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Filosofia è metafisica

Aperto da bobmax, 27 Marzo 2020, 10:17:19 AM

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davintro

Citazione di: giopap il 30 Marzo 2020, 09:40:23 AM
Citazione di: davintro il 29 Marzo 2020, 23:14:20 PM

le due opzioni non sono alternative separate, ma due aspetti convergenti che si implicano fra loro. Se il livello di certezza riguardo un giudizio è determinato dalla capacità della razionalità di addurre argomenti che corroborino la pretesa di oggettività, allora una verità apparirà tanto più certa quanto direttamente riconducibile a criteri logici autonomi da condizionamenti estrinseci in assenza dei quali questi criteri perderebbero la loro validità, smarrendo la loro capacità di fondare la verità del discorso. Dunque il massimo livello di certezza coincide con il carattere assolutistico del criterio di verità, perché arrivati al punto in cui un criterio si autolegittima, cioè si pone come dotato di validità assoluta, "sciolto dai legami", da vincoli nei confronti di ulteriori princìpi, possiamo riconoscerne la verità in modo certo, senza nessuna possibilità di errore, perché non esiste condizione in cui potrebbe venir meno. Per questo, non solo matematica e geometria, ma anche la metafisica consta di verità certe. Se parlare di certezza in campo metafisico ci appare così controintuitivo, per non dire di peggio, è perché si confonde la metafisica come disciplina in sé con la storia della metafisica, e stante l'infinita pluralità di posizioni diverse costituenti quest'ultima, si è indotti a pensare la metafisica come disciplina in sé come un campo in cui è impossibile pervenire ad alcun tipo di verità certa e condivisa. In realtà penso che la maggiore difficoltà nel riconoscere delle certezze nella metafisica rispetto alla matematica o alla geometria sia dato dal fatto che proprio l'assolutezza delle verità che la metafisica ricerca le rende estremamente più comprensive di tanti aspetti della realtà, e dell'esistenza umana, e dunque la ricerca finisce con l'accumulare molti più coinvolgimenti morali/sentimentali, per cui, mancando un dovuto distacco, la soggettività, del ricercatore offusca l'evidenza oggettiva delle verità in questione. Questo impedimento compromette di fatto il riconoscimento delle certezze metafisiche, ma non le invalida di principio, restano più o meno latenti, implicite nella nostra coscienza, al di là delle capacità riflessiva di esplicitarle in un discorso consapevole


Ma che le verità matematiche ("pure") e logiche siano certe é vero per definizione, trattandosi di giudizi analitici a priori.


Invece non vedo come ciò possa darsi (anche in linea di principio, a prescindere da tutti i "trabocchetti da eccessivo coinvolgimento emotivo" da te ricordati) delle verità metafisiche, che predicando sulla realtà di fatto e non su meri costrutti mentali e regole di deduzione arbitrariamente stabiliti (per definizione) deve avere prove anche empiriche a posteriori, per quanto indirette, circa la realtà di fatto e non solo costrutti arbitrari puramente mentali (che non vanno confusi con la metafisica, come a mio parere fa Viator).


Non solo, ma questa insuperabile dubitabilità di principio vale anche per la fisica (e in generale le scienze naturali).
Queste infatti si basano sull' esperienza, ma non si limitano ai dati immediati (particolari e concreti) di sensazione, ai quali personalmente attribuisco la stessa certezza dei giudizi analitici a priori (anche se il predicarli realmente accadere é giudizio sintetico a posteriori; ma circa evidenze empiriche immediate, non minimamente interpretate) E invece cercano nel mondo materiale naturale (fisico, non metafisico) "leggi" o modalità generali astratte del suo (postulato; ma mai dimostrabile) divenire regolare e non caotico, la cui verità poggia (assai instabilmente in linea teorica o di principio; diverso é il discorso sulla pratica) su dubitabilissime inferenze induttive (in ultima analisi; oltre che su ragionamenti deduttivi, abduttivi ed eventualmente di ulteriormente diversa natura).





