L' autocoscienza come causa di estinzione?

Aperto da sgiombo, 13 Maggio 2016, 12:00:41 PM

Discussione precedente - Discussione successiva

sgiombo

#30
Citazione di: maral il 24 Maggio 2016, 20:09:47 PM
Sgiombo, ma tu, dicendo che scegliendo la procreazione si impone un rischio a chi verrà ad esistere stai dicendo che la condizione di assenza di rischio data dall'inesistenza è in ogni caso meglio e questa è una valutazione che tu dai arbitrariamente e solo in quanto esisti.
CitazioneNon sto affatto dicendo che la condizione di assenza di rischio data dall' inesistenza é in ogni caso meglio della condizione di rischio data dall' esistenza.
Sto invece dicendo che il correre un rischio (qualsiasi, in generale; e in particolare il rischio dell' infelicità che la vita comporta) dovrebbe unicamente, necessariamente essere, secondo giustizia, conseguenza di una libera scelta di chi eventualmente decida di correrlo (oppure di non correrlo); e che il doverlo forzatamente correre per una scelta altrui, subita passivamente e non assunta liberamente di propria iniziativa o per lo meno liberamente accettata (dando il proprio consenso a chi semplicemente si limitasse a proporcela, e non invece ce la imponesse forzatamente, senza chiedere il nostro consenso), significa patire un' ingiusta prepotenza.

Questo anche nel caso in cui di fatto l' esistenza sia felice e dunque l' esistenza, con l' inevitabile rischio di infelicità, sia meglio (preferibile) del' inesistenza: non é questo il problema!
Il problema é quello se sia giusto imporre forzatamente ad altri di correre dei rischi.
E la risposta mi sembra indubbiamente "no".

Esempio (molto banale; me ne scuso):
Secondo te é giusto prelevare con l' inganno i risparmi di un altro e fare a suo nome, senza il suo consenso, un investimento (che magari si rivelerà fruttuoso e gli arrecherà grossi guadagni)?
A me pare proprio di no!
Sarebbe giusto invece proporgli l' investimento e lasciare decidere a lui quale uso fare dei suoi risparmi.
Io penso invece che il confronto sul significato di per sé (preso in modo del tutto autoreferente e astratto) di esistenza e inesistenza non si pone proprio, è logicamente assurdo, mentre ha senso decidere di non procreare in base a certi parametri con cui ci si configura, da un punto di vista sempre più o meno soggettivo, l'esistenza futura .
CitazioneMa infatti non sto affatto considerando un confronto sul significato di per sé (preso in modo del tutto autoreferente e astratto) di esistenza e inesistenza, ma invece fra l' ingiustizia di subire forzatamente, non per libera scelta, la condizione di correre un rischio (in generale; e in particolare quello di essere infelici in conseguenza del vivere) e la giustizia di correre (eventualmente) qualsiasi rischio liberamente, per libera scelta.

Mi sembra molto diverso: cerca di capire.

maral

Citazione di: cvc il 24 Maggio 2016, 20:40:17 PM
A differenza dei cavalli da tiro, i lavoratori umani pagano tasse che servono per erogare le pensioni e sostenere lo stato sociale.
E infatti ormai da tempo ormai lo stato sociale è considerato il principale ostacolo alla crescita.
Certo si può discutere se la tecnologia sia legata o meno al capitalismo e cosa sia funzionale a cosa. Ad esempio Severino ne vede chiara la contrapposizione essendo il capitalismo in funzione dell'incremento del capitale, mentre la tecnica finalizzata alla soddisfazione di qualsiasi bisogno. E tra le due cose in contesa lui dice che sarà inevitabilmente la tecnica a prevalere. Io però non ne sono così sicuro: la tecnica ha avuto un ottimo alleato nel capitalismo, proprio poiché è esso che determina e fa permanere quello stato di bisogno che la tecnica ha lo scopo di soddisfare continuamente. La tecnica ha necessità di una domanda per continuare a produrre, il capitalismo ha necessità di una domanda per incrementare il capitale, dato che il capitale che si incrementa su se stesso, senza prodotto tecnico, è pura e catastrofica illusione. Entrambi hanno quindi bisogno della domanda in perfetta sinergia. Il problema su come sostenere la domanda è un problema tecnico e dunque il capitalismo muterà per quegli aspetti che si dimostreranno tecnicamente inadeguati al sostenimento della necessità di un consumo continuo e senza intoppi di quanto viene prodotto per non rischiare (come già accade) di finire sommersi da una marea di prodotto non consumato, ossia non immediatamente smaltito con il conseguente rischio di paralisi delle produzioni, alla cui efficienza la tecnica non può mai rinunciare. La ridistribuzione  della ricchezza può funzionare, ma fino a un certo punto, poiché ciò che si rende veramente necessario è stimolare continuamente il bisogno di beni per produrli, è costringere a fare di tutto pur di entrare nel ciclo di produzione senza poterne uscire, facendo leva sul desiderio continuamente indotto.
Non è vero che la tecnica è neutra e dipende dall'uso che ne facciamo, poiché ormai è essa che ci usa e stabilisce gli usi confacenti al suo produrre, programmandoli al massimo delle possibilità. E' la tecnologia che detta la morale che si riduce a pura morale d'uso, non certo noi, e questa morale è necessariamente del tutto indifferente all'umano: ormai è l'uomo che, in quanto mezzo produttivo, non è più né buono né cattivo, ma solo funzionale o meno al calcolo dell'efficienza massima di produzione del sistema complessivo; pensare in termini di buono e cattivo secondo i vecchi parametri etici è già decisamente antiquato: essenziale è solo funzionare nel modo più pianificabile e prevedibile possibile. Per questo l'autocoscienza, tecnicamente parlando, è una complicazione indebita, comporta costi eccessivi, è ormai un lusso che non ci si può permettere per evitare errori di programmazione imprevisti.  I falsi bisogni invece sono un'assoluta necessità tecnica, basta convincere che non sono per nulla falsi, ma diritti perpetuamente ribaditi a cui non si può rinunciare per vivere.

