Il borghese (piccolo piccolo)

Aperto da acquario69, 16 Luglio 2016, 15:57:22 PM

Discussione precedente - Discussione successiva

acquario69

chi non l'ha visto questo gran bel film di monicelli,con la straordinaria interpretazione del grande alberto sordi?! :)

https://www.youtube.com/watch?v=RrlbQnDKcwg
https://www.youtube.com/watch?v=0XLnWPyXYNo

quello e' il film..
ora qualche definizione del borghese e la sua "scalata";

La formazione del mercato, resa possibile dallo smantellamento del sistema feudale, implica però la generalizzazione del sistema del valore di scambio, al cui interno l'individuo atomizzato è sempre più portato a guardare solo al proprio interesse privato.
(Pierre Rosanvallon)

Lo Stato nazionale si costruisce pertanto allo stesso ritmo del mercato, mentre la borghesia prosegue la sua ascesa;Individualismo e statalismo marciano di pari passo
Lo Stato non avrà pace fino a quando non avrà distrutto metodicamente tutte le forme intermediarie di socializzazione formatesi nel mondo feudale, le quali costituivano delle comunità naturali abbastanza importanti nella loro dimensione da essere relativamente autosufficienti: clan familiari, comunità di villaggio confraternite, mestieri, partiti, ecc.
(Durkheim)

Partecipando alla liberazione dell'individuo dalle sue forme precedenti di dipendenza e di solidarietà, esso sviluppa l'atomizzazione della società di cui ha bisogno per esistere
È stata l'azione congiunta dello Stato moderno e del mercato a consentire la grande frattura che ormai ci separa per sempre dalle società tradizionali, la comparsa di un tipo di società nella quale l'uomo individuale si prende per fine ultimo ed esiste solamente per se stesso
(Gilles Lipovetsky)

L'intera società feudale era ordinata sulla base della nozione di bene comune; i corpi e le corporazioni dovevano assumere il solenne impegno di sottomettersi alle sue esigenze. Il diritto di proprietà era riconosciuto non come un diritto in sé o come un diritto assoluto, ma per ragioni pratiche e contingenti (essendo le ricchezze gestite meglio da singoli che da collettività). Il calcolo economico non è dunque altro che un meno peggio. D'altro canto non si mira all'esattezza: « Quella che i conti debbano essere necessariamente esatti è un'idea specificamente moderna »
(Werner Sombart)

Il perseguimento del guadagno per il guadagno, illucrum in infinitum, la speculazione e il maneggio del denaro sono condannati come una passione vergognosa. Il Medioevo era severo verso l'acquisto e la rivendita con guadagno di una cosa il cui valore d'uso non è stato aumentato dal lavoro. Gli pareva che in tal caso il beneficio non fosse giustificato da alcun servizio reso dal venditore all'acquirente. A mano a mano che la borghesia si afferma, si assiste a questo riguardo ad un autentico rovesciamento di valori. Ormai la stima numerica è fondamentale . L'avidità di guadagno si trasforma in una virtù

L'attività economica cambia allora natura. Da empirica quale era, diventa razionalista. Doveva soddisfare gli scopi umani; adesso tocca all'uomo piegarsi alle sue leggi. Era essenzialmente un'economia della domanda e dell'uso,si trasforma in economia dell'offerta e dello scambio.

il commercio orientò, o almeno abituò a poco a poco lo spirito umano a orientarsi verso il giudizio quantitativo.Il mondo,ormai "disincantato", si trasforma in un oggetto di cui ci si può impadronire con l'attività ragionata. È ridotto ad una cosa riempita di cose, tutte valutabili e calcolabili. Cose che hanno un prezzo, ovvero un valore di scambio,il valore di scambio è una quantità, e il mercante si interessa soltanto della quantità
(Werner Sombart)

il borghese inventa l'idea secondo cui si è sulla terra per essere « felici » e questa idea ben presto sembrerà la più naturale del mondo Quanto alla felicità, essa viene concepita prima di tutto come un benessere materiale dipendente dalle condizioni esteriori, sulle quali, appunto, si può agire. Si sarà dunque più felici quando la società sarà "migliore". L'ideologia della felicità fa dunque il paio con quella del progresso, che le offre una giustificazione.

Il borghese, nel senso metafisico del termine, è un uomo che crede soltanto al mondo delle cose visibili e palpabili ed aspira ad occupare in tale mondo un posto sicuro e stabile.

Egli non si rende minimamente conto della vanità, della nullità dei beni di questo mondo. Prende sul serio esclusivamente la potenza economica
(Nikolai Berdjaev)

È il borghese a creare il regno delle cose, ma sono le cose a governarlo e dominarlo. In un mondo trasformato in oggetto, anche l'uomo diventa una cosa.
(Werner Sombart)

Ciò che significava decadenza per l'aristocratico diventa ideale per il borghese
(Evola)

Il borghese tiene alla considerazione, che implica di rispettare le convenzioni, più che alla gloria, che a volte si ottiene solo calpestando le regole. La qualità, di qui in avanti, sarà ridotta al merito.
"Il sublime è morto nella borghesia"
(Sorel)

Per il borghese vecchio stile occorre dunque sopprimere ogni spesa superflua. E per far questo, contare e contare senza fermarsi. Ma che cos'è il « superfluo »? ...Tutto!

quello che, appunto, non si lascia contare, tutto quello che non ha un'utilità calcolabile, tutto quello che non può essere ridotto a una valutazione in termini di vantaggio individuale, di redditività e di profitto.L'emergere della borghesia,la sua espansione e la sua vittoria finale marciano di pari passo con l'emersione, la propagazione e la vittoria finale di una nuova "idea", l'idea secondo cui la crescita illimitata della produzione e delle forze produttive è nei fatti lo scopo centrale della vita umana.
(Cornelius Castoriadis)

Nell'ottica borghese è l'inverso: si è solo ciò che si ha,la prova del valore è data dal successo materiale. E poiché quello che si ha deve lasciarsi valutare in una maniera imposta a tutti, il denaro diventa del tutto naturalmente il metro universale.

