Che cosa è il "dubbio"?

Aperto da Eutidemo, 26 Ottobre 2019, 06:51:13 AM

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Eutidemo

Tale domanda, si pone sia a livello filosofico, sia a livello processuale, però con "intime" connessioni tra i due "aspetti".
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IL DUBBIO FILOSOFICO
In estrema sintesi:

I)
Alcuni filosofi optano per il "dubbio sistematico", e, cioè, per lo "scetticismo assoluto"; come, ad esempio, Gorgia, il quale scrisse: "La verità non esiste, anche se esistesse non saremmo mai in grado di conoscerla, ed anche se riuscissimo a conoscerla non saremmo mai in grado di comunicarla!"
Il che, almeno a mio parere, è abbastanza esatto sotto l'aspetto "noumenico" (ovvero "metafisico"), circa il quale possiamo sicuramente nutrire "convinzioni" o "fedi", ma non "certezze".

II)
Altri filosofi, invece, optano per il "dubbio metodico", e, cioè, per lo "scetticismo relativo", che si differenzia da quello "assoluto" in quanto usa il dubbio solo come metodo per mettere alla prova le conoscenze in nostro possesso e giungere così a certezze più difficilmente dubitabili; è il procedimento metodologico seguito da Cartesio, il quale, attraverso l'esercizio del dubbio, si propone di approdare a delle conoscenze indubitabili.
Il che, almeno a mio parere, è abbastanza esatto sotto l'aspetto "fenomenico" (ovvero "fisico"), sebbene si tratti pur sempre di certezze relative.

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IL DUBBIO PROCESSUALE
Al riguardo, occorre distinguere tra processo civile e processo penale.

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1)
PROCESSO CIVILE
Nel processo civile, per superare il "dubbio", e pervenire alla "verità" (o, se si preferisce, alla "certezza") processuale, ci si avvale di:

A)
Presunzioni legali:
a)
"Relative", cioè che ammettono prova contraria, come, ad esempio, la "presunzione di paternità", in base alla quale il marito della madre si ritiene padre del figlio concepito durante il matrimonio.
b)
"Assolute", cioè che non ammettono prova contraria, come, ad esempio, la "presunzione di concepimento" in costanza di matrimonio, nel quale caso il figlio si presume concepito durante il matrimonio, se nato quando sono trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione dello stesso e non ancora trecento giorni dalla data del suo annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili.
In tale secondo caso, in sostanza, la legge postula una VERITA' ed una CERTEZZA "assolute", le quali, però, non lo sono affatto sotto il profilo filosofico (e neanche scientifico); perchè, se è vero che "è massima di esperienza che è estremamente  <<improbabile>> che un bambino nasca 300 giorni dopo il concepimento, ovvero prima di 180 giorni da questo" ("Diritto civile ragionato" Luigi Maria Sanguineti pag.521), però questo non è affatto <<impossibile>>!

B)
Presunzioni semplici:
Le presunzioni non stabilite dalla legge sono, invece lasciate alla prudenza del giudice civile, il quale, sia pure "al di qua di ogni ragionevole dubbio":
- in genere, può ammettere solo presunzioni che abbiano i requisiti della gravità, precisione e concordanza (in base all'art.2729 c.c.);
- in alcuni particolari casi, può ammettere anche presunzioni che <<non>>  abbiano i requisiti della gravità, precisione e concordanza (come nel caso di accertamento induttivo, in base all'art.39 DPR 600/73 secondo comma).
In questi casi la legge non postula una VERITA' ed una CERTEZZA "aprioristichee", ma lascia decidere al giudice cosa sia "vero" e cosa sia "falso"; per cui, in ordine allo stesso caso, un giudice può decidere in un modo, ed un altro giudice può decidere in un altro modo.
Il che, sotto il profilo filosofico, richiama un po' il principio più famoso del pensiero di Protagora, "l'uomo (in questo caso il giudice) è la misura di tutte le cose" (anthropos metron panton chrematon).

