Giochi di pensiero: la terza rivoluzione filosofica

Aperto da Vito J. Ceravolo, 02 Febbraio 2020, 18:09:52 PM

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Vito J. Ceravolo

per Niko, Phill, Paul11
 
Ciao Niko
Quando dico "non c'è niente sul tavolo" mi riferisco al vuoto fisico, qualcosa al cui interno succede qualcosa: non esiste alcun nulla assoluto nel mondo naturale, ci può essere la mancanza di qualcosa ma non la mancanza di tutto.
Questo"non c'è niente sul tavolo" si chiama "nulla relativizzato" il quale non è altro che un qualcosa di esistente, ed è solo il nulla relativizzato ad avere determinazioni, non mai il nulla assoluto.
Cioè, quando parlate di tale "nulla relativizzato", assegnandoli determinazioni di qual si voglia genere od ogni volta che assegnate determinazioni a qualocsa, voi in verità parlate di un essere. E io parlo molto e sotto molti aspetti della differenza fra il nulla assoluto e il nulla relativo (cfr. Mondo, ed. Il Prato 2016).
 
Ciao Phil e Paul11,
Da me, distanziandomi da Severino e dalle altre ontologie, "se A=A allora nonA": l'accettazione dell'identità porta a ciò che l'identità non è.
Questa formalizzazione logica A=A porta dunque una temporalità intrinseca da cui il divenire: AàØA 
 (cfr. Libertà, ed. IfPress 2018, p. 23)
L'appunto di Phil si risolve dunque così:
Nulla si crea e nulla si distrugge (A=A), tutto si trasforma (à ØA)
Ho affermato "AàØA" come forma del divenire (della fisica e delle pratiche) al capitolo 8 di: https://filosofiaenuovisentieri.com/2017/11/12/unificazione-della-relativita-e-della-fisica/
 
Ciao Paul11,
Non voglio ingabbiare la vita dentro le forme, ma considero le forme come un mezzo di conoscenza della vita, una delle vie per la pratica e per vivere. In ogni caso ho trovato note piacevoli nel discorso intorno all'istinto, l'intuito, la razionalità, il pensiero. 

Phil

Citazione di: paul11 il 16 Febbraio 2020, 17:26:33 PM
Il problema è in effetti fra tautos ed esperienza. Ma la scienza pura e non quindi applicata inserisce tautologie e non esperienze nei paradigmi. [...] Eppure la geometria ,la logica, la matematica, funzionano applicativamente quando ad un segno tautologico applico un segno esperienziale fenomenico.
L'applicazione pratica è ciò che spesso fonda a posteriori, retroattivamente, la legittimità del paradigma, del tautos (inteso come tautologia di sistema) e del dizionario di definizioni su cui esso si fonda. Prescindendo da tale applicazione di verifica, si rischia di cadere o nella petitio principii (o altre psudo-dimostrazioni circolari e autoreferenziali) oppure nel regressus ad infinitum, che sposterebbe asintoticamente il "luogo" del fondamento.
Ci mise già in guardia lo scettico Sesto Empirico:
«Quando qualcuno afferma che si danno delle verità, presenta questa affermazione o senza dimostrazione o con una dimostrazione. Se senza dimostrazione, deve essere consentito porre senza dimostrazione anche la tesi opposta, cioè che non si danno verità. Se con una dimostrazione, chiedo: con una falsa o una vera? Se con una falsa, l'intera affermazione non vale niente. Se con una vera, domando: con che cosa ha potuto dimostrare che la sua dimostrazione è vera? Con un'altra dimostrazione? Ma così ce ne vorrebbe sempre una nuova, per cui il nostro lavoro non potrebbe mai finire» (Sesto Empirico, Contro i logici, II, 15 s.).
Se invece la verità (senza addentrarci qui nella sua definizione) si manifesta nell'applicazione del paradigma, non c'è bisogno di ulteriore verifica, perché l'esperienza (sempre entro i suoi limiti interpretativi) risolve le perplessità teoretiche. Viceversa, se per la natura del tema o della questione, è preclusa la possibilità di verifica applicativa, e ciò nonostante si aspira ad un'unica "verità", allora si innesca il conflitto fra le tautologie dei differenti sistemi interpretativi (ed una meta-tautologia che metta tutti d'accordo, sposterebbe solo il problema del "dove" sia fondata definitivamente la sua autorevole verità).
Proprio come
Citazione di: paul11 il 16 Febbraio 2020, 17:26:33 PM
In geometria dichiaro il punto, dichiaro la linea dichiaro un piano, costruiti i fondamenti posso con coerenza e consistenza costruire figure geometriche regolari, teoremi
parimenti in filosofia "dichiaro il noumeno, dichiaro l'intuizione, dichiaro la ragione in sé, etc. e posso con coerenza e consistenza (ma non completezza) costruire validi (≠ veri) ragionamenti interpretativi del reale" (dove «dichiaro» vale «definisco»).
Il problema applicativo di ogni formalismo resta, secondo me, la sua "compilazione", ovvero l'assegnazione dei valori (e delle esperienze, vissuti, fatti, etc.) relativi alle varie "x", "A", etc. senza tali compilazioni, la formalità non è pragmaticamente utile, pur restando una preziosa cornice di "validità teor(et)ica" (≠ verità).

