filosofia e storia della filosofia

Aperto da davintro, 22 Aprile 2016, 17:53:45 PM

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Donalduck

Davintro ha scritto:
CitazioneLa questione tra realismo e idealismo non riguarda lo stabilire se sono più reali le idee, gli oggetti intelligibili (idealismo) oppure il mondo sensibile (realismo). Questa si potrebbe definire la contrapposizione tra spiritualismo e materialismo, che non coincide affatto con la diatribia idealismo-realismo.
In generale cerco sempre di evitare di etichettare i pensieri e le correnti di pensiero, perché le etichette portano più confusione che altro e alimentano sterili discussioni terminologiche. In realtà ogni termine ha diverse interpretazioni e spesso termini diversi vengono usati per lo stesso concetto, quindi lascerei proprio perdere le etichette e mi limiterei ai concetti.

CitazionePer il realista, che ritiene la realtà esistente indipedentemente dalla soggettività la conoscenza non può che essere "scoperta" della verità, ciò che si "scopre" è sempre qualcosa che c'era prima che qualcuno andasse prima a scoprirla
Bisogna chiarire cosa si intende per "realtà esistente indipendente dalla soggettività". Se si parla di soggettività individuale, è abbastanza facile essere d'accordo che l'esistenza o meno di un singolo soggetto cosciente tra tanti non incide sull'esistenza della realtà, ma se invece si intende una realtà indipendente da qualsiasi soggettività è tutta un'altra storia. In quest'ultimo caso ritengo che sia perfino logicamente contradditorio ipotizzarla. Infatti una realtà indipendente da qualunque soggetto implica una oggettività senza soggettività. Non è solo una questione linguistica. I due concetti sono complementari e inscindibili, nel senso che si definiscono a vicenda, e senza l'uno, l'altro perde significato. Tutto ciò che l'uomo conosce, sente, percepiasce è costituito da informazioni che l'uomo in quanto soggetto riceve da una sorgente oggettiva di queste informazioni. In base a che cosa dovremmo formulare l'ipotesi che un "mondo oggettivo" possa esistere senza un soggetto, ossia che esistano informazioni che hanno una sorgente ma non una destinazione? E' come "l'applauso di una mano sola".
Sul fatto poi che il soggetto contribuisca alla creazione della realtà (a parte quello dato dalla sua stessa esistenza e dalle sue azioni), si possono fare tante ipotesi e fantasie, ma non mi pare che esistano elementi su cui basarle. Mi limito a constatare che la realtà implica soggettività e oggettività, ma non ho dati che mi consentano di andare oltre, quindi resto aperto a ogni possibilità, purché abbia un qualche fondamento su dati osservabili e non sia un semplice vagare dell'immaginazione.

CitazioneSe la filosofia è scoperta allora le sue verità possono essere scoperte a partire dall'esperienza e dalle riflessioni personali, le verità fanno parte di un mondo oggettivo perennemente a disposizione di chi ha voglia e interesse di andare a conoscerlo, indipendetemente dal fatto di sapere che altri prima di noi abbiamo fatto le stesse scoperte, mentre se è creazione allora comprendere un concetto coincide necessariamente col comprendere il contesto storico in cui la mente di qualcuno ha prodotto quel concetto, allo stesso modo di come capire un'opera d'arte implica intepretare le intenzioni soggettivie dell'artista che l'ha creata, mentre nel caso del realismo i concetti sono paragonabili a leggi fisiche della natura che esistono a prescindere dal pensiero di chi le ha pensate e dunque ognuno di noi può osservarle individualmente senza per forza sapere che qualcuno prima di noi l'ha già fatto
Posto che non vedo in base a che cosa si potrebbe essere indotti a questa posizione estrema, se anche la realtà fosse interamente "creazione intersoggettiva" non vedo che c'entri il contesto storico dei concetti. Questi hanno una loro esistenza qui e ora e per noi è l'unica forma di esistenza. Pensare che anche le "intenzioni soggettive" di chi crea determini il carattere della creazione, anche dopo che la creazione è avvenuta, mi sembra incompatibile con qualunque forma di esistenza di una realtà oggettiva (ossia condivisa) e quindi con i dati dell'esperienza.
Anche per le creazioni artistiche, non penso affatto che "capire un'opera d'arte implica intepretare le intenzioni soggettivie dell'artista che l'ha creata". Penso invece che l'opera d'arte, una volta concretizzata oggettivamente, l'interpretazione che ne dà l'artista (ammesso che la dia) sia sullo stesso piano dell'interpretazione che ne dà chiunque altro. Se è vero che l'artista potrebbe aver inserito dei riferimanti impliciti (quindi delle informazioni) che sfuggono a chi non conosca ciò che l'artista stesso conosce (pensiamo a un dipinto in cui compare un simbolo dotato di un determinato significato, ad esempio un crocifisso o una svastica), questo ha caso mai a che fare con la conoscenza o meno di codici o significati sempre intersoggettivi (oggettivamente esistenti o esistiti), e non delle intenzioni del creatore.
Per quanto riguarda i filosofi, la conoscenza del contesto può aiutare a chiarire il significato che attribuisce a certi termini, che può essere diverso da quello attuale, per un processo di slittamento semantico, ma una volta chiarito (e tradotto in termini attuali) questo significato, il pensiero (o meglio la sua manifestazione) ha la sua attualità, la sua esistenza qui e ora, alla pari di qualunque pensiero appena concepito.
Ovviamente le intenzioni di un artista e quelle di un filosofo possono interessare storici e biografi, ma secondo me non sono pertinenti (se non per gli aspetti prima descritti) alla fruizione attuale dell'opera d'arte o di pensiero.

