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Il coraggio

Aperto da cvc, 17 Maggio 2017, 11:00:12 AM

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cvc

L'immagine stereotipata del coraggio che si ricava dalle rappresentazioni cinematografiche o letterarie è quella del soggetto che compie imprese eroiche affrontando il pericolo a testa bassa, con impeto rabbioso o furioso, oppure addirittura impassibile, con totale autocontrollo. Mi vengono in mente gli eroi dei colossal anni '50, Rambo che si cuce diligentemente la ferita, l'epico duello sulla teleferica di "Dove osano le aquile", lo sguardo truce di Jhon Wayne e altre scene del genere. Ma anche i poemi epici della cultura classica, fatta di eroi che erano impersonificazioni dell'audacia, tanto suggestivi da influenzare poi personaggi storici reali come Alessandro Magno. O le leggende come quelle di Muzio Scevola che per impressionare l'etrusco Porsenna "rimase immobile a guardare la sua mano destra cadere a gocce sul bracere del nemico, e non ritrasse la mano – oramai ridotta alle nude ossa – finchè il nemico non gli tolse il fuoco..... e si può vedere come sia più pronto il valore ad affrontare il pericolo che la crudeltà ad infliggere pene..." (Seneca). E gli spartani che in trecento si sacrificarono alle Termopili per impedire il passaggio ai persiani.

Però, il coraggio è questo? L'ardore dell'eroe che si distingue dalla massa e che si sacrifica per essa? Si potrebbe intanto osservare che l'eroe agisce non solo per spirito di sacrificio ma anche per ragioni proprie, per sete di gloria. Difatti Plutarco scrive di Cesare che non stupiva il modo in cui metteva a repentaglio la vita se si pensa alla sua brama di gloria. Ma, al di là della gloria, credo che la spinta più nobile del coraggio sia quella del senso del dovere, il sentire di dovere fare una certa cosa anche se ci terrorizza, il "farsela sotto" eppure farlo lo stesso, senza preoccuparsi che gli altri pensino di te che sei un eroe o che non ti preoccupi di nascondere le paura. Lessi da qualche parte che il coraggio non è assenza di paura, ma agire in presenza di paura. E forse è proprio così.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Marco264

Ciao, leggo con grande interesse questo tuo intervento sul coraggio. E' la prima volta che scrivo in questo forum e per questo motivo innanzitutto ti saluto e mi presento, sono Marco  :) .

Andando al sodo, le tue parole mi hanno portato alla mente il Lachete di Platone; là dove il buon Socrate chiede al generale ateniese suo interlocutore il ti esti (che cos'è, essenza) del coraggio e costui, dopo una prima risposta (Coraggio=non retrocedere dinnanzi al nemico) confutata da Socrate, afferma che il coraggio è una sorta di forza d'animo. Se ho ben compreso il tuo intervento, mi sembra di scorgere una sorta di allineamento finale verso questa posizione laddove assimili il coraggio al senso del dovere; e quindi mi viene spontaneo avanzarti la socratica domanda se il coraggio deve o non deve essere accompagnato da assennatezza? Leggendo con interesse (da amante del mondo antico) gli esempi storici riportati, per questo mi preme chiederti: non ritieni che il coraggio, il quale si manifesta nei personaggi "nascosti" e virtuosi del mito (quali il citato Muzio), negli uomini della storia risulti presente in quanto dote di natura, per una sorta di istinto naturale potremmo dire, e non per conoscenza? E per questo risulti limitato ed indirizzato esclusivamente al sé e non alla collettività, per la quale Muzio si dilaniò oppure Orazio si sacrificò: penso a Cesare, indubbiamente impavido uomo d'arme, tuttavia con la sua insaziabile sete di gloria fu artefice del disgregamento finale della res publica romana oppure Alessandro che con tutte le sue conquiste in Oriente fu causa della dissoluzione del mondo ellenico antico? 

Inoltre, e con questa domanda chiudo il mio intervento, ritieni che chi è coraggioso debba avere consapevolezza di essere coraggioso?

cvc

Citazione di: Marco264 il 18 Maggio 2017, 15:55:04 PM
Ciao, leggo con grande interesse questo tuo intervento sul coraggio. E' la prima volta che scrivo in questo forum e per questo motivo innanzitutto ti saluto e mi presento, sono Marco  :) .