Sariputra

#122
La 'verità' richiede un potere e il potere - -> l'autorità (exousía). Sempre. L'autorità definisce la 'verità' . La 'verità' è dunque una categoria politica. Se Yeoshwa basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria fondamentale, molto comprensibilmente il pragmatico Pilato chiede: «Che cos'è la verità?» . Pilato fa la stessa domanda dell'uomo/filosofo comune.
È la domanda che pone anche la moderna dottrina dello Stato: può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell'ambito del potere? Vista l'impossibilità di un consenso sulla verità, la politica puntando su di essa non si rende forse strumento di certe tradizioni che, in realtà, non sono che forme di conservazione del potere?
Ma, dall'altra parte , che cosa succede se la verità non conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti , criteri sottratti all'arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la 'verità' sull'inganno poté portare la liberazione?
Ma che cos'è la verità? La domanda del pragmatico, posta con un certo scetticismo, è una domanda molto seria, nella quale effettivamente è in gioco il destino dell'umanità. Che cosa è, dunque, la verità? Possiamo riconoscerla? Può essa entrare, come criterio, nel nostro pensare e volere, nella vita sia del singolo che in quella della comunità?
Verità ed opinione errata, verità e menzogna nel mondo sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile.
La non-riconoscibilità della verità è una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo.
Ma se il potere è menzogna, abbiamo un'indiretta, prima affermazione di cosa non è la verità: potere.
Se il potere determina la prassi , abbiamo una seconda affermazione di cosa non è la verità: pragmatica.
Se la prassi è funzione, abbiamo una terza affermazione di cosa non è la verità: funzionale.
La verità esternamente è 'im-potente' nel mondo. Internamente è inattaccabile perché è negazione della menzogna.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

bobmax

@Sariputra

La negazione della menzogna è, nel nostro esserci, una verità relativa, condizionata.

Questa "verità" dipende infatti dalla stessa menzogna che nega.

È perciò un passo della ricerca ma non il suo completamento.

Questo è il limite della "verità" nell'esserci: necessita della falsità per poterla negare.

Ma la Verità assoluta non ha alcun condizionamento. Non necessita di alcuna falsità da negare.
Infatti la Verità è negazione della negazione.

Di modo che la Verità è solo questione di fede.
L'unica autentica fede.
Senza la quale vi è solo malafede.

La libertà dalle dittature dipende certo dalla negazione delle menzogne su cui si reggono. Ma la "verità" che nega le menzogne da dove scaturisce?
Ogni volta dalla fede nella Verità assoluta!
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Ipazia

La verità dell'universo antropologico non è la verità dell'universo fisico. Il primo la deriva dal suo ethos storicamente determinato ed è talmente contingente da essere piuttosto etica che verità. La seconda è più rigorosa e deriva dalle leggi naturali.

Poi vi é la verità logica che é quella a cui fa riferimento Phil e, su un piano filosofico diverso, coloro che pensano la realtà totalmente sussumibile sotto quell'ombrello metafisico.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Sariputra

#125
Le probabilità che la verità sopravviva all'assalto del potere, dei poteri tutti, sono veramente pochissime , diceva Hanna Arendt. Essa rischia sempre di essere bandita dal mondo, non solo temporaneamente ma, potenzialmente, per sempre. E' il problema dell'autorità che si fa strumento di menzogna. Qualunque autorità  che si fa potere è una menzogna.
Se poi la menzogna è organizzata, così com'è oggigiorno, diventa un'arma assolutamente adeguata contro la verità. Infatti, meno pensiamo che la verità conti, più la risposta alla menzogna si perde nella retorica e nei sofismi.
La realtà in cui siamo gettati con la nascita è una 'finzione'. Ci troviamo bell'immersi in un mare di leggi, convenzioni e regole già stabilite a cui aderiamo "come se" le avessimo scelte noi, liberamente in prima persona. Questo "come se" è già l'indizio della finzione del mondo in cui viviamo, che però accettiamo e avalliamo ogni santo giorno. E' un rituale rassicurante dopo tutto...Sappiamo che le regole cambiano, si trasformano, ma non mettiamo in dubbio che siano "vere". Siamo 'proiettati' nel mondo senza consapevolezza dei motivi per cui lo facciamo, senza consapevolezza della finzione attorno a noi.Viviamo nella menzogna. Il mondo è una menzogna...