In sostanza, ciò che conta ormai è ciò che può essere contato.
Anche il tempo,infine, si trasforma in merce,che non bisogna sprecare si diffondeva la convinzione, proclamata da Franklin, che "il tempo è denaro"

Il borghese è l'uomo che ha perso il senso dell'Essere, che si muove solamente tra cose, e cose utilizzabili, destituite del loro mistero

Il borghese non è infatti agitato da preoccupazioni morali, quanto piuttosto dal moralismo,la sua adesione alla morale è concepita in un'ottica strumentale.
(Emmanuel Mounier)

maral

In queste definizioni (meno nel film) manca però la descrizione del tramonto già ampiamente accaduto della classe borghese, di quegli ideali (forse sogni) che avevano a riferimento la capacità fattiva dell'individuo, misurabile in una felicità la cui possibilità non poteva essere negata a nessuno. Una possibilità che tale è destinata a rimanere, se intesa come traguardo, ma che è continuamente vissuta se intesa come una continua e progressiva tensione a realizzarla, partendo dal proprio piccolo piccolo. Oggi ci ritroviamo in realtà sempre più gettati in un nuovo medioevo, un medioevo in cui la finanza globale ha assunto valenze teologiche, il denaro è diventato simbolo e feticcio del tutto astratto e autoreferente per poter assorbire in se stesso ogni significato e in cui elites dominanti sempre più ristrette godono di una ricchezza, di un potere, di un diritto di rapina e di vita e di morte sui popoli che nemmeno nei secoli più bui del feudalesimo fu consentito. Ormai quella che un tempo era stata la classe borghese si ritrova rigettata in una sorta di lumpenproletariat, che attende il lavoro come una grazia concessa dal Mercato e dai suoi magici disegni solo ai più meritevoli a servirlo, mentre è continuamente chiamata a consumare ciò che deve consumare e smaltire, come una sorta di tritarifiuti.
Non è vero che "il borghese inventa l'idea secondo cui si è sulla terra per essere « felici »", perché nessun essere umano, nemmeno il più convinto anacoreta, nemmeno Nikolai Berdjaev, desidera esserci per essere infelice. tutti desideriamo essere felici e accettiamo il dolore e l'infelicità solo se lo vediamo come mezzo di felicità, fosse pure in un altro mondo in cui è necessario credere. Il problema è invece dove collocare, qui, su questa terra e in noi stessi, la nostra felicità, dove poterla ancora trovare quando non la si trova più in ciò in cui ci si era illusi ci fosse, riuscendo però a non illudersi di pretese definitive ed eterne illusioni. La felicità non ha garanzia alcuna anche se è un diritto di tutti e forse è questo che il borghese, quando ancora c'era, prima di estinguersi, ci ha insegnato.
 

donquixote

Citazioneil borghese inventa l'idea secondo cui si è sulla terra per essere « felici » e questa idea ben presto sembrerà la più naturale del mondo Quanto alla felicità, essa viene concepita prima di tutto come un benessere materiale dipendente dalle condizioni esteriori, sulle quali, appunto, si può agire. Si sarà dunque più felici quando la società sarà "migliore". L'ideologia della felicità fa dunque il paio con quella del progresso, che le offre una giustificazione.

Questa citazione mi pare assai significativa, perchè il diritto alla ricerca della felicità è davvero del tutto moderna, inserita per la prima volta nella dichiarazione d'indipendenza americana. La felicità come obiettivo umano da perseguire su questa terra non trova precedenti nella cultura occidentale se si eccettua la filosofia di Epicuro che però è alquanto differente da come la si intende al giorno d'oggi, e la concettualizzazione del paradiso situato nell'aldilà come premio per le sofferenze cristianamente subite in questo mondo ne è una delle dimostrazioni più palesi. Tutte le culture che io conosco (tranne ovviamente quella occidentale moderna) hanno sempre messo al primo posto, fra gli obiettivi che ogni uomo si deve porre nella sua vita, il "dovere" (ancora fino a pochi decenni fa si diceva "prima il dovere e poi il piacere" identificando quest'ultimo con la moderna "felicità") e ancora Kant, filosofo principe della modernità, diceva "il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me" auspicando il compimento del "dovere per il dovere". Nietzsche, che "camminava sulla testa" di Kant, diceva "forse che io miro alla mia felicità? Io miro alla mia opera!" Gesù Cristo disse forse di essere venuto sulla terra per essere felice? Disse invece "Sono venuto a compiere la volontà del Padre mio". Si è dunque sulla terra per compiere il proprio dovere, ed eventualmente è in tale adempimento che può risiedere la felicità terrena, ma questo può accadere solo quando il proprio "essere" coincide con il "dover essere", ovvero quando ognuno realizza se stesso e si esprime compiutamente per ciò che è (cosa fra l'altro sempre più rara nel sistema di pensiero attuale).
Non so se l'idea che si venga al mondo per essere felici nasca dalla borghesia, ma sicuramente nasce in un'isola in cui la borghesia mercantile aveva già acquisito un grande potere (ad esempio con la Compagnia delle Indie Orientali), un'isola in cui non a caso è nata la Rivoluzione Industriale, molto probabilmente condizionando i "pensatori" del luogo e dell'epoca che l'hanno poi teorizzata. Poi i filosofi dell'Illuminismo  hanno convinto gli uomini che non esiste nessun "aldilà", per cui la loro felicità e il loro benessere poteva essere realizzato solamente "aldiquà"; la conseguenza è stata che siccome nell' "aldiquà" esiste solo la materia è in essa, nel suo possesso e nel suo sfruttamento, che  necessariamente la felicità deve risiedere. In tal modo hanno potuto avere la meglio coloro che nella materia avevano investito più di chiunque altro, i mercanti appunto, che hanno velocemente colonizzato l'idea di felicità di chiunque e la sfruttano ai loro fini.
Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo. NGD

