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Il "vuoto" ed il "nulla"

Aperto da Eutidemo, 09 Ottobre 2024, 12:29:44 PM

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iano

#150
I nostri pensieri solo la scia che lasciamo nella realtà girandovi intorno.
Le scie non rimangono, ma possono essere sempre rinnovate, e prodotte in tale quantità da restarne occultata.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Bruno P

Gentile iano
aiutami cortesemente a meglio interpretare il tuo pensiero.
Laddove dici "... alla natura come libro che noi scriviamo..." lo interpreto come un pensiero in cui è l'Uomo che crea il mondo attorno a se e ricalca quanto sostenuto da vari pensatori, da Schopenauer a Nitzsche, con un radicamento nell'idealismo.
Più avanti però riporti che "C'è una natura che sta oltre ciò che percepiamo, e che percependola impropriamente diciamo natura,  qualcosa che della nostra percezione è la causa, laddove l'effetto non può coincidere con la causa." Lasciami dire che trovo in questo tuo scritto fondamenti del pensiero cartesiano e kantiano dove, comunque fino a Schopenauer, si ritiene fondante l'esistenza dell'episteme, assente però in Nitzsche.
Grazie!

iano

#152
Citazione di: Bruno P il 22 Ottobre 2024, 08:32:50 AMGentile iano
aiutami cortesemente a meglio interpretare il tuo pensiero.
Laddove dici "... alla natura come libro che noi scriviamo..." lo interpreto come un pensiero in cui è l'Uomo che crea il mondo attorno a se e ricalca quanto sostenuto da vari pensatori, da Schopenauer a Nitzsche, con un radicamento nell'idealismo.
Più avanti però riporti che "C'è una natura che sta oltre ciò che percepiamo, e che percependola impropriamente diciamo natura,  qualcosa che della nostra percezione è la causa, laddove l'effetto non può coincidere con la causa." Lasciami dire che trovo in questo tuo scritto fondamenti del pensiero cartesiano e kantiano dove, comunque fino a Schopenauer, si ritiene fondante l'esistenza dell'episteme, assente però in Nitzsche.
Grazie!

Fondamentalmente sono un ignorante in filosofia, e la la storia della mia filosofia è scritta qui sul forum, un post dopo l'altro.
Immagino la realtà come un continuo, e la conoscenza come una delle tante possibili suddivisioni, notando che quando andiamo a cercare il confine delle cose non lo troviamo. La conoscenza è l'immagine che ci restituisce la realtà quando in essa ci specchiamo, per cui fondamentalmente la conoscenza è funzione dell'individuo, ma ciò non vuol dire che imperi la doxa, se è possibile condividere.
Quando del processo di condivisione non abbiamo coscienza o abbiamo perso memoria, la realtà ci appare come fatta di cose in se, e ciò attiene in genere alla nostra percezione condivisa della realtà.
Diversamente parliamo di scienza il cui risultato, anche quando condiviso, non ha più la forma dell'evidenza.
Con l'evidenza possiamo provare a fare ancora analogie,  che ci consentano in subordine di immaginare la realtà, se non di vederla.
Quando l'analogia funziona bene tendiamo a intravedere la realtà attraverso essa. Cioè quando pur abbiamo coscienza che l'immagine non coincida con la realtà, tendiamo ancora ad identificarla con essa, cercando di riprodurre la nostra percezione, accettando di mutarla, accontentandoci di una evidenza posticcia, a riprova di quanto sia difficile abbandonare l'idea di una realtà fatta di cose in sè.
In base a questa concezione filosofica, non è difficile comprendere perchè la realtà sembra essere un libro scritto in caratteri geometrici, che non può comprendere chi la geometria non intende.
La geometria è parte dell'immagine che la realtà ci restituisce quando in essa, interagendovi, ci specchiamo.
I risultati di questa interazione però non sono necessariamente immagini, senza che ciò escluda la possibilità del ''progredire'' della nostra interazione con la realtà.
La conoscenza ci muta fino a non riconoscerci più allo specchio, fino a produrre a volte un rigetto.
Questo rigetto è ciò che caratterizza la nostra epoca, in quanto in quelle precedenti non poteva l'uomo testimoniare in diretta la sua mutazione.
Dall'orrore che ciò può provocare  si può fuggire affermando  la saggezza della filosofia antica, (anche percezione chi potrebbe negarlo?) rifugiandovisi.
Essendo però come detto io un ignorante in filosofia, mi tocca invece affrontarlo a viso aperto il diavolo, e credo di poter dire infine che  non è mai cosi brutto come lo si descrive.
O quantomeno. mi sembra di trovare così risposte a domande diversamente senza risposta, se di ciò ci si può consolare., anche se di solito succede che ''la domanda si risponde da sola'' perdendo di senso.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
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iano

#153
Sono un cinico per necessità, ma non me ne lamento.
Viviamo dentro un illusione vitale, che in quanto tale è da rivalutare, e semmai possiamo dolerci del fatto che non sempre è possibile produrla.