"Mondo= Luogo immaginario costruito dalla mente umana ove poter fingere continuamente" Dizionario Devoto-Oli
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

niko

#126
Citazione di: Phil il 16 Febbraio 2020, 19:07:12 PM
Citazione di: paul11 il 16 Febbraio 2020, 17:26:33 PM
Il problema è in effetti fra tautos ed esperienza. Ma la scienza pura e non quindi applicata inserisce tautologie e non esperienze nei paradigmi. [...] Eppure la geometria ,la logica, la matematica, funzionano applicativamente quando ad un segno tautologico applico un segno esperienziale fenomenico.
L'applicazione pratica è ciò che spesso fonda a posteriori, retroattivamente, la legittimità del paradigma, del tautos (inteso come tautologia di sistema) e del dizionario di definizioni su cui esso si fonda. Prescindendo da tale applicazione di verifica, si rischia di cadere o nella petitio principii (o altre psudo-dimostrazioni circolari e autoreferenziali) oppure nel regressus ad infinitum, che sposterebbe asintoticamente il "luogo" del fondamento.
Ci mise già in guardia lo scettico Sesto Empirico:
«Quando qualcuno afferma che si danno delle verità, presenta questa affermazione o senza dimostrazione o con una dimostrazione. Se senza dimostrazione, deve essere consentito porre senza dimostrazione anche la tesi opposta, cioè che non si danno verità. Se con una dimostrazione, chiedo: con una falsa o una vera? Se con una falsa, l'intera affermazione non vale niente. Se con una vera, domando: con che cosa ha potuto dimostrare che la sua dimostrazione è vera? Con un'altra dimostrazione? Ma così ce ne vorrebbe sempre una nuova, per cui il nostro lavoro non potrebbe mai finire» (Sesto Empirico, Contro i logici, II, 15 s.).
Se invece la verità (senza addentrarci qui nella sua definizione) si manifesta nell'applicazione del paradigma, non c'è bisogno di ulteriore verifica, perché l'esperienza (sempre entro i suoi limiti interpretativi) risolve le perplessità teoretiche. Viceversa, se per la natura del tema o della questione, è preclusa la possibilità di verifica applicativa, e ciò nonostante si aspira ad un'unica "verità", allora si innesca il conflitto fra le tautologie dei differenti sistemi interpretativi (ed una meta-tautologia che metta tutti d'accordo, sposterebbe solo il problema del "dove" sia fondata definitivamente la sua autorevole verità).
Proprio come
Citazione di: paul11 il 16 Febbraio 2020, 17:26:33 PM
In geometria dichiaro il punto, dichiaro la linea dichiaro un piano, costruiti i fondamenti posso con coerenza e consistenza costruire figure geometriche regolari, teoremi
parimenti in filosofia "dichiaro il noumeno, dichiaro l'intuizione, dichiaro la ragione in sé, etc. e posso con coerenza e consistenza (ma non completezza) costruire validi (≠ veri) ragionamenti interpretativi del reale" (dove «dichiaro» vale «definisco»).
Il problema applicativo di ogni formalismo resta, secondo me, la sua "compilazione", ovvero l'assegnazione dei valori (e delle esperienze, vissuti, fatti, etc.) relativi alle varie "x", "A", etc. senza tali compilazioni, la formalità non è pragmaticamente utile, pur restando una preziosa cornice di "validità teor(et)ica" (≠ verità).



Non se ne esce, se il nulla non ha determinazioni ha almeno una determinazione, quella di non avere determinazioni, ed è il fantasma dello sfero di Parmenide. Ci sono dunque due sfere, una dell'essere e una del nulla. Tutte le non-determinazioni dell'una, vanno bene per l'altra.
Vale la pena ricordare che l'essere parmenideo è costruito per negazione di determinazioni, come il Dio di una teologia negativa: non ha determinazioni temporali (l'eterno presente in cui si trova lo sfero non è una determinazione temporale, ma un tempo nullo), non ha parti, non ha movimento, non ha elementi visibili e l'occhio della mente lo rivela uniforme, non ha confini spaziali (la curva della sfera vuole essere un non confine, come l'eterno presente un non tempo). E come tutte le teologie negative, anche quella di Parmenide a un certo punto si scontra con il fatto che anche non avere determinazioni è una determinazione. Il passo successivo, dopo aver tolto tutte le determinazioni a Dio, è il silenzio, non l'affermazione sguaiata, e stupida, che esso non ha determinazioni.