è vero che la logica intesa come puro formalismo poggiante su definizioni ad hoc e premesse ipotetiche non è sufficiente come base da cui dedurre certezze riguardo la realtà di fatto. Per pervenire a certezze fattuali la logica formale necessita di applicarsi a un contenuto di intuizione, in un'esperienza vissuta. Il problema è che la gnoseologia kantiana, che giunge a una troppo netta separazione tra l'ambito logico-analitico e quello della realtà fattuale, partendo secondo me da pregiudizi di stampo empirista e materialista, vede l'intuizione sensibile, adeguata ad apprendere solo fenomeni fisici, come unica intuizione possibile su cui costruire una conoscenza razionale (in questo modo snaturando peraltro la stessa etimologia di "intuizione", "andare dentro", cogliere l'essenza necessaria della cosa, al di là delle manifestazioni esteriori e accidentali). Esiste però un'altra ottica che è quella fenomenologica, quella che pone come contenuto dell'analisi logica l'intuizione eidetica, che coglie l'essenza di una cosa successivamente alla riduzione, alla messa tra parentesi del suo eventuale aspetto di esistenza nel mondo esterno, sempre dubitabile, per individuarne l'aspetto di evidenza, il suo darsi come fenomeno all'interno della nostra coscienza. La coscienza è, insegnano Cartesio e Husserl, il residuo apodittico di cui, a prescindere che i fenomeni che la costituiscono corrispondano a esistenze di fatto, sono necessariamente presenti, e dunque costituiscono le essenze che poi la logica deduttiva mira a collegare con nessi consequenziali per formulare giudizi certi.



Ad esempio, la contingenza, intesa come contingenza del pensiero riguardo la capacità di pervenire a delle verità è un dato inoppugnabile, riconoscibile sulla base della semplice possibilità di illudersi o di dubitare che ciascuno di noi ha, può essere la base, non solo come definizione ad hoc, ma come proprietà reale del pensiero, da cui dedurre l'esistenza di una Causa che garantisca la possibilità al pensiero umano di riconoscere delle verità parziali, in quanto se il pensiero umano avesse in se stesso, nella sua immanenza, il criterio di verità, allora esso sarebbe sempre, necessariamente, nella verità, senza mai potersene allontanare. Dunque, la contingenza, intesa come imperfezione, fallibilità del pensiero umano nei confronti della verità, è dato fenomenologicamente inoppugnabile (posso dubitare che la mia visione del mondo sia vera o falsa, ma in ogni caso questa stessa dubitabilità dimostra l'imperfezione di un pensiero che non possiede la verità in pianta stabile e sicura) da cui si può ricavare logicamente la necessità di una Causa trascendente, creatrice di questa contingenza. In questo senso la prova tomista "ex contingentia mundi" (se le cose del mondo sono contingenti, necessitano di essere creati da una Causa necessaria, autofondatasi, Dio), è un passaggio logico che può essere recuperata nella sua validità razionale, a condizione però di "ripulirlo" da un'accezione naturalista, cosmologica, del realismo ingenuo, per cui la contingenza riguarderebbe il mondo fisico esterno, la cui esistenza viene data per scontata al di là della sua relazione con la soggettività della coscienza che ne fa esperienza. Mentre invece, la nozione di contingenza se "coscienzializzata", cioè se la si intende come contingenza della coscienza umana, la cui esistenza resiste all'estremizzazione del dubbio riguardante le asserzioni sulla realtà esterna ad essa, diviene quel contenuto anche fattuale da cui la logica può far leva per compiere le sue deduzioni, nello specifico, analizzando la definizione di contingenza ricavandone le implicazioni (se qualcosa è contingente, necessita di qualcosa di assolutamente necessario per determinarla, e l'indubitabilità del pensiero a cui la contingenza è riferita toglie il carattere ipotetico della premessa, fondandola su uno stato di fatto certo, l'esistenza del pensiero)


concordo nel pensare che Kant abbia errato nel considerare i giudizi matematici come sintetici. Ma l'argomentazione porterebbe a una digressione troppo ampia, e, solo per quanto riguarda me, mi fermo qui, mi piacerebbe trattare il punto in una discussione più centrata

giopap

Citazione di: bobmax il 30 Marzo 2020, 17:24:05 PM
@giopap

Gli assiomi sono giudizi sintetici a priori.
Se si tira in ballo Kant occorre essere conseguenti...
Citazione


Cerco di non fare troppo casino con le citazioni.


Io considero (ho già detto che non concordo con Kant in questo, e del tutto conseguentemente mi comporto) gli assiomi come altre definizioni (o integrazioni delle definizioni propriamente dette), in particolare dei concetti che vi compaiono; che, proprio come nel caso di quelli delle definizioni propriamente dette, stabiliscono arbitrariamente, per convenzione fra chi li assume, determinate relazioni fra concetti.   