Non dobbiamo abbandonare le nostre illusioni, ma prima o poi lo dovremo fare.
Già la necessità di ridefinire il nostro io, andando oltre la coscienza che ne abbiamo, diventa pressante.
Troviamo ancora il coraggio di affrontare certe questioni riuscendo a tramutare l'orrore in intrattenimento nei racconti di fantascienza, per dire che l'orrore che proviamo può essere superato per vie indirette, quando rifiutiamo quelle dirette, perchè in un modo o nell'altro non possiamo mancare di affrontare la realtà.
Possibile vie di fuga sono solo palliativi momentanei, ma comprendo bene perchè lo faccia, chi lo può fare.
Finché ci liberiamo delle nostre illusioni, ma solo per poterle ridefinire, va ancora tutto bene, ma anche quando ciò non riusciremo più a fare, in qualche modo faremo ancora, e anzi lo stiamo già facendo, delegando il compito a macchine prive di ogni illusoria immaginazione.
Ciò non è ne un bene ne un male, ma la prova che non c'è un solo modo di vedere la realtà, per quanto possiamo ancora condividerlo, fino al punto che in uno di questi modi, al limite, nessuna immagine della realtà più  appare.
I ciechi ''ci vedono'' anche senza occhi, e in qualche  modo diverso riusciremo ancora a ''vedere'' la realtà.
Intanto comunque teniamoci stretta la nostra percezione, ma non possiamo più fare finta che intorno ad essa ruoti la realtà.
Teniamocelo come esempio di ciò che può restituirci la realtà quando la sollecitiamo, e confidiamo che ciò sia solo uno dei possibili modi coi quali essa può meravigliarci, se pure gli scienziati sembrano soggiacere alla bellezza di un equazione che la descriva.
Da un lato dovremo escludere d'ora in poi che la realtà possa coincidere con una sua descrizione, ma allo stesso tempo, essendo possibile descriverla in diversi modi, la nostra meraviglia potrà moltiplicarsi.
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iano

Citazione di: Bruno P il 22 Ottobre 2024, 08:32:50 AM"C'è una natura che sta oltre ciò che percepiamo, e che percependola impropriamente diciamo natura,  qualcosa che della nostra percezione è la causa, laddove l'effetto non può coincidere con la causa." Lasciami dire che trovo in questo tuo scritto fondamenti del pensiero cartesiano e kantiano dove, comunque fino a Schopenauer, si ritiene fondante l'esistenza dell'episteme, assente però in Nitzsche.
Non so se ho capito esattamente cosa sia l'episteme, stante l' evoluzione del suo significato.
Comunque secondo me il punto di partenza è che noi agiamo nella realtà, e immagino l'episteme come un prodotto intermedio di questo agire che si differenzia nella sua apparenza o nella sua mancanza, mancanza intesa comunque come caso limite di apparenza, per il grado di coscienza che impieghiamo, laddove la coscienza essendo un modo di agire fra tanti, non è in se necessaria.
certo senza coscienza non c'è filosofia, ma se è vero che la filosofia influenza l'agire anche di chi non sa di averla, la sua conoscenza non è strettamente necessaria  al suo agire.
Conoscerla per una azione responsabile resta comunque la nostra ambizione di filosofi.
Essa è dentro di noi, e nei libri si trova la storia di questa interiorità, che riguarda comunque anche la realtà, essendone parte.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
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Bruno P