davintro

#16
Citazione di: sgiombo il 24 Aprile 2016, 14:49:40 PM
CitazioneDavintro ha scritto: il punto è che nel mio post di apertura c'èra anche un sottofondo polemico verso un certo modo di discutere di filosofia, dominato dal citazionismo: cioè pensare che la verità di una tesi filosofica dipenda dal consenso degli autori del passato invece che dal corrispondere alla realtà oggettiva delle cose, capita, nei contesti accademici, di assistere a discussioni filosofiche che finiscono solo con l'essere con un'esposizione di citazioni di autori "Nietzsche ha detto che..." "Sì, ma Hegel ha detto che..." senza argomentare in modo logico le proprie posizioni. Questo è dogmatismo. Invece che portare argomenti che possano razionalmente convicere l'interlocutore si cerca di "intimidirlo" (ed è un atteggiamento molto spiacevole che purtoppo il più delle volte mi sono trovato a subire e che fa soffrire...) citando autori che si presume lui non abbia mai letto dando per scontato che la verità di un discorso sia data quantitativamente dla numero di libri o autori che appoggiano quel discorso. La discussione filosofica finisce col diventare una gara a chi riesce a portare più esempi di autori che sostengono il proprio punto di vista. Questo io contesto. Il riferimento agli autori non deve scomparire ma penso dovrebbe, in sede di discussione teoretica, essere messo in secondo piano rispetto all'analisi logico-deduttiva e dialettica tra i concetti. Gli strumenti fondamentali del filosofare sono l'esperienza diretta delle cose stesse e l'argomentazione logica. Il modello di insegnamento della filosofia che provavo a sostenere è quello tipicamente socratico che emerge in alcuni dialoghi platonici. Socrate non citava autorità per giustificare le sue tesi, non imponeva ex-cathedra le sue idee, ma dialogava con loro in modo paritario stimolando dubbi che spingevano gli interlocutori a ripensare, rimettere in discussione le loro illusorie certezze approfondendo il discorso fino a raggiungere una visione dell cose più razionale rispetto a quella di partenza. Il docente di filosofia dovrebbe essere, socraticamente, una guida per gli studenti che attraverso il dialogo presenta loro diverse possibilità di modelli interpretativi di risoluzione dei problemi fondamentali aiutandoli attraverso la logica a comprendere le implicazioni conseguenti ad ogni singola assunzione di un certo modello: esempi "in cosa consiste la distinzione tra idealismo e realismo" "quali sono le implicazioni conseguenti all'assunzione di un'etica teista", " e le implicazioni teoretiche di un'ontologia materialista e di una visione della natura meccanicista". E queste implicazioni non devono necessariamente identificarsi con gli effettivi sviluppi storici che si sono realizzati nel passato a partire da quelle premesse, ma aperte anche a conclusioni originali che nascono in seno alle discussioni. Non si dovrebbe tanto trasmettere un sapere ma aiutare attraverso una palestra dialettica di continui ragionamenti e discussioni a sviluppare una forma mentis utilizzabile poi da ciascuno, se vorrà, a risolvere autonomamente i vari problemi filosofici. Potrebbe essere tutto questo una possibilità costruttiva?  Rispondo: Perfettamente d' accordo con le considerazioni sul "citazionismo". Meno sulle considerazioni "didattiche". Continuo a preferire un insegnamento scolastico della storia della filosofia, mentre ritengo che la ricerca filosofica "diretta", per chi ne sente l' esigenza e nella misura in cui è sentita da ciascuno, trovi una sede migliore nella "vita in generale" di ciascuno: educazione familiare, frequentazioni amicali, esperienze di vita, letture personali, partecipazioni a eventi culturali, ecc. Anche frequentazione di forum come questo!   Davintro ha scritto: Questa idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine... e la filosofia che riconosce tale logica è un sapere dell'immutabile. La visione della storia come progresso non è una visione, dal punto di vista formale, storica, ma sovratemporale, teologica, escatologica o altrimenti il divenire, lasciato a se stesso, assolutizzato, sarebbe solo caos, non progresso..., secondo me.  Rispondo: Ritengo che non necessariamente l' "idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine". Mi sembra che la storia umana possa (come mera potenzialità, non inesorabilmente, fatalmente) evolversi non "caoticamente" e in modo assolutamente imprevedibile e "ingovernabile" bensì secondo alcune caratteristiche relativamente costanti e "parzialmente, relativamente vincolate" (in qualche misura studiabili e "applicabili praticamente"), ma non in quanto guidata da un fine cosciente che trascenda dei naturali (e culturalmente declinati) scopi umani immanenti, semplicemente per una caratteristica di fatto della sua natura (la naturalissima e non "teleologicamente scelta da nessuno", per quanto peculiarissima, sua natura di "specie animale culturale").  Davintro ha scritto: Realista è chi sostiene l'indipendenza dell'esistenza delle cose reali dal fatto che ci sia una mente che le pensa, sostiene l'autonomia della realtà, ma senza specificare se la realtà di cui si parla sia materiale o immateriale...  Rispondo:  Penso che anche ammettendo il solispsismo, la realtà della sola esperienza cosciente immediatamente esperita ("da ciascuno", scriverei se non fosse contraddittorio, sottintendendo la realtà anche di altre), si potrebbe distinguere tra un certo relativo "realismo" per il quale l' accadere di sensazioni è indipendente dalla conoscenza –eventuale- di esse (dall' accadere della sensazione dl predicato –vero- del loro accadere; o meno: potrebbero essere reali anche senza essere pensate) da un' alternativa difficilmente definibile ("iper-idealismo"?) per la quale l' accadere della conoscenza delle sensazioni (la sensazione della predicazione di sensazioni predicanti l' accadere di altre sensazioni) fosse condizione necessaria dell' accadere delle sensazioni conosciute (pertanto non reali se non unicamente in quanto pensate).  Mi scuso per la pignoleria.
per quanto riguarda il discorso didattico: 
la tua posizione secondo me tende troppo a trattare scuola e quotidianità come due dimensioni separate fra loro. Io la scuola l'ho sempre intesa come strumento al servizio dell'esistenza concreta, formativa del futuro dei giovani sia in chiave professionale-economia e soprattutto in chiave intellettuale-culturale.. se il tipo di filosofia che va insegnata nelle scuole fosse di una natura diversa da quell che possiamo in qualche modo "applicare" nella quotidianità" (come dici tu, relazioni sociali in famiglia, amici, luoghi di lavoro, forum...) allora non si rischierebbe di rompere il filo scuola-vita e rendere l'insegnamento scolastico qualcosa di totalmente astratto ed autoreferenziale, impossibile da utilizzare al di fuori si essa? Volendo essere provocatori si potrebbe dire, che tanto varrebbe a questo punto, con tali premesse, cancellare del tutto lo studio della filosofia dall'istruzione, oppure all'opposto introdurre nei programmi scolastici qualunque tipo di disciplina o attività indipendetemente dalla loro effettiva utilità vitale! (origami, scacchi...) 

Su storia e progresso:
Ovviamente esistono fattori causali contigenti (agenti per differenti aspetti, economico, politico, psicologico, religioso) che possono orientare gli eventi storici in una direzione evolutiva... Parlando di storia come progresso avevo in mente un modello di evoluzione che approda ad un fine in un'ottica di necessità, in questo senso mi sembrerebbe indipensabile concepire una sorta di ordine finalistico che fa sì che il corso prenda quella direzione invece che un'altra (un regresso, una decadenza). Tra l'altro, forse, non sarebbe neanche in questo caso necessario parlare di un "fine cosciente", che implicherebbe una visione teista per la quale il cammino della storia è stabilito da una mente trascendente la storia stessa (per intenderci, la provvidenza divina), il fine può anche essere non cosciente: è ipotizzabile anche che il corso degli eventi sia scandito da una logica che li governi che  però non ha coscienza di sè e e della meta da raggiungere, in questo caso la logica si costituirebbe non come "mente", "soggetto personale", ma più propriamente "ritmo", "sequenza immanente al processo che lo scandisce dall'interno", "schema". Se tu invece parli di non-necessità del progresso allora possiamo ammettere l'idea di una storia come prodotto di fattori causali che interagiscono tra loro ma rivolti a fini diversi. L'effettivo svolgersi degli eventi sarebbe così la risultante di una combinazione di forze che, considerate nella loro isolatezza, possono agire anche in contrapposizione fra loro. Ma a questo punto, o si pensa ad una molteplicità di fattori concorrenti, ed allora non si può pensare a un ordine ,un cosmos (per me ordine vuol dire armonia, situazione in cui differenti fattori operano, in ruoli diversi, come rivolti ad uno stesso risultato, e ripeto, non c'è bisogno per forza che ci sia "coscienza" di tutto ciò) ma si deve parlare di "caos", una "legge della giungla" dove il fattore causale più forte si impone su quelli più deboli a impone al divenire la sua legge, oppure la contrapposizione non c'è, c'è la molteplicità delle forze in campo che agisce nel modo armonico che ho provato a descrivere nella mia ultima parentesi ed in base al quale ha senso parlare di ordine e di progresso come necessario. Parlare di "alcune caratteristiche relativamente costanti e "parzialmente, relativamente vincolate" non risolve secondo me il problema. Relativamente costanti ed eterne non vuol dire eterne ed assolute ma contingenti... dunque, o queste caratteristiche cessano di produrre la loro forza causale nello "scontro" con altri caratteristiche agenti in direzione contraria, e si torna alla situazione del caos, oppure la ragion d'essere di tali carateristiche è data da altre leggi ad esse non opposte ma comunque sovraordinate e superiori che stabiliscono il tempo del loro conservarsi e del loro cessare... e si ritornerebbe all'idea di una "gerarchia" di fattori causali, fatta di "cause prime" e "cause seconde", una sorta di "cosmo" non necessariamente provvidenziale e cosciente, (lasciamo perdere per ora, ma magari ci torneremo...) ma che comunque imprime una necessità agli eventi nel complesso delle sue componenti. Il problema è che non esiste una terza realtà tra ordine e caos che li possa conciliare... esiste la situazione di miscuglio delle due componenti che si potrebbe definire come "ordine imperfetto", ma comunque cosmo e caos sono due polarità opposte che tirano in direzioni opposte una sorta di "elastico" che sarebbe la storia  


