I postulanti dell'Assoluto

Aperto da Ipazia, 17 Agosto 2020, 16:43:12 PM

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Ipazia

Dopo due secoli di Krisis restano le "piccole" narrazioni di proporzioni antropologiche in cui kairos prevale su chronos e su ogni illusione assolutistica viste le condizioni ballerine pure del tempo scientificamente inteso. Kairos, il cui comune denominatore é il tempo della vita umana, individuale e collettiva. Col che si torna ai fondamenti, relativi ma insuperabili nella loro quasi assolutezza: Natura sive Deus.

Tralasciando il nullificare del Nulla, sempre così penosamente autocontraddittorio e sterile, malgrado la sua pervasività.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

johannes


CitazioneSeppur si tratta di un «nullo-fondamento», la postulazione non sarà nulla o annullata, perché trarrà il suo senso non dall'assolutezza del (fantasma del) suo fondamento, bensì dall'esigenza del suo esser risposta all'interrogazione dell'etica (doppio genitivo).

Un'esigenza che però rischierebbe di rimanere radicalmente inappagata! L'attimo del Kairos (ho nyn kairós), anche se consentisse in immagine di adeguare quella trascendenza etica a cui la volontà prometeicamente tende, sarà sempre fatalmente ricondotto a Chronos dominante se non ottiene il crisma dell'eterno. Così anche per i Benjamin e Kafka cari ad Agamben: sebbene obtorto collo tutto riprecipiterà nella perenne indistinzione di una dynamis caotica e amorfa. Difficile ed ambiguo il percorso che vorrebbe fare di vizio virtù. "[...] Zeus tonante possiede la potenza di condurre ogni cosa a compimento e ne dispone come egli vuole. Gli uomini non hanno capacità di discernimento. Creature di un giorno, viviamo come pecore, senza sapere a che termine dio porterà ciascuna azione" (Simonide). Heidegger nomina di nuovo tale destino nel "Sein zum Tode".

Quale "ethos" quindi? Quello che fa capo al desiderio o quello che lo stabilisce sul fatto? Di nuovo un discrimine. Ma ciò che, senza infrangersi, attraversi quando e come che sia il "meridiano zero" di Dike dovrà dirsi annichilito o non piuttosto inverato (attuato, giudicato)? Sarebbe possibile del resto rimanere nel discrimine, sulla linea d'ombra dominando se stessi? Aion! Da un certo punto di vista ciò assomiglierebbe  in effetti ad un impossibile procedere all'indietro dopo l'attraversamento, prima di ogni detto e di ogni dire, come anche de-contraendo lo spazio apertosi tra presente e passato così da posizionarsi non nell'indeterminato (cfr. ancora Agamben) ma al centro di un chiasmo. La difficoltà e il compito quindi - per richiamare un'antica e problematica immagine di Kairos - quello di rimanere in bilico sulla lama del rasoio, poggiando su di sé in equilibrio i bracci della bilancia, cioè non trascendere (magari inoperosamente, "profanando") ma essere trascesi. Pena il confondersi nell'ombra di chora.

Phil

L'essere-per-la-morte è una consapevolezza che rende autentico il vivere, ma una consapevolezza povera di prassi, almeno rispetto all'essere-con-gli-altri, che è il luogo in cui avviene il domandare etico, nella sua performatività sociale e nella sua responsabilizzazione individuale. Della morte ci si può anche non curare, mentre degli altri... è una questione appunto eminentemente etica.
Il tempo dell'etica pulsante (e pulsionale), quella fatta dagli uomini e non quella (ri)vendicata dagli (eventuali) dei, mi pare non possa che essere (salvo varcare la fidata soglia dell'epistemologia) proprio il kairos, l'attimo della decisione e dell'azione. Tempo umanamente presente (e pressante) che rimanda agli dei la responsabilità di stabilire nel/dal cielo la sorte chronologica dell'umano. Che tale kairos sia «fatalmente ricondotto a Chronos dominante se non ottiene il crisma dell'eterno»(cit.) è un meccanismo la cui fatalità andrebbe forse indagata e "sfatata" nei suoi presupposti metafisici, quelli della nostalgia della trascendenza, del crisma-redenzione, etc.