Citazione



Il maiuscolo lo metto per evidenziare l'assolutezza.

La Verità è la "verità" assoluta, da distinguere dalla verità relativa.
Almeno che per chi vi coglie la differenza...


Quindi nessuna verità metafisica è assoluta.[/size]E non essendo fondata su alcun dato empirico, non essendo scienza, qualunque verità metafisica è superstizione: non ha fondamento, non è Vera.

Viceversa, le verità scientifiche sono sempre relative, mai assolute.Chi ha mai detto che sono superstizioni?
Citazione


Colgo senz' altro la differenza fra assoluto e relativo (e mi compiaccio del fatto che non sbagliavo a dire che conosco solo verità con iniziale minuscola, ovvero relative).
Infatti ritengo che tutte le verità umanamente ottenibili siano relative.
Tanto quelle fisiche quanto quelle metafisiche.
E non per il fatto di essere fondate o meno sull' empiria (secondo me, per quanto riguarda la mia personale metafisica, oltre a tante altre ben più autorevoli, anche quelle metafisiche devono sottostare a verifiche-falsificazioni empiriche), bensì per il fatto di essere predicati (conformi alla realtà); e i predicati sono relazioni fra concetti i quali sono definiti attraverso relazioni fra altri concetti; questo vale per tutte le verità, fisiche e metafisiche.


Nessuno afferma che le verità scientifiche sono superstizioni.
Io ho invece affermato che se le verità metafisiche sono superstizioni per il fatto di non essere certe (come sostieni tu), allora lo sono esattamente allo stesso modo, per lo stesso motivo anche quelle fisiche e scientifiche in generale.







Citazione

La insuperabilità del dubbio nel sapere scientifico è indispensabile.
Per rendersene conto è sufficiente immaginare quali effetti avrebbe il contrario.

Sarei curioso di sapere su cosa si fonda l'Etica se non sul Nulla.
Ma non particolarmente...

Ho comunque difficoltà a leggere una paginazione di tal fatta.



Anche se non ti interessa troppo ribadisco, magari a vantaggio di altri amici del forum (almeno lo spero), che il dover essere del' etica si fonda sull' essere della fisica (cui é riducibile la biologia, con la quale si integra la cultura, la storia umana).
Non nel senso che ne é dimostrata (dall' essere non può inferirsi alcun dover essere!), ma nel senso che ne é spiegata naturalisticamente: come sviluppo-superamento dialettico (dunque non negazione) dell' etologia animale.

