Essere, esistenza, realtà

Aperto da Donalduck, 30 Marzo 2018, 11:16:43 AM

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davintro

Citazione di: sgiombo il 04 Aprile 2018, 10:19:40 AMX Davintro (e chiunque altro sia interessato, ovviamente)  Malgrado l' impiego da parte tua di termini e concetti che trovo un po' "ostici", a me poco familiari (sono forse termini "tecnici", stabiliti per significare concetti precisamente definiti nell' ambito della filosofia fenomenologica?), mi sembra di convenire per lo meno con gran parte con quanto scrivi.  Al fine di un' auspicabile chiarimento delle rispettive convinzioni e reciproco aiuto a capire, cerco di considerare criticamente i punti del tuo pensiero che non mi convincono.   "Ogni determinazione di relazione coscienziale soggetto-oggetto, ogni datità fenomenica del mondo alla nostra coscienza si presenta ordinariamente come "sintesi" (la stessa "percezione", nella sua solo apparente immediatezza e semplicità, è a tutti gli effetti un atto sintetico e complesso, l'effetto di un'unità elaborata dall'Io che si viene a formare sintetizzando la molteplicità dei lati con cui l'oggetto si presenta di diversi momenti temporali), e dunque in ogni punto di vista sul mondo, nella sua inadeguatezza dovuta alla finitezza dei nostri strumenti conoscitivi, è sempre una sintesi, un complesso di elementi che solo parzialmente rispecchiano l'esistenza delle cose". Qui a me sembra che si tocchino due diverse questioni. Una é quella della relatività, limitatezza o parzialità di ogni conoscenza (umanamente) possibile: gli "oggetti" (cose, enti e/o eventi) che conosciamo (inevitabilmente fenomenici) sono frutto di una sintesi* fra "frammenti" incompleti di insiemi e/o successioni d sensazioni fenomeniche cui abbiamo accesso cosciente inevitabilmente limitato, parziale. E su questo concordo pienamente. L' altro é quello del carattere non assolutamente, non integralmente oggettivo, ma in parte inevitabilmente soggettivo di ogni possibile conoscenza della realtà (e non, come qualche altro interlocutore ha affermato in questa stessa discussione, di ogni possibile aspetto della realtà): conosciamo fenomeni o insiemi e successioni di sensazioni, le quali a tutti gli effetti fanno parte unicamente dell' esperienza cosciente ciascun soggetto di sensazioni (di ciascuno di noi) e non sono "cose in sé" reali anche indipendentemente dall' eventuale accadere delle sensazioni fenomeniche coscienti stesse: quando chiudo gli occhi lo schermo e la tastiera qui davanti, che non sono altro che insiemi e successioni di sensazioni nell' ambito della mia coscienza, ovviamente non esistono (sarebbe una plateale contraddizione pretenderlo!); e se (come non può essere dimostrato né tantomeno -per definizione!- mostrato, constatato empiricamente, ma solo ipotizzato ed eventualmente creduto arbitrariamente per fede) anche quando ho gli occhi chiusi continua ad esistere qualcosa che spieghi come mai nonappena li riapro riappaiono (= ricominciano ad esistere, ad essere reali come fenomeni) schermo e tastiera, allora tale "qualcosa" non é un insieme o successione di sensazioni, non é qualcosa di apparente alla coscienza (fenomeno) ma invece é qualcosa di meramente congetturabile (noumeno). Dunque tutto ciò che é conoscibile come fenomeno (nell' ambito dell' esperienza cosciente di un "soggetto") non é oggetto in sé (noumeno) ma una sorta di sintesi** fra soggetto ed oggetto (entrambi in sé o noumeno; ovviamente nel caso indimostrabile né mostrabile cose in sé o noumeno esistano realmente; caso nel quale, a proposito di essi, si avrebbe una conoscenza "eccezionalmente" eccedente i fenomeni: la conoscenza, della realtà -sia pure del tutto "oscura", non immaginabile, non sensibile- del noumeno stesso, e in particolare nel suo ambito del soggetto e degli oggetti di sensazione fenomenica). Qui andrebbe affrontato il caso della sensazione fenomenica cosciente "riflessiva" del soggetto in quanto -anche- oggetto da parte di se stesso in quanto -anche- soggetto; ma me ne astengo avendone già parlato in precedenti interventi, anche recentissimi.   Sulla psicoanalisi il mio dissenso é totale e starei per dire "assoluto", dato ciò che ne penso, e dunque tralascio completamente la questione (che peraltro mi pare marginale rispetto all' argomento in discussione). Credo che nell' ambito di ciascuna esperienza fenomenica cosciente si possano distinguere due componenti (due diversi "tipi" di insiemi-successioni di sensazioni), comunque entrambe parimenti reali: una intersoggettiva (cioè che é possibile ipotizzare -ed eventualmente credere- che possa accadere-apparire in qualsiasi esperienza cosciente purché il suo soggetto compia "le opportune osservazioni", "si comporti nelle dovute maniere"), e l' altra meramente soggettiva (cioè accessibile-apparente-reale unicamente in ciascuna esperienza cosciente in cui accada e in nessun altra). La prima é costituita dalle sensazioni materiali "corrette" o "autentiche" (non allucinatorie od oniriche: l' autentica "res extensa"), reali nell' ambito di qualsiasi esperienza cosciente in cui accadano, alle quali si può ipotizzare (ed eventualmente credere) biunivocamente corrispondano-coesistano-coaccadano nella realtà in sé o noumeno gli stessi -i medesimi per ciascuna esperienza cosciente- "enti e/o eventi" non sensibili ma congetturabili, "in sé". La seconda é costituita dalle sensazioni materiali "inautentiche" (oniriche o allucinatorie) e dalle sensazioni mentali o di pensiero (compresi sentimenti, ricordi, ecc: la res cogitans), del tutto ugualmente reali in ciascuna esperienza fenomenica in cui accadano, ma senza che sia pensabile che ad esse biunivocamente corrispondano-coesistano-coaccadano nella realtà in sé o noumeno gli stessi -i medesimi per ciascuna di esse- "enti e/o eventi" non sensibili ma congetturabili, "in sé"; ma invece "enti e/o eventi in sé" reciprocamente diversi, altri fra l' una e l' altra esperienza fenomenica cosciente considerata. Al sogno dell' esplosione in casa tua (nella tua esperienza cosciente) corrisponde biunivocamente nella realtà in sé qualcosa di meramente soggettivo (qualche determinato evento nell' ambito di "te", del soggetto in sé della tua esperienza cosciente), che non corrisponde biunivocamente anche ad alcunché in alcun altra esperienza cosciente***, esattamente come ai tuoi pensieri, ricordi, immaginazioni, sentimenti, ecc.; mentre invece alle percezioni sensibili della tua casa realmente indenne da incendi si può ammettere corrispondano biunivocamente i medesimi "enti e/o eventi in sé" che parimenti corrisponderebbero (e di fatto corrispondono, se e quando si danno le circostanze "appropriate") ad analoghe sensazioni coscienti in qualsiasi altra esperienza fenomenica purché il soggetto di essa si venga a trovare con tali "cose in sé o noumeniche" "in rapporti analoghi a-" -i tuoi. Dunque può essere e per lo meno talora di fatto é problematico differenziare all'interno delle sintesi fenomeniche che costituiscono le diverse modalità di coscienza del mondo gli elementi rispecchianti l'esistenza oggettiva [l' intersoggettiva percezione fenomenica dei medesimi oggetti in sé] da quelli che restano puramente interni all'apparire soggettivo [riflessivamente soggetto-oggetto di esse in questi casi]. Ma credo che, se quanto (apparentemente per lo meno) ci dicono gli altri uomini con cui parliamo é realmente discorso significante e non casuale sequenza di sensazioni fenomeniche solo casualmente simulanti, per una stranissima coincidenza fortuita, le sequenze sensate di simboli verbali significanti che noi stessi usiamo (cosa a rigore indimostrabile, come d' altra parte la stessa veridicità della memoria), e se inoltre gli altri parlanti (comunemente) non ci ingannano (e comunque quandanche lo facessero sarebbe in linea di principio possibile smascherarli), allora lo si possa fare attraverso il confronto dialogico fra le descrizioni delle sensazioni materiali di ciascuno. Concordo dunque che "non [ne] deriva la non validità della categoria di "esistenza" utilizzato per comprendere una determinata specie di enti. E non ne deriva, ad esempio la non-validità di una possibile distinzione semantica con l' "essere": perché se possiamo definire "esistenza" tutto ciò che è tale al di là della sua pensabilità o meno, l' "essere" può considerarsi come categoria più ampia, in quanto è quell'idea universale che necessariamente utilizziamo per giudicare qualunque cosa, anche non reale, a cui però attribuiamo un determinato senso, in base a cui quell'ente diviene soggetto a cui attribuire predicati, cioè oggetto, appunto, di giudizio", e che "L'essere è la forma trascendentale [?] che consente ogni concettualizzazione e definizione delle cose, di fatto ogni pensabilità, in quanto per pensare qualcosa, occorre attribuire a quel qualcosa, una qualunque qualità, che la renda distinta da un "nulla", un puro non-essere, di fatto l'impensabile Concordo anche sugli esempi di Babbo Natale e di del preteso cerchio-quadrato. Non su quello del "nulla", che a mio parere, contrariamente al cerchio quadrato, ha un senso logicamente corretto, non contraddittorio, anche se (analogamente al noumeno) non possiamo immaginarlo (raffigurarcelo fenomenicamente nella mente, con la fantasia); ma lo possiamo comunque pensare e ne possiamo comunque parlare sensatamente.   Non ho capito le considerazioni finali sulla "polarità fra essere (concettuale) e non essere". Che comunque mi sembra siano pertinenti l' "essere (concettuale)" e non la realtà (l' "essere reale"); mentre questa mi pare -per quel poco che ne so per sentito dire- sia invece ciò cui attribuisce diverse gradazioni di "essere (reale: dunque di realtà)" Tommaso d' Aquino.   *** Per la verità credo (indimostrabilmente come al solito) che almeno potenzialmente e indirettamente vi corrispondano biunivocamente certi determinati eventi neurofisiologici nell' ambito del tuo cervello.