Sull'ultima parte per ora dico solo che effettivamente la prima alternativa giustamente può essere definita come "realismo relativo", relativo, perchè la constatazione di una realtà indipendente dal mio esperirla sarebbe però posta a partire dal fenomeno fondante proprio l'esperienza stessa, cioè le sensazioni. Ma, nella misura in cui, consideriamo la sensazione come prodotto di un "urto" soggetto-oggetto nel quale il soggetto resta inerte e passivo, allora è possibile inferire l'esistenza di una realtà oggettivamente esistente, indipendente dai nostri pensieri, la realtà che ha prodotto l'urto, mentre se la sensazione fosse il risultato di un'attività della mente che opera a partire da categorie in essa presenti allora il reale resterebbe una costruzione del soggetto attivamente pensante. Per quanto mi riguarda, in ogni caso l'accettazione, quantomeno a livello provvisorio, dell' ipotesi del solipsismo è una punto inaggirabile per chiunque voglia affontare in modo critico e non dogmatico il tema gnoseologico (e inevitabilmente non solo gnoseologico...) del rapporto esperienza soggettiva-realtà oggettiva, realisti o idealisti che siamo... ci sarebbero infinite altre cose da dire su tale tema ma per ora mi fermo qua anche perchè forse siamo un pò andando fuoritopic (anche se è inevitabile che sia così in un forum filosofico, la bellezza della filosofia sta proprio nella ricchezza di collegamenti e interrelazioni per la quale in fondo, "fuoritopic" in senso assoluto non si cade mai in fondo...)

sgiombo

#17
CitazioneRispondo a Davintro:

Si, abbiamo due concezioni in buona parte diverse della scuola.
Nella mia (purtroppo lunga: sono vecchio) personale esperienza ho "spontaneamente" trovato soprattutto "fuori dalla scuola", nelle "comuni esperienze di vita", stimoli a pormi i problemi fondamentali della vita e a cercarne soluzioni, mentre la scuola mi ha dato interessantissimi e utilissimi spunti teorici per affrontarli, anche e soprattutto con lo studio della storia della filosofia; e probabilmente le mie convinzioni in proposito ne sono fortemente influenzate.

Trovo incoerente il concetto di un fine della storia che può anche essere non cosciente: l' ipotesi che che il corso degli eventi sia scandito da una logica che li governi che  però non ha coscienza di sè e della meta da raggiungere, di modo che in questo caso la logica si costituirebbe non come "mente", "soggetto personale", ma più propriamente "ritmo", "sequenza immanente al processo che lo scandisce dall'interno", "schema".
Per me uno scopo è intenzionale e necessariamente cosciente per definizione, un' autentico finalismo non può identificarsi con una logica che governi gli eventi storici la quale però non ha coscienza di sè e della meta da raggiungere (un po' come l' evoluzione biologica, mutatis mutandis ovviamente: un processo non finalizzato o "disegnato" per dirlo con i retrogradi, ma nemmeno caotico, bensì "strutturato", limitatamente regolato; nella fattispecie dalla selezione naturale operante sulle mutazioni genetiche casuali).
Altra cosa che un finalismo (comunque declinato) é
una logica immanente impersonale, un ordine oggettivo, uno "schema" nella successione degli eventi almeno in parte conoscibile e in misura ancora minore "praticamente dominabile" per scopi umani coscienti, per l' appunto sulla base della sua limitata ma possibile conoscenza.

Per me è logicamente possibile e di fatto reale un corso della storia non fatalmente necessario e inesorabile e nemmeno assolutamente disordinato, caotico, bensì (tertium datur!) "delimitato" in ogni fase da un ventaglio più o meno ampio (ma non illimitato) di possibili sviluppi alternativi (anche regressivi rispetto a quanto "fino ad allora percorso"); e la direzione di fatto seguita nell' ambito di questo ventaglio limitato di possibilità oggettive è frutto delle soggettive scelte umane che di volta in volta si impongono (determinate in ultima istanza dalla lotta di classe).
L' umanità in generale e in ogni fase particolare della sua storia a davanti ha sé un cammino (discretamente ma non rigorosamente definito) di progresso possibile ma anche di regresso (e oltre un certo grado di fatto già raggiunto dello sviluppo delle forze produttive sociali di autodistruzione): dipende da lei quale "destino" darsi.

Invero non mi sembra in questo di discostarmi molto da quanto affermi in conclusone del tuo intervento su questo argomento (a mio parere con dubbia coerenza rispetto a tutta l' argomentazione che lo precede): esiste la situazione di miscuglio delle due componenti che si potrebbe definire come "ordine imperfetto", ma comunque cosmo e caos sono due polarità opposte che tirano in direzioni opposte una sorta di "elastico" che sarebbe la storia (per dirlo un p' più elegantemente "a la Hegel", una sintesi dialettica fra necessità e determinismo -tesi- libertà e disordine -antitesi-).

green demetr

#18
Preciso a mò di inciso che non sono affatto interessato al concetto di vero. (per eventuali altre discussioni).

Comunque.

Risponde brevemente rispetto anche alle successive risposte che hai dato a Maral, che è l'utente più vicino alle mie posizioni.


Quello di presuporre uno sorta di razionalismo realista è un errore da matita rossa.
Infatti il buon Kant con sua buona pace è stato il precursore diretto dell'idealismo.
Anzi io azzardo che fosse del tutto in sintonia con l'idealismo.

Non esiste un razionalismo che possa derivare dal basso, dall'oggetto insomma.
Come potrebbe essere inteso se non da un soggetto?

E anche cambiando le categorie, come tentano di fare i neo-kantiani, anche tentando di descrivere un soggetto realista, come non tenere conto del linguaggio e del metalinguaggio che lo controlla?
Vi è comunque un parlante, e qualsiasi metalinguaggio di controllo è costruzione di un soggetto.
(non basta applicare il principio del terzo escluso).

Comunque se vuoi potresti cominciare a fare degli esempi, per intendere questa possibilità.