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2)
PROCESSO PENALE
Al riguardo, occorre premettere che, in questo caso, è la stessa normativa processuale penale a "qualificare" il tipo di dubbio che deve essere superato; cioè, quello "ragionevole".
Ed infatti, l'"attuale" art. 533 del Codice di Procedura Penale, a differenza di altre Procedure Giurisdizionali, prevede che il giudice possa pronunciare una "sentenza di condanna", soltanto "se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio!" (NOTA 1)
La Corte di Cassazione, al riguardo, ha precisato che, con l'introduzione di questo principio, il legislatore ha sancito che la condanna "penale" dell'imputato è possibile soltanto qualora vi sia la "certezza" della responsabilità dell'imputato, mentre, diversamente, si impone la assoluzione senza "se" e senza "ma" (NOTA 2).
Il che, è MOLTO diverso da quanto accade in campo civile; e "pour cause", perchè, se viene condannato, l'imputato non rischia solo di rimetterci denaro, ma anche la sua libertà personale!

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Già: ma cosa significa "ragionevole"?
O meglio, cosa significa "di là di ogni ragionevole dubbio"?
Vuol dire essere "convinti" della responsabilità dell'imputato,  ovvero  esserne "certi"?
Ed invero, non è esattamente la stessa cosa!
Ed infatti, io posso benissimo essere "convinto" della colpevolezza di qualcuno, però non necessariamente posso anche esserne "certo"!
Come "quisque de populo", invero, io posso benissimo essere "convinto" della colpevolezza o dell'innocenza di Tizio, pur non essendone "certo"; il giudice ed i giurati (nelle Corti di Assise), invece, devono esserne "certi", almeno sotto il profilo processuale!

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Però così spostiamo soltanto il problema, in quanto:
- il giudice di primo grado può essere "convinto" di aver raggiunto la "certezza" circa la colpevolezza dell'imputato;
-   il giudice di appello, invece, può "convincersi" del fatto  che non esiste alcuna "certezza" al riguardo.
Cioè, detta filosoficamente, la stessa "certezza" è comunque oggetto della "convinzione" dell'organo giudicante!

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Al riguardo, in una importante sentenza, Pietro Grasso sembra quasi cercare un nesso tra il dubbio e la certezza filosofiche, e quelle processuali (penali), scrivendo:
"Il controllo affidato alla Corte di Cassazione sulla struttura e sulla congruenza logica della motivazione involge anche l'osservanza del principio dell' "oltre il ragionevole dubbio", che non può dirsi certamente rispettato quando la pronuncia di condanna si fondi su un accertamento giudiziale non sostenuto dalla certezza razionale, ossia da un grado di conferma così elevato da confinare con la certezza" (sentenza della Cass. Pen. I Sez. del 14 Maggio 2004).
Cioè, la ricostruzione del fatto, attraverso la valutazione rigorosa e logica della prova, non può che essere quella che esclude in maniera categorica altre ipotesi alternative.

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Per cui, seguendo tale filone ermeneutico, in sostanza quello processuale assomiglia molto (almeno per certi aspetti) allo "scetticismo metodologico" di Cartesio, e non allo "scetticismo sistematico" di Gorgia; il che è anche abbastanza ovvio, altrimenti non verrebbe mai penalmente condannato nessuno, salvo in caso di flagranza o di prove scientifiche inconfutabili (però, pare nemmena quella del DNA lo sia)!

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Tuttavia, in relazione ad uno stesso fatto, possono aversi due diversi "processi" in parallello, i quali, fisiologicamente, -giusta quanto sopra detto-, "debbono" e "possono" condurre a conclusioni completamente diverse.

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Ad esempio, uno dei metodi più utilizzati per accertare l'evasione fiscale dei ristoranti, è sempre consistito nella verifica del "conto della lavanderia"; cioè, se un ristorante contabilizza 3.000 pasti serviti in un anno, mentre, dal "conto della lavanderia", risulta che in un anno sono state lavate 9.000 tovaglie, può nascere il sospetto che il proprietario del ristorante abbia occultato dei ricavi.
In base a tale sospetto, qualora con l'accertamento amministrativo fiscale venga superata la soglia della punibilità penale, il contribuente verrà assoggettato a "due" distinti processi:
a)
Uno tributario, nell'ambito del quale il giudice, probabilmente, potrebbe ritenere valida la presunzione del conto della lavanderia, in base all'"id quod plerumque accidit", e, quindi, emettere "sentenza di condanna".
b)
Uno penale, nell'ambito del quale il giudice dovrebbe sicuramente ritenere invalida la presunzione del conto della lavanderia, in quanto non è sufficiente ad escludere in maniera categorica altre ipotesi alternative ( ad esempio, che quel ristorante ha dei clienti particolarmente sporcaccioni, per cui, in media, tocca cambiare loro almeno tre tovaglie a pasto), e, quindi, emettere "sentenza di assoluzione".