Gentile iano
ti ringrazio innanzitutto per aver condiviso il tuo pensiero.
Non sarò certo io, un emerito nessuno, a voler dare un significato diverso da quello che intendi al termine episteme.
Rimango, scolasticamente, alla sua definizione più classica: la conoscenza ultima, definitiva, incontrovertibile e, per dirla con Severino, inaudita. Con un tratto cristiano la identifico con l'albero della conoscenza da cui Adamo ed Eva colsero la mela.
Nel corso della storia della Filosofia ci sono stati tentativi di "appropriazione indebita" di tale termine. E mi riferisco a coloro i quali, spinti dal sacro fuoco scientifico, hanno ritenuto di aver formulato una teoria definitivamente inconfutabile; questi hanno però perso di vista un'altra caratteristica propria dell'episteme: essa è unica e non frammentata all'infinito in singole conoscenze che diventano tra di loro sempre più lontane e risultano difficilmente componibili, ammesso che qualcuno le voglia ricomporre.
Osservo poi che nei tuoi scritti riporti e citi spesso la realtà. Non per questo considero il tuo pensiero vicino al Neorealismo ma, consentimi, ti vedrei più vicino al pensiero cartesiano.
René Descartes è un gigante della Storia della Filosofia e come personaggio lo amo profondamente. Mi auguro che prima o poi qualcuno voglia produrre un film o, come va di moda oggi, una serie sulla sua vita. I più lo conoscono come matematico dato che il piano cartesiano a scuola lo hanno studiato tutti. Ma era una figura davvero eclettica. Si dedicò a svariati studi. Forse non tutti sanno che anche lui andava a scavare di notte nei cimiteri per avere la "materia prima" per poter studiare il corpo umano. L'oggetto del suo studio però era diverso da quello di Leonardo dato che al suo tempo era ancora ignota la funzione del cervello, questa massa molle posta all'interno del corpo in una scatola, quella cranica però decentrata rispetto alla figura intera, cui la Storia aveva dedicato ben poca attenzione. Al suo tempo si riteneva ancora che il coraggio risiedesse nel fegato, nel cuore la generosità, ecc. I tratti più importanti della personalità umana erano associati a ben definiti organi interni, contenuti nell'addome. Ma del cervello nessuno aveva saputo dare un'utilità e ammesso ne avesse avuta una non poteva, per logica, trovarsi lontano dall'addome. I suoi studi lo portarono a concludere, ingenuamente, che al suo interno la connessione tra anima e corpo avesse luogo nell'ipofisi, o ghiandola pineale, dato che era l'unica a non essere duplicata nei due emisferi. Ma oltre a ciò fu il primo ad ipotizzare che il cervello fosse una sorta di "unità di comando" e che avesse una funzione di controllo sull'agire del corpo umano ritenendo che dal cervello si dipartissero dei tubuli (i nervi) al cui interno scorresse un fluido capace di far agire la muscolatura. Tant'è che costruì una sorta di robot i cui comandi stavano appunto nella testa ed erano in grado di comandare, tramite leve e molle, le estremità articolari; fece il giro delle corti europee con il suo "spettacolo" che destava grande ammirazione.
Non ultimo infine il suo contributo fondamentale alla Filosofia: ebbe il coraggio di ribaltare sottosopra le credenze plurisecolari fino ad allora in voga e mettere in dubbio tutto tranne la capacità del suo essere di pensare.
Perdonami per la lunghezza del mio scritto.

iano

Citazione di: Bruno P il 22 Ottobre 2024, 17:47:05 PMNon sarò certo io, un emerito nessuno, a voler dare un significato diverso da quello che intendi al termine episteme.
Rimango, scolasticamente, alla sua definizione più classica: la conoscenza ultima, definitiva, incontrovertibile e, per dirla con Severino, inaudita. Con un tratto cristiano la identifico con l'albero della conoscenza da cui Adamo ed Eva colsero la mela.
Io lo interpreto come albero della coscienza, perchè la conoscenza è implicita nell'agire, se questo agire ha una causa e Adamo ed Eva non hanno mai smesso di agire.
Il passaggio biblico lo vedo come un assunzione di coscienza della propria conoscenza che ci dona facoltà di scelta.
La mela simbolizza questa facoltà. perchè adesso possiamo scegliere se mangiarla oppure no, mentre prima semplicemente la magiavamo senza porci il problema : ciò che portiamo fuori di noi affermandolo possiamo perciò negarlo, restando diversamente un innegabile verità.
La verità per me è ciò che è innegabile, finché non la si afferma, e per questo non si dovrebbe pronunciare anche solo il nome di Dio, preludendo ciò a fare si di esso affermazioni.

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iano

#157
Citazione di: Bruno P il 22 Ottobre 2024, 17:47:05 PME mi riferisco a coloro i quali, spinti dal sacro fuoco scientifico, hanno ritenuto di aver formulato una teoria definitivamente inconfutabile; questi hanno però perso di vista un'altra caratteristica propria dell'episteme: essa è unica e non frammentata all'infinito in singole conoscenze che diventano tra di loro sempre più lontane e risultano difficilmente componibili, ammesso che qualcuno le voglia ricomporre.
Il passaggio dalla verità, al dubbio sistematico, non poteva che avvenire in modo travagliato, e ciò che il dubbio produce non eredita dalla verità neanche l'unicità.
Così all'inizio abbiamo provato a salvare la verità dal trasloco, e ancora qualcuno ci prova, entrando inevitabilmente in conflitto con la disciplina del dubbio sistematico, la scienza.

