I paradossi del linguaggio.

Aperto da Eutidemo, 20 Febbraio 2021, 07:04:41 AM

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Eutidemo

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Sottotitolo: Ermogene, Agostino, il paradosso di Wittgenstein e quello di Kripkenstein.
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Nel dialogo "Cratilo", di Platone, Ermogene esordisce affermando quanto segue:
"Io, o Socrate, pur avendone discusso molte volte con costui e con molti altri, non posso convincermi che esista altra correttezza di nome se non <<la convenzione e l'accordo comune>>.  A me pare infatti che quando uno dà il nome a qualcosa, questo sia il nome giusto: e se poi ne mette al suo posto un altro, e non la chiama più con quello, per nulla l'ultimo nome è meno giusto del primo, come quando noi cambiamo nome ai nostri familiari, non per nulla questo nome cambiato come secondo è meno giusto di quello che era stato dato prima. Infatti da natura non c'è cosa alcuna che abbia nome, ma soltanto per la <<regola consuetudinaria>> di coloro che si sono abituati a chiamare in una determinata maniera e così la chiamano."
Nonostante le successive argomentazioni di Socrate (che, a mio sommesso parere, sono molto poco convincenti), quest'ultima affermazione di Ermogene la ritengo assolutamente ineccepibile; ed infatti, se io che scrivo e voi che leggete non condividessimo le stesse "regole linguistiche", voi non potreste comprendere quello che io sto scrivendo adesso.
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Nelle sue "Confessioni", Sant'Agostino ci propone, nella forma di un racconto, in prima persona la genesi del linguaggio nella mente di un bambino.
Da una parte vi sono gli adulti (i "majores homines") che parlano e agiscono, dall'altra vi è il bambino che osserva attentamente e che cerca di imprimere nella memoria il nesso tra il suono che sente pronunciare e l'oggetto che essi intendono, e che diviene manifesto in virtù dell'immediata chiarezza dei gesti e dei comportamenti di chi parla.Poi, all'esercizio attento del silenzio seguono i primi gesti linguistici: il bambino impara a piegare la bocca ai suoni degli altri e l'infanzia scompare, e con essa il ricordo di quel primo apprendimento.
Il bambino ora parla ed entra a far parte del "procelloso consorzio degli uomini"; ed infatti il suo attento e silenzioso osservare il comportamento dei "majores homines" gli ha infine indicato la via per far parte di una nuova comunità, per non sentirsi più straniero rispetto ai suoi stessi genitori.
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Nelle sue "Ricerche Filosofiche", Ludwig Wittgenstein prende le mosse proprio dal precedente passo di Sant'Agostino, osservando: "In queste parole troviamo, così mi sembra, una determinata immagine della natura del linguaggio umano. E precisamente questa: le parole del linguaggio denominano oggetti, e le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni. In quest'immagine del linguaggio troviamo la radice dell'idea: ogni parola ha un significato. Questo significato è associato alla parola." (Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967, § 1).
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Ed invero tutte le proposizioni constano di "nomi" (nel senso di "denominazioni") ed hanno un "senso" proprio perché ci dicono in quale relazione stanno i nomi che le denominano.
Al riguardo, noi diciamo che:
- sono vere quelle proposizioni che ci dicono che le cose stanno proprio come stanno (ad es. che un elefante è più pesante di un topo)
- sono false quelle che propongono una relazione tra i nomi che non ha invece luogo tra le cose denominate (ad es. che un topo è più pesante di un elefante).
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A questo punto Wittgenstein ci invita a pensare al linguaggio come ad una cassetta degli strumenti, che racchiude, secondo un ordine vario, utensili che servono per diverse funzioni: ed infatti, proprio come gli strumenti della cassetta servono per avvitare, inchiodare, incollare e limare, così le parole servono per nominare cose, per indicare luoghi, per esprimere uno stato d'animo, per impartire ordini, per minacciare, per pregare e così via.
Cioè, semplificare la faccenda, come fa Sant'Agostino, dicendo che "tutte le parole denotano qualcosa" secondo Wittgenstein è un'espressione un po' troppo generica.
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Ed infatti, niente sarebbe più falso che credere che l'apprendimento linguistico consista semplicemente nell'imparare a ripetere certe parole: è necessario infatti imparare ad utilizzarle in un "gioco sintattico", in cui ogni singola mossa è conforme a una determinata "regola".
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Considerando il linguaggio sotto tale aspetto, potremmo paragonare le sue "regole" a quelle del gioco degli scacchi; per cui potremmo decidere liberamente che, fatte salve tutte le altre regole degli scacchi, il pedone di re possa muovere, sia pure una volta soltanto nel corso di una partita, di tre caselle in qualunque direzione.
Si tratterebbe, ovviamente, di una regola che nel gioco degli scacchi comunemente in uso non c'è;  però non esiste un principio teorico in base al quale stabilire quali debbano "necessariamente" essere le "regole" con le quali usare i pezzi su una scacchiera.