Con Hegel possiamo dire che anche l'essere è l'assolutamente indeterminato, proprio come il nulla, ed essere e nulla non si distinguono realmente (non si de-astrattificano) se non nel divenire. Sia l'essere che il nulla hanno l'unica determinazione di non avere determinazioni. Sono indicati dalla stessa determinazione, quindi sono la stessa cosa. L'essere e il nulla sono vuoto. Sono falsi dei finché non stiamo in silenzio.

Perché l'essere se stesso del nulla sia il non essere, il non essere deve esistere in senso forte, deve indicare una condizione di esistenza possibile, quella che il parlante attribuisce al nulla, alla cosa che designa come nulla. Se invece si ammette che, in generale e senza eccezioni, il non essere di una cosa non esiste realmente, o almeno non esiste realmente per quella cosa, non designa uno stato di quella cosa, ma uno stato di altro, il  non essere relativo di una cosa è quello che la nasconde e la sostituisce nel divenire (storico o naturale) o che gli si contrappone immediatamente nella determinazione logica sé/altro. E ciò che vale senza eccezioni, vale anche per il nulla. Se si toglie dal discorso il
non-essere, si deve togliere dal discorso anche il non-essere del nulla.

La natura ha tempo e spazio per sopportare la contraddizione manifestandola in opposti distinti spazialmente e temporalmente, nel pensiero la contraddizione è immediata perché il pensiero è inesteso, non declina la definizione contraddittoria in luoghi e tempi diversi ma la contempla come unità.
Ma che si sia nella natura, o nella storia, o nel pensiero, una volta eliminato il nulla assoluto come possibilità, il non-essere di una cosa è solo il suo essere-altro, la sua determinazione ulteriore extra-liminare interna o esterna che il pensiero, o la storia, o la natura, pone; da questo punto di vista posso ben dire che l'essere del nulla è l'essere, perché il nulla non è il buco nero, non è quello che fa sparire -nel nulla- quello di cui è nulla, ma che lo fa progredire verso una determinazione-altra, gli sostituisce o gli sovrappone qualche altra cosa o qualche altro concetto. Il nulla non sparisce nel nulla, ma nel suo opposto, cioè nell'essere, e l'azione propria e continuativa del nulla è lo sparire.

Il discorso che relativizza il nulla ha senso solo se relativizza anche il nulla assoluto, se afferma che l'essere del nulla è l'essere ed esiste almeno un livello della realtà in cui essere e nulla si distinguono solo nominalmente: il discorso che introduce il nulla relativo volendo mantenere però anche il nulla assoluto, il discorso che relativizza tutti i nulla tranne uno, quello assoluto, il discorso del niente, è un colabrodo, perché in questo discorso l'"uno", l'unità logica e matematica a cui corrisponde il nulla assoluto, l'unica cosa residua che con esso si vuole designare quando con gli ulteriori concetti di "essere" e di "nulla relativo" si è designato tutto il resto, ha la stessa perfezione, la stessa indeterminazione e la stessa genericità dell'essere, e quindi è un discorso che raddoppia l'essere, da cui appunto le due sfere: sia con "essere" che con "nulla" si designa qualcosa di perfetto, indeterminato, atemporale, unico, non ripartito eccetera.
Tipicamente poi come unica distinzione all'essere si attribuisce il potere di causare qualcosa e al nulla no, ma questa è solo malafede.

O tutto o niente, quindi: non si possono relativizzare alcuni nulla sì e altri no: bisogna piuttosto stabilire in generale se la forma del non essere sia lo sparire, -e con lo sparire intendoil cessare meramente di essere e, al limite, nel caso estremo dell'essere e del nulla, il non essere mai (per il nulla) o l'essere sempre (per l'essere)-, o il tramontare, e con il tramontare intendo il declinare nell'opposto contraddittorio di quello che non è, il non essere come essere altro. Se si scegli il tramontare, poi deve valere anche per il nulla, non si possono fare eccezioni di comodo.
Ci hanno detto che potevamo scegliere tra la pace e il climatizzatore, non abbiamo ottenuto nessuno dei due.