L'esempio ovvio deve attenersi a come razionalmente tu puoi intendere un oggetto.(comunque da lì si parte sempre).
Vai avanti tu che mi vien da ridere

davintro

#19
Rispondo a Sgiombo:
Il problema della necessità è distinto da quello della questione ordine-caos. Sia nell'ambito dell'ordine, inteso come molteplicità di cause che convergono, coscientemente o meno, nella realizzazione di un unico accadimento, sia nell'ambito del caos, inteso come conflitto tra agenti causali rivolti ad effetti opposti, nel quale gli agenti dotati di maggior forza si impongono su quelli più deboli e danno alla storia una certa direzione, in ogni caso la dimensione della necessità non può essere trascesa. C'erano alternative al corso degli eventi rispetto alla forma in cui si è effettivamente realizzato? Le cose potevano andare in modo diverso? Certo, ma solo a condizione di modificare i fattori causali sottostanti gli eventi. Secondo me è assurdo pensare che uno stesso fattore causale, considerato isolatamente dal resto, possa produrre effetti diversi e opposti fra loro. Giustamente parli di scelte compiute dall'uomo come fattore fondamentale della storia... ma le scelte che si fanno sono comunque pur sempre determinate da una causalità, sia essa interna al soggetto che sceglie (carattere, personalità) o esterna (condizionamenti provenienti dall'ambiente familiare, sociale, più semplicemente fisico). La possibilità di ammettere cause diverse da quelle effettivamente agenti, possibilità chiamata ad alleggerire il rigore della necessità, è ammissibile fintanto che si parla di causalità contingenti, che possono esserci come non esserci, che non hanno in loro stessi la loro ragion d'essere e che dunque richiamano la necessità di essere spiegate da una causalità superiore non contingente (oppure si procede all'infinito...). Si può dire che la possibilità di ammettere come realmente possibili scenari alternativi a quelli realmente accaduti, ucronie varie, sia una possibilità che è tale quanto più la nostra conoscenza razionale della storia sia limitata.. La conoscenza razionale è un "sapere di cause", e quanto più attribuiamo cause agli effetti che osserviamo quanto più dobbiamo limitare le possibilità di pensare alternative che sarebbero potute ragionevolmente accadere... La necessità dunque io la vedrei in contrapposizione non tanto con il "caos", ma con l'irrazionale, l'inspiegabile. Il caos non è irrazionalità, ma una situazione di conflitto dove una causalità più forte si impone contro le altre, questa differenza di forza è la causa che spiega l'evento e dà a quell'effetto una necessità.

La mia idea di un "miscuglio" di ordine e caos non la vedo incoerente con l'idea di pensare ordine e caos come contrapposte. Io per contrapposizione intendo il fatto che con l'aumentare dell'aspetto di ordine nella storia dimunuisce il caos e viceversa. Questo non vuol dire che la storia sia tutto cosmo o tutto caos, vuol dire che essa nella misura in cui è cosmo non è caos e nella misura in cui è caos non è cosmo. Da qui la metafora, rozza certo, dell'elastico che si distende nell'essere tirato da due poli contemporaneamente in direzioni opposte fra loro, fattori opposti sì, ma agenti nello stesso tempo. Altro esempio: quanto più un oggetto ha un colore chiaro non è scuro, quanto più è scuro non è chiaro. Il richiamo alla "sintesi hegeliana" non è secondo me molto appropriato in questo contesto. Sintesi per me vuol dire condizione per la quale due elementi non solo sono entrambi compresi, ma convivono armonicamente cessando di essere presenti ciascuno a scapito dell'altro. La sintesi farebbe cessare il dinamismo della storia, la tensione dell'elastico. La storia non è "sintesi" di ordine e caos (altrimenti sarebbe già cessata) ma miscuglio, eterno conflitto dove questi due opposti sono compresenti ma in un modo in cui uno dei due tende a eliminare l'altro, conflitto che rende possibile il proseguire del dinamismo, come la tensione dell'elastico. Tornando alla metafora dei colori, il grigio esiste, certo, ma non è "sintesi" di bianco e nero, chiarezza ed oscurità, ma più propriamente "miscuglio", se si preferisce, "amalgama"

maral

#20
Ritorno un attimo sull'asserzione secondo la quale "non ci dovrebbero essere lezioni di filosofia, ma discussioni di filosofia", che a mio parere va presa con grande cautela, per non finire di credere di star facendo filosofia solo perché si parla di certi temi, mentre non la si fa per nulla. Una "discussione" filosofica presuppone una prospettiva filosofica che si articola in un linguaggio di significato filosofico e questa prospettiva, questo linguaggio, sono tutt'altro che spontanei, ma vanno appresi (e non è nemmeno detto che tutti possano apprenderli). L'ottica filosofica non è né quella scientifica, né quella sociologica o psicologica (men che meno quella mitologica) e necessita di una propedeutica severa. In questo senso credo che proprio la storia della filosofia costituisca un'indispensabile propedeutica anche nel caso in cui si privilegi un modo di pensare per temi, se lo si vuole fare con un minimo di rigore filosofico.
Credo poi esista una differenza sostanziale tra il sapere filosofico e quello scientifico (per come è inteso oggi il fare scienza): mentre è possibilissimo trattare i temi delle scienze sperimentali, come ad esempio la medicina, alla luce delle scoperte più recenti (credo che per la pratica medica attuale conti ben poco considerare cosa pensassero i medici dei secoli precedenti, se non al massimo per curiosità), non si può pensare filosoficamente senza avere studiato Platone e Aristotele che ne hanno gettato le fondamenta (e lo stesso si può dire per tutti i grandi filosofi del passato che se ne condivida o meno l'impostazione e il pensiero): il loro pensiero resta comunque basilare per qualsiasi adepto filosofo attuale e per qualsiasi tema intenda oggi affrontare filosoficamente. Questa conoscenza non va però intesa come una subordinazione a un principio di autorità che sarebbe quanto mai deleterio, ma per non trasformare qualsiasi discussione filosofica in mera chiacchiera opinionistica più o meno polemica, dettata solo dai propri attuali preconcetti.
E questo sarebbe davvero la fine della filosofia che nasce proprio con l'intento fondamentale di liberare dai preconcetti (dunque di essere veramente liberi) e la storia (memoria) di questa lotta contro il preconcetto resta fondamentale, almeno per tentare di non ricascarci sempre pari pari.

sgiombo

A Davintro

Non concordo (ma potrebbe anche darsi che si tratti solo di intendersi sul significato che diamo alle parole) con la concezione del "caos, inteso come conflitto tra agenti causali rivolti ad effetti opposti, nel quale gli agenti dotati di maggior forza si impongono su quelli più deboli e danno alla storia una certa direzione" : per me questo non é caos ma ordine, solo "non semplice, ma particolarmente complesso"; caos sarebbe un mutamento non riconducibile a cause universalmente e costantemente agenti ciascuna in un determinaro modo (con determinati effetti), sia pure fra loro interagenti in un intreccio complesso e di fatto non calcolabile (ma in linea di principio sì), imprvedibile di fatto ma non disordinato, .
In questo caso si dà prevedibilità degli eventi (almeno in linea teorica, di principio; di fatto può essere impossibile in caso di eccessiva complessità e limitata conoscenza dei temini in gioco), e cioé, purché si abbia adeguata conoscenza della situazione a un determinato tempo assunto come "iniziale", c' é la necesità teorica di pensare che gli eventi accadano così come accadono e non altrimenti: Invece nel caso di mutamento caotico non c' é alcuna necesità teorica  (né possibilità, se non per puro caso) di pensare che gli eventi accadano coasì come accadono e non altrimenti.
Quindi a mio parere la questione della necessità o meno (di pensare gli eventi futuri compatibilmente con la conoscenza dei presenti) si identifica con quello dell' ordine o caos nel loro accadere e suseguirsi.