maral

Faccio presente che il concetto centrale del proprio dovere (e certamente del dovere morale) è la quintessenza della visione borghese della vita, quella ormai tramontata insieme alla borghesia. La classe aristocratica anteponeva al dovere l'onore guerresco (fino a ché non trovarono più conveniente trasformarsi da aristocratici in cortigiani parassiti), quanto al proletariato e alla servitù in genere, il dovere l'ha sempre subito come imposizione più che riconosciuto.
La ricerca della felicità è sempre stato presente, fin dai primordi dell'esistenza umana e la stessa dimensione etica ne è l'espressione in ogni tempo: l'etica (ogni etica, Kant compreso) non è che il mezzo per rendersi veramente e reciprocamente felici. Poi le ricette e i luoghi in cui ritrovarsi felici, i sacrifici da imporre a se stessi e soprattutto agli altri (come i chierici insegnano) per garantire la felicità (soprattutto propria), saranno diversi da epoca a epoca.
Magari il diritto alla felicità per tutti avesse un effettivo e non ipocrita corrispettivo, ma almeno ci preserva da un assurdo dovere all'infelicità. Poi che la felicità non sia da confondere con la pretesa di un godimento immediato delle cose (come Epicuro insegna) è un'altra questione che meriterebbe di essere approfondita per non confondere le cose.

acquario69

#4
Citazione di: maral il 17 Luglio 2016, 10:05:04 AM
Non è vero che "il borghese inventa l'idea secondo cui si è sulla terra per essere « felici »", perché nessun essere umano, nemmeno il più convinto anacoreta, nemmeno Nikolai Berdjaev, desidera esserci per essere infelice. tutti desideriamo essere felici e accettiamo il dolore e l'infelicità solo se lo vediamo come mezzo di felicità, fosse pure in un altro mondo in cui è necessario credere. Il problema è invece dove collocare, qui, su questa terra e in noi stessi, la nostra felicità, dove poterla ancora trovare quando non la si trova più in ciò in cui ci si era illusi ci fosse, riuscendo però a non illudersi di pretese definitive ed eterne illusioni. La felicità non ha garanzia alcuna anche se è un diritto di tutti e forse è questo che il borghese, quando ancora c'era, prima di estinguersi, ci ha insegnato.

forse pero e' successo per la prima volta che la felicita doveva venire razionalizzata anche quella...da cui potrebbero essere sorte poi tutte le contraddizioni e a parer mio l'assurdità stessa di un simile principio,sancito a quanto pare pure "burocraticamente"
e magari sarebbe poi stato quello,il miglior modo per rendersi infelici,anche perché diventava implicito doverla raggiungere..e da qui l'idea stessa del progresso come sinonimo di felicita...ed anche qui mi pare una questione di limiti.

maral

Non so, a me pare che nell'epoca attuale sussista piuttosto un dovere al soddisfacimento che rende perennemente insoddisfatti. E' questa miseria nell'abbondanza che costruisce il consumatore di massa ideale (figura che non ha più nulla a che vedere con quella del classico borghese che assai più che a consumare tendeva ad accaparrare e conservare gelosamente la sua proprietà, grande o piccola che fosse, e pativa tutta l'angoscia di perderla).
Il diritto alla felicità è il diritto che spetta giustamente a ciascuno di realizzare l'incontro autentico con se stessi, nei modi in cui a ciascuno, per quello che è, è concesso di ritrovarsi e progettarsi nella quotidiana esistenza relazionale tenendo conto dei limiti che vengono via via a definirci e che si trovano a essere definiti da ogni nostra azione della quale dobbiamo prenderci responsabilmente carico per sentirci liberi, senza che nessuno lo faccia per noi, usandoci. Si tratta, in altre parole, di sentirsi responsabili autori della propria esistenza vivendo nel continuo contatto con le esistenze altrui di modo che in ciascuno si possa trovare reciprocamente riconosciuto e rispettato il senso fondamentale della propria essenziale autonomia di soggetto.
Ma se invece la felicità è vista come un disegno il cui scopo ci sovrasta in nome della potenza di cui illude di poter superare quel limite  (sia questa razionale, irrazionale, scientifica, religiosa o mitica e oggi soprattutto tecnica) allora non è più la nostra autopoiesi che viviamo, ma quella del sistema a cui ci consegniamo per divenirne strumenti alienati di realizzazione e lo stesso lavoro che facciamo non è più il lavoro che ci costruisce, ma è il lavoro che ci aliena, fosse pure quello di consumare godendo.     

paul11

#6
La mia impressione è che la felicità ,nella "dottrina" mercantilistica diventa escatologica passando prima dall'empirismo al razionalismo e questo grazie a parte dell'illuminismo e soprattutto al pragmatismo che esalta il tempo futuro.
Prima il passato non veniva perso nell'incremento temporale dell'oggi ,era il sedime del tempo che permetteva di dichiarare virtuoso o meno,ad esempio  il come ci si arricchiva, i vari passaggi di un processo. L'esaltazione del futuro sposta e veicola tutto sulla finalità, il processo ora è repentino e i passaggi intermedi sono sacrificabili moralmente; quindi l'importante è il fine, l'accumulazione, il come è un mezzo del tutto relativo ed è lo sfruttamento dei mezzi di produzione, ovvero il lavoro e la natura sono sacrificabili come sfruttamento per il processo finale.L'esaltazione del futuro, presentifica  temporalmente in maniera fugace, l'oggi è sempre superato e il passato è sempre obsoleto, per cui la felicità di oggi è già superata da un nuovo desiderio.Non siamo mai "pieni" in questo modo,nè di conoscenze, nè di beni che sono ciclicamente superati.Non può essere una vera felicità in un tempo in cui le immagini sono troppe e non si ha tempo di decantarle, di lasciarle riposare nella riflessione.E' per forza il tempo dell'immagine e non della parola,ma la velocità non lascia signifcazione e le esperienze diventano appiattite fino alla noia,alla saturazione mentale.