maral

Citazione di: sgiombo il 24 Maggio 2016, 21:18:51 PM
Non sto affatto dicendo che la condizione di assenza di rischio data dall' inesistenza é in ogni caso meglio della condizione di rischio data dall' esistenza.
Sto invece dicendo che il correre un rischio (qualsiasi, in generale; e in particolare il rischio dell' infelicità che la vita comporta) dovrebbe unicamente, necessariamente essere, secondo giustizia, conseguenza di una libera scelta di chi eventualmente decida di correrlo (oppure di non correrlo); e che il doverlo forzatamente correre per una scelta altrui, subita passivamente e non assunta liberamente di propria iniziativa o per lo meno liberamente accettata (dando il proprio consenso a chi semplicemente si limitasse a proporcela, e non invece ce la imponesse forzatamente, senza chiedere il nostro consenso), significa patire un' ingiusta prepotenza.
Ma chi questo chi a cui viene sottratto il rischio di decidere se non esiste e scegli (tu, alla luce della tua coscienza sull'esistenza e non certo lui) di non farlo in ogni caso esistere? Non è forse ancora un arbitrio questa decisione che sei pur sempre solo tu a prendere in base alla regola che non correre alcun rischio è in assoluto meglio del correrli?
Se non è giusto imporre forzatamente ad altri di correre rischi perché dovrebbe essere giusto imporre loro di non correrli? Sempre imposizione è da parte di chi decide per un altro.
Ma tutto questo discorso non ha senso logico, proprio poiché qui si sta parlando di un puro astrattissimo e generalissimo esserci in quanto tale, un esserci che si incarnerà in gioie e dolori, e quindi correrà rischi, ma solo se ci sarà e solo se ci sarà potrà valutare, lui a posteriori con la sua esistenza, e non tu a priori, se di correre tutto questo rischio di esistere in quanto tale è valsa la pena o no.

CitazioneEsempio (molto banale; me ne scuso):
Secondo te é giusto prelevare con l' inganno i risparmi di un altro e fare a suo nome, senza il suo consenso, un investimento (che magari si rivelerà fruttuoso e gli arrecherà grossi guadagni)?
Ma certo che non è giusto, ma quest'altro a cui sottraggo i risparmi esiste! Se io faccio nascere un figlio non lo inganno prelevandogli qualcosa da mettere a rischio. Cosa gli prelevo? Cosa gli metto a rischio? La sua inesistenza forse? La sua possibilità di scegliere se correre rischi o meno? Se non esiste cosa gli sottraggo di suo e cosa di suo metto a rischio?