paul11

Ciao Niko,
francamente non mi è chiara la tua argomentazione. Provo ugualmente a cercare di rispondere.
L'essere parmenideo è una prima forma logica che non corrisponde affatto al divenire sensibile. Non nega la determinazione, perché allora avrebbe dovuto proseguire nella contraddizione, si ferma al concetto d'identità che l'essere non può anche non-essere. La dialettica negativa è quella che prosegue nella contraddizione, ma il soggetto sono gli essenti contraddittori nel divenire, non il nulla.
Il dio soprasensible è eterno e non necessita di attribuzioni, potrebbe riferirsi semmai all'archè, alla causa prima, ma non ad un nulla,
Le determinazioni sono in divenire e quindi nel sensibile.
La natura in sè-e-per-sè non è la nostra realtà, quando i nervi sensoriali percepiscono onde elettromagnetiche e le passano al cervello,noi annusiamo, vediamo, saggiamo, tocchiamo,ecc più con il cervello che con i sensi e sono mediati da precedenti esperienze.
A volerla dire tutta, il nostro sistema sensoriale è un adattamento al nostro corpo fisico che a sua volta è adattato all'ambiente in cui vive, quindi la realtà della natura, non è la realtà del cervello che riceve impulsi sensoriali e men che meno della mente che riflette pensando. Tutto è quindi riconducibile a pensiero, inteso anche come interpretiamo la natura stessa,fino a noi stessi.

Ribadisco ...ma non se ho capito

paul11

Citazione di: Phil il 16 Febbraio 2020, 19:07:12 PM
Citazione di: paul11 il 16 Febbraio 2020, 17:26:33 PM
Il problema è in effetti fra tautos ed esperienza. Ma la scienza pura e non quindi applicata inserisce tautologie e non esperienze nei paradigmi. [...] Eppure la geometria ,la logica, la matematica, funzionano applicativamente quando ad un segno tautologico applico un segno esperienziale fenomenico.
L'applicazione pratica è ciò che spesso fonda a posteriori, retroattivamente, la legittimità del paradigma, del tautos (inteso come tautologia di sistema) e del dizionario di definizioni su cui esso si fonda. Prescindendo da tale applicazione di verifica, si rischia di cadere o nella petitio principii (o altre psudo-dimostrazioni circolari e autoreferenziali) oppure nel regressus ad infinitum, che sposterebbe asintoticamente il "luogo" del fondamento.
Ci mise già in guardia lo scettico Sesto Empirico:
«Quando qualcuno afferma che si danno delle verità, presenta questa affermazione o senza dimostrazione o con una dimostrazione. Se senza dimostrazione, deve essere consentito porre senza dimostrazione anche la tesi opposta, cioè che non si danno verità. Se con una dimostrazione, chiedo: con una falsa o una vera? Se con una falsa, l'intera affermazione non vale niente. Se con una vera, domando: con che cosa ha potuto dimostrare che la sua dimostrazione è vera? Con un'altra dimostrazione? Ma così ce ne vorrebbe sempre una nuova, per cui il nostro lavoro non potrebbe mai finire» (Sesto Empirico, Contro i logici, II, 15 s.).
Se invece la verità (senza addentrarci qui nella sua definizione) si manifesta nell'applicazione del paradigma, non c'è bisogno di ulteriore verifica, perché l'esperienza (sempre entro i suoi limiti interpretativi) risolve le perplessità teoretiche. Viceversa, se per la natura del tema o della questione, è preclusa la possibilità di verifica applicativa, e ciò nonostante si aspira ad un'unica "verità", allora si innesca il conflitto fra le tautologie dei differenti sistemi interpretativi (ed una meta-tautologia che metta tutti d'accordo, sposterebbe solo il problema del "dove" sia fondata definitivamente la sua autorevole verità).
Proprio come
Citazione di: paul11 il 16 Febbraio 2020, 17:26:33 PM
In geometria dichiaro il punto, dichiaro la linea dichiaro un piano, costruiti i fondamenti posso con coerenza e consistenza costruire figure geometriche regolari, teoremi
parimenti in filosofia "dichiaro il noumeno, dichiaro l'intuizione, dichiaro la ragione in sé, etc. e posso con coerenza e consistenza (ma non completezza) costruire validi (≠ veri) ragionamenti interpretativi del reale" (dove «dichiaro» vale «definisco»).
Il problema applicativo di ogni formalismo resta, secondo me, la sua "compilazione", ovvero l'assegnazione dei valori (e delle esperienze, vissuti, fatti, etc.) relativi alle varie "x", "A", etc. senza tali compilazioni, la formalità non è pragmaticamente utile, pur restando una preziosa cornice di "validità teor(et)ica" (≠ verità).
ciao Phil,
mi riferisco alle scienze "pure", non applicate. Un conto è costruire logica, matematica, e geometria e un conto le leggi fisiche, economiche, naturali, ecc. Le scienze pure non hanno bisogno di una dimostrazione esperienziale, quelle applicate invece sì, e infatti mutano al mutare di nuove scoperte. La dimostrazione nelle scienze pure è interna al formalismo logico tenendo fermi gli assiomi iniziali, i primitivi.