Andando al sodo, le tue parole mi hanno portato alla mente il Lachete di Platone; là dove il buon Socrate chiede al generale ateniese suo interlocutore il ti esti (che cos'è, essenza) del coraggio e costui, dopo una prima risposta (Coraggio=non retrocedere dinnanzi al nemico) confutata da Socrate, afferma che il coraggio è una sorta di forza d'animo. Se ho ben compreso il tuo intervento, mi sembra di scorgere una sorta di allineamento finale verso questa posizione laddove assimili il coraggio al senso del dovere; e quindi mi viene spontaneo avanzarti la socratica domanda se il coraggio deve o non deve essere accompagnato da assennatezza? Leggendo con interesse (da amante del mondo antico) gli esempi storici riportati, per questo mi preme chiederti: non ritieni che il coraggio, il quale si manifesta nei personaggi "nascosti" e virtuosi del mito (quali il citato Muzio), negli uomini della storia risulti presente in quanto dote di natura, per una sorta di istinto naturale potremmo dire, e non per conoscenza? E per questo risulti limitato ed indirizzato esclusivamente al sé e non alla collettività, per la quale Muzio si dilaniò oppure Orazio si sacrificò: penso a Cesare, indubbiamente impavido uomo d'arme, tuttavia con la sua insaziabile sete di gloria fu artefice del disgregamento finale della res publica romana oppure Alessandro che con tutte le sue conquiste in Oriente fu causa della dissoluzione del mondo ellenico antico?

Inoltre, e con questa domanda chiudo il mio intervento, ritieni che chi è coraggioso debba avere consapevolezza di essere coraggioso?
Ciao Marco, piacere di conoscerti e benvenuto.
Il Lachete è il dialogo di Platone in cui Socrate disserta sul coraggio dove però mi pare, come del resto è nel suo stile, non giunga ad una conclusione definitiva. Socraticamente il coraggio è una virtù, e la virtù è il bene. Però per Socrate il bene deriva dalla conoscenza. Nel caso del coraggio bisogna conoscere ciò che è da temere e ciò che non è da temere, e l'unica cosa che realmente è da temere, per Socrate e per gli stoici, è la perdita dell'autocontrollo, della ragione. Quindi il coraggio in senso socratico è forse questione più intellettuale che di volontà.
Sul coraggio come istinto trovo interessante ciò che dice al proposito Clausewitz, secondo il quale paura e coraggio sono entrambi istinti. La paura è volta alla conservazione fisica, il coraggio alla conservazione morale, quindi è più nobile. Lo stesso Clausewitz, agganciandomi a ciò che hai scritto riguardo ad Alessandro e Cesare, dice che la sete di gloria – massimo propulsore del coraggio – è anche stata la causa di alcuni dei peggiori abusi contro il genere umano. Alessandro e Cesare ne sanno qualcosa.
Nella chiusura del mio primo post io parlavo più di consapevolezza della paura che di consapevolezza del coraggio. Nel senso che se ci si sente coraggiosi non si avverte la paura, anzi è l'assenza stessa della paura che noi di solito associamo al coraggio. Ma tale consapevolezza del coraggio potrebbe in realtà essere inconsapevolezza della paura. Perciò sono incline a pensare che il vero coraggio ci sia quando si agisce sentendo la paura.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Marco264