cvc

Citazione di: maral il 24 Maggio 2016, 22:30:34 PM
Citazione di: cvc il 24 Maggio 2016, 20:40:17 PM
A differenza dei cavalli da tiro, i lavoratori umani pagano tasse che servono per erogare le pensioni e sostenere lo stato sociale.
E infatti ormai da tempo ormai lo stato sociale è considerato il principale ostacolo alla crescita.
Certo si può discutere se la tecnologia sia legata o meno al capitalismo e cosa sia funzionale a cosa. Ad esempio Severino ne vede chiara la contrapposizione essendo il capitalismo in funzione dell'incremento del capitale, mentre la tecnica finalizzata alla soddisfazione di qualsiasi bisogno. E tra le due cose in contesa lui dice che sarà inevitabilmente la tecnica a prevalere. Io però non ne sono così sicuro: la tecnica ha avuto un ottimo alleato nel capitalismo, proprio poiché è esso che determina e fa permanere quello stato di bisogno che la tecnica ha lo scopo di soddisfare continuamente. La tecnica ha necessità di una domanda per continuare a produrre, il capitalismo ha necessità di una domanda per incrementare il capitale, dato che il capitale che si incrementa su se stesso, senza prodotto tecnico, è pura e catastrofica illusione. Entrambi hanno quindi bisogno della domanda in perfetta sinergia. Il problema su come sostenere la domanda è un problema tecnico e dunque il capitalismo muterà per quegli aspetti che si dimostreranno tecnicamente inadeguati al sostenimento della necessità di un consumo continuo e senza intoppi di quanto viene prodotto per non rischiare (come già accade) di finire sommersi da una marea di prodotto non consumato, ossia non immediatamente smaltito con il conseguente rischio di paralisi delle produzioni, alla cui efficienza la tecnica non può mai rinunciare. La ridistribuzione  della ricchezza può funzionare, ma fino a un certo punto, poiché ciò che si rende veramente necessario è stimolare continuamente il bisogno di beni per produrli, è costringere a fare di tutto pur di entrare nel ciclo di produzione senza poterne uscire, facendo leva sul desiderio continuamente indotto.
Non è vero che la tecnica è neutra e dipende dall'uso che ne facciamo, poiché ormai è essa che ci usa e stabilisce gli usi confacenti al suo produrre, programmandoli al massimo delle possibilità. E' la tecnologia che detta la morale che si riduce a pura morale d'uso, non certo noi, e questa morale è necessariamente del tutto indifferente all'umano: ormai è l'uomo che, in quanto mezzo produttivo, non è più né buono né cattivo, ma solo funzionale o meno al calcolo dell'efficienza massima di produzione del sistema complessivo; pensare in termini di buono e cattivo secondo i vecchi parametri etici è già decisamente antiquato: essenziale è solo funzionare nel modo più pianificabile e prevedibile possibile. Per questo l'autocoscienza, tecnicamente parlando, è una complicazione indebita, comporta costi eccessivi, è ormai un lusso che non ci si può permettere per evitare errori di programmazione imprevisti.  I falsi bisogni invece sono un'assoluta necessità tecnica, basta convincere che non sono per nulla falsi, ma diritti perpetuamente ribaditi a cui non si può rinunciare per vivere.
Sullo stato sociale come ostacolo della crescita credo che sia una questione di posizione ideologica. Secondo i paesi più liberisti come gli USA lo stato sociale è insostenibile ed è di fatto inesistente, nei paesi del nord Europa come la Germania una spesa sociale elevata (livello Italia) non ha affatto impedito la crescita. 
La tecnica è strumento del capitalismo perché c'è l'idea di fondo che le risorse concentrate nelle mani di pochi possono, grazie appunto alla tecnica, produrre di più che se fossero divise fra molti. Accentramento della ricchezza e sfruttamento tecnologico delle risorse sono un tutt'uno. Anche dal punto di vista del sostegno della domanda la tecnica si mostra congeniale, in quanto la sua rapida evoluzione innovativa rende subito obsoleti i beni in circolazione, così che vengono sostituiti prima che esauriscono il loro ciclo di utilizzo.
Non penso che sia la tecnica a dettare la morale, ma piuttosto l'uomo che essendosi assuefatto ad un elevato livello di benessere, si sente sempre più vincolato alla tecnologia nella speranza che possa sempre compiere nuovi miracoli. E questo è immorale, che l'uomo si affidi alla tecnica prima che a se stesso.
L'autocoscienza diventa una complicazione indebita per l'uomo reso stupido dal troppo benessere e da una vita troppo semplificata, resa troppo assimilabile dall'automatizzazione delle macchine, un passaggio dall'analogico al digitale che per amore dell'efficienza rende il pensiero comune un fastidio e un intralcio. L'unico pensiero che conta deve essere quello che porta all'innovazione tecnica e che alimenta il solito ciclo di produzione, consumo, crescita, benessere.
Ma se si esce da questo torpore si può scorgere il vero valore dell'autocoscienza, la possibilità unica che abbiamo di interrogarci sul senso dell'esistenza, di contemplare la realtà che ci circonda oltre i pregiudizi, i miti, le opinioni sconsiderate.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

paul11

Il mio intervento non era volto alle discrrinazioni socio-economiche mondiali, ma di quanto l'autocoscienza dell'uomo occidentale produca contraddizioni e sia decadente.
Per quanto sia ancora il primo mondo e non si muoia di sete, fame, l'opulenza stride con la coscienza .Sgiombo la coscienza non è un orpello che  a comando l'uomo può fingere di non avere, gli "rode" comunque. Mangia davanti al telegiornale e gli arrivano in casa le immagini ed eventi del mondo.La demografia del mondo occidentale o è in stasi o sta diminuendo e non per sterilità, ma per scelta, per volontà E' talmente vigliacco che sceglie il suicidio dell'estinzione pur di mantenere quell'ipocrita opulenza,E intanto la coscienza "rode"
Il "vero"povero non si fa l'elucubrazioni  dell'occidentale; storicamente siamo nella fase in cui lì'impero romano è decadente e debosciato e arrivano i barbari determinati e affamati. Loro sanno cosa vogliono, noi non lo sappiamo più.
Noi siamo sbandati e la nostra cultura ha costruito una macchina in cui lo sterzo è bloccato, o forse manco c'è più.
C' è chi ne è consapevole, c'è chi finge di non vedere o fa le tre scimmiette, ma tutti sono accomunati da una sorta di malessere dentro un benessere

sgiombo

Maral:
Ma chi questo chi a cui viene sottratto il rischio di decidere se non esiste e scegli (tu, alla luce della tua coscienza sull'esistenza e non certo lui) di non farlo in ogni caso esistere? Non è forse ancora un arbitrio questa decisione che sei pur sempre solo tu a prendere in base alla regola che non correre alcun rischio è in assoluto meglio del correrli?

Rispondo (Sgiombo):
Se genero un figlio, allora il figlio che genero (anche se non c'é ancora al momento in cui decido di generarlo) é comunque vittima di un' ingiusta repotenza da parte mia nell' imporgli forzatamente e non consensualmente il rischio dell' infelicità (come lo é dell' imposizione delle sofferenze conseguenti la malattia genetica il figlio che genero inevitabilmente portatore della malattia stessa, anche se, allo stesso identico modo, non c'é ancora al momento in cui decido di generarlo).
Se invece non lo genero mi astengo dall' imporre ingiustamente alcunché forzatamente a chichessia.