Ci sono stati importanti trasposizioni nel mondo dell'astrazione in termini culturali che hanno permesso la surrogazione di un dio obsoleto con nuove forme razionali. Il concetto di progresso, un' economia che sfugge al visibile del bene, del lavoro, dei cicli naturali dell'agricoltura, spostano nell'astrazione tutto ciò che inizialmente era empirico nel valore di scambio.La globalizzazione amplifica anche le meccanicistiche ricerche delle cause delle crisi. Il paradosso è che non è più nemmeno scientifica l'economia, è psicologica basata su aspettative, su notizie che rompono in qualche modo quelle aspettative,Quindi la stessa irrazionalità dell'impianificabile è dentro nell'astrazione di un nuovo razionalismo(ammesso che possa essere definito razionale tutto ciò)

Questo nuovo soggetto storico.la borghesia. dirompente che caratterizza la modernità si accompagna alla scienza e alla democrazia.
La scienza lo santifica come strumento giustificativo in simbiosi dell'io ti dò e tu mi da, io tti finanzio e tu mi ridai efficienza del capitale investito, la democrazia allarga i mercati liberi, perchè la standardizzazione dei procedimenti burocratici dei singoli Stati  tolga i colli di bottiglia,La velocità diventa una caratteristica e quel benessere del progresso diventano il luogo della nuova astrazione razionale proiettata sempre ad un passo dopo ad un futuro che non può essere mai attuato nell'oggi, diversamente si romperebbe quel processo escatologico che dalle religioni dell'al di là è passato al mondo dell'al di quà. L'ipocrisia è la caratteristica che regna sovrana e ben descritta dai grandi narratori delle letteratura e delle arti., che porta all'alienazione.

acquario69

Citazione di: maral il 18 Luglio 2016, 22:23:15 PM
Non so, a me pare che nell'epoca attuale sussista piuttosto un dovere al soddisfacimento che rende perennemente insoddisfatti. E' questa miseria nell'abbondanza che costruisce il consumatore di massa ideale (figura che non ha più nulla a che vedere con quella del classico borghese che assai più che a consumare tendeva ad accaparrare e conservare gelosamente la sua proprietà, grande o piccola che fosse, e pativa tutta l'angoscia di perderla).
Il diritto alla felicità è il diritto che spetta giustamente a ciascuno di realizzare l'incontro autentico con se stessi, nei modi in cui a ciascuno, per quello che è, è concesso di ritrovarsi e progettarsi nella quotidiana esistenza relazionale tenendo conto dei limiti che vengono via via a definirci e che si trovano a essere definiti da ogni nostra azione della quale dobbiamo prenderci responsabilmente carico per sentirci liberi, senza che nessuno lo faccia per noi, usandoci. Si tratta, in altre parole, di sentirsi responsabili autori della propria esistenza vivendo nel continuo contatto con le esistenze altrui di modo che in ciascuno si possa trovare reciprocamente riconosciuto e rispettato il senso fondamentale della propria essenziale autonomia di soggetto.
Ma se invece la felicità è vista come un disegno il cui scopo ci sovrasta in nome della potenza di cui illude di poter superare quel limite  (sia questa razionale, irrazionale, scientifica, religiosa o mitica e oggi soprattutto tecnica) allora non è più la nostra autopoiesi che viviamo, ma quella del sistema a cui ci consegniamo per divenirne strumenti alienati di realizzazione e lo stesso lavoro che facciamo non è più il lavoro che ci costruisce, ma è il lavoro che ci aliena, fosse pure quello di consumare godendo.  


Si indubbiamente,il borghese si e' infine lui stesso trasformato in qualcos'altro,come fai giustamente accenno su alcune descrizioni all'inizio.
a me e' venuto in mente un altro film in contrapposizione con quello di monicelli,che potrebbe darne un idea,secondo me esatta e sarebbe "il capitale umano" di paolo virzi,dove secondo me ce un personaggio che potrebbe incarnare il "borghese moderno" interpretato dal bravo fabrizio bentivoglio..ma anche altri con sfumature diverse,segno anche di una frammentazione aggiuntiva e distruttiva!
un personaggio che cerca di sopravvivere a modo suo in questo capitalismo cannibale,raccattando le briciole dei nuovi potenti,(mentre nell'altro film una certa dignità,se pur piccola piccola ancora rimaneva) arrivando a negare sostanzialmente la sua stessa persona e la sua stessa "anima" (ma gli altri non sono certo da meno,anzi tutti ne sono coinvolti!) e nel modo peggiore...e lo raffigura bene nella scena in cui trova una mail della figlia che poi rivende,causando dolore e lacerazione persino nei suoi affetti più cari...vengono fuori tutti i valori rovesciati e la profonda ipocrisia di fondo ma fortemente perseguiti e che inesorabilmente ricascano sulle vite di tutti,non risparmiando niente e nessuno

https://www.youtube.com/watch?v=nz3D4YmYUng

acquario69

"Epilogo"  del  borghese (piccolo piccolo)



Nell'Etica di Aristotele la medietà è sinonimo di virtù: l'eccesso costituisce un errore e il difetto è biasimato, invece il giusto mezzo è lodato. «La virtù quindi è una certa medietà». Quello aristotelico era però l'uomo misurato e dunque saggio. La sua phronesis, il tenersi lontano dagli estremi delle passioni, lo rendevano un modello per l'etica antica.

METAFORA DEL POST MODERNO.
Com'è potuto accadere, allora, che la medietà si sia trasformata in mediocrità, divenendo la cifra di una società senza più modelli? E, ancora, la mediocrità è una categoria antropologica o sociologica? Nel suo fortunato libro La mediocrità (edito ora in Italia da Neri Pozza) Alain Deneault ne fa la metafora del post moderno. Il concetto chiave che, come direbbe il filosofo Thomas Kuhn, dà l'impronta al nostro modo di conoscere. Il paradigma, dunque.

