l'altro all'io, e ciò che ne è derivato non poteva
essere che la trasformazione dell'"altro" in "nemico" (vista l'irriducibilità dell'"altro" all'io).
Tutto questo è "plasticamente" visibile nel detto fascistoide "o con noi o contro di noi", che ha trovato
speculare immagine, occorre dirlo, nel pensiero di sinistra, non a caso figlio anch'esso dell'Idealismo.
Cosa significa: "è necessaria la discriminazione"? Cosa significa: "terminato il conflitto che separa occorre
rscoprire ciò che ci unisce"?
Non sono forse, esse, immagini di quella stessa "sintesi idealistica" che, lungi dal curare, è stata causa
di ciò che chiamiamo "conflitto"?
Perchè il "conflitto", che è possibilità, è diventato necessità...
saluti

cvc

Uscendo dagli schemi (spero non anche dal tema della discussione) mi viene in mente il film "Gang of New York", con i due capi clan che combattono all'ultimo sangue e alla fine lo sconfitto, in punto di morte, abbraccia il nemico che lo ha ferito mortalmente come fosse stato l'unico vero amico di tutta la sua vita. Il nemico è l'antitesi che tiene in vita la tesi. Sarà un caso che da quando è naufragata la popolarità di Berlusconi sono naufragati insieme a lui pure i suoi acerrimi nemici. Che magari ripensano ai bei tempi quando campavano scrivendo libri contro di lui pubblicati da lui medesimo. In fondo comunisti e fascisti han bisogno l'uno dell'altro per tenersi in vita a vicenda. Non ne ha forse bisogno il nostro avvenire che credo dovrebbe trovare il modo di uscire da questo anacronismo.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

paul11

Meglio un nemico vero e leale, che un amico disonesto e sleale.
Il nemico è la misura dei propri limiti con cui ci si scontra, che sia fisico, che sia intellettuale, che sia politico, che sia economico.
Lo scontro ,in fondo, è un incontro e qualcosa del nemico appartiene anche a noi: siamo tutti figli di questo mondo che il destino ha posto su barricate opposte.

Phil

Per istinto di sopravvivenza ognuno di noi è dotato di aggressività, necessaria per difendersi dalle minacce e per procurarsi ciò che serve; la civiltà ha reso superfluo il combattere contro altri animali, poiché non ci sono più branchi di lupi che ci attaccano di notte e il supermercato ci fornisce cibo senza cacciare (e nella caccia stessa, per quanto permanga un residuo adrenalinico, non c'è più molta aggressività fisica, si tratta di premere un grilletto e, se si manca il bersaglio, a casa il pasto non manca di certo). Tale aggressività arcaica è stata un po' inibita con lo sviluppo tecnologico e culturale, ma essendo ancora presente, ha trovato costante sfogo indirizzandosi verso il prossimo, sia in modo fisico, ma anche in modo verbale (essendo la violenza fisica punita e disprezzata sempre più; basti pensare al solito esempio delle sberle educative dei genitori: prima un "dovere" parentale, oggi un gesto estremo da somministrare con circospezione e senza lasciare traccia  ;D).

Tutto questo per introdurre la questione del ruolo funzionale (ma non troppo) del nemico come catalizzatore di tale aggressività (altrimenti inutilizzata): di per sé non avrebbe senso aggredire (verbalmente o fisicamente) chi non minaccia la nostra incolumità o la nostra sussistenza (escluderei l'ipotesi del furto  ;D ) , si potrebbe ignorarlo e vivere in pace; invece risulta (ancora) istintivo aggredirlo per eliminarlo (perché percepiamo la sua differenza come un fastidio che mette in discussione la nostra identità) o almeno per sottometterlo (secondo l'antica usanza di usare i vinti come schiavi). Al punto che il nemico non è più solo l'ostile, ma talvolta semplicemente il diverso (basti pensare a casi degenerati di violenza nello sport, oltre che in politica o per motivi razziali).

