Giudizi analitici a priori, certezza, tempo

Aperto da Angelo Cannata, 05 Settembre 2017, 14:01:35 PM

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Angelo Cannata

Penso che sia corretto deviare a parte questa discussione, che ho iniziato all'interno di quella su Essere o non essere, perché in effetti si tratta di una questione abbastanza a sé.

Nel mio post con cui ho avviato la questione, ho evidenziato, in sintesi, che il tempo mette in questione l'attendibilità della nostra memoria e, di conseguenza, la certezza che possiamo attribuire ai giudizi analitici a priori.

sgiombo ha risposto, se ho compreso bene, facendo osservare che, nel momento in cui io, andando a controllare se il giudizio corrisponde alla definizione, esprimo un interrogativo, o un dubbio, tale
Citazione di: sgiombo il 05 Settembre 2017, 08:41:05 AM... giudizio degno di dubbio ("sto eseguendo correttamente un giudizio analitico a priori") é un giudizio sintetico a posteriori

La mia obiezione è la seguente.

A me sembra che l'andare a controllare se il giudizio corrisponde alla definizione sia un'operazione necessaria. Quindi anche il giudizio degno di dubbio che ne nasce è un'operazione necessaria. Quindi tale giudizio sintetico a posteriori è necessario.

Se questo controllo non avvenisse, ne conseguirebbe un attribuire certezza al giudizio analitico a priori senza aver effettuato alcun controllo. Una tale attribuzione di certezza mi sembrerebbe alquanto debole da difendere.

Una volta che quindi 1) il controllo è necessario, inevitabile, affinché si dia giudizio analitico apriori degno di questo nome, e 2) considerato che da tale controllo scaturisce inevitabilmente un giudizio sintetico a posteriori, ne consegue che non è possibile produrre giudizio analitico a priori che non comporti in se stesso un giudizio sintetico a posteriori. In altre parole, un  giudizio analitico a priori non può fare a meno di basarsi su un giudizio sintetito a posteriori, perché altrimenti manca il controllo.
Ma il giudizio sintetico a posteriori non garantisce certezza.
Ne segue che il giudizio analitico a priori non può fare a meno di basarsi su un giudizio che è incerto.

sgiombo

Non confonderei i giudizi sintetici a posteriori e quelli analitici a priori.

I primi sono dubitabili e sono predicazioni circa i fatti reali (possono essere vere, possono essere false, non sono necessariamente vere né necessariamente false).

I secondi (se vengono correttamente svolti; e, poiché si tratta di un eventuale fatto reale, lo stabilirlo implica -anzi: é- un giudizio sintetico a posteriori) sono certi (salvo Goedel), in quanto (sempre se vengono correttamente svolti; e, poiché si tratta di un eventuale fatto reale, lo stabilirlo implica -anzi: é- un giudizio sintetico a posteriori) non fanno che esplicitare conseguenze di già contenute implicitamente nelle premesse (questo si intende per giudizio analitico a priori correttamente svolto: nessuna conoscenza di come sia o non sia, divenga o non divenga la realtà ma certezze condizionate e ipotetiche; lo stabilire se accade o meno -il fatto- che un giudizio analitico a priori sia correttamente svolto, e dunque certamente vero, é un giudizio sintetico a posteriori, portatore forse di conoscenza, ma dubbio).

Conclusione: di nessuna conoscenza circa i fatti, circa la realtà si può essere assolutamente certi: lo scetticismo (la bubitabilità circa qualsiasi conoscenza di ciò che é/accade realmente o meno) non é razionalmente superabile.

green demetr

Citazione di: Angelo Cannata il 05 Settembre 2017, 14:01:35 PM
Una volta che quindi 1) il controllo è necessario, inevitabile, affinché si dia giudizio analitico apriori degno di questo nome, e 2) considerato che da tale controllo scaturisce inevitabilmente un giudizio sintetico a posteriori, ne consegue che non è possibile produrre giudizio analitico a priori che non comporti in se stesso un giudizio sintetico a posteriori. In altre parole, un  giudizio analitico a priori non può fare a meno di basarsi su un giudizio sintetito a posteriori, perché altrimenti manca il controllo.
Ma il giudizio sintetico a posteriori non garantisce certezza.
Ne segue che il giudizio analitico a priori non può fare a meno di basarsi su un giudizio che è incerto.

La certezza non risiede nel giudizio a posteriori, ma nella purezza del giudizio stesso.

Ossia formalmente (per questo ritengo Kant un formalista di base) e per induzione, La Ragione ammette a se stessa, che esistono delle forme tramite le quali noi acquisiamo i dati empirici di certezza.

Queste forme sono gli apriori, cioè qualità che vengono prima del soggetto razionale.