il punto che mi lascia maggiormente perplesso è quello che mi porta a notare il rischio di un'eccessiva sovrapposizione tra l'idea di oggettività e quello di intersoggettività, come se il superamento della condizione di limitatezza e imperfezione della conoscenza della realtà fosse via via attuabile a partire da conferme dei contenuti di esperienza condivisi con altre coscienze. La distinzione soggetto-oggetto è una distinzione qualitativa, e dunque è solo da un punto di vista qualitativo, che un soggetto può razionalmente parlando avvicinarsi alla verità sull'oggetto, tramite un processo autocritico di sospensione dei pregiudizi interni che filtrano la datità evidente fenomenica dell'Oggetto. In un certo senso si può dire che il soggetto dovrebbe negarsi in quanto tale aprendo la sua coscienza al disvelarsi della cosa oggettiva nella sua autenticità. L'intersoggettività sarebbe un'estensione quantitativa dell'idea di soggetto inteso come singolarità, e in quanto tale, estensione insufficiente a garantire razionalmente la corrispondenza fra fenomeno coscienziale soggettivo e "cosa stessa" oggettiva, corrispondenza garantibile solo dal punto di vista qualitativo, cioè nell'adeguatezza (qualità) degli strumenti gnoseologici nel rappresentare la realtà. Non sufficiente ma nemmeno non necessario: posso formulare un giudizio di verità in solitario sulla realtà, in contrasto con le opinioni intersoggettive degli altri che invece sbagliano. Questo del resto è sempre stato il caso di ogni svolta o progresso scientifico, nel quale le scoperte di singoli o di minoranze si sono via via rivelate più vere rispetto alle tesi che inizialmente dominavano dal punto di vista dell'intersoggettività della comunità scientifica nelle varie epoche. Il che non implica che l'intersoggettività non debba avere alcun significato o incidenza nella ricerca della verità: la corrispondenza fra la mia personale visione delle cose e quella di altre coscienze, che si rivolgono ad un mondo di oggetti comune, offre delle conferme che aumentano le possibilità di validità della visione in questione. Infatti è ipotizzabile che quanto sia più ampia la condivisione intersoggettiva dei fenomeni, tanto più diminuiscono le possibilità dell'errore, in quanto la visione del singolo trova conferma nelle visioni altrui, mentre diviene sempre più improbabile la frequenza degli errori negli strumenti di giudizio delle varie coscienze. Però al massimo possiamo pensare a una sorta di "prova indiziale" con cui l'intersoggettività contribuirebbe alla legittimazione della verità, ma non si arriva mai ad una certezza, ad un'autentica fondazione razionale della pretesa di verità, esigenza che può essere assolta solo qualitativamente, cioè nel riconoscimento dell'efficienza degli strumenti di conoscenza nel saper rispecchiare le cose in se stesse.