giopap

#32
CitazioneDavintro


è vero che la logica intesa come puro formalismo poggiante su definizioni ad hoc e premesse ipotetiche non è sufficiente come base da cui dedurre certezze riguardo la realtà di fatto. Per pervenire a certezze fattuali la logica formale necessita di applicarsi a un contenuto di intuizione, in un'esperienza vissuta. Il problema è che la gnoseologia kantiana, che giunge a una troppo netta separazione tra l'ambito logico-analitico e quello della realtà fattuale, partendo secondo me da pregiudizi di stampo empirista e materialista, vede l'intuizione sensibile, adeguata ad apprendere solo fenomeni fisici, come unica intuizione possibile su cui costruire una conoscenza razionale (in questo modo snaturando peraltro la stessa etimologia di "intuizione", "andare dentro", cogliere l'essenza necessaria della cosa, al di là delle manifestazioni esteriori e accidentali). Esiste però un'altra ottica che è quella fenomenologica, quella che pone come contenuto dell'analisi logica l'intuizione eidetica, che coglie l'essenza di una cosa successivamente alla riduzione, alla messa tra parentesi del suo eventuale aspetto di esistenza nel mondo esterno, sempre dubitabile, per individuarne l'aspetto di evidenza, il suo darsi come fenomeno all'interno della nostra coscienza. La coscienza è, insegnano Cartesio e Husserl, il residuo apodittico di cui, a prescindere che i fenomeni che la costituiscono corrispondano a esistenze di fatto, sono necessariamente presenti, e dunque costituiscono le essenze che poi la logica deduttiva mira a collegare con nessi consequenziali per formulare giudizi certi.[/size]Ad esempio, la contingenza, intesa come contingenza del pensiero riguardo la capacità di pervenire a delle verità è un dato inoppugnabile, riconoscibile sulla base della semplice possibilità di illudersi o di dubitare che ciascuno di noi ha, può essere la base, non solo come definizione ad hoc, ma come proprietà reale del pensiero, da cui dedurre l'esistenza di una Causa che garantisca la possibilità al pensiero umano di riconoscere delle verità parziali, in quanto se il pensiero umano avesse in se stesso, nella sua immanenza, il criterio di verità, allora esso sarebbe sempre, necessariamente, nella verità, senza mai potersene allontanare. Dunque, la contingenza, intesa come imperfezione, fallibilità del pensiero umano nei confronti della verità, è dato fenomenologicamente inoppugnabile (posso dubitare che la mia visione del mondo sia vera o falsa, ma in ogni caso questa stessa dubitabilità dimostra l'imperfezione di un pensiero che non possiede la verità in pianta stabile e sicura) da cui si può ricavare logicamente la necessità di una Causa trascendente, creatrice di questa contingenza. In questo senso la prova tomista "ex contingentia mundi" (se le cose del mondo sono contingenti, necessitano di essere creati da una Causa necessaria, autofondatasi, Dio), è un passaggio logico che può essere recuperata nella sua validità razionale, a condizione però di "ripulirlo" da un'accezione naturalista, cosmologica, del realismo ingenuo, per cui la contingenza riguarderebbe il mondo fisico esterno, la cui esistenza viene data per scontata al di là della sua relazione con la soggettività della coscienza che ne fa esperienza. Mentre invece, la nozione di contingenza se "coscienzializzata", cioè se la si intende come contingenza della coscienza umana, la cui esistenza resiste all'estremizzazione del dubbio riguardante le asserzioni sulla realtà esterna ad essa, diviene quel contenuto anche fattuale da cui la logica può far leva per compiere le sue deduzioni, nello specifico, analizzando la definizione di contingenza ricavandone le implicazioni (se qualcosa è contingente, necessita di qualcosa di assolutamente necessario per determinarla, e l'indubitabilità del pensiero a cui la contingenza è riferita toglie il carattere ipotetico della premessa, fondandola su uno stato di fatto certo, l'esistenza del pensiero)



Concordo su molto, ma non sull' esistenza di una Causa (nemmeno naturale, con l' iniziale minuscola, men che meno divina) che garantisca la possibilità al pensiero umano di riconoscere delle verità parziali che eccedano i dati immediatamente fenomenici di esperienza (possibilità che infatti non ritengo sia garantita da alcunché): quale causa o Causa la garantirebbe e come?

Non vedo infatti come dalla contingenza o fallibilità del pensiero umano si possa ricavare logicamente la necessità di una Causa trascendente, creatrice di questa contingenza; né induttivamente, come mi sembra di non dover nemmeno argomentare, né deduttivamente per il fatto che l' ipotesi della contingenza del pensiero umano in assenza di alcuna Causa trascendente creatrice é perfettamente corretta da un punto di vista logico, non contraddittoria; ergo, come ipotesi é plausibile tanto quanto la sua contraria (da te sostenuta).

Quanto alla contingenza del mondo (e a san Tommaso), per me può razionalmente essere intesa unicamente come il fatto che ciò che é reale nel mondo può anche essere pensato non esserlo (oltre che esserlo); ma non per questo necessita di una causa necessaria (ovvero che non può essere pensata non essere reale in maniera logicamente corretta): si può benissimo pensare correttamente, in perfetta correttezza logica (ovvero può benissimo darsi che) le cose del mondo contingenti (pensabili anche ma non solo non esserci) ci siano anche senza che necessariamente ci sia una loro causa necessaria autofondatasi (cioè non pensabile non esserci): che ci sarebbe mai di contraddittorio in questa ipotesi?.


Non vedo come il fatto che qualcosa che esiste è contingente possa implicare necessariamente l' esistenza di qualcosa di assolutamente necessario per determinarla: può benissimo essere contingente (da non pensarsi necessariamente ma solo possibilmente come reale) tutto ciò che é reale, nulla escluso.