In questo senso hai ragione Angelo il soggetto è vittima del suo mondo fenomenico e non può uscirne. Ma neppure negare.

E' il problema fondamentale che con il mio amico kantiano abbiamo fissato, e cioè come queste forme apriori o meglio ancora come L'Oggetto (esterno alla percezione) possa essere correttamente dimostrato.

Infatti l'apriori non giustifica l'Oggetto (il das Ding).

La cosa che mi irrita di Kant, ma per cui inevitabilmente non lo si può non stimare, è che egli ha costruito un mondo fenomenico totalmente soggettivo, e perciò altamente problematico, sulle questioni più ardue, come quelle dell'estetica.


Vai avanti tu che mi vien da ridere

Angelo Cannata

Verso la fine del mio intervento iniziale avevo scritto che il problema tempo investe in realtà non soltanto i giudizi analiti apriori, ma qualsiasi forma di pensiero, anche la più elementare che riusciamo ad immaginare, sempre per il fatto che qualsiasi pensiero richiede comunque il trascorrere di un lasso di tempo, infinitesimale per quanto esso possa essere.

In sostanza, anche un solo neurone del nostro cervello richiede del tempo per potersi attivare, fosse anche un miliardesimo di miliardesimo di secondo. Tempo significa un minimo di due momenti; minimo di due momenti significa che qualsiasi fedeltà o permanenza tra i due momenti è a rischio di infedeltà, impermanenza, smemoratezza.

Da qui la conclusione che ci è impossibile essere certi non solo di 1=1 come giudizio analitico apriori, non solo di 1=1 come premessa, ma anche semplicemente di 1.

Ciò non va confuso con un'affermazione di certezza del dubbio: si tratta soltanto di un'incertissima impressione, derivata dal ragionamento qui sopra esposto, che finora sembra verificarsi riguardo ad ogni cosa che vogliamo provare a pensare come certa.

green demetr

Citazione di: Angelo Cannata il 06 Settembre 2017, 14:41:18 PM
Verso la fine del mio intervento iniziale avevo scritto che il problema tempo investe in realtà non soltanto i giudizi analiti apriori, ma qualsiasi forma di pensiero, anche la più elementare che riusciamo ad immaginare, sempre per il fatto che qualsiasi pensiero richiede comunque il trascorrere di un lasso di tempo, infinitesimale per quanto esso possa essere.

In sostanza, anche un solo neurone del nostro cervello richiede del tempo per potersi attivare, fosse anche un miliardesimo di miliardesimo di secondo. Tempo significa un minimo di due momenti; minimo di due momenti significa che qualsiasi fedeltà o permanenza tra i due momenti è a rischio di infedeltà, impermanenza, smemoratezza.

Da qui la conclusione che ci è impossibile essere certi non solo di 1=1 come giudizio analitico apriori, non solo di 1=1 come premessa, ma anche semplicemente di 1.

Ciò non va confuso con un'affermazione di certezza del dubbio: si tratta soltanto di un'incertissima impressione, derivata dal ragionamento qui sopra esposto, che finora sembra verificarsi riguardo ad ogni cosa che vogliamo provare a pensare come certa.

No Angelo non ci siamo, il tuo fraintendimento su Kant è totale.

Il sistema di Kant nasce proprio dall'ambizione di creare un sistema di pensiero della stessa potenza di quello matematico.

Quando dici 1, non passa del tempo tra la percezione e l'attivazione del cervello.
Infatti il numero non è una percezione, ma un apriori.
E' quindi già presente nella mente. E' quindi certo.

Lo stesso concetto di tempo, è un apriori, non lo avevi detto anche tu?
Anche il tempo è certo, in quanto è già presente nella mente come intuizione.

Ti prego di ripensare a quello che scrivi.
Vai avanti tu che mi vien da ridere

sgiombo

#5
Citazione di: Angelo Cannata il 06 Settembre 2017, 14:41:18 PM
Verso la fine del mio intervento iniziale avevo scritto che il problema tempo investe in realtà non soltanto i giudizi analiti apriori, ma qualsiasi forma di pensiero, anche la più elementare che riusciamo ad immaginare, sempre per il fatto che qualsiasi pensiero richiede comunque il trascorrere di un lasso di tempo, infinitesimale per quanto esso possa essere.

In sostanza, anche un solo neurone del nostro cervello richiede del tempo per potersi attivare, fosse anche un miliardesimo di miliardesimo di secondo. Tempo significa un minimo di due momenti; minimo di due momenti significa che qualsiasi fedeltà o permanenza tra i due momenti è a rischio di infedeltà, impermanenza, smemoratezza.