Questo però solo in linea puramente di principio.
Ma concordo che "Si può dire che [in caso di divenire ordinato, causalmente determninato] la possibilità di ammettere come realmente possibili scenari alternativi a quelli realmente accaduti, ucronie varie, sia una possibilità [di fatto] che è tale quanto più la nostra conoscenza razionale della storia sia limitata. La conoscenza razionale è un "sapere di cause", e quanto più attribuiamo cause agli effetti che osserviamo quanto più dobbiamo limitare le possibilità di pensare alternative che sarebbero potute ragionevolmente accadere...".
Si tratterebbe per me comunque di una possibilità meramente illusoria, conseguente la limitata conoscenza e "calcolabilità di fatto" dei fattori in gioco.
Ed effettivamente (in questo preciso e correggo quanto scritto nel precedente intervento grazie alla sollecitazione della tua osservazione critica) oggettivamente o si dà ordine (= necessità, prevedibilità almeno teorica, in linea di principio; che potrebbe essere solo statistica in insiemi numerosi di eventi o anche dei singoli eventi a secofìda dei casi) oppure si dà disordine (imprevedibilità, possibilità di prevedere come possibili diverse alternative): tertium non datur.
Ritengo infatti il coesistere dialettico, l' "interagire in qualità di contrari" di ordine-necessità e di disordine-possibilità nella storia in ultima analisi solo soggettivo, apparente all' umanità (individui, classi sociali, popoli, ecc.), che nel porsi i suoi scopi é condizionata dai limiti invalicabile delle sue conoscenze dei fattori in gioco.
Ma la possibilità umana di conoscere fattori in gioco in generale é sempre limitata e in particolare nella storia é sempre limitatissima; e questo consente la possibilità di prevedere di fatto e di agire per più possibili esiti alternativi (anche se non in numero illimitato, come sarebbe al limite in caso di caos) degli eventi in corso.


La questione "sintesi" o "elastico" fra necessità o possibilità nella storia mi sembra puramente terminologica Ovvio che alternanza e coesistenza di bianco e di nero sono diversa cosa da grigio; ma dicendo che nella storia convivono elementi di prevedibilità e di imprevedibilità (di fatto, dal punto di vista umano soggettivo)  non intendevo dire che esiste un' impossibile condizione che sta alla prevedibilità e all' imprevedibilità come il grigio sta al bianco e al nero, ma casomai come la coesistenza di parte di bianco e di parte di nero (diciamo la maglia della Juventus) sta al solo bianco "tinta unita" e al solo nero "tinta unita"; fuor di metafora, alcuni eventi ed aspetti e circostanze di eventi della storia umana sono di fatto prevedibili (bianchi), altri no (neri), nessuno é contraddittoriamente prevedibile-imprevedibile (grigio).
Resta il fatto che se si dà ordine si dà necessità oggettiva e la possibilità, il libero arbitrio é solo illusorio. E tuttavia reale in quanto illusione nell' agire umano per la limitatezza delle conoscenze possibili di fatto e dunque l' esistenza di possibili alternative di fatto pensabili e desiderabili, per le quali agire.

davintro

Rispondo a Donalduck:

"Bisogna chiarire cosa si intende per "realtà esistente indipendente dalla soggettività". Se si parla di soggettività individuale, è abbastanza facile essere d'accordo che l'esistenza o meno di un singolo soggetto cosciente tra tanti non incide sull'esistenza della realtà, ma se invece si intende una realtà indipendente da qualsiasi soggettività è tutta un'altra storia. In quest'ultimo caso ritengo che sia perfino logicamente contradditorio ipotizzarla."

Forse precedentemente sono stato impreciso... quando parlavo di indipendenza della realtà dalla soggettività mi riferivo alla soggettività intesa come soggettività "mentale", soggettività pensante, non soggettività tout court. Se si dà al soggetto un'accezione che va al di là del suo essere "pensante" allora mi sembra abbastanza evidente che la realtà non che essere prodotto di un soggetto, a condizione di dare a tale concetto il significato più ampio possibile, non solo soggetti umani, ma anche semplici agenti fisici che producono un'azione. Concepita la storia come un insieme di eventi o anche un semplice insieme di realtà esistenti occorre attribuire a tali eventi o esistenze una causa agente che li produca, dunque un soggetto, ma soggetto inteso come soggetto agente non necessariamente soggetto pensante e conoscente. Ciò che io contestavo è l'idea della dipendenza del reale, non da un soggetto inteso genericamente, ma dalla pensabilità o conoscibilità di tale realtà. Sostenevo l'autonomia del reale da un soggetto pensante, non da un soggetto in senso generico, che non si riduce certo al pensiero, ma produce la sua azione causale anche indipendentemente dal fatto di pensare l'oggetto che produce. Il riferimento all' "informazione" non è sufficiente a giustificare la dipendenza della realtà dal pensiero, l'informazione è la base della conoscenza, dunque può essere vista come base anche del reale soltanto accettando pregiudizialmente l'idea che la realtà si riduca alla conoscenza che abbiamo di essa, che invece è proprio quello che stiamo cercando di dimostare come risultato finale. In altre parole: vero che l'informazione è ciò che costituisce la realtà intesa come oggetto della conoscenza, ed è vero che l'informazione implica una mente che riceva l'informazione, ma bisogna ancora dimostrare che la realtà si riduca davvero all'essere oggetto di una conoscenza: perchè la realtà deve necessariamente emettere informazioni a una mente? Non è possibile ammettere una realtà che si limita a esistere tranquillamente senza necessità di informare un soggetto pensante della sua esistenza? Comunque questo discorso non voglio estremizzarlo fino al punto di escludere il pensiero da qualunque ruolo all'interno della produzione di ciò che esiste. Ma l'azione del dare esistenza a un oggetto potrebbe porre l'idea di tale oggetto (cioè la conoscenza) come ausilio, fattore che contribuisce a progettare le cose così come poi di fatto si realizzano. Resta il fatto che l'idea, il pensiero, in quanto tali non producono effetti sul mondo reale, contribuiscono a progettarlo, ma l'atto creativo del reale non può che essere un altro reale: il soggetto che produce l' esistenza del reale non può che essere un altro reale, non l'idea che di per sè è qualcosa di statico

Per quanto riguarda l'ultima parte, certamente qualunque prodotto creato assume significati che vanno al di là di quelli attribuiti dall'autore, io ho fatto l'esempio dell'opera d'arte, ma si potrebbe parlare anche di oggetti tecnologici, macchine, orologi... ma questo non cambia comunque il fatto che tanto più si cerca di compendere un oggetto quanto più occorre risalire alle cause che hanno determinato il suo essere, nel caso di un'opera d'arte, queste cause comprenderenno il soggetto che l'ha prodotto materialmente, l'autore, e poi gli ulteriori significati che nella storia sono stati attribuiti da intepreti successivi. La possibilità che ho io, attualmente, in questo momento, di attribuire a un'opera un significato originale, diverso da quelli dati nel passato è ammissibile proprio nella misura in cui l'opera possiede un suo senso oggettivo per il quale contiene in modo latente la potenzialità di intepretazioni diverse da quelle finora date. Nella misura in cui un concetto coincide una realtà oggettivamente presente posso indagarla nella mia esperienza diretta e, appunto, attuale dell'oggetto. Nella misura in cui il concetto è una creazione di una mente e non esiste se non in relazione a quella mente mi pare inevitabile vincolare la comprensione di quel concetto al pensiero che l'ho storicamente prodotto. Non cambia granchè il fatto che siano dati significati successivi rispetto a quello dato dal primo iniziatore di qul concetto, in quel caso la comprensione di quel concetto coinciderà con la storia della sedimentazione semantica che quel concetto ha via via subito da menti diverse. E sarà una comprensione storica, perchè quel concetto essendo determinato dalla mente del/dei pensatore/pensatori e non coincidente con un oggetto reale e presente non potrà essere compreso in un'esperienza diretta e attuale che ognuno di noi può  compiere in qualunque momento, a causa appunto dell'assenza di tale oggetto "qui e ora" disponibile a cui far corrispondere il concetto in questione. Spero di essere stato un minimo chiaro...