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Qual'è la "verità processuale"?
A seconda dell'orientamento politico dei vari giornali, se entrambe la sentenze sono passate in giudicato, alcuni quotidiani proclameranno che ormai il soggetto è stato riconosciuto definitivamente "innocente" (in base alla sentenza penale), mentre altri proclameranno che ormai il soggetto è stato riconosciuto definitivamente "colpevole" (in base alla sentenza tributaria).
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Qual'è la "verità filosofica"?
Ciascuno può trarla per conto proprio dalle "motivazioni" delle due sentenze (non certo dal loro semplice "dispositivo"), ma si tratterà pur sempre di un giudizio "soggettivo"; per quanto tendente più o meno alla realtà "oggettiva" dei fatti, e, cioè, in misura inversamente proporzionale ai pregiudizi (soprattutto politici) di ciascuno.
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NOTA 1
Fino a 13 anni fa, in Italia, le cose non stavano esattamente così, poichè l'attuale testo dell'art. 533, co. 1, c.p.p., è stato introdotto soltanto nel 2006, in forza dell'art. 5 della l. 20 febbraio 2006, n. 46; in precedenza il "ragionevole dubbio" sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava soltanto il proscioglimento a norma dell'art. 530, comma 2, c.p.p..

NOTA 2
Vedi, per tutte, Cass. n. 43324/2005, omissis; Cass. n. 41052/2005, omissis; Cass. n. 41176/2005, omissis; Cass. sez. 6^, n. 1518/1997 Rv. 208144; Cass. sez. 2^, n. 3777/1995, Rv. 203118)

Ipazia

Ottima proposta di discussione che fa capire perchè il sapere interpretativo, divenuto disciplina autonoma sotto il nome di ermeneutica, sia nato nelle aule dei tribunali e si sia esteso poi ad altre discipline tra cui, oltre e forse prima della filosofia, alla storia. Quella grande degli eventi epocali e quella piccola delle biografie individuali.

Che l'ermeneutica sia un parto del diritto non è un caso perchè il giudizio dei tribunali si trova all'incrocio tra l'"oggettività scientifica" dei fatti e la soggettività occultante di chi vi ha preso parte. E quanto più il fumus sui fatti è denso tanto più la pulsione ermeneutica viene pungolata dilatandosi all'infinito (per lo più cattivo, parafrasando Hegel). Penso alla vita e al magistero dei grandi riformatori religiosi, ma anche a Ustica e ai puppari delle strategie della tensione.

Misteri abissali cui mi pare il saggio, più che politico improvvisato, giurista Pietro Grasso offre una chiave meta-ermeneutica ineccepibile (che risponde anche alla discussione parallela sulla "verità scientifica"): anche la verità ha le sue gradazioni che da un lato sprofondano nella mitologia e dall'altro si approssimano alla certezza.

Ed è per questo gradus ad Parnassum che il "metodo scientifico" ha vinto e continua a vincere. Almeno nei campi dove incontrovertibilmente dimostra di funzionare.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Eutidemo

Ciao Ipazia. :)
A dire il vero, come pure dice la Treccani, le origini dell'ermeneutica risalgono al mondo classico, dove essa sorse per stabilire l'esatto senso dei testi letterari (per es., i poemi omerici), sceverarne le parti autentiche da quelle spurie, ricostruirne l'organicità della struttura e del linguaggio.
Successivamente, con il cristianesimo, divenne la scienza di interpretazione degli scritti biblici, al fine di rintracciare un significato più profondo e diverso da quello immediatamente offerto dal testo.
Per cui, in effetti, l'ermeneutica non è nata nei tribunali, dove oggi viene applicata in base a quanto previsto dall'art.12 delle "Preleggi"; il quale prevede che nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

*** 
Peraltro:
- se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione di legge, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; 
- se, infine, il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.

***
Però hai ragione nel dire che l'ermeneutica giuridica, sebbene disciplinata dalla legge,  comporta un giudizio dei tribunali che si trova all'incrocio tra:
- l'"oggettività scientifica" dei fatti;
- e la "soggettività" dei giudici. 
La Tosca è sempre la stessa opera, ma l'interpretazione varia a seconda dei tenori e dei soprani che la cantano!