Da qui la conclusione che ci è impossibile essere certi non solo di 1=1 come giudizio analitico apriori, non solo di 1=1 come premessa, ma anche semplicemente di 1.

Ciò non va confuso con un'affermazione di certezza del dubbio: si tratta soltanto di un'incertissima impressione, derivata dal ragionamento qui sopra esposto, che finora sembra verificarsi riguardo ad ogni cosa che vogliamo provare a pensare come certa.
CitazioneCaro Angelo, come altre volte, il tuo monismo materialistico (che non condivido) ti induce a confondere due cose ben diverse (anche se non può darsi l' una senza l' altra e viceversa) come il cervello e la coscienza (e nel suo ambito in particolare il pensiero).

La neurofisiologia é una cosa, la teoria (filosofica) della conoscenza (gnoseologia, epistemologia) é un' altra ben diversa cosa; la prima non può sostituirsi alla seconda nel criticare la possibilità, le condizioni, il significato, i limiti della conoscenza. E viceversa per quanto riguarda lo studio scientifico del cervello.

Angelo Cannata

@green demetr
La mia intenzione non è interpretare fedelmente Kant, ma esaminare la validità, oggi, per me, di ciò che sembrerebbe valere per i giudizi analitici a priori, cioè la loro capacità di possedere certezza.

@sgiombo
Seguendo le tue indicazioni è facile essere d'accordo anche con quanto ha appena scritto green demetr: si tratta di fenomeni senza tempo.

Ma cos'è un'idea se pretendiamo di prenderla in considerazione indipendentemente dal fatto che essa sia il prodotto di un'attività del cervello? Di quali idee stiamo parlando allora? Mi sembra che in questo caso l'unica possibilità che rimane è Platone. Nel suo mondo delle idee tutto funziona a dovere perché è un mondo autonomo dalla mente umana.

Ripeto: io non intendo attenermi a un'interpretazione fedele né di Kant, né di Platone. Desidero solo esplorare se oggi, per noi esseri umani di oggi, è possibile parlare di certezze assolute.

paul11

Angelo C.
Possono esserci degli assoluti;  francamente dire , postulare una "certezza" significa non potere più interpretare quella"certezza", perchè diviene inamovibile.
Gli assoluti sono possibili solo ai livelli più astratti , come "Uno" se giustificato da essenze sintetiche dialettiche, non kantiane(perchè le sintesi a sua interpretazione è esperienza del vissuto).

Vediamo se riesco a spiegarmi meglio in poche parole.
Se tolgo i livelli astratti tipici delle ontologie  metafisiche, allora la gnoseologia diventa relativistica.
Perchè il solo vissuto esistenziale,  le forme assiomatiche "creative" dei fondamenti su cui sono state costruite le geometrie e le matematiche moderne, sono molto "plastiche", nel senso di modellabili nella forma rappresentativa della realtà.
Sparisce la certezza di sicuro, e gli assoluti sono relativi ad un tempo in cui sono stati formulati gli assiomi fondativi e fino a nuovi altri assiomi che rimodellino le forme rappresentative . Il fascino di questo sistema anzidetto, è la creatività: ma non è vero che sia un sistema esperienziale delle pratiche , alla fine è fortemente metafisico come gli "oggetti" quantistici o le nuove geometrie non euclidee

Il grande problema esistenziale, sono nelle pratiche, non essendoci teoretiche "assolute" (non dico nemmeno certe): Non esistono più
paradigmi perchè non esiste una gerarchia teoretica ,tutte le forme si sostanziano nelle pratiche sullo stesso piano, per cui vince o la persuasione della retorica, oppure il "più forte" come potere (culturale, politico ,economico, ecc).
Perchè le pratiche sono rimaste essenzialmente funzional gerarchiche: questo è un problema che  Green cerca di capire come "oggetto" politico-social-culturale.

E' come se il cielo fosse crollato e l'uomo fosse ancora più solo.

Il problema di una spiritualità "in assenza del cielo", quindi di assoluti, come penso sia quella che tu vai cercando, presuppone comunque che ogni uomo, l'umanità, abbia questo qualcosa che non è definibile e quindi rischia a sua volta di cadere nelle opinioni teoriche e ricade nella pratiche come individualizzazione come sta accadendo per tute le pratiche.
Insomma la perdita di "assoluti" disintegra le pratiche come "comunità" sociale, perchè manca il cemento culturale.

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 08 Settembre 2017, 00:58:13 AM

@sgiombo
Seguendo le tue indicazioni è facile essere d'accordo anche con quanto ha appena scritto green demetr: si tratta di fenomeni senza tempo.
CitazioneScusa, ma dove mai avrei scritto che i fenomeni mentali (e i fenomeni in generale, anche materiali) sarebbero "senza tempo" ? ! ? ! ? !