Alla radice, dipende da come si pensa (riflessivo) l'uomo: crede il proprio kairos etico incastonato nell'aion temporale (e non secolare) della trascendenza giudicante e ingiudicabile, oppure considera il proprio kairos etico fondato sull'ideale normativo del "come se dovesse poter essere così in eterno", pur nella consapevolezza antropologica e storica dell'immanenza di ogni "meridiano zero"?
Chiaramente ciascuno dei due kairos non vale l'altro, né con-gli-altri né per-la-morte; proprio come l'esser bilancia (Protagora) non vale l'esser funambolo sotto il giogo di una bilancia. Forse il denominatore comune resta solo quella lama che intaglia la chora, arrivando prima o poi a recidere ogni uomo-bilancia e ogni uomo-funambolo, ma è un orizzonte in cui il domandare etico si è già "risolto", facendosi silenzio c(h)orale.
«Quale ethos?» non è dunque una domanda etica, piuttosto metaetica o esistenziale, in piena circolarità ermeneutica dell'esistenza.

bobmax

Citazione di: Dante il Pedante il 12 Settembre 2020, 00:58:19 AM
L'assoluto è quella cosa che non dipende da altre cose,cioè incondizionato.Ma il suo contrario non è RELATiVO,ma condizionato,perché l'assoluto non esclude la possibilità di entrare in relazione.Come la relazione tra DIO=Assoluto e uomo=relativo. ::)

Ma la relazione tra Dio e l'uomo è possibile solo condizionando Dio.
E' la stessa relazione a condizionare.
E condizionando... relativizza.

E' però solo una forzatura. Che è pressoché impossibile evitare, se si cerca di pensare l'Assoluto.
E forzando... fatalmente si naufraga.

L'incondizionato non ha relazioni se non con se stesso.
Perché l'Assoluto non ammette alcun condizionamento.

Di modo che la relazione Dio-uomo non è una reale relazione, ma l'illusione in cui immancabilmente cade l'uomo che cerca Dio.

Non vi può essere relazione con l'Assoluto.
L'Assoluto è il Nulla!

Vana è allora ogni speranza di giungere a Dio?

No.
Ma bisogna essere quel Nulla.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Ipazia

Citazione di: bobmax il 15 Settembre 2020, 22:47:39 PM

L'incondizionato non ha relazioni se non con se stesso.
Perché l'Assoluto non ammette alcun condizionamento.

Di modo che la relazione Dio-uomo non è una reale relazione, ma l'illusione in cui immancabilmente cade l'uomo che cerca Dio.

E' ovvio: l'Assoluto non può avere un'escrescenza che vada oltre se stesso, quindi:

CitazioneNon vi può essere relazione con l'Assoluto.
L'Assoluto è il Nulla!

Non stringerei troppo la tautologia: mi pare più esatta, (teo)logicamente e ontologicamente, la conclusione:

CitazioneVana è allora ogni speranza di giungere a Dio?

No.
Ma bisogna essere quel Nulla.

Tutto(Dio)+Nulla(Noi) = Tutto

ovvero

1+0=1, e così pure i conti della spinoziana teologia geometrica tornano

Uno è uno tra gli infiniti nomi di Dio

Così si risolve, monisticamente, anche la questione del Male sussumendolo al Bene

Fosse mai che alla fine dei tempi ci ritroviamo anche un Lucifero pentito.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Dante il Pedante

Ciao Bobbmax

Sono Dante :)
Provo a continuare a scrivere anche se mi sembra che non vengo molto apprezzato.Sono pedante.Vengo già bannato spesso :(
Anche per me non si può "pensare" l'assoluto.Almeno nel senso che diamo al termine pensare.Però è possibile intuire la relazione tra Dio e l'uomo.Per me è come quando ami sinceramente un'altra persona.Non puoi "pensare" quell'amore,ma lo puoi vivereEsserci dentro cioè.Sinceramente=volere il bene dell'altro.Ma come è difficile capire nel profondo quale è il bene dell'altro vero?Così è difficile capire nel profondo quale è la volontà di Dio.Pregare aiuta questa relazione,ma senza moltiplicare le parole all'infinito.nessuno dice cinquanta volte all'amata ti amo,perché l'altra potrebbe anche stufarsi molto,no?Basta una volta con il cuore,in maniera sincera.
Secondo me l'incondizionato non viene condizionato dalla relazione.Come ha scritto Eutidamo il mare non viene condizionato dalle sue onde,resta mare.Lo stesso assoluto non viene condizionato dal divenire del relativo,resta assoluto.
E' giusto come scrivi che bisogna essre nulla,cioè lo intendo come spogliarsi,denudarsi di fronte a Dio.Quando sei nudo però ti viene da nasconderti vero?Da giiovane,al mare i miei amici mi hanno fregato i bermuda mentre facevo il bagno nudo.Non potevo più escire dall'acqua perché mi vergognavo a mostrarmi nudo.Così noi ci vergognamo e mettiamo tanti bermudoni.Citando tutte le fonti e gli autoriI tessuti e i sarti.E' molto difficile stare nudi davanti a Dio.Le poche volte che (credo)di esserci riuscito,che significa che non ho trovato un sacco di scuse, però ho provato una grande gioia.Che strano!
Per l'assoluto non è il Tutto.Il Tutto è solo la somma dei relativi.L'assoluto è invece fuori dal divenire,quindi non può essere il Tutto.Dio non è il mondo.Come l'artista non è l'opera d'arte,ma senza artista nessuna opera d'arte esiste,nespà? ;D
Padrone dacci fame, abbiamo troppo da mangiare.La sazietà non ci basta più. Il paradosso di chi non ha più fame,ma non vuol rinunciare al piacere di mangiare.(E. In Via Di Gioia)