Guarda che paradossalmente, anche la filosfia più astratta e lontanta dalla realtà naturale incide pragmaticamente, con motivazioni, atteggiamenti, modi di vivere.
E' vero comunque quello che scrivi, filosoficamente è corretto.

Vito J. Ceravolo

 In sequenza Sampitura e Ipazia, Boomax, Nico, Pauli11 e Phil
 
Ciao Sampitura (e Ipazia),
alla tua affermazione «L'autorità definisce la 'verità'», contrappongo quella di Ipazia «La verità dell'universo antropologico non è la verità dell'universo fisico». Lo faccio perché dobbiamo riconoscere diversi livelli di verità (es. oggettiva, intersoggettiva, soggettiva)  e che tu nei hai parlato a livello di categoria politica, ma poi appunto c'è anche la verità come categoria naturale e poi... io qui parlo di tali distinzioni di verità: cap. 8  https://www.azioniparallele.it/30-eventi/atti,-contributi/174-verita-realismo-costruttivismo.html
"Mondo = Luogo come risultato di leggi universali e particolari" Dizionario Vito
 
Ciao boomax,
«Ma la Verità assoluta non ha alcun condizionamento. Non necessita di alcuna falsità da negare [e non l'ha]».
 
Ciao Nico,
ti segnalo questo tuo errore: «Non se ne esce, se il nulla non ha determinazioni ha almeno una determinazione, quella di non avere determinazioni, ed è il fantasma dello sfero di Parmenide.» L'errore sta in questo:
 
Con la proprietà A posso dimostrare se B ha la proprietà A oppure no ØA.
Quindi, con la determinazione A posso dire se B è determinabile A o indeterminabile ØA.
"Determinare che è indeterminabile", "determinare che non è determinabile", significa pertanto "non essere in grado di determinarlo", "non essere determinabile".
Cfr:
cap. 3 https://filosofiaenuovisentieri.com/2019/04/14/unificazione-generale-della-logica-classica-e-non-classica/
cap. 5 https://filosofiaenuovisentieri.com/2017/05/14/teoremi-di-coerenza-e-completezza-epimenide-godel-hofstadter/
 
Il tuo presupposto, di determinare il niente, decade. Quindi decade il discorso che ne derivi, anche se poi ci puoi aver detto dentro cose intelligenti, decade comunque il tuo discorso.
Questa è la "quinta" forma con cui ti rispondo, permettimi quindi di invitarti a leggere qualcuno dei miei articolo di questo "gioco" (quelli sopra sono formali), così alziamo il tenore della discussione e mi eviti copiaincolla.
 
 
Ciao Paul11,
«Guarda che paradossalmente, anche la filosfia più astratta e lontanta dalla realtà naturale incide pragmaticamente, con motivazioni, atteggiamenti, modi di vivere.»
Già, anche la più lontana.
 
 
Ciao Phil,
stavo leggendo la tua "filosoficamente corretta" quando... mi sono fermato alla fine e mi sono rifiutato di leggere il finale, da quando hai scritto: "coerenza e consistenza (ma non completezza)". Scherzi a parte. Guarda questo:
https://filosofiaenuovisentieri.com/2017/05/14/teoremi-di-coerenza-e-completezza-epimenide-godel-hofstadter/
E immagina questo gioco formale...

Contro il proprio Teorema di Incompletezza, Gödel, in estrema sintesi, avvertì della possibilità di un Teorema di Completezza in cui ogni proposizione risultasse decidibile da un'asserzione vera sull'estensione del sistema. Cioè un'asserzione che affermasse «è vero che, è vero o falso o una via di mezzo fra vero e falso o sia vero che falso o né vero né falso». E chi meglio di Gödel poteva sapere dove la sua incompletezza poteva crollare?
Qui adottiamo alcune forme capaci di contenere e trasformare la sua (Gödel) "interpretazione di incompletezza" dei dati in una interpretazione di coerenza e completezza. Le formalizzazioni che ci permettono questo evento sono le seguenti:
 
1) Valore di verità - vero o falso
Se quando affermo o nego una frase essa non si contraddice, allora ha un valore di verità.
 