Ho anzi sempre affermato a chiare lettere l' esatto contrario, in questa discussione e ancor più in tante altre nelle quali mi sono divertito a "strapazzare" Severino e il suo "fissismo similparmenideo"!




Ma cos'è un'idea se pretendiamo di prenderla in considerazione indipendentemente dal fatto che essa sia il prodotto di un'attività del cervello? Di quali idee stiamo parlando allora? Mi sembra che in questo caso l'unica possibilità che rimane è Platone. Nel suo mondo delle idee tutto funziona a dovere perché è un mondo autonomo dalla mente umana.
CitazioneMa cos' é il cervello, con le sue attività, se pretendiamo di prenderlo in considerazione indipendentemente dal fatto che esso sia un insieme-successione di sensazioni fenomeniche o "dati di coscienza"?

"Esse est percipi"! (Berkeley)

Il cervello, con le sue attività (neurofisiologiche), produce (causa) unicamente contrazioni muscolari (e al limite secrezioni ghiandolari) che costituiscono il comportamento (umano o animale), constatabile, verificabile nell' ambito delle esperienze fenomeniche coscienti di "osservatori" diversi dal "titolare" del cervello in questione, esperienze coscienti che sono dunque altre e ben diverse da quella del "titolare" del cervello osservato", l' unica che comprenda le "idee" (pensieri; ed anche esperienze fenomeniche materiali) in questione; le quali possono benissimo essere prese in considerazione indipendentemente dal cervello in questione, trattandosi di cose (fenomeniche entrambe) reciprocamente ben diverse, anche se necessariamente non possono accadere le une senza che accadano le altre e viceversa).

Platone e le su idee non entrano porprio per nulla: stiamo parlando di ben concreti e reali pensieri accadenti nell' ambito di una determinata esperienza fenomenica cosciente (di un potenziale "osservato"), ai quali necessariamente coesistono e biunivocamente corrispondono (se si compiono le appropriate osservazioni), ma con i quali non affatto si identificano, né ne "emergono", né vi "sopravvengono", nell' ambito di altre, ben diverse esperienze fenomeniche coscienti, quelle di potenziali "osservatori", determinati eventi neurofisiologici in un determinato cervello: tutt' altro, per quanto necessariamente in corrispondenza biunivoca!





Angelo Cannata

Forse c'è un particolare problema che rende tutte queste questioni pressoché impossibili da risolvere. Mi sembra che si tratti di un inganno della  nostra logica. L'inganno consiste nel pensare che certi concetti che ci sembrano più semplici siano effettivamente talmente semplici da poter essere adoperati con tranquillità per lavorare su altri concetti che riteniamo più complessi. Naturalmente l'inganno maggiore in proposito viene a verificarsi nel concetto che si presta ad apparire il più semplice di tutti: il concetto di essere. Parmenide se ne servì per formulare il principio di non contraddizione, ma senza essere prima pervenuto ad alcuna definizione di esso in grado di dimostrarne l'effettiva semplicità.
D'altra parte, proprio l'atto del definire, che è il mestiere dei vocabolari, mostra un'evidente contraddizione: in ogni vocabolario le definizioni sono praticamente sempre più lunghe della parola da definire, già per il semplice fatto che la parola da definire è una sola; sono rare le voci di vocabolario che definiscono una parola servendosi di un'altra unica parola. In questo senso, ogni definizione di qualsiasi parola non può fare a meno di evidenziarne la complessità, visto che non può fare praticamente a meno di essere più lunga della parola da definire. La contraddizione consiste nel fatto che la definizione di una parola dovrebbe servire a semplificarne l'uso, chiarificarne il significato; ma se l'espressione del significato è sempre più lunga della parola da definire, la definizione, invece di avere una funzione chiarificatrice, assume la funzione di esplicitazione delle complessità che quella parola contiene.
Qualcosa di simile avviene nella nostra storia mentale: noi nasciamo con una mente già complessa, con strutture complicatissime già predisposte, quindi come possiamo pensare di giungere a idee oggettivamente semplici?
Di conseguenza, se vogliamo discutere di certezza dei giudizi analitici apriori, dovremmo per lo meno prima prendere atto della complessità del termine "certezza", per non dire dei termini "giudizio", "analitico", "apriori".
Ora, se già concetti come "certezza" ed "essere" sono complicatissimi, a dispetto del loro apparire elementari, al servizio delle basi del pensare, che senso ha discutere di metafisica, relativismo, assolutezza?
A pensarci bene, mi sembra che complessità alla fine non significhi altro che relatività. Un concetto, o qualsiasi altra cosa, può apparirci semplice, elementare, solo nel momento in cui trascuriamo, dimentichiamo le complessità che esso è in grado di suscitare nella nostra mente. È un fenomeno simile a quello del dire che ore sono: pensiamo di poterlo fare solo perché trascuriamo la precisione dei secondi o dei miliardesimi di secondo: se vogliamo dire che ore sono con precisione assoluta, siamo costretti a concludere che ciò è impossibile, perché qualsiasi metodo dovrà attuarsi nel tempo; ma attuarsi nel tempo significa un lasso di tempo, che quindi conterrà inenvitabilmente un prima e un dopo, in modo tale che sarà impossibile stabilire il punto esatto in cui quell'ora è scoccata con assoluta precisione.