***
Però occorre stare molto attenti a non confondere:
- l'interpretazione del diritto, a cui provvedono i giudici (ermeneutica o esegesi giuridica);
- l'interpretazione dei fatti, che, solitamente, i giudici, demandano ai periti.
Tutto ciò, in base all'antico brocardo: "Da mihi factum, et dabo tibi ius" (accertami il fatto ed io ti darò il diritto).

***
E quando il "fumus" sui fatti è denso, come nel caso di Ustica, il problema non è tanto di carattere ermeneutico (cioè, relativo all'interpretazione della legge), quanto, piuttosto, di carattere accertativo extragiuridico.  

***
Al riguardo, invero, il giurista Pietro Grasso non offre tanto una chiave meta-ermeneutica del diritto, quanto, piuttosto, un criterio di valutazione oggettiva (possibilmente scientifica) delle prove; che è cosa diversa dalla esegesi giuridica.

***
E' tuttavia vero, come tu scrivi, che la verità ha le sue gradazioni che da un lato sprofondano nella mitologia e dall'altro si approssimano alla certezza.

***
Quanto al fatto che è per questo "Gradus ad Parnassum", come scrivi tu, che il "metodo scientifico" ha vinto e continua a vincere, almeno nei campi dove incontrovertibilmente dimostra di funzionare, sono perfettamente d'accordo con te.

***
Però non sono ben sicuro se, per "Gradus ad Parnassum", intendi il dipinto a olio su tela di Paul Klee, ovvero i 100 esercizi pianistici di livello avanzato, che il compositore italiano Muzio Clementi compose a scopo didattico.
Ma, probabilmente, per "Gradus ad Parnassum", tu intendevi, genericamente, la necessità di misurare bene ogni singolo passo con il quale si procede verso la "verità"; e non saltare a casaccio, non scavalcare quei primi gradini che costituiscono la base imprescindibile di tutto il successivo percorso di ascesa.
Ed anche su questo sono pienamente d'accordo.

Un saluto! :)

bobmax

Interessante esposizione. 
Che tuttavia a mio avviso non considera un aspetto a mio parere fondamentale riguardo al "dubbio".

Perché la distinzione tra noumenico e fenomenico può essere necessaria per una prima analisi, ma diventa fuorviante se intesa come un'effettiva differenza tra due modi distinti di dubitare.

Il dubbio, infatti, è uno solo.

È lo stesso pensiero che costantemente dubita, ed è proprio dubitando che riesce a procedere. 

Senza dubbio alcuno non vi sarebbe pensiero!

Il cosiddetto sapere altro non è che una continua vittoria contro il dubbio. In cui si vince sempre una battaglia, mai la guerra.

Il sapere non se ne sta scritto nella pietra della nostra mente, dove può essere recuperato al bisogno.
 Il sapere è ogni volta il risultato di un salto nel vuoto. E questo vuoto è il dubbio.

D'altronde il pensiero è essenzialmente un dialogo, che instauro con me stesso. Devo scindermi in due proponendo e dubitando.

Il dubbio e il sapere di per se stessi non permettono pensiero alcuno. Uno necessita dell'altro.

E poiché la lotta con il dubbio necessita di fede... sì può ben dire che:

" Chi ha fede pensa, mentre chi non ha fede non pensa!"
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Eutidemo

#4
Ciao Bob. :)
Hai ragione nel rilevare che: "...la distinzione tra noumenico e fenomenico può essere necessaria per una prima analisi, ma diventa fuorviante se intesa come un'effettiva differenza tra due modi distinti di dubitare...il dubbio, infatti, è uno solo."
Ed infatti, la differenza;
- non è tanto nel "modo" di dubitare tipico del "soggetto", che può essere più o meno titubante o deciso nell'affrontare il dubbio a seconda del suo carattere e modo di ragionare, ma che, però, sempre quello caratterialmente e intellettualmente rimane;
- quanto, piuttosto, nell'"oggetto" del dubbio, in quanto è molto più difficile dubitare del fatto che domani sorgerà ancora il sole (cosa che, comunque, non è certa), di quanto sia difficile dubitare dell'esistenza di Dio; salvo rare eccezioni è così -quasi- per tutti, a prescindere dal loro diverso carattere e modo di ragionare.

***
E' anche vero che il cosiddetto sapere altro non è che una continua vittoria contro il dubbio; in cui si vince sempre una battaglia, ma mai la guerra.