Ed infatti, esistono appunto "giochi di scacchi eterodossi" (dette pure "varianti scacchistiche"), le quali sono modalità di gioco basate sugli scacchi, ma con un certo numero di cambiamenti.
Fra i "giochi di scacchi eterodossi" sono annoverati anche giochi più antichi dei moderni scacchi; quali, ad esempio gli "chaturanga", "shatranj", "xiangqi" e "shōgi", i quali possiedono delle caratteristiche in comune con gli scacchi moderni e derivano probabilmente da un precedente gioco comune.
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Quindi la stessa cosa, almeno secondo Wittgenstein, vale per il linguaggio, richiamandosi, secondo me, ad un famoso passo di "Alice nel Paese delle Meraviglie" di Lewis Carroll: "The question is whether you can make words mean so many different things." ("La domanda è se puoi fare in modo che le parole significhino così tante cose diverse!").
E, come appunto si evince dalla mia parentetica traduzione, le "parole" di una lingua possono essere tradotte nelle "parole" di un'altra lingua; sebbene, tuttavia, le "regole" sintattiche siano (quasi sempre) comuni a tutte le lingue.
Ad esempio, in Latino ed in Tedesco, in genere il verbo si trova alla fine della frase ("Ego sum ex nubibus descensus", "Ich bin aus den Wolken gefallen"), mentre, invece, in Italiano, in genere, il verbo  si trova nel mezzo ("Io sono caduto dalle nuvole"); però, "sintatticamente", non è che poi ci sia una sostanziale differenza.
Tuttavia, sia in generale sia in particolare,nessuna "regola" linguistica può definirsi "assiomatica"
Di qui il famoso paradosso di Wittgenstein: "Una regola non può determinare alcun modo di agire, poiché qualsiasi modo di agire può essere messo d'accordo con una regola".
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Il paradosso di Kripkenstein prende le mosse e si sviluppa a partire da quello di Wittgenstein, laddove fa riferimento ad un esempio specifico di addizione, che potremmo pure non aver mai calcolato: 68 + 57.
Il risultato, dovrebbe essere 125, il quale è corretto, secondo Kripke, in due modi distinti:
- c'è una "correttezza matematica", per così dire interna alla regola dell'addizione, secondo cui 125 è la somma di 57 e 68, senza che senza che alcuna alternativa sia concepibile senza contraddizione;
- c'è però, al contempo una "correttezza metalinguistica", concernente il "significato" della parola "più" coinvolta nella proposizione sintattica.
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Pertanto, secondo Kripkenstein ne conseguono due modalità diverse di concepire un risultato deviante:
- nel caso della correttezza matematica, scrivere, ad esempio, 124 al posto di 125, è un semplice errore di calcolo;
- in una prospettiva metalinguistica però, potrebbe non essere affatto un errore, bensì l'articolazione di un calcolo diverso che utilizza i medesimi segni dell'addizione, ma intendendo la parola "più" come la "somma di due numeri meno un'unità".
Se ho ben capito, allo stesso modo si potrebbe dire che "due più due fa sei", se io, con la parola "due", intendo "significare" il numero "3".
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Messe le cose in questi termini, io non ci trovo niente di paradossale, perchè è ovvio che se decidiamo di denominare una cosa o un numero in modo diverso da prima, il senso della frase o del calcolo matematico cambia di conseguenza.
Ma io mi chiedo che "senso" abbia un ragionamento del genere!
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A dire il vero, il ragionamento  di Kripkenstein è un po' più complesso; ed infatti il pensatore tedesco "riarticola" la dimensione metalinguistica alla luce delle nostre "intenzioni passate".
Cioè, secondo lui, la presunta costanza del significato del segno "più" è data dall'identità d'intenzioni in gioco, nel "passato" e nel "presente";  cioè, noi  utilizziamo il segno "più" nel presente per indicare l'addizione, e nel passato, "supponiamo", abbiamo sempre inteso quella funzione, e nessun'altra (scrivendo "più", cioè, intendevamo proprio quest'operazione e nessun'altra).
Ma Kripkenstein mette in discussione proprio questa certezza, e si chiede: "Ma siamo proprio sicuri che in passato io intendessi l'addizione con il segno più, e non piuttosto una funzione molto particolare, che possiamo chiamare "viaddizione", e secondo cui la risposta corretta è 5 e non 125? "
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E poi si pone la seguente ulteriore domanda che deriva dalla prima: "Devo infatti applicare la stessa funzione che ho applicato in passato, ma il punto è proprio questo: data la finitezza degli esempi passati su cui ho fissato la mia intenzione, come faccio a determinare l'applicazione corretta in casi nuovi? Rispetto a quale regola l'applicazione sarà esatta?"
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Infine conclude con la seguente domanda retorica: "Le applicazioni precedenti, finite, sono sempre compatibili con più regole distinte: l'"addizione", ma anche la "viaddizione", una funzione analoga all'"addizione" ma che come risultato da sempre 5 per numeri maggiori di 57.
Perché mai, dunque, non dovremmo aver sempre inteso un'operazione piuttosto che un'altra?"
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A questo punto, sinceramente, non saprei proprio cosa rispondere, se non "E perché mai, invece, avremmo dovuto intendere di fare una "viaddizione" invece di una normale "addizione?"
A me, personalmente, non è mai capitato!
E a voi?
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:)