Provare a ricomporre ciò che nasce sparato è sempre desiderabile, ma non necessario.
Geometria e aritmetica nascono separate, e Cartesio ne fà una cosa sola, ma anche il processo inverso è degno di nota, come predicava Feynmann che a questa attività a dedicato l'esistenza, perchè equivale a vedere una cosa sotto diversi punti di vista, fino a farcela sembrare un altra cosa, potendola meglio ponderare. Forse l'unico premio Nobel che non ha inventato nulla di nuovo, ma secondo me anche il più meritato, per la profondità dell'intuizione che lo ha mosso.
E' quantomeno un modo per distinguere la forma dalla sostanza, e in breve Cartesio ci dice, non sò quanto volutamente, che se la realtà ci appare in modo geometrico, non perciò quella è la sua sostanza, a cui noi possiamo aggiungere che la nuova forma non comporti però necessariamente una apparenza a sua volta.
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#158
Citazione di: Bruno P il 22 Ottobre 2024, 17:47:05 PMTant'è che costruì una sorta di robot i cui comandi stavano appunto nella testa ed erano in grado di comandare, tramite leve e molle, le estremità articolari; fece il giro delle corti europee con il suo "spettacolo" che destava grande ammirazione.
Non ultimo infine il suo contributo fondamentale alla Filosofia: ebbe il coraggio di ribaltare sottosopra le credenze plurisecolari fino ad allora in voga e mettere in dubbio tutto tranne la capacità del suo essere di pensare.
Perdonami per la lunghezza del mio scritto.
Figurati, è un piacere leggerti.
Dunque Cartesio si mette pure a magheggiare!
Io credo che il processo con cui la scienza vuole separarsi da ciò che la precede, e in particolare dalla magia, sia ancora in corso.
Credo infatti che se analizzassimo in modo obiettivo la scienza potremmo ben vedere quanto il pensiero magico rimane ad essa ancora funzionale, se si crede che la realtà possa obbedire a una formula, in qualunque forma si presenti, compresa quella di un equazione.
Non è necessario conoscere la realtà per potervi agire, se è sufficiente attraverso la conoscenza di un'equazione sapere come agirvi.
Poi magari non è neanche necessario separarsi da questa magia, mantenendone però la coscienza, senza negarla a maggior gloria della scienza, così come si è provato ad occultare gli scritti alchemici di Newton, di gran lunga superiori in numero a quelli scientifici, e che io vedo anzi come necessario preludio alla sua teoria di gravitazione.
Forse noi oggi non ci rendiamo infatti conto  quanto fosse intrisa di magia  ai tempi di Newton l'idea di una  forza che agisce a distanza, idea che solo un mago  poteva appunto partorire.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
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Bruno P

Citazione di: iano il 22 Ottobre 2024, 21:20:51 PMIo lo interpreto come albero della coscienza, perchè la conoscenza è implicita nell'agire, se questo agire ha una causa e Adamo ed Eva non hanno mai smesso di agire.
Il passaggio biblico lo vedo come un assunzione di coscienza della propria conoscenza che ci dona facoltà di scelta.
La mela simbolizza questa facoltà. perchè adesso possiamo scegliere se mangiarla oppure no, mentre prima semplicemente la magiavamo senza porci il problema : ciò che portiamo fuori di noi affermandolo possiamo perciò negarlo, restando diversamente un innegabile verità.
La verità per me è ciò che è innegabile, finché non la si afferma, e per questo non si dovrebbe pronunciare anche solo il nome di Dio, preludendo ciò a fare si di esso affermazioni.