A parte queste osservazioni, mi sembra di individuare una contraddizione tra queste frasi:

Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2017, 12:31:20 PMle "idee" ... possono benissimo essere prese in considerazione indipendentemente dal cervello...

... stiamo parlando di ben concreti e reali pensieri...
Come si può pensare di parlare di pensieri concreti se li si considera distinti dal cervello? Un'idea presa in considerazione indipendentemente dal cervello può essere considerata un'idea concreta?
Inoltre, quanto alla considerazione di relazioni biunivoche, mi sembra che si ponga il problema della dimenticanza di cui ho detto sopra: qualsiasi relazioni biunivoca implica un controllo della fedeltà tra le componenti coinvolte, controllo che ha bisogno di attuarsi nel tempo e quindi non può garantire fedeltà.

Per quanto riguarda il non entrarci di Platone, eccolo qui:
Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2017, 12:31:20 PMle "idee" ... possono benissimo essere prese in considerazione indipendentemente dal cervello...

sgiombo

#10
Citazione di: Angelo Cannata il 09 Settembre 2017, 09:16:27 AM
Forse c'è un particolare problema che rende tutte queste questioni pressoché impossibili da risolvere. Mi sembra che si tratti di un inganno della  nostra logica. L'inganno consiste nel pensare che certi concetti che ci sembrano più semplici siano effettivamente talmente semplici da poter essere adoperati con tranquillità per lavorare su altri concetti che riteniamo più complessi. Naturalmente l'inganno maggiore in proposito viene a verificarsi nel concetto che si presta ad apparire il più semplice di tutti: il concetto di essere. Parmenide se ne servì per formulare il principio di non contraddizione, ma senza essere prima pervenuto ad alcuna definizione di esso in grado di dimostrarne l'effettiva semplicità.
D'altra parte, proprio l'atto del definire, che è il mestiere dei vocabolari, mostra un'evidente contraddizione: in ogni vocabolario le definizioni sono praticamente sempre più lunghe della parola da definire, già per il semplice fatto che la parola da definire è una sola; sono rare le voci di vocabolario che definiscono una parola servendosi di un'altra unica parola. In questo senso, ogni definizione di qualsiasi parola non può fare a meno di evidenziarne la complessità, visto che non può fare praticamente a meno di essere più lunga della parola da definire. La contraddizione consiste nel fatto che la definizione di una parola dovrebbe servire a semplificarne l'uso, chiarificarne il significato; ma se l'espressione del significato è sempre più lunga della parola da definire, la definizione, invece di avere una funzione chiarificatrice, assume la funzione di esplicitazione delle complessità che quella parola contiene.
Qualcosa di simile avviene nella nostra storia mentale: noi nasciamo con una mente già complessa, con strutture complicatissime già predisposte, quindi come possiamo pensare di giungere a idee oggettivamente semplici?
Di conseguenza, se vogliamo discutere di certezza dei giudizi analitici apriori, dovremmo per lo meno prima prendere atto della complessità del termine "certezza", per non dire dei termini "giudizio", "analitico", "apriori".
Ora, se già concetti come "certezza" ed "essere" sono complicatissimi, a dispetto del loro apparire elementari, al servizio delle basi del pensare, che senso ha discutere di metafisica, relativismo, assolutezza?
CitazioneE perché mai non dovrebbe aver senso l' interessarsi di problemi (teorici in questo caso; ma anche pratici) complicati?

Se si tratta di problemi abbastanza interessanti non é fatica (mentale) sprecata ma bene profusa!