InVerno

Citazione di: Eutidemo il 20 Febbraio 2021, 07:04:41 AM
Di qui il famoso paradosso di Wittgenstein: "Una regola non può determinare alcun modo di agire, poiché qualsiasi modo di agire può essere messo d'accordo con una regola".
Questa è l'idea che va per la maggiore, e per cui il relativismo linguistico è scartato se non deriso accademicamente. Nella nostra ossessione scientista ci pare che se una regola dovesse costruire comportamento dovremmo essere capaci di "misurarlo" , altrimenti nessun cambiamento è avvenuto, ma come misuri la "Weltanschauung"? Manco la traduci..
In una lingua che distingue il primo pronome plurale in eslusivo ed inclusivo, "noi" può essere incluso alla seconda persona singolare o meno, ne risulta che la stessa frase può innescare due comportamenti completamente diversi, e fin qui a misurare ci riusciamo. Mi spiego.
1pp inclusiva Noi = (il gruppo di persone in questione + te a cui sto parlando)
1pp eslusiva Noi = (il gruppo di persone generico - te che stai ascoltando)
Ora succede che se io dico "Noi andiamo a mangiare una pizza", in Italiano non avendo distinzione esclusiva\inclusiva, l'interlocutore assume  dal contesto se lui stesso è invitato o meno (o lo chiede). Chi distingue i due pronomi, facilmente riesce ad escludere l'interlocutore dall'invito, magari risparmiando sul conto da pagare senza essere scortese. Lo stesso effetto può essere ottenuto, ovviamente, attraverso specificazione anche in lingua italiana, elencando gli invitati, o aggiungendo un altra porzione di frase che determina lo stesso effetto. Da questo si deduce, che nessuno ha mai portato a mangiare una pizza una persona originariamente indesiderata, e perciò le regole del gioco non generano comportamento(?). Ma il punto è che quando si moltiplica questo effetto, per decine di milioni di pensieri, non è veramente chiaro né facilmente "misurabile" come effettivamente cambi il mondo metalinguistico di una persona che applica costantemente questa suddivisione pronominale. Per esempio, leggendo il famoso slogan politico obamiano "Yes, WE can", questa persona abitutata ad un sistema binario, potrebbe chiedersi se "we" includa anche lui che legge, oppure sia da intendersi come "we = Obama e i suoi amici", e anche una volta inteso, probabilmente "WE" non avrebbe la stessa forza che avrebbe nelle orecchie di un americano, perchè la sua genericità anzichè comunicare "universalità" comunicherebbe confusione e distanza, perchè richiederebbe un meccanismo interpretativo appreso magari in tarda età.
Un comico americano potrebbe giocare su questa ambivalenza, e fare del sarcasmo sul fatto che quando Obama diceva "we" non intendeva davvero anche te, ma solamente lui e la sua stretta cerchia, ma il nostro amico bivalente, sarebbe in grado di cogliere questa ironia, se tentasse di far ricadere sintatticamente la frase nelle categorie che è solito usare nella sua lingua madre? Oppure potrebbe ridere ancora di più, visto che questa differenza sarebbe per lui accentuata ? Certo si dirà, se vorrà capire l'altra lingua dovrà adattarsi anche alle sue regole, ma anche adottasse in profondità il nuovo sistema di regole, effettivamente starebbe semplicemente "giocando ad un altro gioco", avrebbè già sconfinato in un nuovo paradigma, anzichè tentare di capirlo a partire dal suo paradigma originario. Ma cosa significa cambiare gioco? Funzionalmente le persone continuano a muovere pezzi sulla scacchiera, seppur in modo diverso, e perciò nulla cambia, c'è sempre uno che vince e uno che perde? Oppure cambiare gioco significa vivere un altra esperienza, che non c'è modo di determinare nè isolare, perchè è un processo che avviene unicamente in quel misterioso mondo definito "coscienza" che non riusciamo a penetrare? E se fossero vere entrambi, perchè la realtà non è una competizione accademica, e se ne fotte delle scuole di pensiero dominanti? Saluti.

Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Jacopus

Un bellissimo tema anche questo, che potrebbe far sviluppare molte ulteriori tematiche. In breve concordo con Inverno. Il linguaggio e la comunicazione umana rientrano nella categoria dell'analogico, ovvero nell'ambito di significati che hanno bisogno di un metacontesto, il più delle volte ambiguo e disponibile a interpretazioni o traduzioni multiple. È per questo che Carroll scrisse quel delizioso libretto su Alice e Bianconiglio. Non vi è solo il problema della traduzione da lingua a lingua, ma da soggetto a soggetto, da gruppo a gruppo, il linguaggio ironico, il contesto in cui si svolge la comunicazione, la storia del linguaggio e della società che carica di significati multipli lo stesso termine, la specializzazione delle discipline, per cui "coscienza" ha un significato diverso se lo usa un filosofo, un medico, un teologo o il cosiddetto "uomo della strada".
Matematizzare il linguaggio è un vecchio sogno positivista, che avrebbe le sue innegabili positività. Immaginate nel campo del diritto, se fosse possibile un linguaggio matematico, scevro da interpretazioni linguistiche. La giustizia sarebbe un gioco da ragazzi, altro che il mondo attuale di ricorsi, impugnazioni, interpretazioni, dottrine e giurisprudenza. E qualcuno ci ha anche provato, ma con magri risultati.
Il discorso opposto, rispetto al linguaggio digitale, tipico delle "hard sciences", mi sembra anch'esso tirato per i capelli. La matematica, nel suo essere digitale, ha permesso il mondo moderno come lo conosciamo. Volerla rendere discrezionale e frutto di convenzioni può essere un ottimo esercizio per ottenere una cattedra ma oltre a questo scopo non vedo altro.
Altro discorso è invece riuscire a mettere in comunicazione e far interagire le discipline scientifiche con quelle sociali, ovvero fra Naturwissenshaft e Geistwissenshaft, come dicono i nostri amici teutonici.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Eutidemo

#3
Ciao InVerno. :)
Trovo il tuo discorso molto interessante, e, in buona parte, condivisibile.
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D'altronde, nella nostra epoca "globalizzata", pullulano i "false friend", cioè le parole simili che in una lingua significano una cosa e in un'altra lingua significano una cosa diversa (o addirittura opposta); come, ad esempio, l'aggettivo "liberal(e)", che in USA è un predicato della sinistra, mentre, in Italia, lo è della destra.
***
In effetti, forse, è più corretta l'accezione americana, essendo più generale e non ristretta al mero ambito economico.
Ed infatti la "democrazia liberale" si distingue dalla "democrazia" "tout court", in quanto:
- la prima contempla la necessità di "principi costituzionali" che garatiscano la "libertà" dei singoli e la "tutela"  delle minoranze;
- mentre la seconda no, potendo consistere in una "tirannia maggioritaria", costituita da un'assemblea di cinque leoni e tre gazzelle che devono decidere che cosa mangiare a pranzo.
***
D'altronde, anche a voler restringere la portata dei termini al mero ambito economico, secondo me qui in Italia si fa un po' di confusione tra "liberali" e "liberisti".
Ed infatti:
- mentre i "liberali" veri e propri sostengono il libero mercato perché ritengono che faccia crescere "un po' tutti", e aborriscono i "cartelli";
- i "liberisti", invece, sostengono che è giusto che i pochi sopravvivano e facciano profitto (anche formando "oligopoli") e che i molti possano pure andare a farsi fottere...e che questo andrebbe garantito dallo STATO
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Un saluto! :)
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Eutidemo