***
Molto interessante anche la tua successiva considerazione, per la quale il pensiero è essenzialmente un dialogo, che io instauro con me stesso, per cui devo scindermi in due proponendo e dubitando.
Ed infatti, è proprio così!

***
Quanto alla fede, secondo me, le più belle definizioni al riguardo sono:
a)
"Fides est sperandarum substantia rerum, et argumentum non apparentium" (Lettera agli Ebrei XI, 1), che Dante traduce "Fede è sustanza di cose sperate, ed argomento de le non parventi" (Paradiso XXIV, 64) .
Cioè, detto in soldoni: "Non ho alcuna prova che ciò sia vero, ma ci voglio credere lo stesso, perchè spero ardentemente che lo sia!"
b)
"Credo quia absurdum", frase incertamente attribuita a Tertulliano, è invece di molto più difficile interpretazione, perchè di primo acchito sembra addirittura autocontradditoria; al riguardo occorrerebbe aprire un apposito TOPIC.
Secondo me (sebbene io ci debba riflettere ancora "molto" sopra), se traduciamo "absurdum" con "non credibile", si tratterebbe davvero di una affermazione autocontradditoria; ed infatti suonerebbe: "Ci credo perchè non è credibile!".
Il che non ha senso!
Per cui:
- o si interpreta "absurdum"  nel suo senso etimologico latino di "stonato", (der. di surdus "sordo"), cioè di cose o fatti in sè non contraddittori, ma "quasi" incredibili per la loro stranezza o eccezionalità, come, per esempio la resurrezione di Cristo;
- oppure si interpreta "absurdum"  in senso "metaforico", ed allora ci si può davvero sbizzarrire.
Ma non è questo il luogo.

Un saluto! :)

bobmax

Ciao Eutidemo,
pur nella vicinanza (perché questo siamo: vicini)  i nostri sguardi restano però rivolti in opposte direzioni.
 
Sono infatti convinto che vi sia una grande affinità tra di noi, riguardo a ciò che davvero conta, che è poi la fede nella Verità.
Tuttavia ci ritroviamo opposti nella direzione da seguire per la sua ricerca.
Utilizzando un'espressione un po' desueta, ma che ritengo possa ancora rendere l'idea, direi che tu hai lo sguardo rivolto alla terra, mentre il mio mira al cielo.
 
Il dubbio, prima ancora di essere dubbio in "qualcosa", è dubbio esistenziale.
Il dubbio esistenziale è la messa in crisi di ogni possibile certezza!

Ed è proprio questo il dubbio che permette il pensiero. Perché lo costringe, pena il suo annichilimento, a fare un salto nel nulla nella speranza di atterrare su qualcosa che lo sorregga.

Siamo così abituati a dare per scontato questo sostegno che neppure ce ne accorgiamo.
Ma il pensiero, nella sua essenza, è un continuo sfuggire all'horror vacui.
 
Per avere un'idea di questa situazione, che è chiaramente incomprensibile allo stesso pensiero razionale, occorrerebbe sperimentare il forzato stop del pensiero. Un'esperienza che non auguro a nessuno, ma che se dovesse succedere, mostrerebbe inequivocabilmente cosa vi sia dietro l'autentico dubbio.

Forse potrebbe essere sufficiente lasciarlo andare il pensiero, lasciarlo sfogare come un puledro selvaggio, e aspettare che alla fine stanco del suo sgroppare si decida a fermarsi.
Ma in questo caso, ho l'impressione che qualcosa resti sempre, a dare un minimo di concretezza, e tale da velare almeno un po' il nulla sottostante.
 
 Difatti, quando ci si chiede se il sole sorgerà ancora domani, questo dubbio è già di second'ordine. E' un vuoto, magari orribile, ma che si suppone possibile all'interno di una realtà, che è data comunque per scontata.
 
E lo stesso dicasi di Dio. Laddove il dubbio su Dio riguarda l'alternativa teismo-ateismo.
E' un dubbio magari atroce, ma vissuto all'interno di una situazione data.
 
La fede, l'autentica unica fede, non è una credenza. Non consiste nel credere in "qualcosa", e neppure in un qualcosa di assurdo. Perché nel momento in cui si suppone esservi "qualcosa", siamo già nella superstizione.
La pura fede è fede nel Nulla.
 