A pensarci bene, mi sembra che complessità alla fine non significhi altro che relatività. Un concetto, o qualsiasi altra cosa, può apparirci semplice, elementare, solo nel momento in cui trascuriamo, dimentichiamo le complessità che esso è in grado di suscitare nella nostra mente. È un fenomeno simile a quello del dire che ore sono: pensiamo di poterlo fare solo perché trascuriamo la precisione dei secondi o dei miliardesimi di secondo: se vogliamo dire che ore sono con precisione assoluta, siamo costretti a concludere che ciò è impossibile, perché qualsiasi metodo dovrà attuarsi nel tempo; ma attuarsi nel tempo significa un lasso di tempo, che quindi conterrà inenvitabilmente un prima e un dopo, in modo tale che sarà impossibile stabilire il punto esatto in cui quell'ora è scoccata con assoluta precisione.
CitazioneCredo che i pensieri siano (quale più quale meno) relativi se non altro perché costituiti da relazioni fra concetti (e relazioni fra concetti servono anche a definire altri concetti).

Certo, "tempus fugit" e conseguentemente ogni conoscenza (in senso proprio, circa ciò che realmente accade o meno: giudizi sintetici a posteriori) "si dilegua nello stesso suo accadere" (se accade).



A parte queste osservazioni, mi sembra di individuare una contraddizione tra queste frasi:

Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2017, 12:31:20 PMle "idee" ... possono benissimo essere prese in considerazione indipendentemente dal cervello...

... stiamo parlando di ben concreti e reali pensieri...
Come si può pensare di parlare di pensieri concreti se li si considera distinti dal cervello? Un'idea presa in considerazione indipendentemente dal cervello può essere considerata un'idea concreta?
Inoltre, quanto alla considerazione di relazioni biunivoche, mi sembra che si ponga il problema della dimenticanza di cui ho detto sopra: qualsiasi relazioni biunivoca implica un controllo della fedeltà tra le componenti coinvolte, controllo che ha bisogno di attuarsi nel tempo e quindi non può garantire fedeltà.
CitazioneDomando a mia volta:

Come si può pensare di parlare di pensieri concreti se li si considera indistinti dal cervello?

Il cervello é un organo di poco più di un chilo di colorito roseo-grigiastro, di consistenza molliccia, fatto di neuroni, cellule gliali, assoni, sinapsi vasi sanguigni, ecc., a loro volta fatti di molecole, atomi, particelle-onde subatomiche, campi di forza; invece il pensiero é fatto di concetti, nozioni, ragionamenti, inferenze induttive e/o deduttive, immaginazioni, speranze, timori, ecc.

Non proprio vedo come si possano confondere due generi di "cose" tanto diversi fra loro, solo per il fatto che l' una non accade senza che accada l' altra (e viceversa: non solo non si dà pensiero senza cervello vivo e funzionante, ma nemmeno si dà -del tutto parimenti!- cervello vivo e funzionante in determinati modi, per esempio non nelle modalità "sonno" o "distrazione" o "godimento estetico puro", ecc., senza pensiero).

Nemmeno il polo positivo di un magnete può darsi senza polo negativo e viceversa, ma non per questo non sono "cose" ben diverse (e in un certo senso "contrarie") fra loro!

L' idea (il ricordo, l' immaginazione) del mio gatto Attila nell' ambito della mia coscienza, che é ben altra cosa dello stato funzionale dl mio cervello mentre la penso nell' ambito di altre coscienze (per esempio della tua), almeno potenzialmente (e attualmente purché lo si vada ad esaminare), stato funzionale che inevitabilmente ad essa coesiste (ma é ben lungi dall' identificarsi con essa!), non può che considerarsi un' idea concreta (contrariamente al' idea astratta di "gatto").

Quello della incertezza d tutte le conoscenze (dell' insuperabilità razionale dello scetticismo) é tutt' altra questione.
Che vale per ogni e qualsiasi conoscenza. Ma se siamo qui a discutere e non ci lasciamo vivere passivamente, é evidentemente perché entrambi crediamo (fideisticamente, irrazionalmente) a (la verità di) determinate conoscenze (se tutto ciò accade, cosa dubitabile): tu per esempio (fra l' altro) nel monismo materialistico, io nel dualismo dei fenomeni - monismo del noumeno.

La relazione biunivoca fra esperienza cosciente e cervello é "controllata nella sua fedeltà" (dimostrata; se si crede alla conoscenza scientifica, inevitabilmente sulla base di talune premesse arbitrarie, non dimostrabili logicamente né mostrabili empiricamente) dalle moderne neuroscienze, soprattutto attraverso l' imaging neurologico funzionale -cervello- osservato in relazione ai resoconti introspettivi -coscienza, pensiero- delle "cavie umane" che studia).


Per quanto riguarda il non entrarci di Platone, eccolo qui:
Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2017, 12:31:20 PMle "idee" ... possono benissimo essere prese in considerazione indipendentemente dal cervello...
CitazioneMa che c' entra?