Per quanto il discorso sulla polarità tra "essere" e "nulla" , intendevo l'idea secondo cui ente può appartenere in misura maggiore o minore al piano dell' "essere" o del "nulla", dal punto di vista per cui la qualifica di "essere" implica la sua intelligibilità: cioè se il presupposto per poter conoscere (cioè giudicare) qualcosa presuppone il riconoscere ad esso quantomeno una certa determinatezza, seppur generica (perché attribuire un predicato a un soggetto presuppone che il soggetto abbia un suo senso, cioè sia un "qualcosa", un non-nulla), vale a dire un certo "essere", allora quanto più qualcosa è intelligibile, pensabile, tanto più partecipa dell' "essere" e si distacca dal "nulla", cioè dal non-senso di un concetto che si definisce  come negazione della "conditio sine qua non " dell'affermabilità delle cose, cioè l'idea di Essere (il Nulla si definisce come non-essere). Ecco perché il cerchio quadrato sembra avere più a che fare col Nulla che con l'Essere: è un concetto assurdo, senza senso, ingiudicabile, eppure in qualche modo riusciamo a pensarlo, a formalizzarlo linguisticamente, anche solo per dire che è qualcosa di assurdo... Ecco perché lo vedo come un concetto "border-line", ambiguo, sulla soglia tra Essere e Nulla, in qualche modo pensabile e dicibile e per altro aspetto assurdo e inconcepibile. Ed è proprio un caso come questo che mostra come Essere e Nulla debbano essere visti non tanto come ambiti nitidamente separati, ma come "polarità", tendenze, fattori in opposizione che però convivono in ogni cosa, in misura diversa sulla base del grado di intelligibilità e sensatezza della cosa. Comunque capisco che, a complicare il tutto, ci si mette la sintassi grammaticale della lingua italiana per la quale non ha alcun senso dire che qualcosa "è più Essere di qualcos'altro". Diciamo che potremmo trovarci in uno di quei casi in cui la radicalità del pensare filosofico si trova a dovere fare violenza sulle regole grammaticali, cioè il linguaggio mostra la sua inadeguatezza rispetto al pensiero.

sgiombo

Citazione di: davintro il 13 Aprile 2018, 00:51:14 AM


il punto che mi lascia maggiormente perplesso è quello che mi porta a notare il rischio di un'eccessiva sovrapposizione tra l'idea di oggettività e quello di intersoggettività, come se il superamento della condizione di limitatezza e imperfezione della conoscenza della realtà fosse via via attuabile a partire da conferme dei contenuti di esperienza condivisi con altre coscienze. La distinzione soggetto-oggetto è una distinzione qualitativa, e dunque è solo da un punto di vista qualitativo, che un soggetto può razionalmente parlando avvicinarsi alla verità sull'oggetto, tramite un processo autocritico di sospensione dei pregiudizi interni che filtrano la datità evidente fenomenica dell'Oggetto. In un certo senso si può dire che il soggetto dovrebbe negarsi in quanto tale aprendo la sua coscienza al disvelarsi della cosa oggettiva nella sua autenticità. L'intersoggettività sarebbe un'estensione quantitativa dell'idea di soggetto inteso come singolarità, e in quanto tale, estensione insufficiente a garantire razionalmente la corrispondenza fra fenomeno coscienziale soggettivo e "cosa stessa" oggettiva, corrispondenza garantibile solo dal punto di vista qualitativo, cioè nell'adeguatezza (qualità) degli strumenti gnoseologici nel rappresentare la realtà. Non sufficiente ma nemmeno non necessario: posso formulare un giudizio di verità in solitario sulla realtà, in contrasto con le opinioni intersoggettive degli altri che invece sbagliano. Questo del resto è sempre stato il caso di ogni svolta o progresso scientifico, nel quale le scoperte di singoli o di minoranze si sono via via rivelate più vere rispetto alle tesi che inizialmente dominavano dal punto di vista dell'intersoggettività della comunità scientifica nelle varie epoche. Il che non implica che l'intersoggettività non debba avere alcun significato o incidenza nella ricerca della verità: la corrispondenza fra la mia personale visione delle cose e quella di altre coscienze, che si rivolgono ad un mondo di oggetti comune, offre delle conferme che aumentano le possibilità di validità della visione in questione. Infatti è ipotizzabile che quanto sia più ampia la condivisione intersoggettiva dei fenomeni, tanto più diminuiscono le possibilità dell'errore, in quanto la visione del singolo trova conferma nelle visioni altrui, mentre diviene sempre più improbabile la frequenza degli errori negli strumenti di giudizio delle varie coscienze. Però al massimo possiamo pensare a una sorta di "prova indiziale" con cui l'intersoggettività contribuirebbe alla legittimazione della verità, ma non si arriva mai ad una certezza, ad un'autentica fondazione razionale della pretesa di verità, esigenza che può essere assolta solo qualitativamente, cioè nel riconoscimento dell'efficienza degli strumenti di conoscenza nel saper rispecchiare le cose in se stesse

CitazionePer intersoggettività delle percezioni materiali (nell' ambito fenomenico delle varie esperienze coscienti) intendo non il concordare di opinioni o credenze relative ad esse (che certamente non garantisce della verità di tali credenze; e concordo in proposito che posso formulare un giudizio di verità in solitario sulla realtà, in contrasto con le opinioni intersoggettive [rectius: universalmente condivise] degli altri che invece sbagliano); ma invece il concordare delle percezioni stesse, il fatto (indimostrabile né tantomeno mostrabile; credibile e di fatto da me creduto solo per fede) che chiunque, poiché compia le opportune osservazioni nelle opportune condizioni ne ha (di sensazioni fenomeniche materiali) tali che descrivendole e parlandone con chiunque altro finisce per concordare nelle descrizioni stesse (é come se tutti vedessero e sentissero le stesse cose materiali -fenomeniche: "esse est percipi", Berkeley!- o cose identiche; anche se non ha senso parlare di identità o meno fra contenuti fenomenici di diverse coscienze, dal momento che non si può "sbirciare nelle coscienze altrui" per confrontarne i contenuti con quelli della propria onde verificare se siano uguali o diversi; come invece si può fare con i vari contenuti della propria coscienza).
Cioè i contenuti fenomenici materiali delle diverse esperienze fenomeniche coscienti si corrispondono biunivocamente (o meglio poliunivocamente) fra loro, e questo –transitivamente- per il fatto che ciascuno di essi corrisponde biunivocamente con un' unica (per tutti) realtà in sé o noumeno; al contrario dei contenuti fenomenici mentali, che corrispondono invece biunivocamente ciascuno a un suo proprio oggetto-soggetto riflessivamente in sé, diverso da quello di ciascun altro: i miei pensieri, sentimenti, ecc., (la mia res cogitans) é la manifestazione fenomenica a me -oggetto- di me -soggetto-, i tuoi di te a te; e io sono diverso, altra cosa, da te; invece un albero che possiamo vedere sia io che tu é la manifestazione fenomenica a me -soggetto- ed a te -soggetto- dello stesso, unico, identico oggetto in sé).
Per questo e per il fatto di essere costituito da sensazioni misurabili numericamente (per lo meno limitatamente alle "qualità primarie" direttamente; solo indirettamente per le "secondarie") il mondo materiale é conoscibile scientificamente (per o meno in senso stretto, quello delle scienze naturali), contrariamente al mondo mentale.