Ed è proprio questo che dice la constatazione tanto cara a Vannini:
"Chi ha fede pensa, mentre chi non ha fede non pensa!"
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Eutidemo

Ciao Bob :)
Quanto al fatto che che io ho lo sguardo rivolto alla terra, mentre il tuo è rivolto al cielo, questo mi ricorda moltissimo la controversa interpretazione del famoso affresco di Raffaello Sanzio, "La scuola di Atene".

In tale affresco Platone e Aristotele rappresentano i due principali poli di aggregazione delle altre figure, raffigurando in qualche modo la complementarità tra scuola platonica e scuola aristotelica.

***
Uno degli spunti interpretativi più fecondi riguarda la postura delle mani di Platone e Aristotele, posti al centro dell'affresco:
1)
Platone con l'indice rivolto al cielo, al mondo delle idee, luogo trascendente della verità;
2) Aristotele invece con la mano aperta verso il basso, sulla natura, da comprendere nel suo divenire.
Il che ci riporta ad una questione epistemologica ancora attualissima, e cioè che la ricerca della verità comincia nella scelta di ciò che riteniamo degno di essere conosciuto; cioè, chiedersi dove sia da cercare la "verità".
Il che, superando il "dubbio" è un esercizio irrinunciabile per evitare di pensare dentro le gabbie di un pensiero, come spesso accade oggi.

***
Al riguardo Goethe scrisse:
- "Platone si rapporta al mondo come potrebbe fare uno spirito beato cui piaccia soggiornare per qualche tempo sulla terra; quello che gli interessa non è tanto giungere a conoscere il mondo, quanto comunicargli ciò di cui esso ha bisogno.
- "Aristotele, invece, sta in rapporto al mondo come un uomo, e come un architetto; egli è qui una volta sola, e qui deve fare e creare."

***
Secondo me, invece, poichè Aristotile non ha l'indice puntato verso la terra, bensì una mano aperta tra la terra ed il cielo, lui intende dire che il cielo e la terra sono espressione di una stessa realtà non dualistica. l'ESSERE!

***
E, come diceva Shakespeare, noi non siamo altro che "vermi che strisciano tra la terra ed il cielo!"

Un saluto! :)

bobmax

Ciao Eutidemo,
questo considerare Platone un'anima beata fuori del mondo, mentre Aristotele è viceversa il realista che costruisce, denota già come la non dualità sia più detta che vissuta.
 
Aristotele, architetto che tra parentesi pare molto apprezzato in ambienti poco usi a costruire... rappresenta la fine dell'esperienza filosofica presocratica.
In lui compaiono ancora senz'altro ultimi lampi delle intuizioni originarie. Come quando accenna all'intelletto attivo. Che è unico e il solo ad essere libero, a differenza dell'intelletto passivo. Senza però approfondire lo spunto, probabilmente perché non ne sarebbe in grado.
In generale, ciò che in lui di gran lunga predomina, è... la noia.
 
Mentre in Platone, seppur artefice di quel "parricidio", vive ancora generosa la fiamma che ha generato la filosofia. Platone tra le nuvole, sì... proprio lui che è stato tra i più grandi logici dell'umanità!
Per rendersene conto basterebbe leggere II Parmenide.
Platone testimonia così il grande pensiero che ha ereditato, comprendendolo intellettualmente, ma senza essere più in grado di viverlo. Con lui l'oggettività in sé era ormai diventata scontata.
 
Certo che occorre la terra!, perché solo questo c'è: terra. Siamo infatti esser-ci.
Ma inoltrarci nella terra è necessario sempre e solo per un motivo: il cielo.
 
Tutto, ma proprio tutto nell'esserci rimanda a "altro". Tutto, nella ricerca della Verità, deve diventare man mano "cifra", rimando alla Trascendenza.
 
E che tutto sia cifra, lo si avverte inoltrandoci nel mondo che man mano sfuma nel nulla.
 
Sfumando l'esserci, non rimane più nulla.
Quel Nulla è Dio.
 
Dio che è certo, proprio per il suo non esserci.
Mentre ciò che c'è, la terra, mostra ad ogni passo la propria irrealtà.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Eutidemo

Ciao Bob :)
Io riferivo soltanto il giudizio di Goethe, che non corrisponde del tutto a quello mio.
Quanto a Platone, detesto la sua Repubblica, ma amo anche io il suo Parmenide.
Un saluto! :)

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