Dipende cosa intendiamo per coscienza e cosa per conoscenza, a qualsiasi livello.
Ieri sera a cena parlavo con mia moglie delle forme cancerogene di cui purtroppo abbiamo notizia molto spesso riguardo conoscenti anche lontani e come, per fortuna, la ricerca proceda e stia in questo periodo mettendo a punto la tecnica CRISPR che consente la correzione del DNA sostituendo la singola base azotata errata con quella corretta; inoltre l'attuale indirizzo prevede di "addestrare" il sistema immunitario a riconoscere le cellule tumorali e quindi far si che sia l'organismo a lottare per combatterle piuttosto che forme esterne più invasive come le radioterapie.
Ma come nasce, si forma, una cellula tumorale? Anche questo è motivo per me di grande meraviglia. Nel DNA, che è presente in ogni singola cellula, sono contenute anche le "istruzioni" per il processo di apoptosi ovverosia è scritto come la singola cellula deve autodistruggersi quando è giunta al termine del proprio ciclo vitale: ciò per evitare che un'autodistruzione non controllata vada a nuocere al macro-organismo di cui è parte. Le parti componenti la cellula vanno in pratica a scomporsi per essere riciclate dal macro-organismo piuttosto che rimanere non metabolizzate ed accumularsi inutilmente in esso. Già questo per me è motivo di grandissima meraviglia: che sia unicellulare o macro-cellulare, qualsiasi forma di vita lotta strenuamente fin dalla nascita per sopravvivere; eppure nel suo DNA esistono le istruzioni che spiegano come andare a morire per un bene superiore, a favore del macro-organismo. Quando e come ha avuto luogo questo feed-back nella singola cellula creando questa "pagina" all'interno del "manuale di istruzioni" che è il DNA? Oppure come ha avuto luogo questa scrittura all'interno delle cellule limitrofe o meno ancora pienamente vitali? Darwin dice che avviene per caso... Io non sono d'accordo ma attendo che sia la Scienza a spiegarmelo. La cellula tumorale nasce nel momento in cui questa "pagina" contiene talmente tanti errori che non è più leggibile e la cellula continua ad esistere ed a moltiplicarsi, creando una massa tumorale, producendo proteine non funzionali all'organismo, anzi....
Ora, dove si collocano coscienza e conoscenza in questo processo? Li posso attribuire al singolo mattone della vita quale è una cellula? In un organismo più complesso come è l'essere umano mi è forse, ripeto forse, più semplice dato che ne abbiamo un'accezione immediata e quotidiana ma se torno indietro verso organismi più semplici, da cui comunque originiamo, fino alla singola cellula (organismo tutt'altro che semplice) risulta più complesso.
Posso dire che ad un certo punto la singola cellula si è dotata autonomamente di quella pagina che descrive il processo, lungo e complesso, in cui si descrive l'apoptosi? Oppure è stato qualcuno/qualcosa di esterno alla singola cellula che l'ha scritta? E' questa una forma di coscienza nel momento in cui tale pagina si è resa indispensabile per far si che l'organismo di cui fa parte quella cellula abbia un beneficio dalla sua morte? Direi che è un'accezione del termine coscienza che come minimo esce dalla quotidianità ed abbiamo difficoltà ad accettarla non riconoscendo alla cellula, di norma, una res cogitans.
E posso dire che l'acquisizione di questa "pagina" diventa una forma arricchita di conoscenza? Verrebbe spontaneo dire di si. Sarebbe comunque una conoscenza parziale, e quindi non del tutto funzionale, dato che l'organismo non ne possiede alcuna riguardo l'eventuale mancato funzionamento del processo di apoptosi, con tutte le conseguenze che purtroppo conosciamo.
Da credente ritengo che la perfezione di Dio, lo nomino, si manifesta nell'imperfezione del suo creato.
Può apparire un controsenso dato che per definizione classica un essere perfetto non è manchevole di nulla e non può produrre un qualcosa di imperfetto. E' quindi l'imperfezione che da luogo al divenire e quindi alla vita così come la conosciamo, con tutto ciò che ne consegue.
Al solito ho scritto un romanzo....e spero di non essermi parlato addosso.

iano

#160
Citazione di: Bruno P il 23 Ottobre 2024, 08:25:53 AMPosso dire che ad un certo punto la singola cellula si è dotata autonomamente
Intanto mi pare che concordiamo sul fatto che qualunque essere vivente possegga coscienza, seppur in diverso grado, per cui di fatto la coscienza distingue ciò che è vivo da ciò che non lo è.
Se ipotizzando ciò non abbiamo spiegato cosa è la coscienza o cosa è la vita, abbiamo comunque ridotto una cosa all'altra, semplificando l'apparente complessità.
Un ulteriore semplificazione potrebbe essere l'assimilare la struttura materiale dell'essere vivente alla sua conoscenza.
Queste sono solo ipotesi, in quanto non necessarie, che siamo liberi di assumere.
Non solo non sono necessarie, ma potremmo assimilare la loro assunzione alla casualità.
Nel momento in cui le ipotesi si mostrano però adatte a spiegare la realtà, esse diventano conoscenza che si fissa in memoria, e acquisire memoria significa modificare in modo relativamente permanente la propria struttura.

Ho fatto fin qui esempi di cose che pur percepite come autonome possono rivelarsi solo modi diversi di vedere la stessa cosa.
Cartesio ha dimostrato di fatto che i diversi modi in cui ci appare la realtà, come forma o come quantità, possono essere ridotti l'uno a l'altro, e che non sono quindi costituenti distinti della realtà, ma la stessa realtà che si manifesta in diversi modi, e questa diversa apparenza potrebbe essere funzione del diverso modo in cui vi interagiamo.