Vedo che continui a fraintendermi attribuendomi ancora la credenza nella "regola che non correre alcun rischio è in assoluto meglio del correrli".
Può anche essere meglio correrli (e nel mio personale caso é certamente meglio), ma non é questo il problema, bensì quello della libertà o meno (ovvero la costrizione) nel correrli: la libertà é giusta, la costrizione é un' ingiusta prepotenza.



Maral:
Se non è giusto imporre forzatamente ad altri di correre rischi perché dovrebbe essere giusto imporre loro di non correrli? Sempre imposizione è da parte di chi decide per un altro.

Rispondo (Sgiombo):
Ma se genero un figlio gli impongo (a lui. al figlio stesso) forzatamente, ingiustamente i rischi della vita; mentre se non genero nessuno non faccio alcuna ingiusta imposizione a nessuno.



Maral:
Ma tutto questo discorso non ha senso logico, proprio poiché qui si sta parlando di un puro astrattissimo e generalissimo esserci in quanto tale, un esserci che si incarnerà in gioie e dolori, e quindi correrà rischi, ma solo se ci sarà e solo se ci sarà potrà valutare, lui a posteriori con la sua esistenza, e non tu a priori, se di correre tutto questo rischio di esistere in quanto tale è valsa la pena o no.

Rispondo (Sgiombo):
Ovviamente se sia valsa la pena o meno di correre un certo rischio lo si può valutare solo a posteriori.
Ma una decisione é rischiosa proprio per il fatto che non se ne consoce con certezza l' esito a priori.
Ed é palesemete ingiusto che non la prenda liberamente o meno chi ne dovrà subire le conseguenze, che la scelta gli sia forzatamente imposta da altri (anche se con le migliori intenzioni).



Sgiombo:
Esempio (molto banale; me ne scuso):
Secondo te é giusto prelevare con l' inganno i risparmi di un altro e fare a suo nome, senza il suo consenso, un investimento (che magari si rivelerà fruttuoso e gli arrecherà grossi guadagni)?

Maral:
Ma certo che non è giusto, ma quest'altro a cui sottraggo i risparmi esiste! Se io faccio nascere un figlio non lo inganno prelevandogli qualcosa da mettere a rischio. Cosa gli prelevo? Cosa gli metto a rischio? La sua inesistenza forse? La sua possibilità di scegliere se correre rischi o meno? Se non esiste cosa gli sottraggo di suo e cosa di suo metto a rischio?

Rispondo (Sgiombo):
Anche se imponi al figlio la malattia genetica di cui sei poratore la imponi (e ne sei pienamente responsabile verso di lui) a qualcuno che, allo stesso modo, non esite al momento della tua decisione.

Al figlio che generi (anche se non esiste ovviamente al momento di questa tua decisione, fatto del tutto irrilevante) imponi il rischio della propria infelicità.

Infatti non gli sottrai nulla bensì gli imponi qualcosa (ingiustamente): il rischio di essere infelice.
Ingiusto non é solo il sottrarre indebitamente qualcosa ma anche l' imporlo (altrattanto indebitamente!

maral

Citazione di: cvc il 24 Maggio 2016, 23:21:58 PM
Sullo stato sociale come ostacolo della crescita credo che sia una questione di posizione ideologica. Secondo i paesi più liberisti come gli USA lo stato sociale è insostenibile ed è di fatto inesistente, nei paesi del nord Europa come la Germania una spesa sociale elevata (livello Italia) non ha affatto impedito la crescita.  
Mi pare dimentichi che anche in Germania le tutele dello stato sociale sono state comunque ridotte.
La tecnica non è più strumento del capitalismo né di qualsiasi ideologia, ma è il capitalismo (e qualsiasi altra ideologia) ormai a essere strumento per la tecnica, ossia strumento che funziona per garantire l'efficacia e l'efficienza sistemica di produzine. La domanda è del tutto inserita nl sistema tecnico produttivo, poiché è indispensabile non per incrementare il capitale, ma per il continuo smaltimento del prodotto che rende possibile il continuare ad aumento di produzione (per cui è per ragioni tecniche che occorre un'obsolescenza programmata- materiale e psicologica- del prodotto che ne stimola il consumo), un aumento che è del tutto autoreferenziale, che non vede altro scopo oltre se stesso e utilizza ogni altro scopo (utili economici compresi) per se stesso. La concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi è effetto dello sviluppo tecnico, ma  potrà essere corretto in ragione della tecnica stessa se si dimostrerà controproducente al produrre.
Nemmeno io penso che debba essere la tecnica a dettare la morale, ma di fatto è così: buono è ormai ciò che tecnicamente funziona in modo prevedibile, costante, secondo programmazione. E anche il vero ormai ha solo il senso del tecnicamente utilizzabile. La domanda è piuttosto se è ancora possibile opporre una resistenza a questa riduzione di ogni significato al funzionamento e in quali termini, con quali risorse che non appartengano esse stesse alla tecnica.
La tecnica fin dalle origini (che coincidono con le origini del genere umano, come ricorda il mito prometeico) ha per scopo la semplificazione, la riduzione della resistenza a scopo manipolativo, il problema è che questo scopo manipolativo (poietico) è diventato del tutto fine a se stesso (è diventato pura praxis) di cui pure il benessere reale derivante dalla "facilitazione tecnica" alla fine è solo strumento e per lo più illusorio.
L'autocoscienza è utile a mantenere una visione critica del disegno tecnico sul mondo, ma pure la coscienza che si ha di se stessi si forma in ragione di ciò che si viene a fare nel mondo, non è un'entità separata autonoma che domina dal di fuori della dimensione dell'agire, ma istituisce la visione del soggetto a partire da ciò che fa e usa per fare. Per questo oggi l'esigenza tecnica sull'uomo che ne rende inevitabile la disumanizzazione (la decostruzione di quel significato umano che ci è stato fin qui evidente) rende critica in termini di contraddizioni estremamente angoscianti la posizione stessa dell'uomo.