Donalduck

#23
Davintro ha scritto:
CitazioneForse precedentemente sono stato impreciso... quando parlavo di indipendenza della realtà dalla soggettività mi riferivo alla soggettività intesa come soggettività "mentale", soggettività pensante
Effettivamente parlando di "linguaggio" ho reso la frase un po' ambigua, ma non mi riferivo a un soggetto come entità puramente linguistica, intendevo proprio il soggetto come coscienza pensante. E' da questo soggetto pensante che ritengo la realtà non possa essere in alcun modo affrancata. O per lo meno non abbiamo nessun dato che ci possa indurre a pensarlo, anche se, ovviamente, mi rendo conto che nel "senso comune corrente" non sembra proprio essere così.
Ma se riflettiamo sul fatto, per quanto ovvio, che tutto quello che forma il soggetto di tutto il nostro sapere, e che forma quella che chiamiamo "realtà", proviene da un "atto cognitivo" della coscienza e alla coscienza si indirizza, può capitare che arriviamo alla conclusione che supporre una "realtà" che esiste "inosservata" è una libera fantasia priva di basi sia nell'esperienza che nella logica. Infatti qualunque elemento di qualunque realtà risulta da un processo di trasmissione di informazioni che deve avere un mittente e un destinatario. E un destinatario in grado di "riconoscere" l'informazione, di attestarne l'esistenza, non semplicemente di esserne il bersaglio. Qualunque cosa possiamo intendere quando designamo un oggetto, ad esempio "tavolo", risulta dalla nostra percezione di segnali provenienti dal "mondo esterno" e dalla loro elaborazione soggettiva. Possiamo attribuire alla "cosa in sé" qualunque grado o modalità di "realtà" vogliamo, ma quello che sappiamo, quello di cui siamo effettivamente testimoni, è un processo di comunicazione che non potrebbe avvenire senza un "due".
L'uno è solo la potenzialità, il due l'attualità, il tre il riconoscimento. Ho trovato interessante lo sviluppo che ha fatto Pierce di questi "concetti numerici", come anche qualcosa relativo alla "genesi", ricondotta a questi stessi concetti, che mi capitò di leggere in un peraltro piuttosto oscuro testo (la cui lettura ho presto interrotto), "La dottrina segreta" della teosofa Blavatsky.
Una coscienza senza nulla da osservare non può essere cosciente di nulla; anche per essere cosciente di sé stessa deve in qualche modo sdoppiarsi e generare l'oggetto. Una realtà senza osservatori non ha la possibilità di essere rilevata, quindi risulta assai arduo dire in cosa consisterebbe la sua "esistenza". Ma nel momento (logico) in cui si attua una comunicazione, un flusso di informazioni, si hanno realtà e coscienza "in esistenza" ossia "in atto". Non credo sia un caso, se anche tra i fisici, qualcuno stia cominciando a prendere in considerazione l'ipotesi che il "fondamento più fondamentale" dell'esistenza che conosciamo sia l'informazione.
Quindi l'incongruenza "linguistica" di cui parlavo riflette un'incongruenza concettuale, relativa ai significati: volevo dire che son questi, e non soltanto i termini che li designano, ad essere come i due lati inseparabili di una moneta.

davintro

provo a rispondere sia a Green Demetr sia a Donalduck dato che a quanto ho capito all'incirca stanno esponendo entrambi il tema di una supposta dipendenza della realtà dal pensiero.
Donalduck scrive:
 "Ma se riflettiamo sul fatto, per quanto ovvio, che tutto quello che forma il soggetto di tutto il nostro sapere, e che forma quella che chiamiamo "realtà", proviene da un "atto cognitivo" della coscienza e alla coscienza si indirizza, può capitare che arriviamo alla conclusione che supporre una "realtà" che esiste "inosservata" è una libera fantasia priva di basi sia nell'esperienza che nella logica"

Mi pare che il discorso resti qui all'interno della dimensione dei limiti del nostro sapere. Ovvio che ciò che possiamo sapere della realtà necessariamente è costituito in modo da corrispondere ai concetti e alle categorie della nostra coscienza, è interno alla "pensabilità". Ovvio che la stessa affermazione di una realtà in sè del tutto separata dalla coscienza sia un assurdo in quanto nel momento in cui ne affermo l'esistenza la sto in qualche modo pensando, concettualizzando.... per questo anche prima scrivevo che l'ipotesi del solipsismo è una possibilità che non si può non prendere in considerazione. Posso arrivare a spingermi ad affermare che la realtà e la pensabilità finiscano col coincidere: tutto ciò che è reale è costituito da delle modalità esistenziali che corrispondono alle categorie e ai concetti della nostra mente, che li rendono pensabili e conoscibili e e ciò che sfugge alla nostra conoscenza non è al di là di un limite della pensabilità in generale, ma solo della nostra conoscenza umana, conoscenza di un essere ontologicamente limitato e imperfetto. Eppure... neanche in questo caso (il massimo che mi sento di concedere a un idealismo) sarebbe giustificabile l'idea della dipendenza dell'esistenza del reale dal pensiero. Cioè, la corrispondenza concetti mentali-cose esistenziali è presente ma non è condizione sufficiente e necessaria del loro esistere. Per la semplice ragione che l'atto causale di produzione di esistenza implica un soggetto dotato di "forza", reale, capace di produrre effetti performativi sul reale (operare il passaggio dalla non-esistenza di qualcosa all'esistenza). Come è evidente la coscienza non è capace di produrre effetti performativi sulla realtà, di modificarla, di agire su essa, non direttamente. La coscienza rispecchia in sè la realtà ma non la crea, non la modifica (anche se è un fattore necessario dell'opera di modifica che l'uomo può fare) Per produrre direttamente essa dovrebbe essere a sua volta un ente reale, dotata cioè di un concreto potere causale. La coscienza non è un fatto reale, è un modo d'essere del soggetto pensante, della persona umana. La coscienza, il pensiero si rendono concreti solo come espressioni di cause reali, siano esse di ordine biologico, psichico, spirituale... Come giustamente diceva Cartesio "Cogito ergo sum". Il mio pensiero implica un reale soggetto pensante che pensi. Il pensiero di per sè sarebbe solo astrazione... esso è il punto di partenza dal punto di vista dell'argomentazione riguardo a qualunque esistenza possibile, ecco perchè non posso mai trascendere il pensiero in qualunque mio giudizio sulla realtà, ma dal punto di vista ontologico il pensiero è conseguenza di una realtà che pensa, la cui esistenza comprende il fatto di pensare, ma non è da tale fatto determinato