Ciao Jacopus. :)
Trovo ineccepibile la tua considerazione, secondo la quale "il linguaggio e la comunicazione umana rientrano nella categoria dell'analogico, ovvero nell'ambito di significati che hanno bisogno di un metacontesto, il più delle volte ambiguo e disponibile a interpretazioni o traduzioni multiple".
Meglio di così, non penso che si sarebbe potuto dire!
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E' anche vero che conta molto anche il contesto in cui si svolge la comunicazione, e la specializzazione delle discipline, per cui "coscienza" ha un significato diverso se lo usa un filosofo, un medico, un teologo o il cosiddetto "uomo della strada".
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Quanto a "matematizzare" il linguaggio giuridico, rendendolo scevro da interpretazioni linguistiche, lo ritengo:
- teoricamente un "sogno";
- praticamente, almeno per ora, un "incubo"!
Ed infatti la giustizia non può risultare da un calcolo algebrico, o dall'utilizzo di algoritmi; per cui, così come mi rifiuterei di farmi operare da un robot, allo stesso modo mi rifiuterei di farmi giudicare da una intelligenza artificiale.
Entrambi possono risultare utili (e in alcuni casi indispensabili) per aiutare l'uomo ad esprimere un giudizio, ma non certo per "giudicare" direttamente loro; ed infatti come diamine farebbe un "robot" a valutare uno "stato d'ira" ai fini dell'applicazione della relativa attenuante, e, più in generale, i vari "coefficienti psichici" della condotta da giudicare?
Dio ce ne guardi!
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Sono invece d'accordo che altro discorso è riuscire a mettere in comunicazione e far interagire le discipline scientifiche con quelle sociali, ovvero fra Naturwissenshaft e Geistwissenshaft, come dicono i nostri amici teutonici.
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Un saluto! :)
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InVerno

Citazione di: Eutidemo il 20 Febbraio 2021, 11:18:15 AM
Ciao InVerno. :)
Trovo il tuo discorso molto interessante, e, in buona parte, condivisibile.
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D'altronde, nella nostra epoca "globalizzata", pullulano i "false friend", cioè le parole simili che in una lingua significano una cosa e in un'altra lingua significano una cosa diversa (o addirittura opposta); come, ad esempio, l'aggettivo "liberal(e)", che in USA è un predicato della sinistra, mentre, in Italia, lo è della destra.
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In effetti, forse, è più corretta l'accezione americana, essendo più generale e non ristretta al mero ambito economico.
Ed infatti la "democrazia liberale" si distingue dalla "democrazia" "tout court", in quanto:
- la prima contempla la necessità di "principi costituzionali" che garatiscano la "libertà" dei singoli e la "tutela"  delle minoranze;
- mentre la seconda no, potendo consistere in una "tirannia maggioritaria", costituita da un'assemblea di cinque leoni e tre gazzelle che devono decidere che cosa mangiare a pranzo.
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D'altronde, anche a voler restringere la portata dei termini al mero ambito economico, secondo me qui in Italia si fa un po' di confusione tra "liberali" e "liberisti".
Ed infatti:
- mentre i "liberali" veri e propri sostengono il libero mercato perché ritengono che faccia crescere "un po' tutti", e aborriscono i "cartelli";
- i "liberisti", invece, sostengono che è giusto che i pochi sopravvivano e facciano profitto (anche formando "oligopoli") e che i molti possano pure andare a farsi fottere...e che questo andrebbe garantito dallo STATO
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Un saluto! :)
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Sarebbe fin troppo semplice ridurre il problema ad una questione di traduzione, che in fin dei conti è un processo che da per scontato quello che anche tu sembri dare per scontanto, e a buona ragione, essendo in compagnia di filosofi e linguisti, ovvero che lo scopo prioritario del linguaggio sia la comunicazione. Perchè certo, le parole non sono frammenti di iperuranio, ma strumenti. Ma strumenti atti a fare cosa, è la vera domanda difficile di questo problema. Il martello è uno strumento la cui forma peso e materiali sono pensati per il semplice atto di schiacciare chiodi, certo uno può utilizzarlo anche per fare tante altre cose ma in maniera fondamentalmente inefficiente. Se il linguaggio avesse come scopo primario la comunicazione, i problemi di comunicazione non esisterebbero, sarebbero risolti in una maniera quasi matematica. E se invece la comunicazione fosse una funzione secondaria del linguaggio? Se ci pensi è chiaramente così anche  nei computer, dove il 99% del codice serve a far funzionare i processi interni, e solo l'1% viene utilizzato per comunicare con l'esterno, ed è spesso abbellito in maniera tale da rendere possibile la comunicazione attraverso un set di regole condivise, con gli esseri umani in forma di interfaccia, con altri devices in forma di protocolli. E nonostante esistano effettivamente persone che parlano molto più di quanto pensano, o parlano senza aver pensato affatto, il peso del linguaggio sul nostro sistema grava chiaramente, come per i computer, sul pensiero, non sulla comunicazione. Riderebbero tutti gli informatici se dicessi che la funzione primaria del codice "Python" è quella di interfacciarsi con l'utente, o comunicare con altri computer, ma se dico che la lingua serve a comunicare con altri esseri umani, c'è una folta schiera di persone comuni ed esperti che annuiscono convintamente. Allora il problema è diverso, se una lingua amazzonica non ha numeri superiori al cinque, il problema non è che questi individui non possono comunicare il numero sei, o come tradurre il numero sei, ma che quando vedono sei mele e sette banane, non riescono quantitativamente a pensarle in maniera diversa, ma questo non è misurabile, e perciò non esiste.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Eutidemo