maral

Citazione di: sgiombo il 25 Maggio 2016, 09:01:45 AM
Ma se genero un figlio gli impongo (a lui. al figlio stesso) forzatamente, ingiustamente i rischi della vita; mentre se non genero nessuno non faccio alcuna ingiusta imposizione a nessuno.
In ogni caso si decide e si impone una decisione (se è meglio correre il rischio di esistere o no, poiché anche la decisione per una non procreazione impone la scelta di chi così ha deciso) e ovviamente non può che essere così, dato che ciò per cui si decide non esiste e dunque non ha alcuna libertà perché ne manca assolutamente la precondizione che è appunto la sua esistenza. E' evidente che il soggetto è libero solo se esiste, non se non esiste ma è pensato in ragione di una futura libertà di un'esistenza che però gli viene negata per salvaguardarlo dai rischi di quella stessa libertà.  Qui non si decide in ragione di una aspetto concreto di esistenza, ma di principio, sull'esistenza stessa negandola, del tutto a priori e dunque del tutto arbitrariamente. Si decide (e si impone) in assoluto che non vale la pena di correre il rischio, ossia che non vale proprio comunque la pena di esistere, perché solo il nulla (non l'esistere) garantisce la libertà.
Se un giorno il figlio (esistente), maledirà il genitore che lo ha procreato per averlo procreato esponendolo così al dolore di vivere, è solo in quanto procreato che potrà farlo e lo farà in nome di un'assurdità che non ha alcun senso.
Può anche essere che l'autocoscienza esponga al pericolo di questo estremo nichilismo ontologico esistenziale radicalmente autocontraddittorio: perché c'è qualcosa anziché il nulla che sarebbe tanto meglio - che se non altro rimanendo nel nulla si sarebbe più liberi e tranquilli.



sgiombo

Citazione di: maral il 25 Maggio 2016, 11:01:51 AM
Citazione di: sgiombo il 25 Maggio 2016, 09:01:45 AM
Ma se genero un figlio gli impongo (a lui. al figlio stesso) forzatamente, ingiustamente i rischi della vita; mentre se non genero nessuno non faccio alcuna ingiusta imposizione a nessuno.
In ogni caso si decide e si impone una decisione (se è meglio correre il rischio di esistere o no, poiché anche la decisione per una non procreazione impone la scelta di chi così ha deciso) e ovviamente non può che essere così, dato che ciò per cui si decide non esiste e dunque non ha alcuna libertà perché ne manca assolutamente la precondizione che è appunto la sua esistenza. E' evidente che il soggetto è libero solo se esiste, non se non esiste ma è pensato in ragione di una futura libertà di un'esistenza che però gli viene negata per salvaguardarlo dai rischi di quella stessa libertà.  Qui non si decide in ragione di una aspetto concreto di esistenza, ma di principio, sull'esistenza stessa negandola, del tutto a priori e dunque del tutto arbitrariamente. Si decide (e si impone) in assoluto che non vale la pena di correre il rischio, ossia che non vale proprio comunque la pena di esistere, perché solo il nulla (non l'esistere) garantisce la libertà.
Se un giorno il figlio (esistente), maledirà il genitore che lo ha procreato per averlo procreato esponendolo così al dolore di vivere, è solo in quanto procreato che potrà farlo e lo farà in nome di un'assurdità che non ha alcun senso.
Può anche essere che l'autocoscienza esponga al pericolo di questo estremo nichilismo ontologico esistenziale radicalmente autocontraddittorio: perché c'è qualcosa anziché il nulla che sarebbe tanto meglio - che se non altro rimanendo nel nulla si sarebbe più liberi e tranquilli.

CitazioneRinuncio a cercare ulteriormente di farti capire che la questione che ho posto non é quella se valga la pena o no di correre il rischio di vivere infelicemente ma dell' ingiustizia di imporre questo rischio ad altri; e che é possibile (e per nulla contraddittorio), ed é moralmente ingiusto, inaccettabile compiere prepotenze anche ai danni di chi ancora non esiste e le subirà al momento di iniziare ad esistere (mentre verso chi non inizierà mai ad esistere non é possibile perpetrare ingiustizie, e dunque non generando nessuno non se ne compiono).