Per quanto il discorso sulla polarità tra "essere" e "nulla" , intendevo l'idea secondo cui ente può appartenere in misura maggiore o minore al piano dell' "essere" o del "nulla", dal punto di vista per cui la qualifica di "essere" implica la sua intelligibilità: cioè se il presupposto per poter conoscere (cioè giudicare) qualcosa presuppone il riconoscere ad esso quantomeno una certa determinatezza, seppur generica (perché attribuire un predicato a un soggetto presuppone che il soggetto abbia un suo senso, cioè sia un "qualcosa", un non-nulla), vale a dire un certo "essere", allora quanto più qualcosa è intelligibile, pensabile, tanto più partecipa dell' "essere" e si distacca dal "nulla", cioè dal non-senso di un concetto che si definisce  come negazione della "conditio sine qua non " dell'affermabilità delle cose, cioè l'idea di Essere (il Nulla si definisce come non-essere). Ecco perché il cerchio quadrato sembra avere più a che fare col Nulla che con l'Essere: è un concetto assurdo, senza senso, ingiudicabile, eppure in qualche modo riusciamo a pensarlo, a formalizzarlo linguisticamente, anche solo per dire che è qualcosa di assurdo... Ecco perché lo vedo come un concetto "border-line", ambiguo, sulla soglia tra Essere e Nulla, in qualche modo pensabile e dicibile e per altro aspetto assurdo e inconcepibile. Ed è proprio un caso come questo che mostra come Essere e Nulla debbano essere visti non tanto come ambiti nitidamente separati, ma come "polarità", tendenze, fattori in opposizione che però convivono in ogni cosa, in misura diversa sulla base del grado di intelligibilità e sensatezza della cosa. Comunque capisco che, a complicare il tutto, ci si mette la sintassi grammaticale della lingua italiana per la quale non ha alcun senso dire che qualcosa "è più Essere di qualcos'altro". Diciamo che potremmo trovarci in uno di quei casi in cui la radicalità del pensare filosofico si trova a dovere fare violenza sulle regole grammaticali, cioè il linguaggio mostra la sua inadeguatezza rispetto al pensiero.
CitazioneQui credo di dissentire solo, almeno in parte, sugli pseudoconcetti assurdi, senza senso, come quello di "cerchio quadrato", che secondo me non esistono proprio in quanto tali (non sono concetti, ma mere sequenze insignificanti di vocalizzi o caratteri tipografici).
Per il restio ho la netta impressione che diciamo le stesse cose con parole diverse.

Donalduck

bobmax:
CitazioneMa certo che non so cosa sia la Verità! 
Conoscere vuol dire in sostanza possedere. Mentre la Verità non può essere assolutamente posseduta, semmai è la Verità a possederci, totalmente.
Ma se non sai che cosa sia, perché pensi che ci sia? Siamo sempre lì: io ti chiedo che bisogna hai di postulare questa Verità, e ti chiedo cosa sia mai questa verità nell'esperienza della coscienza, in modo che io possa in qualche modo farmene una rappresentazione, un'idea, e tu me ne parli come se fosse qualcosa di condiviso o condivisibile, quasi scontato, e allo stesso tempo qualcosa che non si sa cosa sia. Non è né scontato né condiviso o condivisiabile: non conosco nessuna Verità, non sento il bisogno o la mancanza di nessuna Verità, in sostanza, lo dico sinceramente, non so di cosa tu stia parlando. Lo stesso se mi parli Dio.
E la condivisione è condizione necessaria per qualunque scambio di idee, altrimenti diventa un'alternanza di soliloqui.

CitazioneNon vi è nessuna certezza che la realtà sia intersoggettiva. Il soggetto potrebbe essere uno solo. 
Sia perché il solipsimo non può essere escluso del tutto, è sia perché i pur molteplici soggetti potrebbero in realtà essere la manifestazione di un unico soggetto. 
Inoltre neppure l'interpretazione materialista, dove il soggetto è solo un epifenomeno dell'oggettivitá in sé, può essere esclusa.
Questi, secondo me, sono i labirinti senza uscita in cui ci si infila se si perde il contatto con l'esperienza della coscienza. Proprio per questo sono partito dalla definizione di esistenza e di realtà. Se non definisco cosa sia esistere e cosa non esistere, cosa sia reale e cosa no, nell'esperienza della coscienza, se non stabilisco dei criteri concretamente applicabili per distinguereli, se non cerco di dare un effettivo, verificabile significato a questi termini, posso affermare tutto e il contrario di tutto senza che sia possibile argomentare pro o contro, ma quello che dico sarà solo un gioco di parole, un "effetto speciale" verbale, analogo a quelli dei film.

CitazioneIl referente si trova certamente in noi stessi, dove se no? Ma non può assolutamente essere individuato. Non perché è una sensazione, ma perché è il fondamento!
Per cui non si tratta di intuizioni extra razionali, ma di ciò che noi siamo.
Anche qui, non ho mezzi per capire di cosa parli. Cos'è questo "noi stessi"? E se il referente non può essere individuato, perché continui a postularne l'esistenza (che ancora attende di essere definita, tra l'altro)? Che bisogno abbiamo di stabilire un "fondamento" dell'esperienza della coscienza? Se si tratta di un bisogno di una "causa", resta il problema insolubile dell'eterna ricorsione: il fondamento ha bisogno di un fondamento, e così via. Non è un problema da liquidare con un colpo di spugna e neppure da aggirare con un atto di fede. O meglio , la fede può anche funzionare, soggettivamente, ma non è discutibile.

Donalduck

bobmax:
CitazionePer esempio, mi capita ormai non di rado di andare all'inferno.
L'inferno non è un luogo di un ipotetico aldilà. L'inferno è un luogo esistenziale presente qui e ora. Vi posso accedere in qualsiasi istante, è sufficiente che rifletta sulle mie colpe.

Ogni colpa è per sempre, e a nulla vale un eventuale pentimento. Se ne sta incastonata in quell'istante che fu è non si può più tornare indietro a cancellarla.
Di modo che l'inferno è luogo senza speranza.
Qui siamo parecchio fuori tema, ma l'argomento lo trovo interessante e le tue parole risuonano nella mia coscienza.
Anche a me è capitato di fare questa riflessione, più in generale sul dolore, la sofferenza per ciò che appartiene al passato e vive nella memoria.
E' vero, può capitare che un senso di colpa non vada mai via, come anche il dolore per la morte o una condizione di sofferenza permanente di una persona cara. Sono come buchi neri che, se dai loro retta, ti assorbono totalmente e non ti offrono alcuna via d'uscita. Davvero una sorta d'inferno.