Ciao Inverno. :)
Secondo me, non solo non c''è dubbio alcuno che lo scopo prioritario del linguaggio sia la comunicazione, ma, anzi, direi che esso costituisca la nostra "differenza specifica" rispetto agli altri animali.
Ed infatti:
- la stragrande maggioranza degli altri animali comunica  in modo elementare, per semplici segni vocali che rappresentano oggetti ed azioni, ma senza un vincolo sintattico tra di essi che consenta loro l'uso di un vero e proprio linguaggio;
- determinati animali, invece, come le api, sembrano che abbiano un modo di comunicare più complesso, ma, in nessun caso, paragonabile a quello umano.
A meno che in questo FORUM, dietro qualche pseudonimo, non si nasconda un'ape!
:)
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Se il linguaggio, invece, come sostieni tu, servisse precipuamente a far funzionare i processi "interni", e solo l'1% venisse  utilizzato per comunicare "esternamente" con gli altri esseri umani, probabilmente la nostra specie si sarebbe estinta; o meglio, non si sarebbe mai sviluppata, in quanto il successo evolutivo dell'uomo è dovuto principalmente alle sinergie di scala, dovute alla collaborazione consentita esclusivamente dal nostro linguaggio complesso (compreso quello degli indigeni amazzonici).
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Nè mi pare una valida eccezione, sostenere che se il linguaggio avesse come scopo primario la comunicazione, i problemi di comunicazione non esisterebbero; ed infatti i problemi di comunicazione esistono proprio perchè noi ci avvaliamo del linguaggio.
Sostenere il contrario, sarebbe come dire che se gli aeroplani avessero come scopo primario la il volo, i problemi di volo non esisterebbero!
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D'altronde, la circostanza che nei computer il 99% del codice serve a far funzionare i processi interni, e solo l'1% viene utilizzato per comunicare con l'esterno, costituisce la controprova che per l'uomo non è affatto così; e, questo, proprio perchè l'uomo non è un computer, ed i suoi processi cerebrali sono molto diversi.
Ed invero non si è mai visto un computer litigare con un altro computer, e ricoprirlo d'insulti!
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Quanto al fatto che il peso del linguaggio sul nostro sistema grava chiaramente, come per i computer, sul pensiero, e non sulla comunicazione, questo può essere vero; però, così come la comunicazione senza il pensiero sarebbe cieca, il pensiero senza comunicazione sarebbe muto...e, quindi, inutile.
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Un saluto! :)

Phil

Citazione di: InVerno il 21 Febbraio 2021, 08:01:30 AM
E se invece la comunicazione fosse una funzione secondaria del linguaggio?
Con il tempo mi sono piuttosto convinto che il linguaggio e le sue modalità d'uso strutturino cognitivamente la nostra visione del mondo e il nostro modo di pensare (solitamente ad un vocabolario scarno corrisponde una prospettiva scarna, ad un determinato uso del linguaggio corrisponde una determinata interpretazione della realtà, etc.), almeno tanto quanto la nostra esperienza del mondo, compresa quella del rapporto con i nostri simili, struttura il nostro linguaggio (apprendiamo spesso per imitazione e ricombinando ciò che abbiamo appreso, idee o abilità che siano, possiamo "approntare linguisticamente" ciò che ci serve per interpretare, dar senso e utilizzare il mondo, il che comprende neologismi, mutamenti diacronici della lingua, invenzione di nuovi stili, etc.).
Indubbiamente, in questa dinamica dialettica, la comunicazione (e l'esser compresi che essa ha come scopo) non è una scienza esatta, né per come è strutturata, né per come si rapporta al mondo; anche perché il numero e le caratteristiche dei giocatori è così elevato che inevitabilmente accadono fraintendimenti ed incomprensioni: in fondo la comunicazione, più che una partita a scacchi, è un gioco di squadra e come in tutti i giochi di squadra può capitare che i compagni, pur accomunati dal medesimo obiettivo (ovvero capirsi), non abbiano una buona intesa reciproca oppure finiscano addirittura con il litigare fra loro (in una sorta di logomachia).

Sulla comunicazione come funzione secondaria del linguaggio sono scettico, perché suppongo che se non avessi nessuno con cui comunicare, non avrei bisogno di dare un nome agli oggetti, alle sensazioni, alle idee, etc. strutturando un linguaggio. Banalizzando: se devo preparare una pietanza con ciò che ho nell'orto, non necessito di dare un nome agli alimenti perché li distinguo già con i sensi (per forma, colore, etc.), né ho bisogno di dare un nome alle quantità dei dosaggi (in passato ci si regolava ad occhio), né di dare un nome alle fasi o alle azioni della preparazione o al risultato finale; raccolgo, preparo, cucino, mangio, senza alcun bisogno del linguaggio. Nel momento in cui voglio comunicare la mia ricetta (non solo insegnarla, poiché basterebbe l'imitazione) a chi non può assistere alla mia preparazione, allora ho bisogno del linguaggio per raccontarla e descriverla.
L'esperimento mentale di proiettarsi nella testa di chi non ha un linguaggio (semmai sia possibile) eccede decisamente le mie possibilità, ma suppongo che nel momento in cui non si è soli la necessità di comunicare sorga spontaneamente (e neurofisiologicamente) mentre, in assenza di altri esseri umani con cui comunicare, non sono sicuro che inventerei un sistema fonetico o segnico (o di discorso interiore) per dare un'identità a ciò che, credo, riuscirei già a distinguere (e gestire) percettivamente, o emotivamente o quantitativamente (salvo che inizi a cimentarmi in questioni teorico-matematiche o molto astratte, sebbene ciò dipenderebbe dal tipo di attività da svolgere e dallo stile di vita).
Questa assenza di linguaggio e di comunicazione porterebbe (sempre per ipotesi) ad una visione del mondo tanto operativa quanto poco teoretica o poetica (da non confondere con «emotiva»: lo stupore istintivo che avrei di fronte all'aurora boreale non necessita infatti di dare un nome, né al fenomeno né all'emozione che suscita), anche perché, per inciso, una delle funzioni del linguaggio è creare orizzonti di senso anche perdendo aderenza con il reale (come ben sanno alcuni filosofi quando guardano indietro nel tempo).
Forse la comunicazione può sembrare una funzione secondaria per il linguaggio per noi che siamo già "dentro" il linguaggio (che ci è stato insegnato per comunicare e che finisce anche per strutturare la nostra visione del mondo) e che, magari, se fossimo l'ultimo uomo sulla terra probabilmente parleremmo comunque da soli (almeno per un po'), tuttavia credo sia possibile vivere e dare un "senso" al mondo anche senza un linguaggio, seppur da eremiti, mentre non mi pare possibile comunicare adeguatamente senza un linguaggio (in questo senso ritengo che la funzione primaria del linguaggio sia comunicare, «primaria» nel senso che è la funzione per cui è più necessario, funzione per la quale non ci sono sostituti migliori e per cui è maggiormente utilizzato).