E' almeno la quarta o quinta volta che ripetiamo inutilmente le stesse cose e per quanto mi riguarda credo che non valga la pena di insistere ulteriormente: per parte mia la discussione finisce qui. 

maral

Citazione di: sgiomboRinuncio a cercare ulteriormente di farti capire che la questione che ho posto non é quella se valga la pena o no di correre il rischio di vivere infelicemente ma dell' ingiustizia di imporre questo rischio ad altri
Ma è proprio questo il punto: l'ingiustizia di imporre il rischio ad altri ha come correlato (inevitabile, dato che il rischio in questione coincide con l'esistenza stessa) l'ingiustizia di parimenti imporre che questo rischio non sia corso. Comunque termino anch'io qui, tanto più che non penso che questa preoccupazione sarà motivo di futura estinzione, dettata semmai a livello psichico dalla maturata coscienza di un orizzonte nichilistico dell'esistenza. 

davintro

Nel paradosso per cui la nascita di una vita, cioè di una libertà, è presente una costrizione nei confronti di una vita che non decide essa di esistere sta tutta la finitezza ontologica e creaturale dell'uomo. Mentre Dio si autoafferma e in un certo senso "decide" di esistere, l'uomo riceve l'esistenza da una volontà esterna: è una non-libertà che però rende possibili tutte le altre libertà. Una libertà limitata ma è l'unica libertà umanamente possibile. La costrizione è qui "al servizio" della libertà. Quindi secondo me ha poco senso ritenere ingiusta la riproduzione in nome del valore della libertà, quanto più, come scritto prima, in riferimento a una vita che liberamente ha la possibilità di rimediare ad un'esistenza non desiderata attraverso il suicidio. Ma quale libertà c'è nell'assoluto non-essere? Porre la libertà come valore in base al quale rinunciare alla riproduzione ha un senso unicamente in riferimento alla libertà del genitore che con la nascita di un figlio si priva inevitabilmente di una fetta considerevole della propria libertà vitale, dei propri spazi, gravato dal peso della responsabilità di un accudimento. Ingiusta la riproduzione diviene quando non preceduta da un' onesta autovalutazione delle proprie capacità genitorali, solo per obbedire ad una sorta di fantomatico e moralistico (non morale) "dovere di riprodursi", come purtroppo troppo spesso accade anche oggi, finendo con la creazione di un'infelicità nei figli cresciuti da genitori non adatti ad esserlo e un'infelicità dei genitori schiavi di figli non profondamente e non onestamente davvero voluti

sgiombo

#41
Citazione di: davintro il 27 Maggio 2016, 21:56:05 PM
Nel paradosso per cui la nascita di una vita, cioè di una libertà, è presente una costrizione nei confronti di una vita che non decide essa di esistere sta tutta la finitezza ontologica e creaturale dell'uomo. Mentre Dio si autoafferma e in un certo senso "decide" di esistere, l'uomo riceve l'esistenza da una volontà esterna: è una non-libertà che però rende possibili tutte le altre libertà. Una libertà limitata ma è l'unica libertà umanamente possibile. La costrizione è qui "al servizio" della libertà. Quindi secondo me ha poco senso ritenere ingiusta la riproduzione in nome del valore della libertà, quanto più, come scritto prima, in riferimento a una vita che liberamente ha la possibilità di rimediare ad un'esistenza non desiderata attraverso il suicidio.
CitazioneMa la nascita di una vita non solo rende possibili tutte le altre (comunque limitate!) libertà umane; essa rende anche possibile l' infelicità.
Ed é questo il motivo per il quale ritengo ingiusto imporla, dal momento che non é giusto imporre ad altri senza il loro consenso di correre dei rischi; e in particolare di correre il rischio di essere infelice.

Certo, come ho rilevato anch' io, la possibilità dell' eutanasia (e più in generale del suicidio) da parte dei figli che ritenessero troppo infelice la propria vita per essere ulteriormente vissuta può costituire un importante "attenuante" per chi, essendo dotato di autocoscienza, procrea.
Ma ancora più moralmente retto sarebbe l' evitare di imporre a qualcuno senza il suo consenso il rischio anche di un' infelicità di breve durata alla quale si può mettere fine con relativa facilità e in modo indolore (n.b.: assenza di dolore limitata alla sua fine, e non a quella vita complessivamente intesa).

 
Porre la libertà come valore in base al quale rinunciare alla riproduzione ha un senso unicamente in riferimento alla libertà del genitore che con la nascita di un figlio si priva inevitabilmente di una fetta considerevole della propria libertà vitale, dei propri spazi, gravato dal peso della responsabilità di un accudimento. Ingiusta la riproduzione diviene quando non preceduta da un' onesta autovalutazione delle proprie capacità genitorali, solo per obbedire ad una sorta di fantomatico e moralistico (non morale) "dovere di riprodursi", come purtroppo troppo spesso accade anche oggi, finendo con la creazione di un'infelicità nei figli cresciuti da genitori non adatti ad esserlo e un'infelicità dei genitori schiavi di figli non profondamente e non onestamente davvero voluti
CitazioneIl valore in base al quale ritengo che sarebbe doveroso astenersi dal procreare (il condizionale perché devo confessare che io stesso ho un figlio; che é fortunatamente complessivamente contento della vita: la questione che pongo non é per nulla autobiografica o comunque incentrata sulla mia propria vita ma generale) non é affatto quello della libertà, bensì quello della giustizia (il fatto che imporre forzatamente a chichessia senza averne il consenso di correre il rischio dell' infelicità non é giusto).

Quella dei limiti che la paternità impone alla propria libertà, degli impegni che comporta e dei doveri che impone, delle capacità che presuppone é tutt' altra questione (pure interessante, ma tutt' altra).