Citazione di: cvc il 18 Maggio 2017, 18:53:11 PM
Citazione di: Marco264 il 18 Maggio 2017, 15:55:04 PMCiao, leggo con grande interesse questo tuo intervento sul coraggio. E' la prima volta che scrivo in questo forum e per questo motivo innanzitutto ti saluto e mi presento, sono Marco :) . Andando al sodo, le tue parole mi hanno portato alla mente il Lachete di Platone; là dove il buon Socrate chiede al generale ateniese suo interlocutore il ti esti (che cos'è, essenza) del coraggio e costui, dopo una prima risposta (Coraggio=non retrocedere dinnanzi al nemico) confutata da Socrate, afferma che il coraggio è una sorta di forza d'animo. Se ho ben compreso il tuo intervento, mi sembra di scorgere una sorta di allineamento finale verso questa posizione laddove assimili il coraggio al senso del dovere; e quindi mi viene spontaneo avanzarti la socratica domanda se il coraggio deve o non deve essere accompagnato da assennatezza? Leggendo con interesse (da amante del mondo antico) gli esempi storici riportati, per questo mi preme chiederti: non ritieni che il coraggio, il quale si manifesta nei personaggi "nascosti" e virtuosi del mito (quali il citato Muzio), negli uomini della storia risulti presente in quanto dote di natura, per una sorta di istinto naturale potremmo dire, e non per conoscenza? E per questo risulti limitato ed indirizzato esclusivamente al sé e non alla collettività, per la quale Muzio si dilaniò oppure Orazio si sacrificò: penso a Cesare, indubbiamente impavido uomo d'arme, tuttavia con la sua insaziabile sete di gloria fu artefice del disgregamento finale della res publica romana oppure Alessandro che con tutte le sue conquiste in Oriente fu causa della dissoluzione del mondo ellenico antico? Inoltre, e con questa domanda chiudo il mio intervento, ritieni che chi è coraggioso debba avere consapevolezza di essere coraggioso?
Ciao Marco, piacere di conoscerti e benvenuto. Il Lachete è il dialogo di Platone in cui Socrate disserta sul coraggio dove però mi pare, come del resto è nel suo stile, non giunga ad una conclusione definitiva. Socraticamente il coraggio è una virtù, e la virtù è il bene. Però per Socrate il bene deriva dalla conoscenza. Nel caso del coraggio bisogna conoscere ciò che è da temere e ciò che non è da temere, e l'unica cosa che realmente è da temere, per Socrate e per gli stoici, è la perdita dell'autocontrollo, della ragione. Quindi il coraggio in senso socratico è forse questione più intellettuale che di volontà. Sul coraggio come istinto trovo interessante ciò che dice al proposito Clausewitz, secondo il quale paura e coraggio sono entrambi istinti. La paura è volta alla conservazione fisica, il coraggio alla conservazione morale, quindi è più nobile. Lo stesso Clausewitz, agganciandomi a ciò che hai scritto riguardo ad Alessandro e Cesare, dice che la sete di gloria – massimo propulsore del coraggio – è anche stata la causa di alcuni dei peggiori abusi contro il genere umano. Alessandro e Cesare ne sanno qualcosa. Nella chiusura del mio primo post io parlavo più di consapevolezza della paura che di consapevolezza del coraggio. Nel senso che se ci si sente coraggiosi non si avverte la paura, anzi è l'assenza stessa della paura che noi di solito associamo al coraggio. Ma tale consapevolezza del coraggio potrebbe in realtà essere inconsapevolezza della paura. Perciò sono incline a pensare che il vero coraggio ci sia quando si agisce sentendo la paura.

Risposta molto interessante, per questo mi chiedo: laddove vi è consapevolezza si trova anche naturalezza nell'atto? Pensiamo un po' quando andiamo a visitare qualche città e quindi ci spostiamo da un luogo all'altro; qualora in noi emerga la consapevolezza del camminare non pensi che l'atto stesso del camminare risulti "ostacolato"? In quel preciso momento non ci accorgeremo di quanta strada abbiamo già percorso, di quanta ancora ne avremo da percorrere e, se prima di quel momento camminavamo spediti e tranquilli, ora non ci troviamo leggermente ostacolati da questi pensieri? Le soste saranno sempre più frequenti, fino a che non ci fermeremo spossati a trascorrere il resto del pomeriggio in un bar o per fare pochi km andremo a prendere la metropolitana?

Inoltre, sentire/percepire la paura come molla per essere coraggiosi non ridurrebbe il coraggio a una forma di schiavitù? Nel timore di oriento le mie azioni in un dato modo, ragion per cui se temo un uomo tre volte trionfatore per questo alla prima bischerata (la migrazione di un popolo poco "accorto") invado un'intera regione. Se temo che deponendo le armi tornerei alla condizione di cittadino privato rimanendo così per sempre inferiore a quell'uomo che, tanto utile mi è stato in passato quanto pesante è nei miei pensieri, allora mi spingo a commettere un gesto iniquo, assalendo la mia stessa patria?  