Riguardo alla citazione di Kant fatta da Green demetr dico che è probabilmente vero che l'idealismo sia stata la conseguenza necessaria di quel modello kantiano, ma quel modello gnoseologico non è necessariamente (almeno per me non lo è) quello più valido possibile. Ad esempio quello fenomenologico husserliano, nei stretti limiti in cui credo di averlo compreso, mi sembra superiore: in particolare l'idea della "sintesi passiva" per cui il livello dell'esperienza che precede e fonda quello intellettuale della formazioni dei giudizi, cioè quello iletico dell'apprensione del materiale, non è di per sè cieco e disordinato, ordinato solo a partire dalle categorie dell'intelletto soggettivo, ma sarebbe già permeato da un'intenzionalità per la quale la nostra percezione soggettiva è costantemente modificata dalla passività delle sensazioni. La percezione possiede già un'intenzionalità: non si limita a cogliere il singolo lato di un oggetto che colpisce il nostro attuale campo sensitivo, ma lega quel lato a lati nascosti creando una "sintesi anticipativa" destinata però a modificarsi nel corso degli adombramenti dell'oggetto che di volta in volta mostra i suoi lati. Se da lontano vedo una forma umana avrò (in base alla memoria di esperienze simili, processo associativo) la percezione di un essere umano, man mano che mi avvicino, scoprendo nuovi lati dell'oggetto, mi renderò conto che in realtà non era realmente un uomo, ma un manichino: la passività della sensazione ha modificato la percezione dell'oggetto dandole un nuovo senso. L'oggetto si è reso attivo nei confronti della coscienza e da ciò si può dedurre la sua autonomia da questa. Esiste dunque un senso presente negli oggetti che interviene sull'esperienza e la conoscenza che abbiamo di essi, e questa modifica è possibile perchè tale senso era tale indipendentemente dall'arbitrio della mia coscienza soggettiva. Questa riceve il suo contenuto a partire dall'essere "colpita" passivamente da qualcosa di ulteriore, di trascendente ad esso, che si annuncia prima di tutto nelle sensazioni che comunicano il contenuto oggettivo alla coscienza, anzi rendendo di fatto possibile la coscienza stessa, che è coscienza in quanto intenzionalità, coscienza è sempre coscienza di qualcosa , rivolta a un mondo di oggetti trascendenti. Il mio "realismo" non vuole arrivare all'assurdo di dire che gli oggetti sono intesi separatamente da un soggetto che li intende, vuole riconoscere un loro senso al di là di un arbitrio relativistico per cui ciascuna singola coscienza individuale può dire sulla realtà tutto e il contrario di tutto vanificando di fatto qualunque concezione di verità, di scienza, dunque di filosofia...

Sariputra

#25
@davintro
Sono d'accordo con te. Coscienza è sempre "coscienza di...". Non è dato fare esperienza di nessun tipo di coscienza avulso dalle sensazioni . Persino nell'estasi, che si manifesta senza segni, cioè senza percezioni sensoriali, si ottiene coscienza di...gioia,beatitudine,equanimità,ecc.
Il solipsismo è un'artificio concettuale. Il pensiero che pensa se stesso, anche solo per formulare a se stesso la domanda:"Sono io che sto pensando?", deve costruire un'immagine di sè. E come la costruisce se non partendo dalle sensazioni che formano questa supposta immagine di sè? E le immagini costruite dalle sensazioni  hanno un nome, quindi il pensiero che pensa se stesso (coscienza) può formulare il concetto di pensarsi solo attraverso un linguaggio (Wittgenstein mi sembra parli di questo...se non erro). E il linguaggio si impara dall'ambiente circostante. Mi sembra una prova, indiretta ma sempre una ragionevole prova, che non esiste solo la coscienza ma pure un mondo fenomenico esterno ad essa. Infatti la nostra memoria di esistere inizia con l'inizio dell'apprendimento del linguaggio.Abbiamo dei flashback sensoriali dei primissimi anni di vita, ma solo nel ricordo e nominandoli, diventano intelleggibili e coscienti per noi. Per es. da neonato vedevo l'orlo della carrozzina, ma solo quando ho appreso , con il linguaggio, che quello veniva denominato orlo della carrozzina è sorta in me la coscienza di aver visto l'orlo di una carrozzina.  C'è poi un tipo di coscienza istintiva, di specie, che però mi sembra sconfini in altri territori. Questa istintività è comune anche alle altre forme di vita senziente ( che provano cioè appagamento e dolore).
Per me, senza Mondo non vi è coscienza. Ma senza coscienza chi può dire vi sia un Mondo? 
Sono anche d'accordo con Maral quando dice che, va bene discutere di filosofia, ma bisogna pure conoscere il significato dei termini usati nel linguaggio filosofico e questo lo si apprende con lo studio della storia della filosofia stessa.Però per ragionare non è necessario conoscere la storia della filosofia. Una normale cultura e la conoscenza di un significativo numero di vocaboli è sufficiente, a parer mio. Si rimane nel campo delle opinioni ( che mi sembra di capire non siano di molto credito per Maral ) ? Certamente sì, ma...non sono opinioni pure quelle dei grandi filosofi? O sono ragionamenti? Semmai si può far distinzione in base alla qualità del ragionamento espresso... :-[. ma il ragionare , anche balbettando sui massimi sistemi, è una prerogativa dell'essere umano. Pertanto rivendico il diritto di chiunque di "far filosofia" (che meraviglia...), ognuno con i propri limiti, lontano dallo snobismo accademico. Cosa c'è di più intimamente libero del "far filosofia"? Chi ti può impedire di ragionare sul senso della tua vita?...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

acquario69

Sariputra scrive:

Per me, senza Mondo non vi è coscienza. Ma senza coscienza chi può dire vi sia un Mondo? 


in un certo senso si potrebbe forse dire che sono i due poli complementari (quindi non contrapposti) dell'Universo - UNO (?)

--------

ognuno con i propri limiti, lontano dallo snobismo accademico. Cosa c'è di più intimamente libero del "far filosofia"? Chi ti può impedire di ragionare sul senso della tua vita?...


sono d'accordo...secondo me quella sarebbe solo una chiusura,mettere un confine e definire qualcosa che di per se e' indefinito ma non per questo comprensibile a sua volta

memento

#27
Davintro:

CitazioneLa coscienza rispecchia in sè la realtà ma non la crea, non la modifica

CitazioneLa coscienza non è un fatto reale, è un modo d'essere del soggetto pensante, della persona umana

CitazioneEsiste dunque un senso presente negli oggetti che interviene sull'esperienza e la conoscenza che abbiamo di essi, e questa modifica è possibile perchè tale senso era tale indipendentemente dall'arbitrio della mia coscienza soggettiva. Questa riceve il suo contenuto a partire dall'essere "colpita" passivamente da qualcosa di ulteriore, di trascendente ad esso, che si annuncia prima di tutto nelle sensazioni che comunicano il contenuto oggettivo alla coscienza, anzi rendendo di fatto possibile la coscienza stessa, che è coscienza in quanto intenzionalità, coscienza è sempre coscienza di qualcosa , rivolta a un mondo di oggetti trascendenti

Ho evidenziato le parti del tuo discorso con cui mi trovo particolarmente in disaccordo. Ho notato che appartengono tutte al tanto diffuso pregiudizio kantiano del noumeno o della cosa in sé,che stabilisce che la percezione (intesa non come impressione sensoriale,bensi come sua rielaborazione) abbia come riferimento un oggetto che la trascende.
Anche il fatto che la fonte della percezione sia un oggetto è discutibile. L'uomo riceve sensazioni sparse dall'esterno,non oggetti precostituiti già pronti per poter essere utilizzati dall'intelletto. Il problema è che il processo cognitivo agisce in noi,esseri adulti e formati,in maniera così immediata e veloce che abbiamo finito per credere che la coscienza si limiti a riprodurre fedelmente la realtà cosi com'è. Un oggetto resta pur sempre un'elaborata astrazione mentale,non ha significato se non all'interno di una coscienza che lo riconosca come tale.