2) Valore paradossale - né vero né falso
Se quando affermo una frase essa si contraddice e si contraddice anche quando la nego, allora la stessa non ha un valore di verità.
3) Principio di dimostrazione
Per ogni predicato A, posso dimostrare se il soggetto B ha il predicato A oppure no.
 
4) Verità teorematica
Per ogni A, è vero che abbia valore di verità oppure no.
 
5) Principio di Coerenza
La coerenza di A equivale al fatto che predica la propria dimostrabilità o indimostrabilità all'interno del sistema. Oppure, un sistema è coerente quando ogni sua asserzione, quando ben interpretata, risulta vera (cfr. 4).
 
6) Principio di Completezza
La completezza di A equivale al fatto che, la sua affermazione e negazione appartengono alle dimostrazioni del sistema.
 
7) Primo principio di Coerenza e Completezza
La coerenza di A equivale al fatto che è dimostrabile o indimostrabile nel sistema. La sua completezza equivale a dimostrare tale coerenza tramite gli enunciati stessi del sistema.
 
8 ) Teoria del Primo
Il Primo A è ciò da cui si dà, da sé e in sé, tutta la sua formalità possibile e non.
 
9) Teoria dell'Ultimo
Se il posizionamento del Primo "A" dipende dal posizionamento delle sue conseguente, e se ciò che in ultimo riassume tutte le sue conseguenze è ancora se stesso A, cioè se l'inizio e la fine coincidono, allora si parla di A come pienamente completo: l'autosufficienza.
 
10) Secondo principio di Coerenza e Completezza
Se A è coerente allora tale coerenza è dimostrabile da sé, completamente.
Adottate queste forme, il teorema di Gödel si trasforma nel nostro Teorema di Coerenza e Completezza.

paul11

Citazione di: Vito J. Ceravolo il 17 Febbraio 2020, 17:10:43 PM
In sequenza Sampitura e Ipazia, Boomax, Nico, Pauli11 e Phil

Ciao Sampitura (e Ipazia),
alla tua affermazione «L'autorità definisce la 'verità'», contrappongo quella di Ipazia «La verità dell'universo antropologico non è la verità dell'universo fisico». Lo faccio perché dobbiamo riconoscere diversi livelli di verità (es. oggettiva, intersoggettiva, soggettiva)  e che tu nei hai parlato a livello di categoria politica, ma poi appunto c'è anche la verità come categoria naturale e poi... io qui parlo di tali distinzioni di verità: cap. 8  https://www.azioniparallele.it/30-eventi/atti,-contributi/174-verita-realismo-costruttivismo.html
"Mondo = Luogo come risultato di leggi universali e particolari" Dizionario Vito

Quì mi trovo d'accordo con Sariputra ,anche nel suo successivo post.
Ci sono due tipi di verità, e Sariputra non intende quelle analitiche, ma quella essenziale sintetica, quella morale riconducibile ad una ragione in sè, C'è una verità religiosa e/o spirtuale, dettata da sacre scritture o da grandi maestri di sapienza e saggezza: la verità filosofica invece necessita di ciò che allude Vito C.
La verità filosofica è forte se implictamente ha una autorità quale quelle religose e spirtuali con una morale intrinseca alla sintesi di unarchè, di un origine fondativa, di un paradigma ,di una verità incontrovertibile. Se le  verità religiose e spirituali sonoala fine pratiche in cui o ci si sente dentro o si è fuori, quelle filosfiche sono più discrezionali, basta smontarle e rimontarle, o qddirittura annichilirle.
La categoria politica nasce dalla categoria morale, così come le attuali scienze politche sono figlie della filosfia politica e prima ancora della filosofia morale. Una verità filosfica trova il suo principio di autorità nella sua costruzione logica formale, nelal capacità di relazionare gli ambiti pratici e teoretici, Tanto più comprende, più porta con sè le conoscenze di diversi ambiti in maniera coerente e tanto più viene accettata come autorità: e segna una cultura. 
Senza una verità manca il referente assoluto, è come togliere i punti cardinali in una bussola, non sappiamo dove siamo, rischiamo di perderci,mancano i riferimenti.
Una verità vincola, condiziona, educa atteggiamenti e motivazioni (bello o brutto, giusto o sbagliato,ecc) .Senza il referente dei genitori, il figlio chi imita, a chi si riferisce? Senza l'autorità della verità, spirituale o filosofica che sia, ognuno si sente libero di compiere parricidi,di portare nuove verità, di abbattere quelle di ierri, non essendo nessuna una verità accettata come autorità.
Tutto ciò ha liberato il pragmatico, le pratiche, non credendo più ad autorità, a verità che necessariamente vincolavano i comportamenti in una morale. La conclusione è che nessuno rispetta più nulla se può. Lo Stato oggi non è morale, è sanzionatorio e basta. E considerato come multa, ammenda, galera, non come necessità di identità pratica di una comunità di una nazione. E' ovvio in questo contesto cultural popolare che vengano partoriti nuovi personaggi arroganti e populisticamente accettati, perché incarnano le peggiori intenzioni dell'uomo forte autoritario, quello che hanno perduto come autorità di una verità nella cultura.