davintro

Citazione di: giopap il 30 Marzo 2020, 22:49:45 PM
CitazioneDavintro


è vero che la logica intesa come puro formalismo poggiante su definizioni ad hoc e premesse ipotetiche non è sufficiente come base da cui dedurre certezze riguardo la realtà di fatto. Per pervenire a certezze fattuali la logica formale necessita di applicarsi a un contenuto di intuizione, in un'esperienza vissuta. Il problema è che la gnoseologia kantiana, che giunge a una troppo netta separazione tra l'ambito logico-analitico e quello della realtà fattuale, partendo secondo me da pregiudizi di stampo empirista e materialista, vede l'intuizione sensibile, adeguata ad apprendere solo fenomeni fisici, come unica intuizione possibile su cui costruire una conoscenza razionale (in questo modo snaturando peraltro la stessa etimologia di "intuizione", "andare dentro", cogliere l'essenza necessaria della cosa, al di là delle manifestazioni esteriori e accidentali). Esiste però un'altra ottica che è quella fenomenologica, quella che pone come contenuto dell'analisi logica l'intuizione eidetica, che coglie l'essenza di una cosa successivamente alla riduzione, alla messa tra parentesi del suo eventuale aspetto di esistenza nel mondo esterno, sempre dubitabile, per individuarne l'aspetto di evidenza, il suo darsi come fenomeno all'interno della nostra coscienza. La coscienza è, insegnano Cartesio e Husserl, il residuo apodittico di cui, a prescindere che i fenomeni che la costituiscono corrispondano a esistenze di fatto, sono necessariamente presenti, e dunque costituiscono le essenze che poi la logica deduttiva mira a collegare con nessi consequenziali per formulare giudizi certi.[/size]Ad esempio, la contingenza, intesa come contingenza del pensiero riguardo la capacità di pervenire a delle verità è un dato inoppugnabile, riconoscibile sulla base della semplice possibilità di illudersi o di dubitare che ciascuno di noi ha, può essere la base, non solo come definizione ad hoc, ma come proprietà reale del pensiero, da cui dedurre l'esistenza di una Causa che garantisca la possibilità al pensiero umano di riconoscere delle verità parziali, in quanto se il pensiero umano avesse in se stesso, nella sua immanenza, il criterio di verità, allora esso sarebbe sempre, necessariamente, nella verità, senza mai potersene allontanare. Dunque, la contingenza, intesa come imperfezione, fallibilità del pensiero umano nei confronti della verità, è dato fenomenologicamente inoppugnabile (posso dubitare che la mia visione del mondo sia vera o falsa, ma in ogni caso questa stessa dubitabilità dimostra l'imperfezione di un pensiero che non possiede la verità in pianta stabile e sicura) da cui si può ricavare logicamente la necessità di una Causa trascendente, creatrice di questa contingenza. In questo senso la prova tomista "ex contingentia mundi" (se le cose del mondo sono contingenti, necessitano di essere creati da una Causa necessaria, autofondatasi, Dio), è un passaggio logico che può essere recuperata nella sua validità razionale, a condizione però di "ripulirlo" da un'accezione naturalista, cosmologica, del realismo ingenuo, per cui la contingenza riguarderebbe il mondo fisico esterno, la cui esistenza viene data per scontata al di là della sua relazione con la soggettività della coscienza che ne fa esperienza. Mentre invece, la nozione di contingenza se "coscienzializzata", cioè se la si intende come contingenza della coscienza umana, la cui esistenza resiste all'estremizzazione del dubbio riguardante le asserzioni sulla realtà esterna ad essa, diviene quel contenuto anche fattuale da cui la logica può far leva per compiere le sue deduzioni, nello specifico, analizzando la definizione di contingenza ricavandone le implicazioni (se qualcosa è contingente, necessita di qualcosa di assolutamente necessario per determinarla, e l'indubitabilità del pensiero a cui la contingenza è riferita toglie il carattere ipotetico della premessa, fondandola su uno stato di fatto certo, l'esistenza del pensiero)



Concordo su molto, ma non sull' esistenza di una Causa (nemmeno naturale, con l' iniziale minuscola, men che meno divina) che garantisca la possibilità al pensiero umano di riconoscere delle verità parziali che eccedano i dati immediatamente fenomenici di esperienza (possibilità che infatti non ritengo sia garantita da alcunché): quale causa o Causa la garantirebbe e come?

Non vedo infatti come dalla contingenza o fallibilità del pensiero umano si possa ricavare logicamente la necessità di una Causa trascendente, creatrice di questa contingenza; né induttivamente, come mi sembra di non dover nemmeno argomentare, né deduttivamente per il fatto che l' ipotesi della contingenza del pensiero umano in assenza di alcuna Causa trascendente creatrice é perfettamente corretta da un punto di vista logico, non contraddittoria; ergo, come ipotesi é plausibile tanto quanto la sua contraria (da te sostenuta).