InVerno

#8
Della natura comunicativa dei segnali animali, Eutidemo nessuno (neppure io) dubito, nella visione tradizionale che scompone il segnale in codificazione-decodificazione,  non c'è perdita di significato esattamente per motivi evolutivi. Infatti il segnale non deve danneggiare il ricevente (o il ricevente - evolutivamente - perderà sensibilità al segnale) e questo significa che il segnale deve conveire il messaggio "onestamente e inequivocabilmente" per essere capace di manipolare il ricevente e ottenerne un vantaggio evolutivo. "Purtroppo" nel linguaggio umano ci troviamo in una situazione totalmente diversa, non solo è impossibile identificare il segnale (nè i fonemi, nè le parole, singolarmente fungono da segnale, seppur le parole abbiano valore semantico, in totale isolamento sono inutili) ma la combinazione di  fonemi\parole per conveire un simil-segnale è virtualmente infinita (pur descrivendo una realtà finita). A che cosa effettivamente serve questa potenzialità, tutta umana, di conveire un numero potenzialmente infinito di contenuti? Non è esattamente una peculiarità utile nel comunicare un messaggio "inequivocabile" che è ciò che ci dovremmo aspettare in accordo alla teoria evolutiva, altresì dovremmo aspettarci che questa estrema duttilità semantica causi la desensibilizzazione dei riceventi, ovvero vista la quantità di frottole in giro, evolutivamente dovremmo smettere di ascoltarci a vicenda (e qualcuno sicuramente vorrà sostenere che è la situazione odierna, o addiritura postmoderna, ma non vorrei divagare). Tieni in considerazione che questa capacità esiste, persino alla luce del fatto che ogni frase non ha una storia, a differenza dei fonemi o delle parole che sono "raccolte" e tramandate (ma che non costituiscono un segnale), ogni frase mai stata scritta è la prima  volta che è stata scritta (dato il contesto) e non esiste un limite teorico quantitativo\qualitativo alle parole che possono essere usate per comunicare "lo stesso segnale", cioè seppur esistano codici per le parti semanticamente vacanti del linguaggio, nel momento in cui si suppone l'informazione venga trasferita, ti trovi praticamente in terra di nessuno, diversamente che nel mondo animale.

Preciso che quando dico "primario" e "secondario" non intendo due qualità indipendenti, ma interdipendenti (avrei potuto usare "forte" e "debole", se avessi pensato avesse incontrato maggiormente la tua "storia fraseologica", non essendovene una condivisa, goditi l'ambiguità) e perciò si tratta di un dibattito che ad un certo punto può essere considerato sterile quanto l'ordine di apparizione dell'uovo o della gallina, a meno che questa ipotetica gerarchia non serva per dare risposta ai quesiti di qui sopra, cosa che a me pare, ma che non ho il tempo di sviluppare, perchè ora devo dire qualcosa a Phil prima che il testo diventi troppo lungo per essere sopportabile.. Ovvero che alla prima parte della sua obiezione, ripeto in parte quanto detto ora, il fatto che l'elemento sociale fornisca il "movente" per un ampliamento dei territori linguistici e della capacità di combinare, è anzi una conferma della sua "secondarietà",anche alla luce del fatto (sempre se le teorie universalistiche di Chomsky siano corrette) che tutti nasciamo con una pressochè identitica capacità di linguaggio, al di là del fatto che essa sia poi sviluppata o meno dall'iterazione sociale. Se il linguaggio ha una funzione primariamente introspettiva, l'insieme di ciò che si definisce "linguaggio" è esteso anche ad attività incoscie, e tutta una serie di attività celebrali che non necessariamente ricadono in segnali fonetici, perciò il linguaggio esisterebbe anche stando zitti, essendo un riflesso della incessabile (a differenza della lingua) attività neuronale. Gli eremiti, o chiunque faccia percorsi spirituali molto "spinti", generalmente cercano di costruirsi un "setting" tale da facilitare uno degli sforzi umani più gravosi: smettere quella fastidiosa "dissenteria mentale" che li costringe a pensare tutto il tempo, perchè star zitti è facile, smettere di pensare richiede anni di allenamento, e buona parte del pensiero non è nemmeno costruito verbalmente, lo è solamente per necessità comunicative, siano esse dialogiche o monologiche. Gli eremiti, in genere non credono alla qualità terapeutiche del linguaggio, dicono che cura un problema per causarne due, e preferiscono tentare di silenziare il pensiero.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Eutidemo

#9
Ciao Inverno e Phil. :)
Be', certo: tutto dipende da quello che si intende comunicare.
Ad esempio, rammento che moltissimi anni fa, quando, di notte, ero di sentinella a un deposito di munizioni alla periferia di Orvieto, un tizio alquanto brillo cominciò ad insultarmi, e ad avvicinarsi pericolosamente al "limite di consegna"; quando gli ho detto "chi va là", non mi ha risposto, quando gli ho detto "alto là" se n'è fregato"...ma quando gli ho intimato "fermo o sparo!" ha compreso subito il messaggio, e, voltate le terga, è sparito nella notte.
Quindi, se quel Tizio è ancora vivo, lo deve alla sua comprensione del linguaggio! ;)
Sono d'accordo con voi, però, che, se invece di dirgli "fermo o sparo!" avessi cercato di spiegargli, in sintesi, la teoria della relatività di Einstein, probabilmente non avrebbe capito una sega...e magari sarei stato costretto a sparargli!
Un saluto ad entrambi! :)

Gyta

Citazione di: InVerno il 20 Febbraio 2021, 09:29:41 AM
Certo si dirà, se vorrà capire l'altra lingua dovrà adattarsi anche alle sue regole, ma anche adottasse in profondità il nuovo sistema di regole, effettivamente starebbe semplicemente "giocando ad un altro gioco", avrebbè già sconfinato in un nuovo paradigma, anzichè tentare di capirlo a partire dal suo paradigma originario. Ma cosa significa cambiare gioco? Funzionalmente le persone continuano a muovere pezzi sulla scacchiera, seppur in modo diverso, e perciò nulla cambia, c'è sempre uno che vince e uno che perde? Oppure cambiare gioco significa vivere un altra esperienza, che non c'è modo di determinare nè isolare, perchè è un processo che avviene unicamente in quel misterioso mondo definito "coscienza" che non riusciamo a penetrare? E se fossero vere entrambi, perchè la realtà non è una competizione accademica, e se ne fotte delle scuole di pensiero dominanti?
Già..!