Sariputra:

CitazionePer me, senza Mondo non vi è coscienza. Ma senza coscienza chi può dire vi sia un Mondo?

Il dire è già un azione che presuppone una coscienza,quindi direi che la risposta è già contenuta nella domanda.
Per il resto concordo in pieno con ciò che hai scritto.

davintro

"Ho evidenziato le parti del tuo discorso con cui mi trovo particolarmente in disaccordo. Ho notato che appartengono tutte al tanto diffuso pregiudizio kantiano del noumeno o della cosa in sé,che stabilisce che la percezione (intesa non come impressione sensoriale,bensi come sua rielaborazione) abbia come riferimento un oggetto che la trascende.
Anche il fatto che la fonte della percezione sia un oggetto è discutibile. L'uomo riceve sensazioni sparse dall'esterno,non oggetti precostituiti già pronti per poter essere utilizzati dall'intelletto. Il problema è che il processo cognitivo agisce in noi,esseri adulti e formati,in maniera così immediata e veloce che abbiamo finito per credere che la coscienza si limiti a riprodurre fedelmente la realtà cosi com'è. Un oggetto resta pur sempre un'elaborata astrazione mentale,non ha significato se non all'interno di una coscienza che lo riconosca come tale. "

In realtà più che la gnoseologia kantiana (che riducendo la conoscenza al piano dei fenomeni e lascia il noumeno come inconoscibile non potrebbe ammettere l'idea di una "cosa in sè" e dovrebbe considerare la conoscenza come pura attività ordinatrice dell'intelletto. Per questo, su ciò, sono d'accordo con Green Demetr sul fatto che sia l'idealismo lo sbocco coerente del kantismo...) avevo in mente l'idea della sintesi passiva delle fenomenologia di Husserl poi ripresa, tra gli altri, dalla sua allieva Edith Stein

A parte i riferimenti storici...
Ovviamente la conoscenza consiste in un processo cognitivo, nessuno lo nega. Ma questo processo cognitivo (al di là della rapidità o meno di esecuzione che ora non ci interessa) si dispiega nel tempo, cioè è un processo diacronico. La temporalità è la struttura fondamentale della coscenza umana. E proprio questa temporalità testimonia necessariamente l'esistenza di un mondo oggettivo autonomo dal soggetto che regge la possibilità della conoscenza. Perchè in assenza di un senso delle cose oggettive preesistente per un certo aspetto all'attività dell'io-penso non ci sarebbe temporalità. In assenza di nulla di trascendente rispetto ad essa la coscienza soggettiva, come creatrice assoluta della realtà, sarebbe una coscienza divina, assoluta, non necessitante di "tempo". per la formazione del sapere delle cose: la sua conoscenza dell cose sarebbe sovratemporale, istantanea, nell'atto in cui pone se stessa la coscienza porrebbe la visione totalizzante della realtà, che sarebbe pienamente immanente, "interna" ad essa. Ovviamente non è così. I processi cognitivi che fondano la conoscenza si costituiscono nel tempo, in quanto questi processi, l'attività formatrice dell'io, devono costantemente superare uno scarto, un residuo di trascendenza del reale che in ogni momento interviene sui nostri schemi percettivi modificandoli (l'esempio del manichino che facevo prima), modificando i nostri schemi associativi che conserviamo nella memoria in base ai quali formiamo le percezioni, il cui decorso però è dato dallo svelarsi, da parte dell'oggetto, dei suoi lati. Questa è in sintesi la conoscenza umana. Unità di intenzionalità attiva della coscienza che interviene sulle sensazioni ordinandole in concetti e categorie da una parte, ma dall'altra, intenzionalità passiva, per cui sono le cose oggettive ad intervenire sull'io offrendo ad esso i contenuti da formare: il rumore che sento all'improvviso stimola il mio io a spostare la sua attenzione da un luogo dell'esperienza a quello dove il rumore viene avvertito. Come sarebbe possibile ciò senza l'esistenza di qualcosa di esterno all'io che ne modifica la direzione d'attenzione?

memento

#29
Citazione di: davintro il 29 Aprile 2016, 20:27:57 PMIn realtà più che la gnoseologia kantiana (che riducendo la conoscenza al piano dei fenomeni e lascia il noumeno come inconoscibile non potrebbe ammettere l'idea di una "cosa in sè" e dovrebbe considerare la conoscenza come pura attività ordinatrice dell'intelletto. Per questo, su ciò, sono d'accordo con Green Demetr sul fatto che sia l'idealismo lo sbocco coerente del kantismo...) avevo in mente l'idea della sintesi passiva delle fenomenologia di Husserl poi ripresa, tra gli altri, dalla sua allieva Edith Stein

A parte i riferimenti storici...
Ovviamente la conoscenza consiste in un processo cognitivo, nessuno lo nega. Ma questo processo cognitivo (al di là della rapidità o meno di esecuzione che ora non ci interessa) si dispiega nel tempo, cioè è un processo diacronico. La temporalità è la struttura fondamentale della coscenza umana. E proprio questa temporalità testimonia necessariamente l'esistenza di un mondo oggettivo autonomo dal soggetto che regge la possibilità della conoscenza. Perchè in assenza di un senso delle cose oggettive preesistente per un certo aspetto all'attività dell'io-penso non ci sarebbe temporalità. In assenza di nulla di trascendente rispetto ad essa la coscienza soggettiva, come creatrice assoluta della realtà, sarebbe una coscienza divina, assoluta, non necessitante di "tempo". per la formazione del sapere delle cose: la sua conoscenza dell cose sarebbe sovratemporale, istantanea, nell'atto in cui pone se stessa la coscienza porrebbe la visione totalizzante della realtà, che sarebbe pienamente immanente, "interna" ad essa. Ovviamente non è così. I processi cognitivi che fondano la conoscenza si costituiscono nel tempo, in quanto questi processi, l'attività formatrice dell'io, devono costantemente superare uno scarto, un residuo di trascendenza del reale che in ogni momento interviene sui nostri schemi percettivi modificandoli (l'esempio del manichino che facevo prima), modificando i nostri schemi associativi che conserviamo nella memoria in base ai quali formiamo le percezioni, il cui decorso però è dato dallo svelarsi, da parte dell'oggetto, dei suoi lati. Questa è in sintesi la conoscenza umana. Unità di intenzionalità attiva della coscienza che interviene sulle sensazioni ordinandole in concetti e categorie da una parte, ma dall'altra, intenzionalità passiva, per cui sono le cose oggettive ad intervenire sull'io offrendo ad esso i contenuti da formare: il rumore che sento all'improvviso stimola il mio io a spostare la sua attenzione da un luogo dell'esperienza a quello dove il rumore viene avvertito. Come sarebbe possibile ciò senza l'esistenza di qualcosa di esterno all'io che ne modifica la direzione d'attenzione?

Specifico che,se non si fosse capito dal precedente post,non sono solipsista. Però un conto è pensare che esista una dimensione autonoma dall'attività cosciente,un'altro è credere che questa dimensione sia dotata di senso proprio. Se eliminiamo la coscienza non c'è significato che si mantenga.

La coscienza "crea" un oggetto non nel senso che lo produce ex novo,ma selezionando e isolando una gamma di impressioni che lo definiscono fra la totalità degli stimoli che il cervello riceve dall'ambiente interno o esterno. Al di fuori di questo processo,nulla ci autorizza ad affermare che uno stimolo costituisca di per sé,appunto,la proprietà di un oggetto che si svela. Questo è il punto che mi premeva rimarcare.

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