Ma è radicalmente differente l'interpretazione e il valore che diamo a queste esperienze. Per me si tratta di disturbi psichici, probabilmente indotti, almeno in buona parte, da un'educazione cattolica (come è stata la mia) o da influenze culturali riconducibili direttamente o indirettamente alle religioni, o comunque a una concezione distorta e patogena dell'etica. Disturbi psichici largamente condivisi, disfunzioni psichiche collettive, paragonabili ai virus dei computer, indotte col preciso scopo di inabilitare le coscienze e renderle facilmente manipolabili. Il concetto di "peccato originale" è quello che rende meglio il compito di questo virus: farti sentire sempre e comunque inadeguato, sbagliato e bisognoso di qualcosa che ti redima (qualcosa che non troverai mai, perché non c'è niente da redimere). In realtà il peccato originale è la religione stessa, e più in generale la credenza: prendere un prodotto della tua immaginazione (indotto dall'immaginazione collettiva) e trattarlo alla stregua di qualcosa che ha un'esistenza indipendente dall'immaginazione, qualcosa che possa essere in qualche modo percepita come percepiamo i fenomeni che si presentano imperativamente alla coscienza. Quindi Dio, Inferno, Paradiso vengono assimilate a realtà oggettive, intersoggettive.

Ritengo che una mente sana, una coscienza integra (qualcosa che per almeno la maggior parte di noi è solo una meta più o meno lontana) sia immune dai sensi di colpa e dai dolori spirituali cronici, che sono un modo insensato di reagire agli eventi. Se hai sbagliato e sei integro, cerchi per quanto puoi di rimediare agli errori fatti e ti impegni a non ripetere gli stessi errori: questo è quanto puoi fare e ciò che è giusto e appropriato fare, e questo dovrebbe bastare a farti sentire in pace. Dovrebbe, ma il virus lo impedisce, anzi spesso il virus ti impedisce anche di cercare di rimediare ai tuoi errori e di evitare di ripeterli. Finisce col trascinarti in un vortice autodistruttivo che ti tiene in un continuo stato di inazione e senso di colpa. L'inferno è una malattia.
E anche il dolore per una perdita o per la sofferenza altrui, una mente sana dovrebbe essere in grado di accettarla, e smettere di tuffarcisi dentro masochisticamente. Una mente sana è empatica ma non inutilmente autolesionista: conosce e usa l'empatia, ma non lascia che degeneri in identificazione e attaccamento al dolore.

Quanto al Paradiso e a Dio, non posso che ribadire: se non me lo spieghi, non so di cosa tu stia parlando.

bobmax

Per Donalduck
Vorrei provare a cambiare approccio, evitando di affrontare la cosa tramite concetti, almeno inizialmente. Nel prossimo mio post cercherò perciò di trattare situazioni esistenziali di vita, visto che l'inferno ha suscitato in te un qual interesse (anche se lo consideri fuori tema...). Perché le situazioni limite sono l'occasione migliore, secondo me, per la manifestazione dell'esistenza.

Provo qui soltanto a ribadire i "concetti" che considero fondamentali. Concetti da intendere il più possibile alla lettera. Solo così, senza sovrapposizioni, spesso involontarie ma comunque fatali, si può forse avvertirne l'autentico messaggio.

Citazione di: Donalduck il 15 Aprile 2018, 12:42:01 PM
Ma se non sai che cosa sia, perché pensi che ci sia? Siamo sempre lì: io ti chiedo che bisogna hai di postulare questa Verità, e ti chiedo cosa sia mai questa verità nell'esperienza della coscienza, in modo che io possa in qualche modo farmene una rappresentazione, un'idea, e tu me ne parli come se fosse qualcosa di condiviso o condivisibile, quasi scontato, e allo stesso tempo qualcosa che non si sa cosa sia. Non è né scontato né condiviso o condivisiabile: non conosco nessuna Verità, non sento il bisogno o la mancanza di nessuna Verità, in sostanza, lo dico sinceramente, non so di cosa tu stia parlando. Lo stesso se mi parli Dio.
E la condivisione è condizione necessaria per qualunque scambio di idee, altrimenti diventa un'alternanza di soliloqui.

La Verità non c'è!
Di modo che non penso affatto che ci sia.
La Verità è!

Citazione
Citazione
Non vi è nessuna certezza che la realtà sia intersoggettiva. Il soggetto potrebbe essere uno solo.
Sia perché il solipsimo non può essere escluso del tutto, è sia perché i pur molteplici soggetti potrebbero in realtà essere la manifestazione di un unico soggetto.
Inoltre neppure l'interpretazione materialista, dove il soggetto è solo un epifenomeno dell'oggettivitá in sé, può essere esclusa.
Questi, secondo me, sono i labirinti senza uscita in cui ci si infila se si perde il contatto con l'esperienza della coscienza. Proprio per questo sono partito dalla definizione di esistenza e di realtà. Se non definisco cosa sia esistere e cosa non esistere, cosa sia reale e cosa no, nell'esperienza della coscienza, se non stabilisco dei criteri concretamente applicabili per distinguereli, se non cerco di dare un effettivo, verificabile significato a questi termini, posso affermare tutto e il contrario di tutto senza che sia possibile argomentare pro o contro, ma quello che dico sarà solo un gioco di parole, un "effetto speciale" verbale, analogo a quelli dei film.

I termini "esistenza", "realtà", possono avere un significato solo se sei già nel labirinto.
Dare un significato, infatti, consiste proprio nel dare per scontato l'orizzonte nel quale vale questo significato.
De-finire vuol dire isolare ciò che si vuole appunto distinguere da tutto il resto.
Se non vi è alcun resto, non è possibile definire.

Citazione
CitazioneIl referente si trova certamente in noi stessi, dove se no? Ma non può assolutamente essere individuato. Non perché è una sensazione, ma perché è il fondamento!
Per cui non si tratta di intuizioni extra razionali, ma di ciò che noi siamo.
Anche qui, non ho mezzi per capire di cosa parli. Cos'è questo "noi stessi"? E se il referente non può essere individuato, perché continui a postularne l'esistenza (che ancora attende di essere definita, tra l'altro)? Che bisogno abbiamo di stabilire un "fondamento" dell'esperienza della coscienza? Se si tratta di un bisogno di una "causa", resta il problema insolubile dell'eterna ricorsione: il fondamento ha bisogno di un fondamento, e così via. Non è un problema da liquidare con un colpo di spugna e neppure da aggirare con un atto di fede. O meglio , la fede può anche funzionare, soggettivamente, ma non è discutibile.

L'autentica fede può riguardare ciò che non c'è.
Di più, non solo non c'è, non potrà mai neppure esserci!

Ciò che c'è, c'è soltanto perché mostra il proprio fondamento. E questo a sua volta potrà esserci solo in quanto sorretto dal proprio fondamento. In un rimando continuo, fino a giungere al "Fondamento", che non si fonda su nient'altro. E proprio per questo non c'é.
Questo Fondamento è la Verità.