Affascinante questo discorso e i vostri contributi tutti..
non ho molto da dire.. ma non riesco a non entrare per assaporare meglio il clima da vicino..
solo una minuscola riflessione..


Citazione di: Eutidemo il 21 Febbraio 2021, 17:15:40 PM
così come la comunicazione senza il pensiero sarebbe cieca, il pensiero senza comunicazione sarebbe muto...e, quindi, inutile.

.. il pensiero è comunicazione.. c'è un pensiero perché c'è un distinguo..
è in questo distinguo che si compie la comunicazione (seppure fosse interiore).. è comunque un dialogo tra le parti.. è coscienza..


Citazione di: InVerno il 21 Febbraio 2021, 08:01:30 AM
se una lingua amazzonica non ha numeri superiori al cinque, il problema non è che questi individui non possono comunicare il numero sei, o come tradurre il numero sei, ma che quando vedono sei mele e sette banane, non riescono quantitativamente a pensarle in maniera diversa, ma questo non è misurabile, e perciò non esiste.

.. questo discorso non vale anche per noi.. ? Concepiamo le "sette" banane perché al di sotto concepiamo il senso d'identità, unicità e molteplicità..
Non stai parlando di sistema a base5 giusto? (Sarei curiosa di saperne di più circa queste tribù.. se hai qualche link o libro che riporti più approfonditamente..)

"Prima di autodiagnosticarti la depressione o la bassa autostima,
assicurati di non essere circondato da idioti"

baylham

#11
Anche a me distinzione tra il linguaggio interiore e esteriore appare molto interessante.
Prendendo spunto dal titolo e da altri temi aperti da Eutidemo sulla contraddizione trovo altrettanto interessante la negazione, con la quale per dire il vero si deve dire il falso oppure, in altri termini, per dire il reale si deve dire l'irreale: ad esempio, "non ti ho mandato un messaggio".

Aggiungo anche che le parole sono cose, che sottostanno ad una logica economica nella loro produzione e consumo (uso).

InVerno

Citazione di: Gyta il 23 Febbraio 2021, 11:06:59 AM
.. questo discorso non vale anche per noi.. ? Concepiamo le "sette" banane perché al di sotto concepiamo il senso d'identità, unicità e molteplicità..
Non stai parlando di sistema a base5 giusto? (Sarei curiosa di saperne di più circa queste tribù.. se hai qualche link o libro che riporti più approfonditamente..)

E' un interessante studio, che è stato analizzato da più prospettive, e che riporta alla luce la validità della teoria Whorfiana, evito volontariamente di indicarti una prospettiva specifica, ma ti posso certamente dire il nome della tribù https://it.wikipedia.org/wiki/Munduruku sebbene ricordo chiaramente che in realtà le tribù erano due, una con limite cinque e l'altra tre, ma il senso è praticamente lo stesso, salvo che esistono comparazioni (ma penso siano su pubblicazioni a pagamento). Come racconta la pagina wikipedia, interessante è anche il fatto che si rifiutino di ampliare il loro campo numerico considerandolo una pessima allocazione della memoria (ancora, è economia del pensiero, non della comunicazione), ed essendo che normalmente queste tribù hanno una conoscenza enciclopedica di migliaia di erbe e piante, è comprensibile, come quando finito il master vorrebbero farti fare pure i corsi di aggiornamento!
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Phil

Citazione di: InVerno il 22 Febbraio 2021, 00:49:18 AM
tutti nasciamo con una pressochè identitica capacità di linguaggio, al di là del fatto che essa sia poi sviluppata o meno dall'iterazione sociale
Questa mi sembra una considerazione importante, da affrontare standone "al di qua": se è innegabile la predisposizione neurologica al linguaggio, credo sia altrettanto innegabile che tale predisposizione fisiologica vada poi attivata e "alimentata" adeguatamente per essere vincolante; cosa potrebbe attivarla più della (serie di input della) comunicazione? Può essere attivata anche in altro modo (domanda non retorica)? Viene attivata soprattutto dalla comunicazione, ma la sua funzione/utilità principale è poi altro dal comunicare?
La dialettica fra le strutture del linguaggio che condizionano la visione del mondo e l'esperienza del mondo che (ri)struttura le categorie del linguaggio (e del pensiero e dell'inconscio), suppongo si basi sulla pratica della comunicazione, piuttosto che primariamente sullo sviluppo cerebrale dell'individuo a prescindere delle sue esigenze e pratiche comunicative. Per esserne certi bisognerebbe forse far crescere un "Mowgli" nella giungla e poi studiarne l'attivazione neurologica dell'area del linguaggio, ma non credo ci sia un comitato etico disposto ad approvare tale esperimento (che fra l'altro richiederebbe molti tentativi, considerando l'alto tasso di mortalità di un neonato abbandonato da solo nella foresta).
Una prova di quanto la (esigenza della) comunicazione inneschi le potenzialità neurologiche del linguaggio, senza che, parodiando Wittgenstein, "i limiti del mio linguaggio siano i limiti del mio mondo", potrebbe essere forse proprio il caso della tribù citata: ha numeri fino al 5 e quantificatori generici per il resto, ma scommetto sia un'organizzazione linguistica solo per scopi comunicativi, non perché l'individuo non sappia cogliere realmente la differenza fra 5 frecce, 10 frecce e 100 frecce. La differenza non è comunicabile con esattezza (causa linguaggio limitato), ma individualmente la differenza è, suppongo, comunque registrata e individuata dai sensi (la vista principalmente): posto di fronte a due mucchi, uno con 10 frecce e l'altro con 100 frecce, credo che egli li indicherà, comunicando, con lo stesso nome (poiché non ha un quantificatore linguistico univoco, meglio noto come «numero», per distinguerli), tuttavia non credo che cognitivamente e interiormente egli non ne colga la differenza quantitativa (quindi, in questo caso, non sarebbe il linguaggio a strutturare la sua "esperienza interiore" dei due differenti mucchi di frecce, bensì la vista e il concetto astratto di quantità, pur non accuratamente linguisticizzato come il nostro).