Quanto alla contingenza del mondo (e a san Tommaso), per me può razionalmente essere intesa unicamente come il fatto che ciò che é reale nel mondo può anche essere pensato non esserlo (oltre che esserlo); ma non per questo necessita di una causa necessaria (ovvero che non può essere pensata non essere reale in maniera logicamente corretta): si può benissimo pensare correttamente, in perfetta correttezza logica (ovvero può benissimo darsi che) le cose del mondo contingenti (pensabili anche ma non solo non esserci) ci siano anche senza che necessariamente ci sia una loro causa necessaria autofondatasi (cioè non pensabile non esserci): che ci sarebbe mai di contraddittorio in questa ipotesi?.


Non vedo come il fatto che qualcosa che esiste è contingente possa implicare necessariamente l' esistenza di qualcosa di assolutamente necessario per determinarla: può benissimo essere contingente (da non pensarsi necessariamente ma solo possibilmente come reale) tutto ciò che é reale, nulla escluso.




la necessità del passaggio logico tra contingenza e Principio assoluto trascendente (a scanso di equivoci, non vedo personalmente questo Principio come il Dio delle teologie su base rivelativa e fideista, ma più come una sorta di Principio ordinatore creatore senza manifestazioni dirette nella storia, secondo il modello deista, al di là del fatto storico per cui sarebbe stata la teologia cristiana medioevale a inaugurare l'elaborazione di questo Principio, ritengo lo si possa recuperare anche estraniandolo dal quel particolare contesto religioso, cogliendolo unicamente come elemento filosofico), dovrebbe trovarsi nell'analisi della definizione di contingenza. Intendendo per "contingenza" quella condizione per cui la ragion d'essere di un ente non sta nell'ente in se stesso, ma consiste in una causa ulteriore, l'esistenza di un ente contingente implica quella di questa causa ulteriore. Nella dicotomia tra l'avere in se stessi, nella propria immanenza, la ragione della sua esistenza e l'averla in una realtà altra da sé, cioè trascendenza, tertium non datur, non è possibile una terza vita tra immanenza e trascendenza, sono due poli contrari che si escludono reciprocamente, al mancare di una sopravviene l'altra automaticamente. Resterebbe in teoria la possibilità, pur ammettendo la trascendenza come necessaria all'esistenza del contingente, considerarla come alterità non però assoluta, secondo il modello teologico/metafisico, ma a sua volta contingente, e  necessitante di un altro ente che sia causa del suo esistere ma di nuovo contingente, e così via ad infinitum. Solo che a mio avviso il regresso all'infinito è solo una pseudo-soluzione che non risolve il problema. Fintanto che la catena delle cause è composta da anelli identificati con enti contingenti, resta irrisolta la questione dell'origine dell'Essere, ogni volta che si introduce una nuova causa contingente il problema dell'origine, dell'individuazione di un Principio, viene rimandato senza però essere risolto, e d'altra non si può rimuovere, perché l'esistenza di questo principio non è una tesi, opinabile o meno, ma una questione del tutto legittima, la cui risposta non può essere la sua assoluta negazione, dato che il Nulla non potrebbe produrre alcun effetto sulle cause seconde, e dunque nemmeno comunicare loro l'esistenza. Il regresso all'infinito esprimerebbe solo un'ammissione dell'ignoranza sulla soluzione di un problema teorico, e trovo evidente che l'ammissione di incapacità nel raggiungere una soluzione non può essere la soluzione stessa. Un conto è riconoscere i limiti della nostra conoscenza di un tema, un altro è proiettare i nostri limiti mentali sulla realtà di modo da porli come base da cui far discendere le nostre risposte sulla realtà stessa

Ipazia

Citazione di: davintro il 01 Aprile 2020, 22:06:46 PM
... Un conto è riconoscere i limiti della nostra conoscenza di un tema, un altro è proiettare i nostri limiti mentali sulla realtà di modo da porli come base da cui far discendere le nostre risposte sulla realtà stessa

... e un tertium - che si dà fin troppo spesso - è oltrepassare quei limiti con l'immaginazione. La fiction eterna dona loro o Signore...
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

giopap

#35
Ciao, Davintro[

Che <<L'esistenza di un ente contingente implica quella di questa causa ulteriore>> o é una definizione arbitraria che non dice nulla di ciò che é reale o meno, oppure é precisamente quello che dovresti dimostrare (e allora assumerlo come premessa certa é una petizione di principio).