DIVERSE TIPOLOGIE UMANE.
Deneault osserva come la mediocrità plasmi le tipologie umane: dal "derelitto" che si sottrae al potere costituito al "mediocre per difetto", che finge di essere felice nell'adesione alle pratiche del tempo e alle chiacchiere che gli propinano. Dal "mediocre zelante", maneggione e maestro del compromesso, al "mediocre suo malgrado", che comprende la perversità dei meccanismi sociali ai quali però non può sottrarsi perché "tiene famiglia". Salendo in questa scala dal basso verso l'alto troviamo al quinto e ultimo posto i fustigatori della mediocrazia, i "maledetti".
Ci salveranno dunque gli emarginati e i contestatori? Una visione un po' troppo romantica, anche se non priva di fascino.
Se oggi non distinguiamo più sinistra e destra è perché la mediocrità produce una corsa all'estremo centro che snatura le appartenenze.
Di sicuro è però interessante questa interpretazione applicata alla politica, che conduce al superamento dell'antica separazione tra destra e sinistra. In pratica, se oggi non riusciamo più a distinguere tra coloro che sono di sinistra e coloro che sono di destra è perché la mediocrità produce una corsa al centro, anzi all'estremo centro, che snatura le appartenenze di un tempo.

QUELLI LIBERALI, MA DI SINISTRA.
Basta osservare le caratteristiche di coloro che si definiscono «liberali, ma di sinistra». Chi sono? Quelli che praticano «una militanza del tipo: possedere un'auto, ma piccola; bere latte di mucca, ma di una mucca felice; cedere al consumismo, ma equo e solidale; applicare le teorie del management, ma con uno stampo conviviale; vendere con atteggiamento aggressivo la merce, ma che sia merce di prestigio; prendere l'aereo, ma forniti di carbon credits; votare per un partito capitalista, ma liberal».

IL PESSIMISMO DEI POPULISTI.
Nulla rimane in loro dell'identità di sinistra, una vuota etichetta per giustificare il loro conformismo, parente stretto della mediocrità. E a destra? Anche su questo versante abbiamo i liberali di destra, e poi i populismi, che pensano di ribaltare il tavolo sottraendosi al linguaggio della mediocrità ma scegliendo tonalità feroci, brutali, aggressive e sbandierando un pessimismo che non aiuta la rigenerazione della politica.
Il mediocre riconosce l'altro mediocre e stabilisce con esso una sorta di patto sociale infrangibile.
Il mediocre riconosce l'altro mediocre e stabilisce con esso una sorta di patto sociale infrangibile. Si sta dentro il meccanismo tutti insieme dando agli altri l'illusione di poter scegliere ma di fatto sottoponendoli alla dittatura della mediocrità. «Tra i sintomi riscontrabili oggigiorno: un politico che spiega ai suoi elettori il dovere di sottostare al volere degli azionisti di Wall Street; un professore che giudica "troppo teorico e troppo scientifico" il lavoro di uno studente che, presentato con PowerPoint, va oltre le premesse sollevate; una produttrice cinematografica che insiste perché una celebrità "dia lustro" a un documentario con il quale non c'entra nulla; un esperto che snocciola dati sull'irragionevole crescita economica al fine di posizionarsi dalla parte della "razionalità"».

ASSOPIMENTO DEL PENSIERO.
Ma il meccanismo, spingendo verso "un assopimento del pensiero", rischia di compromettere definitivamente ciò che da sempre sta alla base di un soddisfacente vivere civile, cioè la creatività intellettuale. Qui, il j'accuse di Deneault diviene pungente e difficilmente contestabile: i docenti universitari «se ne stanno fuori dal mondo, specialisti in campi minuscoli ed estremamente marginali, incapaci di coscienza critica, fagocitati da tattiche per l'avanzamento di carriera e chiusi dentro un'appartenenza collegiale che ha le caratteristiche di una tribù». Rieccola, la Casta, a presidio di un'università ridotta a componente del dispositivo economico e ideologico.

ECONOMIA, QUADRO DRAMMATICO.
Se volgiamo lo sguardo all'economia, l'analisi si fa drammatica. Il meccanismo in questo caso è fuori controllo, anche per gli analisti finanziari. «Molto semplicemente, il "mercato" non è più un soggetto sociale. La razionalità economica dipende ormai da programmi informatici che gli esperti gettano nella mischia, senza sapere esattamente cosa avverrà delle migliaia di miliardi che mettono quotidianamente in gioco. Questi dispositivi giocano dunque in Borsa i soldi dei piccoli risparmiatori, i debiti pubblici degli Stati e il valore delle monete colpendone in maniera sensibile il corso, a partire dal quale le agenzie di rating attribuiscono poi valutazioni cruciali alle istituzioni presenti sui mercati».

Fonte : http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58238



Una «rivoluzione anestetizzante» si è compiuta silenziosamente sotto i nostri occhi ma noi non ce ne siamo quasi accorti: la "mediocrazia" ci ha travolti. I mediocri sono entrati nella stanza dei bottoni e ci spingono a essere come loro, un po' come gli alieni del film di Don Siegel "L'invasione degli ultracorpi". Ricordate?
"Mediocrazia" è il titolo dell'ultimo libro del filosofo canadese Alain Deneault, docente di scienze politiche all'università di Montreal. Il lavoro ("La Mediocratie", Lux Editeur) è stato appena tradotto in italiano dall'editore Neri Pozza, con il titolo "La Mediocrazia". Meritava di essere pubblicato anche in Italia, se non altro per il dibattito che ha saputo suscitare in Canada e in Francia.


Deneault ha il pregio di dire le cose chiaramente: «Non c'è stata nessuna presa della Bastiglia – scrive all'inizio del libro -, niente di comparabile all'incendio del Reichstag e l'incrociatore Aurora non ha ancora sparato nessun colpo di cannone. Tuttavia, l'assalto è stato già lanciato ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere». Già, a ben vedere di esempi sotto i nostri occhi ne abbiamo ogni giorno. Ma perché i mediocri hanno preso il potere? Come ci sono riusciti? Insomma, come siamo arrivati a questo punto?
Quella che Deneault chiama la «rivoluzione anestetizzante» è l'atteggiamento che ci conduce a posizionarci sempre al centro, anzi all'«estremo centro» dice il filosofo canadese. Mai disturbare e soprattutto mai far nulla che possa mettere in discussione l'ordine economico e sociale. Tutto deve essere standardizzato. La "media" è diventata la norma, la "mediocrità" è stata eletta a modello.