bobmax

Citazione di: Ipazia il 16 Settembre 2020, 08:56:07 AM
Tutto(Dio)+Nulla(Noi) = Tutto

ovvero

1+0=1, e così pure i conti della spinoziana teologia geometrica tornano

Uno è uno tra gli infiniti nomi di Dio

Così si risolve, monisticamente, anche la questione del Male sussumendolo al Bene

Fosse mai che alla fine dei tempi ci ritroviamo anche un Lucifero pentito.

Ma il pentimento da solo non basta.
Occorre lasciarlo lavorare, nella ricerca della Verità.
E così sprofondare all'inferno.

Dove ciò che non avrei mai immaginato di essere, lo sono: Lucifero.

Tornerà mai a casa il figliol prodigo?
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

bobmax

Ciao Dante,
sono convinto che la gioia derivi dalla libertà, dall'autentica libertà.
E libero è solo colui che fa ciò che deve.

La libertà non ha perciò niente a che vedere con il libero arbitrio, che non esiste.
Ipotizzarne l'esistenza mostra solo la nostra dimenticanza dell'Essere.

La libertà consiste nel riconoscere ciò che si deve volere. Ossia volere ciò che Dio vuole.

La gioia deriva dall'essere ciò che sei. Veramente.

Pensare il Tutto come la somma di parti è anche questo fuorviante. Perché lo si immagina "qualcosa", mentre il Tutto non è affatto qualcosa!
E in quanto non è qualcosa non è pensabile per davvero. È un concetto limite. Necessario, ma in definitiva non pensabile.

Un po' come l'infinito.
O lo stesso amore.
Vi si può girare attorno, senza però mai coglierlo per davvero. È un vuoto insaziabile.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

johannes

Citazione di: Phil il 15 Settembre 2020, 18:16:20 PML'essere-per-la-morte è una consapevolezza che rende autentico il vivere, ma una consapevolezza povera di prassi, almeno rispetto all'essere-con-gli-altri, che è il luogo in cui avviene il domandare etico, nella sua performatività sociale e nella sua responsabilizzazione individuale. Della morte ci si può anche non curare, mentre degli altri... è una questione appunto eminentemente etica.

Credo che Heidegger già nel suo capolavoro del 1927 focalizzi bene tale questione: "La decisione, in quanto autentico esser-se-Stesso, non scioglie l'Esserci dal suo mondo, non lo isola in un io ondeggiante nel vuoto. Come lo potrebbe se essa, in quanto apertura autentica, è null'altro che l'essere-nel-mondo autentico? La decisione porta invece il se-Stesso nel rispettivo esser-presso l'utilizzabile prendente cura e lo sospinge nel con-essere avente cura degli altri [...] Soltanto dall'esser se-Stesso autentico nella decisione scaturisce l'essere-assieme autentico; non quindi dall'equivoco e geloso accordo o dall'affratellamento ciarliero nel Si e nelle sue imprese".