Certo, di base siamo tutti umani, ma è il nostro modo di declinarci e il contesto d'azione a sancire "amici" e "nemici": Tizio e Caio sono uomini, se dovessero difendersi da un attacco alieno (probabilmente) si aiuterebbero come fratelli; se fossero tifosi della stessa squadra canterebbero gli stessi cori allo stadio (e, per inciso, c'è stata un'epoca in cui alcuni cori, più che incitare la propria squadra, non a caso, aggredivano gli avversari o l'arbitro), ma magari in campo politico si vivono come "nemici".

Usare categorie belliche, guerriere (nemico, alleato, combattere, conquistare, ritirarsi, sconfiggere, etc.), in contesti di pace, è un modo proiettivo per alimentare quell'aggressività sopita ma non estinta (che è sfruttata dai manipolatori anche come leva subliminale), che può, se non addomesticata, spingere non alla competizione ma alla violenza (per quanto non necessaria).

Forse sarebbe opportuno distinguere fra "avversario" e "nemico": un amico può essere anche "avversario" (ad-versus, rivolto-contro) in qualche occasione, mentre quella di "nemico" ("colui che non si ama") mi sembra un'etichetta più indelebile e radicale.

doxa

Phil ha scritto:
CitazioneUsare categorie belliche, guerriere (nemico, alleato, combattere, conquistare, ritirarsi, sconfiggere, etc.), in contesti di pace, è un modo proiettivo per alimentare quell'aggressività sopita ma non estinta (che è sfruttata dai manipolatori anche come leva subliminale), che può, se non addomesticata, spingere non alla competizione ma alla violenza (per quanto non necessaria).


Un esempio sono le tifoserie calcistiche ?

Per rimanere in tema ed approfondire l'etica del nemico si dovrebbe esaminare pure l'etica militare, accennata da Phil, perché collegata alle norme di comportamento dei militari in caso di guerra.

Tale etica, evoluta nel tempo, fino ad arrivare alla  sua codificazione nella legislazione internazionale, sancisce diritti e doveri dei soldati anche nei confronti dei militari nemici.

Nell'antica Roma, epoca repubblicana, vigeva la regola del "murum aries attigit". In base a questo precetto  una città sotto assedio aveva tempo per arrendersi prima che l'ariete da guerra  colpisse la prima volta le mura fortificate. Dopo l'evento, tutti gli abitanti indistintamente sarebbero stati uccisi e qualunque richiesta di tregua o proposta di resa successiva sarebbe stata ignorata. (vedi "De bello Gallico", libro II, capitolo XXXII). Simile noncuranza, era caratteristica della scarsa o nulla considerazione per le popolazioni avversarie, i cui effetti si ripercuotevano anche nella interpretazione delle garanzie per i messaggeri nemici.

La letteratura epica anche greca  o del medioevo cristiano offrono numerosi esempi di etica guerriera.

Nella letteratura epica cristiana è noto il "De Laude novae militiae" scritto da Bernardo da Chiaravalle per il   "bellator" templare. Il celebre abate dice che le sue parole sono rivolte  "a tutti coloro che intendono rinunciare a seguire le proprie volontà". Il sacrificio della voluntas, la scelta della via guerriera come rinuncia di sé per trovare Dio e servirlo, questa è la vera via guerriera. Non per denaro o per interessi, ma per morire e rinascere nella "grazia".

cvc

Forse in fondo il senso etico della inimicizia è legato all'insopprimibile senso di vendetta che pervade l'inimicizia stessa. Cos'altro è un rapporto fra nemici se non un susseguirsi di vendette. Ma sta proprio qui l'eticità del rapporto. Per quanto siano agli antipodi i nemici concordano sulla necessità di vendicarsi e ne fanno un punto d'onore. Tanto più è rispettabile il nemico quanto più non lascia passare impunemente i torti subiti. Come il capitano Acab che insegue imperterrito Moby Dick in mezzo alle tempeste, che mette tutto in secondo piano rispetto al desiserio incontenibile di vendetta ed impersonifica il male nel suo nemico. Accecato a tal punto dal desiderio di vendetta da non pensare che forse è del tutto naturale per una preda tentare di difendersi, magari tranciando la gamba del cacciatore. E il frutto di tale vendetta è di essere risucchiato nel mare profondo insieme ai suoi sventurati seguaci.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

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