Loris Bagnara

Faccio alcune considerazioni in ordine sparso, nell'ottica del paradigma materialistico.
 
1) Se si assume valido il paradigma materialistico, non è possibile parlare di responsabilità etica nell'agire umano: il libero arbitrio non esiste, l'agire umano è totalmente determinato dai condizionamenti interni ed esterni (anzi, solo esterni, poiché la dimensione interiore è solo un'illusione); e pertanto un uomo non è responsabile di ciò che fa, più di quanto lo sia una bicicletta per la strada che si trova a percorrere. Di conseguenza, anche il mettere al mondo dei discendenti non può essere né una colpa né un merito: semplicemente avviene, senza valore né significato.
 
2) Non sono i genitori a stabilire l'individuo che viene al mondo. I genitori al massimo possono decidere di mettere al mondo un essere umano, ossia un corpo, ma non sono loro a decidere qual è l'individuo che "entrerà" nel corpo che essi hanno deciso di generare. Anche se i miei genitori decisero, a suo tempo, di generare il loro primogenito, non c'è nulla che leghi necessariamente la loro decisione alla mia presenza qui, in questo corpo. Io potrei ancora essere nel Nulla, qualche altra individualità potrebbe trovarsi nel corpo che ora io sento di occupare. Perché dunque i genitori dovrebbero essere responsabili dell'eventuale infelicità dei loro figli, se il vero responsabile della nostra presenza in questo mondo è in Grande Nulla da cui inesplicabilmente siamo tratti?
 
3) Se mi guardo intorno, vedo più gente che apprezza la vita, rispetto a gente che non l'apprezza. Vedo più voglia di esistere, che voglia di morire o di non essere mai esistiti. Dare un nuovo essere umano l'opportunità di vivere, può anche essere un'imposizione (nel senso che non è stata scelta dal soggetto), ma un'imposizione più gradita che sgradita. Perché dunque precludersela? 

4) La civiltà che dovesse giungere al punto di ritenere preferibile non esistere, per non rischiare l'infelicità, sarebbe una ben trista (sic) civiltà, la quale, se non ritrova la voglia di vivere, è davvero meglio che si estingua.

sgiombo

#43
Loris Bagnara ha scritto:

Faccio alcune considerazioni in ordine sparso, nell'ottica del paradigma materialistico.

1) Se si assume valido il paradigma materialistico, non è possibile parlare di responsabilità etica nell'agire umano: il libero arbitrio non esiste, l'agire umano è totalmente determinato dai condizionamenti interni ed esterni (anzi, solo esterni, poiché la dimensione interiore è solo un'illusione); e pertanto un uomo non è responsabile di ciò che fa, più di quanto lo sia una bicicletta per la strada che si trova a percorrere. Di conseguenza, anche il mettere al mondo dei discendenti non può essere né una colpa né un merito: semplicemente avviene, senza valore né significato.

Rispondo:

Ma di che cavolo (mi scuso per l' eufemismo) di "paradigma materialistico" parli?!?!?!?!

Per il monismo materialistico (ergo: non per me) il pensiero cosciente é illusorio o si identifica con la materia (cerebrale), ma ciò non implica affatto necessariamente che la "macchina umana" non si comporti più o meno moralmente bene (oppure male).

Inoltre il materialismo non é necessariamente deterministico (ma se lo é, allora l' agire umano é per il materialismo determinato da condizionamenti intrinseci; esplicantisi nell' ambito della neurofisiologia).

Ma comunque il determinismo (monistico materialistico o meno) é compatibilissimo, anzi a mio parere necessario (é una conditio sine qua non!) perché possa darsi valenza etica (o valutabilità etica) dei comportamenti, che altrimenti non sarebbero conseguenza (sul piano ontologico; e dimostrazione sul piano gnoseologico) delle qualità morali più o meno buone dei loro autori ma solo del caso (e dunque casomai della maggiore o minore fortuna dei loro autori): sarebbe come se ogni azione umana fosse decisa dal lancio di una moneta o di una coppia di dadi.




Loris Bagnara ha scritto:

2) Non sono i genitori a stabilire l'individuo che viene al mondo. I genitori al massimo possono decidere di mettere al mondo un essere umano, ossia un corpo, ma non sono loro a decidere qual è l'individuo che "entrerà" nel corpo che essi hanno deciso di generare. Anche se i miei genitori decisero, a suo tempo, di generare il loro primogenito, non c'è nulla che leghi necessariamente la loro decisione alla mia presenza qui, in questo corpo. Io potrei ancora essere nel Nulla, qualche altra individualità potrebbe trovarsi nel corpo che ora io sento di occupare. Perché dunque i genitori dovrebbero essere responsabili dell'eventuale infelicità dei loro figli, se il vero responsabile della nostra presenza in questo mondo è in Grande Nulla da cui inesplicabilmente siamo tratti?

Rispondo:

"Grande nulla" a parte (espressione con la quale non capisco che cosa si possa intendere), in questa discussione (nella quale sto subendo un rekord di fraintendimenti difficilmente eguagliabile!) non affermo affatto che i genitori sono responsabili del' infelicità (eventuale! E per fortuna nella stragrande maggioranza dei casi inesistente come bilancio complessivo delle loro vite) dei figli, ma invece dell' imposizione ad essi (ingiusta in quanto non concordata; e non concordata in quanto non concordabile: impossibilità addirittura logica! E dunque da loro non liberamente accettata) DEL RISCHIO dell' infelicità.