A quale tipo di interpretazione sufficiente rimanderebbe cioè una prassi svincolata da ogni previa preoccupazione fondativa? Una prassi "infondata" non sarebbe di fatti già di per sé sufficientemente povera e fin troppo aleatoria? Il fatto che altri ci siano, e che di essi ci si debba curare non è mai posto in questione, giacché "l'egoismo teoretico [...] come convinzione seria potrebbe trovarsi solo in un manicomio: e come tale occorrerebbe contro di esso non tanto una prova quanto una terapia" (Schopenhauer). Il problema dal mio punto di vista credo resti quello di scongiurare proprio quel circolo ermeneutico infinito e abissale (profano-kairologico, "c(h)orale" come tu dici) nel quale convivrebbero nella sua possibilità tanto un Levinas che un marchese De Sade (per i quali l'alterità, sebbene soggetta  a semantizzazioni differenti, sarebbe da dirsi per entrambi radicalmente trascendente ogni logos).

Ipazia

Detto in parole povere: l'etica deve essere fondata e la sua scalarità non può essere arbitraria ritenendo ogni fondamento equivalente. La ragionevolezza di tale affermazione sta nel carattere sociale, plurale dei contenuti e discorsi etici non riducibili alla mera dimensione individuale, tanto in rapporto alla natura che ai componenti della propria specie (sociale per natura ed evoluzione), denominati "altro" nel linguaggio filosofico.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil


Citazione di: johannes il 17 Settembre 2020, 00:26:48 AM
A quale tipo di interpretazione sufficiente rimanderebbe cioè una prassi svincolata da ogni previa preoccupazione fondativa?
Consideravo implicito, data la sezione del forum in cui siamo, che la prassi etica non fosse da intendere come l'agire frivolo e impersonale del «si dice» o del «così si usa». Proprio la preoccupazione fondativa pone il problema di collaudare e comprendere i fondamenti che stiamo usando mentre li stiamo usando, nel-mondo e con-gli-altri. Nondimeno, indugiare nel (cercare di) dipanare il fondamento ontologico, come dimostra proprio Heidegger, ostacola la fondazione di un'etica che sappia tradursi in prassi: pensare l'etica a partire dall'ontologia comporta l'irretire ogni possibile fondamento etico nelle problematiche ontologiche, ottenendo piuttosto uno sfondamento (nichilismo docet) che apre al poetante, ma chiude al praticante.
Nella destinalità dell'essere, nella quadratura fra «cielo / terra / divini / mortali», nel dimorare, etc. un'etica può dirsi e può darsi, ma stenta, secondo me, ad esplicitarsi fruibilmente in vista di una prassi. Nel frattempo, qui ed ora, l'interrogazione dell'altro (doppio genitivo) richiede un piano etico, approntato inevitabilmente (parafrasando Neurath) usando ciò che abbiamo "a bordo", non ciò che sarebbe ideale o "definitivo" avere.


Citazione di: johannes il 17 Settembre 2020, 00:26:48 AM
Il problema dal mio punto di vista credo resti quello di scongiurare proprio quel circolo ermeneutico infinito e abissale (profano-kairologico, "c(h)orale" come tu dici) nel quale convivrebbero nella sua possibilità tanto un Levinas che un marchese De Sade (per i quali l'alterità, sebbene soggetta  a semantizzazioni differenti, sarebbe da dirsi per entrambi radicalmente trascendente ogni logos).
Levinas, De Sade e altri (fra cui noi?) hanno "circolato" (e circolano) "nonostante" la quadratura di Heidegger, non come orizzonti possibili, ma entrambi come messaggio/invio-di-senso e (per qualcuno) prassi, fondati sul rispettivo (tauto)logos. Per poter «scongiurare»(cit.) ciò che essi hanno messo in circolo nell'ethos, sotto il cielo di qualunque trascendenza o Essere, è ormai tardi, si è perso l'attimo-giusto (ancora kairos): la loro Wirkungsgeschichte è già innescata da tempo e questo nostro stesso discuterne la alimenta. Se i loro discorsi convivono nel circolo (ovviamente senza confondersi), è proprio perché l'agognata "normatività metaetica a base ontologica" è assente, come gli dei di Holderlin che, nella loro fuga fra «non-più» e «non-ancora», hanno portato via con loro anche i fondamenti più affidabili della metafisica.

johannes

#71

Citazioneindugiare nel (cercare di) dipanare il fondamento ontologico, come dimostra proprio Heidegger, ostacola la fondazione di un'etica che sappia tradursi in prassi