Non capisco quando definisci il coraggio in senso socratico come una questione più intellettuale che di volontà, che differenza intercorre tra ragione e volontà? L'intellettualismo socratico (così possiamo definire l'intero intellettualismo ellenico, che ha in Socrate la figura di spicco, e da qui filtra attraverso gli Stoici che giustamente citi e i Cinici principalmente) altro non consiste se non in un volere, un volere il proprio bene e questo può essere colto dalla ragione. Ragione che ci permette di comprendere che cosa dipende da noi e che cosa non dipende da noi, e le prime sono cose veramente nostre le altre estranee. Una volta saputo ciò, non possiamo non volere quelle cose di cui nessuno potrà mai privarci.

Esatto il Lachete è un dialogo aporetico, e qui ne approfitto (per piacere di dialogo) per chiederti: come valuti l'aporia socratico-platonica? Sarebbe bello confrontare su questo punto due pensieri.

Scusami per la batterie di domande, ma il bello del Filosofare è il dialogare.

cvc

Cero il bello del filosofare è dialogare, ma le mie risposte alle tue domande sono frutto di mie impressioni e non hanno nessuna pretesa di porsi come un sapere incontrovertibile che un astuto e ironico Socrate potrebbe, a forza di domandare, facilmente mettere in crisi.
Tocchi temi che mi stano molto a cuore, quindi risponderti è piacevole oltre che un utile esercizio di tornare su temi che molto spesso hanno occupato i miei pensieri.
Sulla consapevolezza credo che ne esistano diversi gradi, ma credo che l'ostacolo sia più nell'inconsapevolezza che nel rendersi conto delle cose. Francamente non capisco perchè credi che il consapevolizzare possa essere un ostacolo. A meno che la consapevolezza diventi ossessione, in quel caso allora sì.
Anche nel secondo paragrafo non sono sicuro di comprenderti del tutto, ma credo che accettare la paura sia un atto di coraggio quando, volendo accettare le cose come sono, si abbassano tutte quelle barriere che solitamente usiamo per renderci inconsapevoli di fronte alla paura, la cosiddetta sicumera.
Fra ragione e volontà c'è una gran differenza che richiederebbe ben più ampi approfondimenti. Socrate e gli stoici tentano di sottoporre tutto alla ragione, ma la vita ci impone di agire anche quando abbiamo le idee confuse. Allora dobbiamo affidarci più ai sentimenti che alle convinzioni razionali.
La distinzione fra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende da noi è il grande principio stoico da cui deriva la condizione morale dell'individuo, pilastro di tale filosofia. Dedicarsi a ciò che dipende da noi e ignorare il resto significa conquistare la libertà, la virtù, la felicità. Significa essere costantemente concentrati sul proprio stato d'animo, esaminare costantemente i propri desideri e le proprie paure. Ciò risulta difficile (anche se non impossibile, forse) da applicare sempre nella vita quotidiana, quindi a volte meglio affidarsi al sentimento della ragione più che alla ragione in sè.
Non so se sono stato chiaro ma purtroppo in questo momento ho poco tempo, la parte sull'aporia socratico-platonica la rimandiamo


Ciao
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Marco264

Giusto, seguire l'intuizione personale è la chiave del filosofare quindi mi trovi perfettamente d'accordo su questo punto. Se alle proprie si aggiungono le domande di altri allora insieme si

In merito all'essere consapevoli, molto semplicemente, pensa a questo momento in cui stai leggendo le mie parole: senti di avere consapevolezza di leggere nel momento stesso in cui leggi? E Quando aggrotterai le sopracciglia? Per ostacolo intendo che l'atto risulta meno "naturale" di quello che potrebbe essere, ciò a discapito della spontaneità perché in seguito interviene il calcolo, la premeditazione delle azioni. Pensa, se alla festa dei Lupercalia un mio fidato generale (con il popolo che mormora, brontola ed è preoccupato delle mie malcelate ambizioni di gloria e potere) mi getta sul capo (come se fosse una cosa da nulla) una corona; e io la ripudio pubblicamente come a dire "guardate, io, Cesare, non voglio diventare vostro re" poi negli atti dimostro tutto il contrario (tengo la dittatura a vita, mi crogiolo sul mio trono d'oro dinnanzi al tempio di Venere Genitrice e non mi alzo quando i senatori vengono a porgere i loro saluti) non sarebbe studiato quel mio gesto, di cui ho piena consapevolezza, non naturale e non virtuoso?mi piacerebbe sapere cosa ne pensi al riguardo.