Chi sono i mediocri:
Essere mediocri, spiega Deneault, non vuol dire essere incompetenti. Anzi, è vero il contrario. Il sistema incoraggia l'ascesa di individui mediamente competenti a discapito dei supercompetenti e degli incompetenti. Questi ultimi per ovvi motivi (sono inefficienti), i primi perché rischiano di mettere in discussione il sistema e le sue convenzioni. Ma comunque, il mediocre deve essere un esperto. Deve avere una competenza utile ma che non rimetta in discussione i fondamenti ideologici del sistema. Lo spirito critico deve essere limitato e ristretto all'interno di specifici confini perché se così non fosse potrebbe rappresentare un pericolo. Il mediocre, insomma, spiega il filosofo canadese, deve «giocare il gioco».
Giocare il gioco:
Ma cosa significa? Giocare il gioco vuol dire accettare i comportamenti informali, piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, significa sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi. Giocare il gioco, racconta Deneault, vuol dire acconsentire a non citare un determinato nome in un rapporto, a essere generici su uno specifico aspetto, a non menzionarne altri. Si tratta, in definitiva, di attuare dei comportamenti che non sono obbligatori ma che marcano un rapporto di lealtà verso qualcuno o verso una rete o una specifica cordata.
È in questo modo che si saldano le relazioni informali, che si fornisce la prova di essere "affidabili", di collocarsi sempre su quella linea mediana che non genera rischi destabilizzanti. «Piegarsi in maniera ossequiosa a delle regole stabilite al solo fine di un posizionamento sullo scacchiere sociale» è l'obiettivo del mediocre.
Verrebbe da dire che la caratteristica principale della mediocrità sia il conformismo, un po' come per il piccolo borghese Marcello Clerici, protagonista del romanzo di Alberto Moravia, "Il conformista".
Comportamenti che servono a sottolineare l'appartenenza a un contesto che lascia ai più forti un grande potere decisionale. Alla fine dei conti, si tratta di atteggiamenti che tendono a generare istituzioni corrotte. E la corruzione arriva al suo culmine quando gli individui che la praticano non si accorgono più di esserlo.
I mali della politica:
All'origine della mediocrità c'è – secondo Deneault (nella foto qui sopra) – la morte stessa della politica, sostituita dalla "governance". Un successo costruito da Margaret Thatcher negli anni 80 e sviluppato via via negli anni successivi fino a oggi. In un sistema caratterizzato dalla governance – sostiene l'autore del libro – l'azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato "problem solving". Cioé alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. In un regime di governance siamo ridotti a piccoli osservatori obbedienti, incatenati a una identica visione del mondo con un'unica prospettiva, quella del liberismo.
La governance è in definitiva – sostiene Deneault – una forma di gestione neoliberale dello stato, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dall'adattamento delle istituzioni ai bisogni delle imprese. Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia.
Anche la terminologia cambia: i pazienti di un ospedale non si chiamano più pazienti, i lettori di una biblioteca non sono più lettori. Tutti diventato "clienti", tutti sono consumatori.
E dunque non c'è da stupirsi se il centro domina il pensiero politico. Le differenze tra i candidati a una carica elettiva tendono a scomparire, anche se all'apparenza si cerca di differenziarle. Anche la semantica viene piegata alla mediocrità: misure equilibrate, giuste misure, compromesso. È quello che Denault definisce con un equilibrismo grammaticale «l'estremo centro». Un tempo, noi italiani eravamo abituati alle "convergenze parallele". Questa volta, però, l'estremo centro non corrisponde al punto mediano sull'asse destra-sinistra ma coincide con la scomparsa di quell'asse a vantaggio di un unico approccio e di un'unica logica.
Che fare?
La mediocrità rende mediocri, spiega Denault. Una ragione di più per interrompere questo circolo perverso. Non è facile, ammette il filosofo canadese. E cita Robert Musil, autore de "L'uomo senza qualità": «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall'esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe».
Senza scomodare Musil, viene in mente il racconto di fantascienza di Philip Klass, "Null-P", pubblicato nel 1951 con lo pseudonimo di William Tenn. In un mondo distrutto dai conflitti nucleari, un individuo i cui parametri corrispondono esattamente alla media della popolazione, George Abnego, viene accolto come un profeta: è il perfetto uomo medio. Abnego viene eletto presidente degli Stati Uniti e dopo di lui i suoi discendenti, che diventano i leader del mondo intero. Con il passare del tempo gli uomini diventano sempre più standardizzati. L'homo abnegus, dal nome di George Abnego, sostituisce l'homo sapiens. L'umanità regredisce tecnologicamente finché, dopo un quarto di milione di anni, gli uomini finiscono per essere addomesticati da una specie evoluta di cani che li impiegano nel loro sport preferito: il recupero di bastoni e oggetti. Nascono gli uomini da riporto.
Fantascienza, certo. Ma per evitare un futuro di cui faremmo volentieri a meno, Deneault indica una strada che parte dai piccoli passi quotidiani: resistere alle piccole tentazioni e dire no. Non occuperò quella funzione, non accetterò quella promozione, rifiuterò quel gesto di riconoscenza per non farmi lentamente avvelenare. Resistere per uscire dalla mediocrità non è certo semplice. Ma forse vale la pena di tentare.

Fonte: http://angelomincuzzi.blog.ilsole24ore.com/2016/06/19/la-mediocrazia-travolti-mediocri-hanno-preso-potere/?refresh_ce=1

donquixote

[
Citazione di: acquario69 il 04 Febbraio 2017, 01:16:18 AML'umanità regredisce tecnologicamente finché, dopo un quarto di milione di anni, gli uomini finiscono per essere addomesticati da una specie evoluta di cani che li impiegano nel loro sport preferito: il recupero di bastoni e oggetti. Nascono gli uomini da riporto.