Le ipotesi a priori vanno tutte bene, tanto che potremmo produrre ipotesi a caso, perchè la loro assunzione non và necessariamente motivata,  non dovendosi spiegare ciò che spiega.
L'unica cosa che dobbiamo curare è che le ipotesi assunte non siano fra loro contraddittorie, per cui se effettivamente potrà essere libera la prima le altre saranno condizionate.
Partendo dalle ipotesi costruisco teorie che non devono necessariamente concordare, se diverse son le ipotesi a cui sottostanno.
E' prevedibile quindi che teorie che contengano Dio come ipotesi, e altre che non lo contengono, possano divergere fra loro.
L'ipotesi di Dio è in se problematica perchè non sembra essere propriamente una libera assunzione, perchè se lo fosse non ci sarebbe necessità di parlare di fede in Dio.
Possiamo in effetti porre fede in assunzioni diverse da Dio.
Ma porre fede nelle proprie ipotesi prelude a una identificazione delle nostre teorie con la realtà, per cui noi non ci stiamo limitando a voler descrivere la realtà, ma cerchiamo descrizioni che ''coincidano'' con essa.
Vogliamo cioè che le parole si facciano realtà, ciò che io attribuisco al pensiero magico.
Il pensiero magico non è da prendere sottogamba, perchè nasce da una pressante necessità. Grazie ad esso, come per magia, noi viviamo in un mondo che ci appare nella sua evidenza, come fosse ovvio, e non una magia, che aprendo gli occhi esso debba apparirci in modo immediato.
Questo è il  mondo/modo in cui noi abbiamo vissuto la realtà, ma se il nostro mondo/teoria non coincide con la realtà, esso non è l'unico modo in cui possiamo viverla. Nel nostro vecchio mondo c'era Dio, perchè tutti vi credevano, quindi di fatto esisteva. Nel prossimo chissà....
In ogni caso perchè la nostra conoscenza della realtà possa identificarsi con essa ci vuole fede, ed essere capaci di credere è ciò che finora ci ha caratterizzati.
Noi siamo ''strutturati'' per porre fede in ciò che vediamo, per cui la realtà ci appare come fatta di cose in se, come se  la realtà potesse davvero dipendere da ciò che a noi appare.
Questa ''realtà'' viene sempre più sottoposta acritica, segno che sta cambiando la nostra struttura.
Cioè avviene ogni volta che la struttura viene esplicitata, quando la conoscenza si fa coscienza.
Poi magari questa realtà di cui parlo, nel diverso significato che gli do, e che si può indurre dal contesto, è un diverso nome che do a Dio.
E' la giustificazione di ogni cosa con cui abbiamo anche fare, data a priori, già però non nasce in me da una fede, ma da una necessità razionale.
Ma alla fine non cambia molto, perchè comunque la mettiamo un punto da cui partire ci vuole, e le ipotesi su cui si esercita la ragione non hanno nulla di razionale.
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iano

#161
La struttura/conoscenza, una volta esternata, può essere delegata a macchine prive di coscienza, se conoscenza e coscienza non si equivalgono, e da ciò derivo l'idea che conoscenza è struttura, perchè l'informazione che contiene una macchina coincide con la sua struttura.
Qualcuno vede nel software una analogia con l'anima, ma è un abbaglio.
Possiamo infatti idealmente isolare parti strutturali nominandole diversamente al fine di descrivere la macchina, ma una sua parte non coincide neanche analogicamente con l'anima, se la descrizione della macchina non coincide con la macchina.
Esternandoci cambiamo, e in diminuzione se deleghiamo parte di noi alle macchine, a meno che non vorremo considerare ciò che esterniamo ancora parte di noi, ammettendo una struttura diffusa.
Io sono fatto di cose che comunicano fra loro, e l'unità fisica dipende più dai limiti della comunicazione.
Due particelle entengled poste agli estremi dell'universo possiamo considerarle ancora un unità comunicativa, se lo spazio posto fra essi non si pone come limite alla loro comunicazione. Se le cose sono distinte, lo spazio è la loro distinzione, e se invece non sono distinte di che spazio si parla?
Se nell'universo non esistono cose non suscettibili di essere relazionate, allora la natura dell'universo non è l'essere fato di cose spaziate fra loro.
Le cose non esistono in mancanza di una relazione, o seppure esistessero, non relazionandosi non potrebbero essere rilevate.
L'universo non si espande, ma muta, e questa mutazione può essere descritta come espansione. Espansione come di cose che si allontanano fra loro, come se queste cose non fossero a loro volta un modo di descrivere l'universo.
Se poniamo ugualmente fede alle diverse descrizioni dell'universo, ad ognuna delle quali corrisponde un diverso mondo, questi mondi non potranno che scontrarsi fra loro prima o poi.
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Bruno P