Secondo me, se viene meno la necessità di comunicare con esattezza, può venir meno la formazione di un linguaggio esatto, senza tuttavia che ciò infici necessariamente le discriminazioni sensoriali e concettuali del soggetto, plausibilmente perché la funzione prioritaria del linguaggio è comunicare: se tutti i parlanti usano le stesse approssimazioni, può esserci comprensione reciproca (a prescindere da quanto rimanga nelle loro interiorità in forma non linguisticizzata); se tale funzione non fosse addirittura nemmeno necessaria, non credo servirebbe un linguaggio per identificare ciò che i sensi già distinguono (come nel suddetto caso dell'ortolano-chef solitario; il caso dell'eremita è invece differente perché solitamente egli nasce e cresce in una società che attiva appieno la suddetta predisposizione al linguaggio, per cui quando se ne allontana l'eremita deve "disimparare a linguisticizzare" la realtà e il proprio pensiero).
Ciò non significa che il linguaggio, una volta appreso e "attivato" nelle sue strutture e categorie linguistiche, non prestrutturi la nostra esperienza del mondo a prescindere dalla comunicazione (come avviene per l'eremita), ma soltanto, secondo me, che è la comunicazione (tramite modalità apprese contestualmente e culturalmente) a sviluppare le innate potenzialità, neurologiche e semantiche, del linguaggio dell'individuo senza che tale linguisticizzazione rifletta esaustivamente le dinamiche interiori dell'individuo (pur condizionandole innegabilmente).

Gyta

#14
Citazione di: InVerno il 23 Febbraio 2021, 12:46:47 PM
[..] interessante è anche il fatto che si rifiutino di ampliare il loro campo numerico considerandolo una pessima allocazione della memoria (ancora, è economia del pensiero, non della comunicazione), ed essendo che normalmente queste tribù hanno una conoscenza enciclopedica di migliaia di erbe e piante, è comprensibile, come quando finito il master vorrebbero farti fare pure i corsi di aggiornamento!

Grazie mille!!!!

Beh, la storia dei corsi di aggiornamento è comunque un po' differente.. in ambito scientifico è quasi indispensabile..
Quello che dici sul timore dei Mundurukù di sacrificare la memoria utile mi fa rammentare la posizione di certi percorsi spirituali in merito al pensiero discorsivo.. Precedentemente nella minuscola mia riflessione ho scritto "è coscienza" riferendomi al pensiero inteso come comunicazione 'introspettiva', per maggiore chiarezza, intendevo non esattamente che il pensiero sia la coscienza medesima ma uno dei suoi aspetti.. entro il termine 'coscienza' includerei anche tutta la zona inconscia della nostra psiche.. in un certo senso il pensiero non è che il senso percettivo del quale facciamo esperienza (credo) attraverso la memoria quindi entro la dimensione temporale..


Citazione di: Phil il 23 Febbraio 2021, 15:08:25 PM[..]Secondo me, se viene meno la necessità di comunicare con esattezza, può venir meno la formazione di un linguaggio esatto, senza tuttavia che ciò infici necessariamente le discriminazioni sensoriali e concettuali del soggetto[..]


Ehm.. penso invece che la discriminazione sensoriale cammini pari passo col linguaggio (*).. dare le parole al sentire è come entrare in una visione al microscopio entro ciò che sperimentiamo.. una visione tendente all'infinito (prendi con le pinze questa mia immagine).. è reale -purtroppo o semplicemente- che "i limiti del mio linguaggio siano i limiti del mio mondo" .. Rammento perfettamente il periodo della mia adolescenza.. ero la medesima persona di ora.. eppure non avevo parole per descrivere ciò che sentivo.. e quel sentire emergeva con-fuso.. era difficile indagarlo al fine di una analisi capace di immagini nette.. non solo "flash" di visioni destinate presto a scomparire alla coscienza.. è attraverso il linguaggio che quel sentire prendeva mano a mano una connotazione sempre maggiormente chiara.. talvolta evolvendosi anche solo per negazioni con le nuove immagini cui veniva comparato.. bellissimo poi quando il linguaggio conosciuto non è più sufficiente a descrivere con correttezza la nostra esperienza nascendo nuove forme per esprimere quei sentimenti che prima non riuscivamo non solo ad esprimere con maggiore approfondita correttezza.. ma a sperimentare pienamente..(!) parole nuove, termini presi in prestito da differenti contesti, prima all'apparenza terreni separati.. contagi proficui.. nuovi suoni.. con immagini che lentamente emergono come da una nebbia prima compatta.. più che affascinante.. non è solo un sondare le nostre profondità ma cogliere gradualmente e a piene mani da un sottostante infinito di possibilità.. è un viaggio nella coscienza.. (o ..la coscienza stessa che viaggia attraverso di noi.. attraverso la nostra identità..).. Non le parole in sé stesse, non la mera conoscenza delle parole ma il nostro farne reale percorso di conoscenza interiore, di indagine, di esperienza, di sperimentazione interiore.. non solo il significato diretto ma tutto l'immaginario che sottostà alla costruzione di un esperire che si attua attraverso il movimento del linguaggio.. non solo ravvisabile nelle traduzioni fra differenti lingue e il loro concepire differenti punti di fuoco e direzione.. in un certo senso è lo stesso percorso che avviene in ambito musicale..come se gli accordi e quella determinata successione e cadenza fossero in grado di far risuonare in noi quelle corde fino a poco prima sconosciute o mai emerse per davvero se non solo ora attraverso lo specchio magico del gioco della risonanza..

(*) ed infatti qui lo dici anche tu:

Citazione di: Phil il 23 Febbraio 2021, 15:08:25 PM
[..] è la comunicazione (tramite modalità apprese contestualmente e culturalmente) a sviluppare le innate potenzialità, neurologiche e semantiche, del linguaggio dell'individuo senza che tale linguisticizzazione rifletta esaustivamente le dinamiche interiori dell'individuo (pur condizionandole innegabilmente).
"Prima di autodiagnosticarti la depressione o la bassa autostima,
assicurati di non essere circondato da idioti"

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