A Philip Klass sfuggiva che è il progresso e non il regresso tecnologico la strada migliore per istupidire l'uomo che perderà progressivamente conoscenza appaltandola alle macchine, e quindi saranno loro e non i cani a prendere il potere sull'uomo (vedi Matrix). E se manca ancora un po' per avere al potere gli uomini da riporto nel frattempo ci accontentiamo di avere al potere del paese più potente l'uomo col riporto.
Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo. NGD

acquario69

#10
Citazione di: donquixote il 04 Febbraio 2017, 09:53:22 AM
Citazione di: acquario69 il 04 Febbraio 2017, 01:16:18 AML'umanità regredisce tecnologicamente finché, dopo un quarto di milione di anni, gli uomini finiscono per essere addomesticati da una specie evoluta di cani che li impiegano nel loro sport preferito: il recupero di bastoni e oggetti. Nascono gli uomini da riporto.

A Philip Klass sfuggiva che è il progresso e non il regresso tecnologico la strada migliore per istupidire l'uomo che perderà progressivamente conoscenza appaltandola alle macchine, e quindi saranno loro e non i cani a prendere il potere sull'uomo (vedi Matrix). E se manca ancora un po' per avere al potere gli uomini da riporto nel frattempo ci accontentiamo di avere al potere del paese più potente l'uomo col riporto.

Giusta osservazione!
Fra parentesi,quel racconto e' stato scritto negli anni 50 e da autore americano....insomma era credo il culmine della fiducia per la tecnocologia in termini avveniristici,penso non sia un caso Che proprio  in quel decennio in particolare,tante sono state Le opere di fantascienza,tra cinema e letteratura....

Ma cosa intendi esattamente quando dici Che nel frattempo ci accontentiamo di avere al potere del paese piu potente l'uomo col riporto?....semplicemente non l'ho capito  :)

donquixote

Citazione di: acquario69 il 04 Febbraio 2017, 11:24:52 AMMa cosa intendi esattamente quando dici Che nel frattempo ci accontentiamo di avere al potere del paese piu potente l'uomo col riporto?....semplicemente non l'ho capito :)

era solo una battuta riferita all'attuale presidente americano che ha la pettinatura col "riporto"  ;)
Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo. NGD

davintro

dovessi identificare un tratto peculiare della mentalità borghese, che dalla modernità poi ha nelle società occidentali soppiantato il ceto nobiliare-feudale non solo dal punto di vista politico-economico, ma anche culturale, non lo individuerei in un generico materialismo che fa coincidere la dignità della persona in ciò che possiede. Certamente la lotta per il possesso dei beni materiali  è sempre stato un elemento costantemente presente nella società e, al di là che tali interessi fossero più o meno camuffati presentando la ricchezza e i privilegi come legittimari da giustificazioni mitologiche o teologiche, già nell'antichità il dominio politico veniva fatto esplicitamente coincidere con la ricchezza, più che con i titoli nobiliari, aristocratici, si veda la progressiva evoluzione delle costituzioni delle poleis greche e l'antica Roma in senso censitario. Eppure qui ancora non siamo propriamente nella mentalità borghese, nel senso moderno in cui la si intende. Perché la modernità borghese esalta eticamente la ricchezza, sì, ma non nel senso di possesso statico, ma come frutto del lavoro e dello spirito imprenditoriale dell'uomo. Qua sta la cesura vera tra la mentalità aristocratica, antica, medievale, preindustriale, e il capitalismo borghese. Nella prima mentalità nessuno si sognava di colpevolizzare il nobile per aver ereditato le ricchezze senza averle prodotte attraverso il lavoro. Ragione di vanto non era il modo in cui la ricchezza era stata raggiunta, ma il modo in cui una volta ottenuta veniva utilizzata. Motivo di vanto era compiere attività mecenatistiche, culturali, abbellire i propri palazzi, dimore, con opere d'arte, sovvenzionare artisti, scrittori, letterati, oppure finanziare attività caritatevoli, legate alla religione, costruzioni di chiese... ricordiamo che Platone e Socrate consideravano un onore il non farsi pagare per tramandare i loro insegnamenti filosofici e disprezzavano i sofisti, che invece si facevano pagare. Possiamo dire che la mentalità borghese è la rivincita dei sofisti... l'industriale borghese non sembra, come il nobile o il sovrano, essere interessato al lusso, alla cultura, alla manifestazione delle sue ricchezze, ma è appagato nel percepire la sua ricchezza come frutto del lavoro. Evidente il salto di qualità in chiave materialistica della cultura borghese: il denaro non è più strumento, da utilizzare per vivere una vita comoda, confortevole, nel benessere e nelle possibilità che permettono a chi lo possiede di potersi dedicare ai cosiddetti "ozi letterari", ma diviene in un certo senso il "fine ultimo" dell'esistenza, espressione tangibile del lavoro umano, che "nobilita" ciò che si ottiene, la ricchezza diviene specchio delle capacità imprenditoriali dell'uomo, capacità che finiscono col divenire le uniche davvero da prendere in considerazione in termini di valore dell'agire umano. Non è corretto dire che per la borghesia l'uomo si identifica in ciò che ha, ma si può dire che si identifica in ciò che gli ha premesso di produrre ciò che ha. Il carattere materialistico di tale visione è ancora più presente, sottile, subdolo, profondo. Ciò che rende degno l'uomo è ciò che gli consente di ottenere il successo economico, le conseguenze del successo, il lusso, il benessere, passano in secondo piano rispetto alle cause che lo hanno prodotto.
Stando così le cose non si dovrebbe nemmeno parlare di "atomismo", "individualismo" come corollari dello "spirito borghese", in quanto non è la libertà individuale, la libera espressione della personalità, delle sue inclinazioni naturali (come era ad esempio nell'etica classica, soprattutto aristotelica dove il guadagnare denaro era solo strumentale, meno nobile, rispetto alla vita contemplativa, e la virtù coincideva con l'attualizzazione delle potenzialità connaturate nell'uomo) che rende degna la vita umana, ma al contrario tale dignità viene reificata, oggettivata, misurata in relazione al successo economico raggiunto attraverso il lavoro, la dignità dell'uomo coincide con il lavoro che svolge, cioè con la collocazione in ruolo sociale, in una categoria collettiva, proprio l'opposto dell'individualismo che invece dovrebbe rivendicare il valore della libertà del singolo a prescindere dall'imposizione di qualunque ruolo. L'individualismo borghese è un individualismo "spurio", che valorizza dell'individuo solo quelle facoltà adeguate all'ottenimento del profitto e del successo economico, squalificando tutto ciò legato alla creatività spirituale dell' individuo stesso