Rimandiamo l'indagine intorno al rapporto tra ragione e volontà, insieme all'aporia socratico-platonica ad un altro momento per adesso :)

cvc

Citazione di: Marco264 il 19 Maggio 2017, 19:06:43 PM
Giusto, seguire l'intuizione personale è la chiave del filosofare quindi mi trovi perfettamente d'accordo su questo punto. Se alle proprie si aggiungono le domande di altri allora insieme si

In merito all'essere consapevoli, molto semplicemente, pensa a questo momento in cui stai leggendo le mie parole: senti di avere consapevolezza di leggere nel momento stesso in cui leggi? E Quando aggrotterai le sopracciglia? Per ostacolo intendo che l'atto risulta meno "naturale" di quello che potrebbe essere, ciò a discapito della spontaneità perché in seguito interviene il calcolo, la premeditazione delle azioni. Pensa, se alla festa dei Lupercalia un mio fidato generale (con il popolo che mormora, brontola ed è preoccupato delle mie malcelate ambizioni di gloria e potere) mi getta sul capo (come se fosse una cosa da nulla) una corona; e io la ripudio pubblicamente come a dire "guardate, io, Cesare, non voglio diventare vostro re" poi negli atti dimostro tutto il contrario (tengo la dittatura a vita, mi crogiolo sul mio trono d'oro dinnanzi al tempio di Venere Genitrice e non mi alzo quando i senatori vengono a porgere i loro saluti) non sarebbe studiato quel mio gesto, di cui ho piena consapevolezza, non naturale e non virtuoso?mi piacerebbe sapere cosa ne pensi al riguardo.

Rimandiamo l'indagine intorno al rapporto tra ragione e volontà, insieme all'aporia socratico-platonica ad un altro momento per adesso :)
Nonostante abbiamo del terreno comune non riesco a seguirti in questa tua visione della consapevolezza come di un limite. Secondo me la consapevolezza non è affatto causa di non spontaneità, non è affatto premeditazione. È essere concentrati qui e ora. Non è che perché sono consapevole di una situazione divento un freddo calcolatore. Uno può anche diventare consapevole dei propri sentimenti e proprio grazie a tale consapevolezza può appunto esprimerli liberamente.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Ingordigia

Se penso al coraggio,  sono due gli esempi lampanti che mi giungono in mente.
Il primo è incastonato nella scena del primo combattimento del film "L'ultimo samurai"; il secondo
è rappresentato dalla lettura che Kierkegaard propone dell'episodio biblico di Abramo.
Entrambi gli esempi sono legati da un filo solidissimo.

Noi umani possiamo vivere e morire in nome di un ideale.
Se non ciò non fosse già abbastanza , sottilineo che quell'ideale possiamo crearcelo.

A questo proposito ritengo il coraggio , come la pulsione che ci sostiene nel vivere per l'ideale che abbiamo scelto, anche di fronte
a sconfitta certa.

sgiombo

#8
Citazione«Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi»
                                                                       (Brecht)

Va beh, é solo per suggerire eventualmente altre riflessioni.  

Quello che ho letto in questa discussione mi induce a dire che fra coraggio/pavidità da una parte ed egoismo/generosità dall' altra non vi é necessaria connessione.

Si può essere coraggiosi per egoistico amore di gloria (Cesare?) e coraggiosi per amore del prossimo (il bagnante che sui tuffa nel mare in tempesta per salvare chi sta annegando, a rischio di perire al suo posto o insieme a lui; questo solitamente si chiama "eroismo").

E si può essere avidi di gloria e pavidi codardi (Benito Mussolini che dopo aver proclamato: "Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se muoio vendicatemi" cercò di salvare la pellaccia fuggendo travestito da soldato tedesco).

                                                           

epicurus

Il significato principale del termine "coraggio", dalla Treccani:

Forza d'animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell'affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio.
 
Una persona è consapevole che compiendo una particolare azione si mette in pericolo ma la compie ugualmente: questo significa essere coraggiosi. Quindi un pazzo che non sa quello che fa non è coraggioso, una persona che fa qualcosa di pericoloso senza saperlo non è coraggioso. Si deve essere consapevoli del rischio e deve esserci una forza che lo spinga a non voler rischiare, forza che viene poi sopraffatta dalla forza d'animo.
 
Di contro, non importa la motivazione: è coraggioso chi agisce per nobili ideali, per biechi egoismi o anche spinto da semplice curiosità.