Se per <<"contingenza">> intendi, ovvero la definisci arbitrariamente come, <<quella condizione per cui la ragion d'essere di un ente non sta nell'ente in se stesso, ma consiste in una causa ulteriore>> non c' é motivo di credere che tutto ciò che di fatto esiste, e nel suo ambito tutto ciò che ne conosciamo, sia contingente piuttosto che esaurire la realtà in toto senza abbisognare di ulteriori enti o eventi reali che lo causi. Infatti il pensarlo non é autocontraddittorio, ovvero é logicamente possibile, ovvero può realmente darsi.

Concordo che <<
Nella dicotomia tra l'avere in se stessi, nella propria immanenza, la ragione della sua esistenza e l'averla in una realtà altra da sé, cioè trascendenza, tertium non datur, non è possibile una terza vita tra immanenza e trascendenza, sono due poli contrari che si escludono reciprocamente, al mancare di una sopravviene l'altra automaticamente>>; ma non vedo come questa verità logica, questo giudizio analitico a priori, impeccabilmente dedotto dalle definizioni di "ragione immanente di esistenza" e di "contingenza", possa dire qualcosa circa la realtà e la contingenza o meno della realtà o di sue parti, che richiederebbe giudizi sintetici a posteriori.

Il regresso all' infinito é un problema per le dimostrazioni di verità analitiche a priori, non per (eventuali) verità sintetiche a posteriori: una catena infinita di cause non é che l' esistenza di regolarità o leggi universali e costanti del divenire degli eventi che si causano in una successione infinita nel tempo, mai preceduta (né seguita) dal nulla: dove starebbe il problema?
Il presunto problema teorico del divenire ordinato della realtà in questo modo mi sembra ineccepibilmente risolto (e non implica affatto l' assurda pretesa di una conoscenza completa e dettagliata dell' infinita realtà); fra l' altro per lo meno molto meglio che il pretendere di fermare la catena infinita delle cause ad un arbitrario evento incausato iniziale, che del tutto similmente ad un inizio dal nulla imporrebbe un problematico cominciamento alla costanza del divenire ordinato.

Non bisogna confondere una successione infinita di eventi reali (possibilissima, per nulla problematica: la realtà é come é "e basta", e non sta a noi sindacare in proposito) con un regresso all' infinito in una catena di inferenze logiche (che non dimostra nulla) o nella spiegazione teorica del reale (che non spiega nulla).
La prima riguarda l' essere reale, che é "e basta"; la seconda e la terza riguardano il pensare (che può darsi più o meno correttamente e veracemente) circa l' essere reale.

(Il vezzo delle iniziali maiuscole per nomi comuni non mi appartiene e mi infastidisce un po? (ovviamente mi guardo bene dal pretendere che chi lo voglia applicare lo faccia liberamente).

Ipazia

Il maiuscolo si applica a ciò che non è nome comune, bensì nome proprio di ente, anche di tipo trascendentale. Io lo uso per Capitale che è la trascendenza all'apice dell'Olimpo contemporaneo. Uno può esserne infastidito se ha altri riferimenti trascendenti o (spesso a sua insaputa) non ne ha nessuno, ma trovo sia un modo di chi maiuscoleggia per manifestare i suoi riferimenti trascendenti, tale da mettere le carte scoperte di fronte al suo interlocutore. Cosa sempre apprezzabile in un dialogo. In questi giorni di reclusione ci sia concessa almeno la libertà delle nostre trascendenze  :D
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

giopap

#37
Ipazia:

Il maiuscolo si applica a ciò che non è nome comune, bensì nome proprio di ente, anche di tipo trascendentale. Io lo uso per Capitale che è la trascendenza all'apice dell'Olimpo contemporaneo. Uno può esserne infastidito se ha altri riferimenti trascendenti o (spesso a sua insaputa) non ne ha nessuno, ma trovo sia un modo di chi maiuscoleggia per manifestare i suoi riferimenti trascendenti, tale da mettere le carte scoperte di fronte al suo interlocutore. Cosa sempre apprezzabile in un dialogo. In questi giorni di reclusione ci sia concessa almeno la libertà delle nostre trascendenze

giopap:
E infatti ho concluso:

(ovviamente mi guardo bene dal pretendere che chi lo voglia applicare lo faccia liberamente).

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