Anche parlando di prassi linguistica, di etica del discorso, la citazione da SuZ credo riesca a dimostrare l'esatto opposto: è la preoccupazione (autentica) di indagare il fondamento a chiarificare le articolazioni della struttura etica solo presupposte (e rimosse) nel commercio geloso e ciarliero del "Si"; il quale può anche non essere affatto "frivolo", come p. es. nel caso di certe schermaglie accademiche per l'ottenimento di un'eccellenza scientifica esclusiva. Il convito dei pensatori essenziali mantiene invece i dialoganti sullo sfondo di una medesima intenzionalità maieutica (che presuppone quindi una metanoia parificante e vicendevolmente dinamica), costituendone una koiné di commensurazione reciproca. Quindi prassi autentica ("con-essere avente cura degli altri", "essere-assieme autentico") nel senso pregnante di praticabilità del confronto; autenticando nella decisione la determinazione ontologica fondamentale dell'esserci, la Sorge, che è modalità comunque e sempre costituzionalmente pratica dell'attuarsi della vita umana, sebbene ad un livello inferiore il se-Stesso si trovi nel mero esser-presso l'utilizzabile prendente cura.

Mutatis mutandis anche Platone - altro pensatore "essenziale" nel lessico heideggeriano - parla nella Repubblica di un principio anipotetico che, assunto in traccia come criterio, distingue il procedere autenticamente dialettico (filosofico) da quello meramente argomentativo che, senza passare per la confutazione delle ipotesi, le assume come vero principio per poi procedere deduttivamente verso una conclusione inverificata ("kairologica"?). Il principio anipotetico, autenticamente epistematico, è il principio del tutto che mette in questione le ipotesi ponendole dialetticamente in tensione (così l'Aristotele del "procedimento elenctico", di cui Heidegger è acclarato debitore) onde affermare e negare secondo verità.

CitazioneWirkungsgeschichte [...] l'agognata "normatività metaetica a base ontologica" è assente

Dubito che Gadamer avrebbe potuto parlare di storia degli effetti di un testo a prescindere dalla chiarificazione ontologica della struttura della precomprensione compiuta da Heidegger (che quindi ha tutt'altro che impedita), intesa esplicitamente a liberare il circolo ermeneutico dalla sua viziosità irriflessa (cattiva infinità), i.e. dalla sua inautenticità. La struttura ontologica della finitezza importa una finalità ermeneutica solo a patto di coglierne la tensione (o facies) costitutivamente "ascendente" (giusto il criterio assiologico del mitologema descritto anche nel mito platonico della caverna); all'opposto, l'intento di enuclearne la sostanza in certa "storicità pura del comprendere", seguirne cioè negli effetti centrifughi la sua ricaduta negativa, opaco-discendente, non può che infrangere l'ethos in una incommensurabilità insanabile, che se intende ricostituire in negativo l'interferenza produttiva della koiné maieutica perduta variandola di segno, può farlo solo nella potenzialità dinamica di un progressivo avvicendamento sostitutivo e aleatorio, "c(h)orale" (cit.), dei molteplici "ethoi/logoi" (come difatti la matrice di certa teoresi da Deleuze a Derrida, da Sini ad Agamben - sulla scorta della ricerca di una trasvalutazione/trasfigurazione della dialettica storica marxista - credo variamente dimostri). Tornerebbe a proposito ancora il Sofista platonico...

Sull'Heidegger "nichilista" ci sarebbe molto da dire, vuoi perché egli stesso scrive che "l'essenza del nichilismo non contiene nulla di negativo, della specie di quel distruttivo che ha la sua sede nelle convinzioni umane e si aggira nell'agire umano"; vuoi perché Severino stesso dimostrò, suffragato ora si sa dall'allora segreto beneplacito dello stesso Heidegger, che il senso della differenza ontologica è metafisico, quindi fondamento, non "sfondamento" se non del limite di incommensurabilità che pone l'esserci nella dimenticanza del come se l'essere non "fosse".