donquixote

È corretta la descrizione che fai della borghesia imprenditoriale delle "origini" della modernità, ma più specificamente questa è la borghesia plasmata dalla tradizione protestante mitteleuropea, quella che descrive Max Weber e che aveva già superato le resistenze cattoliche sdoganando banchieri, usurai e mercanti che sulla base delle interpretazioni della dottrina ebraica che influenzò quella cristiana riformata ritiene che il "paradiso" si possa ottenere già su questa terra e la ricchezza o la povertà materiale di qualcuno identifichino la versione terrena del premio o della condanna divina. L'Europa centrale era dunque già più "avanti" rispetto a quella del sud che pur ritenendo il lavoro già nobilitante (forse anche in contrapposizione agli sfaccendati aristocratici decadenti) lo limitavano all'attività artigianale, di bottega, che doveva fornire il necessario per sostenere la famiglia e non schiavizzare in qualche modo altre persone, mentre manteneva  la condanna morale per coloro che prestavano soldi ad interesse e per i mercanti che speculavano sul lavoro altrui senza metterci niente del proprio. Assai diversa era invece la situazione nel Regno Unito, culla della Rivoluzione Industriale, ove la borghesia imprenditoriale locale lungi dal rappresentare un quadretto più o meno idilliaco determinava le situazioni che sono state ampiamente descritte nei libri di Dickens. Senza contare i mercanti che solcavano i quattro mari con eserciti al seguito e tasche piene di "perline colorate" con l'intenzione di scambiarle con qualunque cosa di valore si trovasse nelle terre che toccavano. Se effettivamente la borghesia europea avesse trascorso un periodo sufficientemente lungo comportandosi in modo equilibrato e socialmente accettabile non si spiegherebbe tra l'altro la nascita e il successo delle teorie marxiste che invasero l'Europa di fine '800.
Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo. NGD

paul11

Stimolanti gli interventi di Davintro e Donquixote.

Io direi che la differenza fra la nobiltà e la borghesia è la mobilità sociale oltre a contenuti fondamentali come il concetto di lavoro.

 Al tempo dei nobili solo il potere religioso poteva investire re o imperatori.
Ma i nobili sapevano gestire i tre poteri: il primogenito si prendeva il rango della casata, gli altri figli i cadetti o sceglievano la carriera militare o entravano nella carriera religiosa.
Il sistema economico è estensivo in agricoltura di tipo latifondistico ,con botteghe artigianali.

Il commercio, ben prima dell'industria diventa potente, i Medici sono una tipica casata mercantile di origine.
I mercanti sono scaltri ,ben più di parecchi nobili, è in Toscana che nasce la cambiale, il primo titolo ,non monetario, per sopperire al brigantaggio; le comunicazioni sono tramite il cavallo, le informazioni i piccioni.

Lutero non sarebbe nemmeno comparso storicamente se il centro Europa, borghese e imperiale allo stesso tempo non lo avesse appoggiato contro il potere religioso dell'investitura romana.

Quindi cominciamo a vedere le prime mobilità sociali; i mercanti acquistano titoli nobiliari e i più potenti come  i Rotchild di origine ebrea, finanziario   guerre degli imperatori .Il potere finanziario non è una invenzione tanto recente.

Il nobile  è "liberato dal lavoro" perchè infatti è nobile non occuparsi del lavoro, ma del frutto del lavoro che libera il tempo per fare altro, passioni, ecc.

Distinguerei il grande borghese dal piccolo borghese.
Il grande borghese è proprietario dei mezzi di produzione o aziende, il piccolo borghese gli  presta servigio fiduciario .
E' con il passaggio dall'agricoltura all'industria con già i mercanti e le banche  che si struttura la fine del Medioevo e l'avvento industriale della modernità.

Il piccolo borghese è quel ceto medio che ha enorme potere nella forma politica della democrazia., rappresenta il "centralismo", il punto di equilibrio che spostandosi a destra o sinistra sposta le politiche di governo.

La mobilità sociale è l'illusione della modernità industriale. Tutti possono assurgere al ruolo di grande borghese e  i beni di lusso sono l ostile di vita invidiato. L'invidia è la colpa di questo tempo, l'avidità e l'ipocrisia della non trasparenza ne sono le connotazioni.
Il nobile doveva mostrarsi, il grande borghese ne è dispensato, anzi .Il sotterfugio, la corruzione diventano elementi strategici.
Il piccolo borghese è l'aspiratore di briciole, è colui che incarna il ruolo della proprietà senza esserne proprietario in cambio acquisice vantaggi, ma non "si libera dal lavoro"

Il grande borghese ha connotazioni esteriori simili all'antico nobile, ma sa che la regola del gioc oè nascondersi. Nasconde le sue fortune, i suoi incuneamboli, i suoi quadri d'autore, le collezioni private nei caveux. Socialmente crea fondazioni, come specchietti per allodole.

Il piccolo borghese rappresenta la meschina mediocrità del servilismo, Perchè è ideologicamente grande borghese, ha dei privilegi rispetto al popolano, ma non è coperto dal rischio delle crisi economiche che anzi spesso paga per poco potere di sapersi organizzare e solidarizzare.

Chi ha formulato "il lavoro nobilita l'uomo", o è un, fannullone che vive sul frutto del lavoro altrui , o ha il privilegio di non esserene schiavo e/o alienato dentro organizzazioni aziendali che sono apparati militari gerarco-funzionali e che si muovono tatticamente e strategicamente sui mercati con le stesse teorie di base di un campo militare di guerra

Discussioni simili (1)