Ipazia

#131
Lo Stato é sempre stato sanzionatorio in quanto et(olog)ico. 

La sua verità é sempre (stata) verità di Stato, più o meno condivisa a seconda della sua composizione di classe. Mettere la religione o la filosofia al posto di un fantomatico Stato non cambia la morale della favola antropologica. Avremo teocrazie o repubbliche dei filosofi, non immunizzate da tirannidi, come ebbe a sperimentare, suo malgrado, il primo teorizzatore del genere, Platone.
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pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

bobmax

L'Uno è la stessa Verità.
 
Come è possibile anche solo supporre che vi siano più verità?
Davvero si può ritenere che vi sia una "verità" spirituale e una "verità" filosofica?
 
La Verità è l'Uno! Che altro dovrebbe mai essere?
Ed essendo l'Uno equivale al Nulla.
 
Altro che incontrovertibilità!
 
E invece, presi dal pensiero razionale che si avvita su se stesso, si finisce per considerare la Verità una conclusione logica...
Mentre è proprio la Verità il fondamento di ogni possibile logica!
 
Ma questo è il segno dei tempi.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Ipazia

@Vito

La metamorfosi fenomenologica della verità è ben descritta nelle sue parti confederate. Rimane indimostrata l'assiomatica della ragione in sè e la sua pretesa genetica sul fenomeno essendo essa stessa - qualsiasi cosa sia in ambito realistico - fenomenica.

L'ambiguità del sovrasensibile lo priva del carattere di verità da te stesso così dettagliatamente descritto, espellendolo dal campo della adequatio  e della relativa scientificità.

Problema  già rilevato da Phil.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Citazione di: Vito J. Ceravolo il 17 Febbraio 2020, 17:10:43 PM
Ciao Phil,
stavo leggendo la tua "filosoficamente corretta" quando... mi sono fermato alla fine e mi sono rifiutato di leggere il finale, da quando hai scritto: "coerenza e consistenza (ma non completezza)". Scherzi a parte. Guarda questo:
https://filosofiaenuovisentieri.com/2017/05/14/teoremi-di-coerenza-e-completezza-epimenide-godel-hofstadter/
E immagina questo gioco formale...
Davvero dovrei ricordarti che la (in)completezza e la (in)coerenza di cui Godel parla si riferiscono ad enunciati particolari all'interno del sistema, i cosiddetti indecidibili? Oppure dovrei linkarti i teoremi di Godel e chiederti di correggerli con la tua "penna rossa"?
Come già saprai, in rete e in biblioteca1 trovi molto su Godel e mi sbilancio nel ricordarti che, in logica, non basta affermare qualcosa usando la simbologia formale, va anche sistematizzato e dimostrato (va bene il giocare, ma certi giochi, per essere sensati, richiedono basi come minimo solidissime; in alternativa, come suggerisce il saggio, «gioca con i fanti ma lascia stare i santi»).

1K. Gödel, Opere, a cura di E. Ballo, S. Bozzi, G. Lolli, C. Mangione, vol. I (1929-1936), Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 97 e più dettagliatamente (presupponendo una buona dimestichezza con la notazione logica) pp. 113-138; 144-145, 170-171
e
K. Gödel, Appendice agli Atti del secondo convegno di epistemologia delle scienze esatte, in  E. Casari, La filosofia della matematica del '900, Sansoni, Firenze 1973, pp. 55-56.


P.s. @altri
Per evitare fraintendimenti, credo occorra tener presente l'osservazione di Ipazia e distinguere le varie "tipologie" di verità, almeno la verità verificabile dalla verità come mistica sublimazione del Bene («io sono la via, la verità, la vita» diceva qualcuno, con buona pace della logica formale).

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