Credere in qualcosa che si vorrebbe ci fosse, ma che non mostra il proprio fondamento, è solo superstizione.
Viceversa, l'unica autentica fede consiste nel credere nella Verità, che non c'è, proprio in quanto è il Fondamento.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

bobmax

Per Donalduck
 
La psicologia offre senz'altro un utile aiuto per superare molte difficoltà della nostra vita. Tuttavia, essa può essere davvero fuorviante se le questioni che ci troviamo davanti sono di natura esistenziale.
Infatti la psicologia riduce l'anima a psiche, ossia all'insieme delle nostre funzioni mentali. Mentre le questioni esistenziali, e quindi tipiche dell'anima, trascendono queste funzioni.
Un modo per cogliere l'esistenza, nella sua incommensurabilità rispetto al psicologico, è quello di affrontare una situazione-limite.
Vorrei provare a illustrare in cosa consista questa particolare situazione di vita:
 
Noi sempre siamo in una situazione, il nostro esserci al mondo consiste in un'ininterrotta sequenza di situazioni. Dove siamo perlopiù avvolti da un orizzonte rassicurante, concreto, che dona consistenza al nostro stesso esserci.
Tuttavia, può capitare di ritrovarci in una Situazione-Limite, ossia in una situazione dove la concretezza dell'esserci sembra dissolversi. Ciò che prima era certo, adesso si fa ambiguo e ci ritroviamo soli, senza alcuna bussola che ci indichi la via.
Sebbene sia presente in tante situazioni di vita, di solito non ci accorgiamo del limite, perché condizionati dal nostro stesso pensiero razionale. Per il quale esiste solo ciò che è oggettivo, concreto.
E quando invece ci capita d'avvertirlo, il limite, proviamo un'impressione straniante, un disagio indeterminato, anche angoscioso, e di norma ci affrettiamo a cancellarlo, tornando nel nostro rassicurante mondo razionale.

D'altronde la situazione-limite, che pur abbiamo percepito, non ci può fornire alcuna informazione, alcuna "verità". Può essere stata benissimo il frutto di una nostra allucinazione...
Se vissuta però esistenzialmente (cioè con la più vigorosa fede nella Verità), la situazione-limite può scuoterci nel profondo e risvegliare in noi una consapevolezza inusitata.
La morte può essere una situazione-limite, quando squarcia il velo delle quotidiane sicurezze per farci intravedere, dietro il nostro esserci mondano, il Nulla.

Questo Nulla ci interroga: "E adesso?" Rigettandoci a noi stessi, perché a nessun appiglio possiamo aggrapparci se non a noi stessi.
Di fronte alla morte di una persona cara, posso o lasciarmi sopraffare dalla disperazione chiudendomi nel mio sordo dolore, o ragionarci sopra razionalmente inquadrando l'evento come ciò che purtroppo capita nella vita e bisogna farsene una ragione, oppure... viverla come una situazione-limite! Ossia sforzandomi di stare di fronte a quell'evento terribile, senza piombare nella disperazione che mi annichilisce e neppure cercare di razionalizzare ad ogni costo la cosa, depotenziandone così il pathos. Questa è la realtà! Inaccettabile, ma vera...

E affrontare così lo sguardo della Medusa, che m'interroga mostrandomi l'orrore del mondo, senza nulla sperare, perché quello è!
E lì, forse, tornare a me stesso.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Donalduck

#51
bobmax:
CitazioneLa psicologia offre senz'altro un utile aiuto per superare molte difficoltà della nostra vita. Tuttavia, essa può essere davvero fuorviante se le questioni che ci troviamo davanti sono di natura esistenziale.
Infatti la psicologia riduce l'anima a psiche, ossia all'insieme delle nostre funzioni mentali. Mentre le questioni esistenziali, e quindi tipiche dell'anima, trascendono queste funzioni.
Un modo per cogliere l'esistenza, nella sua incommensurabilità rispetto al psicologico, è quello di affrontare una situazione-limite.
La psiche (termine tratto direttamente da quello greco che significa anima) non è "l'insieme delle funzioni mentali", che è rappresentato, appunto dal termine "mente", ma sta a indicare il mondo interiore nel suo insieme. E non esiste "la psicologia", ma tante psicologie profondamente diverse nell'impostazione e nel modo di vedere l'interiorità umana. E uno dei settori di interesse è quello della cosiddetta "psicologia transpersonale" ce si occupa di tutto ciò che trascende la mente e comprende anche quelle che chiami situazioni-limite.

CitazioneSebbene sia presente in tante situazioni di vita, di solito non ci accorgiamo del limite, perché condizionati dal nostro stesso pensiero razionale. Per il quale esiste solo ciò che è oggettivo, concreto.
E quando invece ci capita d'avvertirlo, il limite, proviamo un'impressione straniante, un disagio indeterminato, anche angoscioso, e di norma ci affrettiamo a cancellarlo, tornando nel nostro rassicurante mondo razionale.
Neppure quest'uso del termine "razionale" mi trova d'accordo. L'esperienza della vita, della coscienza, ci mette di fronte un mondo e un'identità (ciò che chiamiamo "io") misteriose, sfuggenti, paradossali, indefinibili. Ignorare tutto ciò non ha nulla di razionale, proprio il contrario: un arbitraria, quindi irrazionale (motivata da fattori emotivi e non razionali) censura dei dati esperienziali, scartando tutto ciò che suscita troppo sgomento, in modo da avere una rappresentazione rassicurante e facilmente gestibile, anche se fittizia, del mondo.

CitazioneD'altronde la situazione-limite, che pur abbiamo percepito, non ci può fornire alcuna informazione, alcuna "verità". Può essere stata benissimo il frutto di una nostra allucinazione...
Qualunque cosa arrivi alla nostra coscienza è informazione. Non ha senso dire che un dato esperienziale "non fornisce informazione". Colgo l'occasione per accennare al fatto che considero il concetto di informazione come la chiave di interpretazione più efficace e proficua per qualunque tipo di fenomeno, e non mi stupisce che alcune tendenze della moderna fisica considerino l'informazione come il concetto più fondamentale col quale interpretare il "mondo fisico".