Citazione di: iano il 23 Ottobre 2024, 14:29:18 PMIntanto mi pare che concordiamo sul fatto che qualunque essere vivente possegga coscienza, seppur in diverso grado, per cui di fatto la coscienza distingue ciò che è vivo da ciò che non lo è.
Non ne ho certezza. Per coscienza intendo sicuramente una forma di vita, perché a quanto è inanimato è ben difficile attribuire questa capacità, capace di distinguere tra il Sé e il non-Sé, anche rispettando il principio di non contraddizione.
Infatti nel mio scritto ponevo un punto di domanda e una seconda ipotesi. Se non vi è questa capacità discriminatoria allora il problema non si pone. Se invece sussiste questa mi chiedo se la coscienza è immanente alla forma di vita o è esterna ad essa. Sono cose diverse.
Citazione di: iano il 23 Ottobre 2024, 14:29:18 PMUn ulteriore semplificazione potrebbe essere l'assimilare la struttura materiale dell'essere vivente alla sua conoscenza.
Concordi in pratica con la Teoria di Santiago secondo la quale, in pratica, anima e corpo coincidono. Come dire "se sono fatto così è grazie alla mia conoscenza e viceversa". Come ho già avuto modo di dire non sono d'accordo con questa teoria.
Citazione di: iano il 23 Ottobre 2024, 14:29:18 PMQueste sono solo ipotesi
Certo, rimangono ipotesi sulla base delle quali poi si formulano delle teorie che, se non autospeculative, hanno come unico scopo quello di descrivere al meglio il mondo osservato....con tutte le tare che si portano dietro ad iniziare dal principio di indeterminazione e dalla fallibilità dell'osservatore. Nell'esempio però che ho voluto citare credo di essere andato al cuore del "problema" ovverosia se e dove risiede la coscienza una volta data una definizione spero condivisibile del costrutto (e mi richiamo all'esempio della sedia).
Citazione di: iano il 23 Ottobre 2024, 14:29:18 PML'ipotesi di Dio è in se problematica perchè non sembra essere propriamente una libera assunzione
Verissimo. Non possiamo infatti dimenticare che nella nostra cultura, quella "occidentale" che affonda le proprie radici nell'antica Grecia, in cui tra la visione apollinea e quella dionisiaca ha prevalso la prima, sia stata scolpita dal Cristianesimo di fronte al quale, al massimo, si è proceduto solo a negarlo diventando atei.
 Attenzione però: in un procedimento "scientifico" o quanto meno che si affida alla ragione, di cui siamo indubitabilmente dotati, richiamare Dio, la cui immanenza in tutto è giustificata solo ed esclusivamente dalla Fede, è una scappatoia in cui io stesso cado quando pongo al di fuori dell'essere vivente la coscienza (a differenza della conoscenza che è l'individuo che se la costruisce nel suo cammino vitale). Certo è che una possibile spiegazione, una tra le ipotesi possibili, me la do per non rimanere in un vortice privo di alcun significato.
Citazione di: iano il 23 Ottobre 2024, 14:29:18 PMMa porre fede nelle proprie ipotesi prelude a una identificazione delle nostre teorie con la realtà, per cui noi non ci stiamo limitando a voler descrivere la realtà, ma cerchiamo descrizioni che ''coincidano'' con essa.
Vogliamo cioè che le parole si facciano realtà, ciò che io attribuisco al pensiero magico.
Lasciami dire che voler forzare le proprie teorie, sia pur basate su ipotesi valide, alla realtà osservata è un esercizio perfettamente inutile. La teoria se è valida me la tengo, altrimenti la scarto. E se è valida cerco, come asseriva Popper, di falsificarla per conferirle ulteriore validità nel momento in cui, ad ogni osservazione - esperimento, viene confermata. Magari poi verrà successivamente falsificata da una nuova teoria. Ad esempio, se lascio cadere un oggetto dal mio tavolo ho confermato un'altra volta la teoria newtoniana; poi è intervenuta la teoria di Einstein che l'ha soppiantata. Ma fino all'avvento di Einstein la teoria newtoniana era sufficiente per descrivere la realtà quotidiana immediatamente tangibile.
La magia non appartiene invece alla visione "scientifica", dettata dalla ragione, che è quella che è stata rifiutata dai primi filosofi quando, per cercare di spiegare il mondo, hanno rifiutato il mito che era fattualmente una forma di fede.
Citazione di: iano il 23 Ottobre 2024, 14:29:18 PMIn ogni caso perchè la nostra conoscenza della realtà possa identificarsi con essa ci vuole fede, ed essere capaci di credere è ciò che finora ci ha caratterizzati.
Qui non sono d'accordo con te. Ritengo infatti che affinché la nostra conoscenza si approssimi al meglio alla realtà osservata necessiti razionalità piuttosto che fede. E ciò richiede la capacità di abbandonare il paradigma che viene superato da quello nuovo che meglio la spiega: abbandonare Newton per abbracciare Einstein. E' una conoscenza a posteriori (l'Empirismo della scuola britannica) mentre la fede è una credenza (non una conoscenza) a priori (da non confondere assolutamente con il Razionalismo di scuola tedesca)
Citazione di: iano il 23 Ottobre 2024, 14:29:18 PMNoi siamo ''strutturati'' per porre fede in ciò che vediamo, per cui la realtà ci appare come fatta di cose in se, come se  la realtà potesse davvero dipendere da ciò che a noi appare.
E' l'atteggiamento del Realismo che nega, magari parzialmente, quanto affermato fin da Cartesio. Qualche secolo dopo il Cognitivismo ha dimostrato come la realtà fenomenica permei il pensiero umano e si concretizzi nel percetto. Ignorare ciò significa ignorare come funziona il cervello.
Citazione di: iano il 23 Ottobre 2024, 15:21:27 PMLa struttura/conoscenza, una volta esternata, può essere delegata a macchine prive di coscienza, se conoscenza e coscienza non si equivalgono, e da ciò derivo l'idea che conoscenza è struttura, perchè l'informazione che contiene una macchina coincide con la sua struttura.
Concordo appieno con te dato che coscienza e conoscenza non si equivalgono e rimangono distinte.
Considerando il PC su cui sto scrivendo posso affermare con un buon grado di certezza che esso non possiede coscienza (per come l'ho definita). In tal senso le "macchine" sono e rimangono uno strumento, un prolungamento delle facoltà umane che lo aiutano in un determinato compito, nulla più di un cacciavite.
Ed anche le macchine costruite basandosi sulle reti neurali, in ultima analisi, rimangono tali dato che in esse viene aumentata la capacità di autoapprendimento e quindi di conoscenza. Se conoscere l'1 e poi conosce il 2 e poi ancora è in grado di dire che 1 + 2 = 3 non significa avere coscienza. Da qui a Matrix ce ne vuole......