Platone riteneva (detto grossolanamente, "a spanne" perché é dai tempi ahimé lontani del liceo che non me ne interesso, e anche allora me ne sono interessato solo per dovere) che le idee esistessero eternamente in qualche luogo fisico (o meno verosimilmente metafisico: questa parola compare dopo Aristotele), indipendentemente dall' esistenza e dalle esperienze a posteriori degli uomini.

Mentre io credo che siano eventi mentali conseguenti l' esperienza degli uomini (non c' erano prima dell' umanità, non ci saranno dopo) .




paul11

Citazione di: Angelo Cannata il 09 Settembre 2017, 09:16:27 AM
Forse c'è un particolare problema che rende tutte queste questioni pressoché impossibili da risolvere. Mi sembra che si tratti di un inganno della  nostra logica. L'inganno consiste nel pensare che certi concetti che ci sembrano più semplici siano effettivamente talmente semplici da poter essere adoperati con tranquillità per lavorare su altri concetti che riteniamo più complessi. Naturalmente l'inganno maggiore in proposito viene a verificarsi nel concetto che si presta ad apparire il più semplice di tutti: il concetto di essere. Parmenide se ne servì per formulare il principio di non contraddizione, ma senza essere prima pervenuto ad alcuna definizione di esso in grado di dimostrarne l'effettiva semplicità.
D'altra parte, proprio l'atto del definire, che è il mestiere dei vocabolari, mostra un'evidente contraddizione: in ogni vocabolario le definizioni sono praticamente sempre più lunghe della parola da definire, già per il semplice fatto che la parola da definire è una sola; sono rare le voci di vocabolario che definiscono una parola servendosi di un'altra unica parola. In questo senso, ogni definizione di qualsiasi parola non può fare a meno di evidenziarne la complessità, visto che non può fare praticamente a meno di essere più lunga della parola da definire. La contraddizione consiste nel fatto che la definizione di una parola dovrebbe servire a semplificarne l'uso, chiarificarne il significato; ma se l'espressione del significato è sempre più lunga della parola da definire, la definizione, invece di avere una funzione chiarificatrice, assume la funzione di esplicitazione delle complessità che quella parola contiene.
Qualcosa di simile avviene nella nostra storia mentale: noi nasciamo con una mente già complessa, con strutture complicatissime già predisposte, quindi come possiamo pensare di giungere a idee oggettivamente semplici?
Di conseguenza, se vogliamo discutere di certezza dei giudizi analitici apriori, dovremmo per lo meno prima prendere atto della complessità del termine "certezza", per non dire dei termini "giudizio", "analitico", "apriori".
Ora, se già concetti come "certezza" ed "essere" sono complicatissimi, a dispetto del loro apparire elementari, al servizio delle basi del pensare, che senso ha discutere di metafisica, relativismo, assolutezza?
A pensarci bene, mi sembra che complessità alla fine non significhi altro che relatività. Un concetto, o qualsiasi altra cosa, può apparirci semplice, elementare, solo nel momento in cui trascuriamo, dimentichiamo le complessità che esso è in grado di suscitare nella nostra mente. È un fenomeno simile a quello del dire che ore sono: pensiamo di poterlo fare solo perché trascuriamo la precisione dei secondi o dei miliardesimi di secondo: se vogliamo dire che ore sono con precisione assoluta, siamo costretti a concludere che ciò è impossibile, perché qualsiasi metodo dovrà attuarsi nel tempo; ma attuarsi nel tempo significa un lasso di tempo, che quindi conterrà inenvitabilmente un prima e un dopo, in modo tale che sarà impossibile stabilire il punto esatto in cui quell'ora è scoccata con assoluta precisione.

A parte queste osservazioni, mi sembra di individuare una contraddizione tra queste frasi:

Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2017, 12:31:20 PMle "idee" ... possono benissimo essere prese in considerazione indipendentemente dal cervello...

... stiamo parlando di ben concreti e reali pensieri...
Come si può pensare di parlare di pensieri concreti se li si considera distinti dal cervello? Un'idea presa in considerazione indipendentemente dal cervello può essere considerata un'idea concreta?
Inoltre, quanto alla considerazione di relazioni biunivoche, mi sembra che si ponga il problema della dimenticanza di cui ho detto sopra: qualsiasi relazioni biunivoca implica un controllo della fedeltà tra le componenti coinvolte, controllo che ha bisogno di attuarsi nel tempo e quindi non può garantire fedeltà.

Per quanto riguarda il non entrarci di Platone, eccolo qui:
Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2017, 12:31:20 PMle "idee" ... possono benissimo essere prese in considerazione indipendentemente dal cervello...