Avrai di certo capito che rifuggo da termini come "verità" usati in senso assoluto, come del resto dalla pretesa di discutere di questo fantomatico "assoluto" in generale, e di tutto ciò che ne è figlio: il definito una volta per tutte, l'immutabile, l'esistente di per sé, i "fondamenti ultimi". Secondo me si tratta solo di proiezioni-estrapolazioni di dati esperienziali (che sono l'unica cosa di cui effettivamente disponiamo), a cui conferiamo arbitrariamente un'esistenza indipendente dalla nostra immaginazione. I primi rappresentanti dell'assoluto, l'infinito e il nulla, si prestano bene a chiarire il senso di queste proiezioni. Quello che conosciamo, che percepiamo direttamente non è l'infinito o il nulla, ma l'illimitato, in grandezza o in piccolezza., l'"arbitrariamente grande" e l'"arbitrariamente piccolo"
E' interessante riflettere sui concetti matematici di infinito e di zero: la loro introduzione è inscindibile dal carattere arbitrario delle regole ad esse associate, diverse in modo eclatante da quelle a cui sottostanno tutti gli altri numeri, che restano aderenti a quelle che la nostra esperienza delle quantità nel "mondo esterno" ci mostrano. E ancora più interessante considerare il concetto matematico di limite. Il limite a cui tende il valore di una funzione è qualcosa che viene raggiunto "all'infinito", a cui il valore si avvicina con l'aumentare o il diminuire di un parametro della funzione. Assegnando valori arbitrariamente grandi o piccoli al parametro, il valore sarà sempre più prossimo, senza limiti di approssimazione. Quindi possiamo dire che il valore limite esprime in effetti il concetto di illimitato approssimarsi, e quindi di illimitatezza. Del resto anche il concetto geometrico di punto privo di dimensioni non trova riscontro alcuno nell'esperienza, pur essendo di fondamentale e insostituibile utilità. Ma se in matematica ragionare per proiezione è cosa buona e giusta, non altrettanto lo è nel comporre una rappresentazione della realtà, sganciati dalle regole fisse e convenzionali della matematica.

In sostanza il concetto di infinito è una proiezione dell'illimitato (ossia di qualcosa che può essere espanso o ristretto arbitrariamente), ma solo l'illimitato è un dato esperienziale, di cui possiamo legittimamente testimoniare, mentre testimoniare dell'infinito (ossia asserirne un'esistenza al di là della dimensione concettuale) sarebbe falsa testimonianza, dato che non fa parte dell'esperienza della coscienza.

Quindi, sgombrato il campo da ogni "verità assoluta", mi rimane la più modesta "verità relativa", che esprime il modo migliore che posso trovare di mettere d'accordo tra loro i dati dell'esperienza. Questa verità è sempre perfettibile ma mai perfetta. Del resto i dati dell'esperienza cambiano e si accrescono (nella memoria) in continuazione, rendendo impossibile qualunque verità immutabile.

Se, come ho sostenuto, ogni cosa che arriva alla coscienza è informazione, non ha senso etichettare questa informazione come "reale" o "irreale", "esistente" o "non esistente" dal momento che non disponiamo di nient'altro che non sia la coscienza e i dati pervenuti alla coscienza, che "sono" e basta. Quello che possiamo e risulta utile fare, è assegnare (come ho già illustrato in precedenti post) una modalità di esistenza a ciascun dato. In questo contesto che senso ha ipotizzare che le tue "situazioni-limite" siano "allucinazioni"? Cosa vuol dire? Che cosa aggiunge o toglie quest'etichetta all'esperienza? La mia risposta è: nulla. Molto più proficuo chiedermi quale sia il contenuto informativo di queste esperienze, l'unico modo che ho, in fin dei conti, per definirle o dar loro un senso.

CitazioneSe vissuta però esistenzialmente (cioè con la più vigorosa fede nella Verità), la situazione-limite può scuoterci nel profondo e risvegliare in noi una consapevolezza inusitata.
Qui introduci un altro concetto-chiave: la consapevolezza. Per me il senso di queste esperienze è mostrare l'inadeguatezza della consapevolezza rispetto all'esperienza stessa. Se vuoi darle un senso devi cercare di espandere la consapevolezza, colmare quei vuoti che ti lasciano smarrito e privo di mezzi di comprensione, spingendoti alla rimozione dell'esperienza stessa. Occorre entrarci dentro, vivere l'esperienza e il suo ricordo con la massima attenzione possibile. Si tratta di quel genere di pratica che viene chiamato meditazione: un'immersione esplorativa nel mondo interiore priva, nei limiti del possibile, di pregiudizi e aspettative, pronti a cogliere ogni dato, senza discriminazioni o censure, superando le ribellioni della mente e dell'emotività, cercando di avvicinarsi il più possibile alla condizione di "osservatore puro".
In sintesi, direi che queste situzioni-limite più che risvegliare la consapevolezza, rivelano la necessità di una sua espansione e integrazione. Integrazione nel senso di conciliare i diversi aspetti della nostra complessa esperienza, senza rimuoverne una parte consistente per eliminare sbrigativamente quel senso di mistero, di paradosso, di inesplicabilità che pervade tutta la nostra coscienza.
Ma non direi che questo implichi una qualche "fede nella Verità", si tratta semplicemente di ricevere correttamente dei dati ed elaborarli, così come per ogni altra esperienza. Non c'è altra "verità" al di là dei dati dell'esperienza e di quelli ricavati dalla loro elaborazione. E' se di fede vogliamo parlare, direi che l'unica che serve è la fiducia nelle capacità della coscienza di raggiungere equilibrio e armonia.

CitazioneLa morte può essere una situazione-limite, quando squarcia il velo delle quotidiane sicurezze per farci intravedere, dietro il nostro esserci mondano, il Nulla.
Questo Nulla ci interroga: "E adesso?" Rigettandoci a noi stessi, perché a nessun appiglio possiamo aggrapparci se non a noi stessi.
Di fronte alla morte di una persona cara, posso o lasciarmi sopraffare dalla disperazione chiudendomi nel mio sordo dolore, o ragionarci sopra razionalmente inquadrando l'evento come ciò che purtroppo capita nella vita e bisogna farsene una ragione, oppure... viverla come una situazione-limite! Ossia sforzandomi di stare di fronte a quell'evento terribile, senza piombare nella disperazione che mi annichilisce e neppure cercare di razionalizzare ad ogni costo la cosa, depotenziandone così il pathos. Questa è la realtà! Inaccettabile, ma vera...
E affrontare così lo sguardo della Medusa, che m'interroga mostrandomi l'orrore del mondo, senza nulla sperare, perché quello è!
E lì, forse, tornare a me stesso.
Non c'è nessun "nulla" nella nostra esperienza, e neppure possiamo farcene una rappresentazione. Il nulla è un concetto che nasce per opposizione, ma resta confinato nel regno del pensiero astratto. Quello che qui chiami Nulla io lo chiamo paura. Paura di cosa? Questo è il mistero. Tutto quello che posso arrivare a dire è che si tratta della paura della morte indotta dall'animalesco "istinto di consevazione" proiettato in una dimensione astratta, artificiale. Ma c'è qualcosa di più profondo, abissale, oscuro e misterioso. Qualcosa che mi induce a pensare che la mia coscienza sia troppo ristretta per accogliere ed elaborare quel tipo di esperienza. Infatti sono assai poco incline a pensare che un essere vivente sia fatto in modo da essere incapace di accettare la vita (che implica la morte) e il mondo così come sono. Mi sembra molto più sensato ritenere che si tratti di un limite da superare, una sfida da accettare.
Quindi sì, certe cose sembrano inaccettabili, ma siccome, come dici, "questa è la realtà", sono in effetti un'esortazione ad espandere la capacità della coscienza.