iano

#163
''Considerando il PC su cui sto scrivendo posso affermare con un buon grado di certezza che esso non possiede coscienza (per come l'ho definita). In tal senso le "macchine" sono e rimangono uno strumento, un prolungamento delle facoltà umane che lo aiutano in un determinato compito, nulla più di un cacciavite.''

Ribaltando questo tuo punto di vista, può essere interessante provare a considerare il cacciavite come nulla di più della mano che lo impugna.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

iano

#164
Citazione di: Bruno P il 24 Ottobre 2024, 09:00:24 AMNon ne ho certezza. Per coscienza intendo sicuramente una forma di vita, perché a quanto è inanimato è ben difficile attribuire questa capacità, capace di distinguere tra il Sé e il non-Sé, anche rispettando il principio di non contraddizione.
Infatti nel mio scritto ponevo un punto di domanda e una seconda ipotesi. Se non vi è questa capacità discriminatoria allora il problema non si pone. Se invece sussiste questa mi chiedo se la coscienza è immanente alla forma di vita o è esterna ad essa. Sono cose diverse.

Come fa l'essere vivente a distinguere il Sé dal non Sé?
Credo si tratti della percezione di ciò che da me non posso escludere, perchè non manipolabile. La coscienza di una coscienza non omnicomprensiva. Il sapere di non sapere.
Per contro tendiamo ad escludere tutto ciò che è manipolabile, come ad esempio un cacciavite.
Sembra trattarsi più di un limite accidentale che di una necessità logica.
Secondo questa logica ciò che riuscirò in seguito a manipolare del Sé, da esso allora lo escluderò, posto che per ignoranza non distinguo il Sé dall'Io, ma spero si sia compreso ugualmente il senso di ciò che voglio dire.
Possiamo però anche non ridurre il Sé alla percezione che ne abbiamo, includendovi tutto ciò che siamo capaci di manipolare, come ad esempio un cacciavite, o una teoria scientifica della gravitazione, la quale ultima avrebbe perciò la stessa universalità di un cacciavite.
Se progetto un nuovo cacciavite il mio scopo non è giungere al cacciavite perfetto, perchè ogni cacciavite è perfetto limitatamente a ciò che posso farci.
Non progetto un nuovo cacciavite per superare i limiti del vecchio, ma per farci qualcosa di diverso, per quanto analogo a ciò che già facevo col vecchio.

Non considerei tanto una coscienza esterna, ma una coscienza del Sé espandibile trascendendo la percezione che ne abbiamo.



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