In riferimento a tutta la disamina della prima parte, hai scritto una cosa importante non sufficientemente indagata dalla filosofia stessa.
Il linguaggio simbolico accompagnava la struttura del mito, come il linguaggio del logos accompagna il nuovo linguaggio della scienza moderna. Questa è un grande dilemma sottovalutato.
Il simbolo è sintesi , il segno è particolarità.Nelle lingua l'ideogramma  è diverso dalla parola come composizione di un alfabeto.
Questa richiesta è avvenuta nel preciso momento in cui i filosofi interogano la physis perdendo l'essere.

Il nostro linguaggio è fortemente viziato dalla complessità poichè tende al particolarismo, ma proprio perchè si è pensato che la verità fosse nella physis, nei fenomeni ed eventi naturali.

L'esito è perdersi nei linguaggi.Finchè non si sarà capito che il principio "di non contraddizione" non è un principio, ma una regola, si penserà che il semaforo che regola il traffico sostituisce  il codice della strada che regola il processo dei veicoli.
Il semaforo regolativo del traffico è diventato soggetto surrogato dell'agente conoscitivo, che nell'esempio del codice della strada è il veicolo

I filosofi e i linguisti analitici fanno l'errore di porre una regola come principio che sta sopra l'essere e l'esistenza, arrivando a forme filosofiche e linguistiche che sono paradossali rispetto alle problematiche che invece sarebbero dovute  essere chiarite.
Quindi si è creata altra complessità sulla complessità. Queste sono filosofie inutili, perchè le prassi, le nostre quotidianità, non necessitano di elucubrazioni linguistiche. e vanno avanti indifferentemente da queste forme filosofiche e linguistiche:non ci aiutano, non ci servono.

Il segno linguistico per definire la realtà e incorporarla nel concetto del pensiero, ha culturalmente proceduto pari passo con le forme culturali storiche, costruendo neologismi e abbandonando lingue"morte".

Il mio personalissimo parere è che il nostro linguaggio così funzionale alle scienze multiformi, ai gerghi letterali e scientifici, hanno seguito la complessità culturale, operando prolissicità, proliferazione linguistica per seguire conoscenze quantitative e quindi estese e non qualitative e di sintesi. Questa forma linguistica alfabetica,non è detto che sia la più funzionale alla nostra mente, lo è alla nostra cultura attuale.

Angelo Cannata

Ogni volta che torno a pensarci, sarà certo per mia mentalità acquisita, mi appare sempre di più la contraddittorietà del parlare di certezze, verità, inconfutabilità, assolutezze.
Ultimamente pensavo questo: nessuna verità, nessuna certezza, nessuna assolutezza, neanche un giudizio analitico apriori può esistere se non viene pensato da qualcuno. Perciò, nel momento stesso in cui ne parliamo o vi pensiamo, ne stiamo già mostrando la dipendenza da noi stessi. È come certuni che dicono, sbraitando ad alta voce e con toni minacciosi, di essere calmi e tranquilli: l'atto smentisce il detto.

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 19 Settembre 2017, 16:58:50 PM
Ogni volta che torno a pensarci, sarà certo per mia mentalità acquisita, mi appare sempre di più la contraddittorietà del parlare di certezze, verità, inconfutabilità, assolutezze.
Ultimamente pensavo questo: nessuna verità, nessuna certezza, nessuna assolutezza, neanche un giudizio analitico apriori può esistere se non viene pensato da qualcuno. Perciò, nel momento stesso in cui ne parliamo o vi pensiamo, ne stiamo già mostrando la dipendenza da noi stessi. È come certuni che dicono, sbraitando ad alta voce e con toni minacciosi, di essere calmi e tranquilli: l'atto smentisce il detto.
CitazioneE' ovvio che i giudizi analitici a priori dipendono da noi (dalle regole logiche, alle definizioni e dagli assiomi che arbitrariamente stabiliamo).

Se rispettano queste regole da noi stabilite, ovvero se sono correttamente eseguiti, allora sono certamente veri per definizione.

Non ci vedo proprio nulla di contraddittorio

Angelo Cannata

Se dipendono da noi, come possiamo fidarci della nostra stessa idea che si tratti di giudizi veri? Quando ho la sensazione di aver pensato con correttezza un giudizio vero, per il fatto che è apriori, chi mi assicura che già gli stessi concetti di "vero", "giudizio", "analitico", ecc., non contengano improprietà, contraddizioni?
Ad esempio, se io provo a pensare "fuoco spento" o "acqua asciutta", il mio cervello mi avvisa che queste espressioni contengono contraddizione. Se ne accorge e mi avvisa. Ma quando non se accorge, chi mi avviserà? E quindi, su qualsiasi concetto, anche il più elementare, chi mi assicurerà che tale concetto non contiene già in se stesso, come semplice concetto, contraddizioni di cui il mio cervello non si accorge?

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