Phil

@johannes

Il passo di Heidegger citato non credo risolva il problema del fondamento ontologico; seppur sicuramente (se) lo ponga. Senza aver risolto il quale, un'etica a radice ontologica può solo proporsi con categorie estetiche, più che "performativamente" etiche. Cura, preoccupazione, con-gli-altri, etc. che significano pragmaticamente e che cosa comportano nell'agire?
Platone credo si sia sbilanciato di più nel tratteggiare una prassi etica, mentre Heidegger (per quel poco che lo conosco) si è fermato a speculare sui presupposti ontologici (non senza debolezze "strutturali"). Noto en passant che sul principio anipotetico, l'elenctico aristotelico, e sulla dimostrazione logica in generale, Heidegger non è probabilmente il più rigoroso dei buoni esempi (per questo oltreoceano, solitamente attenti alla forma logica e alle fallacie, lo considerano cinicamente "letteratura").
Non concordo sull'affermazione che «La struttura ontologica della finitezza importa una finalità ermeneutica solo a patto di coglierne la tensione (o facies) costitutivamente "ascendente"» (cit.) se per ascendente intendiamo qualcosa di differente dal processo semantico. Altrimenti, proprio come per Heidegger, occorrerebbe dimostrare l'inaggirabilità di tale ascendenza, fuori dal circolo ermeneutico e fuori dalla caverna (la cui assiologia mi risulta poco elenctica).
Citazione di: johannes il 18 Settembre 2020, 18:57:15 PM
all'opposto, l'intento di enuclearne la sostanza in certa "storicità pura del comprendere", seguirne cioè negli effetti centrifughi la sua ricaduta negativa, opaco-discendente, non può che infrangere l'ethos in una incommensurabilità insanabile, che se intende ricostituire in negativo l'interferenza produttiva della koiné maieutica perduta variandola di segno, può farlo solo nella potenzialità dinamica di un progressivo avvicendamento sostitutivo e aleatorio, "c(h)orale" (cit.), dei molteplici "ethoi/logoi"
I due riferimenti al «negativo» (che ho evidenziato in corsivo), su quale (pre)comprensione, circolarmente ermeneutica, si basano? Da notare che l'accezione negativa è applicata all'immanenza di una dinamica quantomeno constatabile, verificabile ed effettuale (quindi epistemologicamente "disponibile"). Nuovamente la dimostrazione logica rischia di esser presa in ostaggio dall'estetismo della trascendenza "gödelianamente" ontologica, dalla metafisica dell'Essere (come se ancora non ci fosse stata la filosofia analitica, la scienza del novecento, il postmoderno, etc. il che, non volermene, ho già ampiamente argomentato e ripetuto parlando con altri utenti).

johannes

Citazionecome se ancora non ci fosse stata la filosofia analitica, la scienza del novecento, il postmoderno, etc. il che, non volermene, ho già ampiamente argomentato e ripetuto parlando con altri utenti

Be', mi concederai che più che una postulazione (e men che meno di quale che sia assoluto) di senso e riferimenti specifici, la tua sembrerebbe rivelarsi essere una inequivocabile dichiarazione di fin de non recevoir, e per tale non posso quindi che accoglierla astenendomi da ogni possibile inutile replica. Pazienza! Non senza però prima ringraziarti di avermi data tra l'altro occasione di ricordare - e forse indirettamente di risponderti in merito al significato metafisico della negazione (sulla traccia dell'annoso problema dialettico dell'uno e dei molti) - quanto ahimè anch'io (non tu, ci mancherebbe!) devo ad un certo stoico ramingo sefardita e scomunicato ottico olandese (omnis determinatio... ecc. ecc.).

Phil

Citazione di: johannes il 19 Settembre 2020, 13:59:56 PM
più che una postulazione (e men che meno di quale che sia assoluto) di senso e riferimenti specifici, la tua sembrerebbe rivelarsi essere una inequivocabile dichiarazione di fin de non recevoir, e per tale non posso quindi che accoglierla astenendomi da ogni possibile inutile replica. Pazienza!
Ti ringrazio per la pazienza e la comprensione; per sdebitarmi ho cercato qualche vecchia discussione da poterti linkare, sperando di fornirti un riassunto delle puntate precedenti, ma purtroppo, nel mare magnum della sezione filosofica, non sono riuscito a rintracciarle (anche perché talvolta, se non erro, affioravano ai confini dell'off topic).
In breve: ho potuto constatare più di una volta, soprattutto in significativi dialoghi con gli utenti davintro, paul11 e forse anche altri, l'incommensurabilità paradigmatica fra un approccio metafisico e "continentale" (che cavalca principalmente Platone, Heidegger, Severino e altri) e un approccio più decostruzionista e analitico (che cavalca Derrida, rivista Godel, si astiene nell'epoché di un certo relativismo, etc.), un'incommensurabilità aporetica, un "fossato dialettico" che si fonda su presupposti fondativi e impostazioni ermeneutiche divergenti. Essendo consapevole di ciò, per esperienza, rivisitare quel fossato, ormai ben noto, non risulta particolarmente motivante.

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