Ragazzi, ma come fate a persistere così pervicacemente, immancabilmente nel fraintendere questa mia affermazione nei modi più fantasiosamente infondati?!?!?!?!
Chi genera figli (specialmente se in gran numero) certamente di fatto fa esistere molta più felicità che infelicità (SU QUESTO SONO PERFETTAMENTE D' ACCORDO!!!).
Ma commette un' ingiustizia imponendo forzatamente ad altri IL RISCHIO dell' infelicità (e per quanta felicità facesse esistere per tantissimi figli questa non basterebbe di certo a compensare l' infelictà che facesse toccare di fatto a uno solo di essi: il fatto di beneficiare 1000 pesrone non mi autorizza di certo a fare del male a una sola altra persona! Non giustificerebbe di certo il male che arrecassi alla milleunesima! O si dice "milleprima"?).

Noto peraltro che i (potenziali) genitori non possono nemmeno decidere se metteranno al mondo nessuno, oppure uno o due o anche più figli, con ciascun loro rapporto sessuale (salvo il caso usino anticoncezionali affidabili; oppure siano provatamente sterili).




Loris Bagnara ha scritto:

3) Se mi guardo intorno, vedo più gente che apprezza la vita, rispetto a gente che non l'apprezza. Vedo più voglia di esistere, che voglia di morire o di non essere mai esistiti. Dare un nuovo essere umano l'opportunità di vivere, può anche essere un'imposizione (nel senso che non è stata scelta dal soggetto), ma un'imposizione più gradita che sgradita. Perché dunque precludersela?

Rispondo:

Vedo anch' io quel che vedi tu.

Ma basta la possibilità dell' infelicità (per quanto poco probabile) per rendere ingiusta l' imposizione ad altri, non da loro liberamente accettata, dell' esistenza: ti sembrerebbe giusto imporre ad altri senza il loro consenso di giocare alla roulette russa nei termini che indico qui di seguito?
Ci sono 1000 pistole delle quali sola una carica; se si spara con quella ci si ammazza (o magari ci si condanna a un' esistenza fortemente invalidata e piena di dolore fisico e probabilmente anche mentale); se ci si spara con una delle altre 999 si ottiene il diritto di avere esudito il proprio principale desiderio (che sia essere coltissimo, ricchissimo, fortunatissimo con le donne, ecc.).
A me sembrerebbe PROFONDAMENTE INGIUSTO (e personalmente se potessi scegliere non acceteri il cimento, anche perché ho già altri modi di realizzare ragionevolmente, limitatamente i miei più forti desideri e credo di riuscire a controllare e superare piuttosto bene quelli irrealizzabili. MA QUESTO NON E' PER NULLA RILEVANTE !!! Cercate di capire! Vi prego: Sforzatevi!).



Loris Bagnara ha scritto:

4) La civiltà che dovesse giungere al punto di ritenere preferibile non esistere, per non rischiare l'infelicità, sarebbe una ben trista (sic) civiltà, la quale, se non ritrova la voglia di vivere, è davvero meglio che si estingua.

Rispondo:

Ma secondo giustizia ognuno può decidere in base ALLA PROPRIA voglia di vivere o meno e non PER CONTO DI ALTRI!

Dunque una civiltà, non che ritenesse preferibile non esistere (e dai!!!), bensì che decidesse di non imporre forzatamente il rischio dell' infelicità a chi non potesse decidere autonomamente se assumerselo o meno, sarebbe certamente triste, ma innanzitutto sarebbe giusta (e per niente affatto trista!).

Sariputra

@loris bagnara
Non sono molto d'accordo che si vede più felicità che infelicità, più voglia di vivere che di morire. Profonde sono le radici della sofferenza che molti, moltissimi nascondono sotto una maschera di felicità. Spesso questa maschera non disegna un sorriso, ma un ghigno malcelato e la volontà di vivere un mero istinto naturale, un desiderare senza fine di arrivare infine a quella felicità che ci insegnano a cercare...ma non a trovare! Quasi sempre ci trova prima la morte...sorella morte , come direbbe Francesco d'Assisi, che può rivelarsi soave, liberante da questo groviglio inestricabile di passioni mai veramente appagate. Spesso molte persone che ho incontrato nella mia vita, e che mi sembravano le più felici e soddisfatte di sè, si rivelavano, appena aprivano il luoro cuore, le più tormentate dall'infelicità.
Quante persone , per esempio, che vivono l'esperienza di avere dei figli malati o con handicap, ti dicono di essere serene, che sperimentano l'amore di Dio, ecc. e però...però...il loro occhi non dicono le stesse parole e la maschera che portano a volte viene rigata dalle lacrime. No signori...chi dice di essere felice quasi sempre mente e soprattutto, con più forza ancora, mente a se stesso.
Più aumenta nel nostro animo la consapevolezza di quanto profondo è il dolore di vivere, più sorge spontanea la domanda che ha posto Sgiombo all'inizio. Sembrerò cinico ma credo che, se sulla Terra siamo arrivati ad essere miliardi di esseri umani, è perchè la consapevolezza è inversamente proporzionale al desiderio che spinge sempre in avanti questo formicaio chiamato umanità. Non troveremo mai la felicità, se non per brevi momenti fuggevoli.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Discussioni simili (5)