Uno degli effetti più importanti delle pratiche meditative è la "coagulazione" di un "centro di gravità" (come lo chiamava Battiato, rifacendosi a Gurdjeff) attorno al quale costruire la propria visione del mondo e a cui l'esperienza, momento per momento, possa riferirsi.
Si potrebbe anche dire che tale centro si rivela man mano che l'accettazione di "ciò che è" (cio che si presenta alla coscienza) progredisce. Paradossalmente la risposta all'eterna domanda "chi sono io" si risolve in una spersonalizzazione e in una identificazione con "cio che è" che implica il superamento del comune senso dell'io, e allo stesso tempo forma un punto di riferimento "interno" fisso (tornare a sé stessi, per usare un tuo termine) individuale e universale allo stesso tempo, qualcosa di indefinibile a cui si può solo alludere.
A questo punto non cerchi più sicurezza negli altri, nel pensiero comune, nei miti o nella scienza o nella filosofia, ma avverti che solo la consistenza del tuo centro di gravità te la può dare.

bobmax

Per Donalduck

Occorre decidere, secondo me, se la psicologia sia da considerarsi scienza oppure no.
Se lo è, essa si basa necessariamente sull'oggettività. Se invece si pensa ne possa prescindere allora non è più scienza ma metafisica. In questo secondo caso penso sarebbe più corretto chiamarla appunto metafisica.
In quanto scienza la psicologia si sviluppa in varie branche, come qualsiasi altra scienza.
In quanto metafisica ha ancora senso parlare di psicologia?
 
E se con psiche vogliamo intendere ancora "anima", bene, ma allora parliamo di metafisica e non di psicologia.
 
Buber Martin, con il suo: "Colpa e sensi di colpa" chiarisce a mio avviso molto bene l'insufficienza dell'approccio psicologico nell'affrontare situazioni-limite. In sostanza la psicologia altro non fa che curare i sintomi, depotenziandoli, facendo perdere così l'occasione data dalla situazione-limite.
Karl Jaspers, grande psichiatra oltre che filosofo, fonda buona parte della sua filosofia proprio sulle situazioni-limite. E infatti la sua è metafisica.
 
Ogni situazione, che appare come limite, potrebbe un domani essere superata e rivelarsi perciò non più "limite" perché in qualche modo spiegata dal pensiero razionale. Ma dal punto esistenziale ciò ha poca importanza. Ciò che conta è ciò che è avvenuto in noi quando l'abbiamo vissuta appunto come limite.
 
Non esiste solo l'alternativa tra razionale e irrazionale, si può pure andare oltre questa dicotomia.
 
Comunque la questione chiave, a mio avviso, riguarda la fede nella Verità. Che non può avere alcuna ragione per esserci. Siamo solo noi, in perfetta solitudine, a dover decidere.
 
Quando la si rifiuta, compaiono "verità relative" incluse comunque in un orizzonte di senso che, seppur implicitamente, pretende si stabilire cosa sia la Verità.
Un orizzonte che può essere l'indefinito allargamento della coscienza, così come il vuoto nichilista.
Nel primo caso l'"informazione" in quanto tale assurge a fondamento, e quindi in buona sostanza a verità assoluta.  Nel secondo, neppure l'informazione ha effettivo valore, vero è soltanto che nulla ha valore.
 
Di modo che, senza la fede nella Verità, vi è sempre, in un modo o nell'altro, una pretesa verità implicitamente considerata assoluta.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

sileno

Sulla realtà


In breve, cosa fa esistere "rose", "tavoli", ecc.? Per i realisti sono condivise essenze comuni, per gli anti realisti (o postmoderni) esistono solo da concetti descrittivi o dai nomi che attribuiamo loro. Le diverse concezioni derivano da linguaggio, logica e scienza, e vi s' interseca filosofia, scienze naturali e sociali. Tra costrutti teorici, giudizi linguistico – culturali e corrispondenze con il mondo esterno.
L'intuizione realista fa esistere una montagna anche se l'uomo non fosse mai comparso sulla terra. Per l'intuizione ermeneutica ( interpretazione), la realtà dipende da linguaggio e concetti.
Varie realtà possono venir considerate: un computer è anche "particelle elementari".

"Realtà" in filosofia significa esistenza oggettiva di qualcosa: principio naturale, non deduttivo, fuori da immaginazione, fantasia, valore. Oggi le complicazioni sono originate da microfisica, microbiologia, biomolecole, salti quantistici.
Verità logica: l'enunciato corrisponde ai fatti ( es. "la neve è bianca" di Tarski), verità pragmatica, se ha efficacia pratica.

Oggi il filosofo è soprattutto un realista impegnato, non in certe dispute inutili e senza soluzione.
La filosofia si attiene alla scienza, trattando del concetto di realtà.:che utilità avrebbe discutere ancora del "noumeno"? Forse affascinante in fiction di fantascienza. 
( Cypher,in Matrix : "questa bistecca non esiste; mi si suggerisce che è deliziosa")
Il "pensiero forte" contrasta il rischio di interpretare come fa più comodo, ricadendo in astrattezze metafisiche, accademismi, teologismi, dispute sugli assoluti, neo spiritualismi, esoterismi.
Si potrebbero negare le peggiori tragedie della storia e promuovere realtà costruite.


Donalduck

#54
bobmax:
CitazioneOccorre decidere, secondo me, se la psicologia sia da considerarsi scienza oppure no.
Se lo è, essa si basa necessariamente sull'oggettività. Se invece si pensa ne possa prescindere allora non è più scienza ma metafisica. In questo secondo caso penso sarebbe più corretto chiamarla appunto metafisica.
In quanto scienza la psicologia si sviluppa in varie branche, come qualsiasi altra scienza.
In quanto metafisica ha ancora senso parlare di psicologia?
Temo che neppure questa distinzione tra scienza e non scienza mi trovi d'accordo. Prima di tutto non esiste nessuan "scienza" in generale, ma ci sono molte scienze diverse con approcci diversi che hanno in comune solo l'uso, più o meno pervasivo, del metodo scientifico utilizzato nella maniera più rigorosa ed esclusiva solo nelle scienze fisiche. Ma tutte le scienze non si limitano all'uso del metodo scientifico e conservano sempre una certa dosa di arbitrarietà nell'interpretazione dei dati raccolti.
Per la psicologia, insisto, non è solo questione di branche diverse, ma di approcci completamente diversi all studio della psiche, approcci a volte persino incompatibili tra loro, come accade per le teorie economiche, sociali o politiche. Quindi parlare di psicologia in generale ha poco senso.
Tra le psicologie, ce ne sono che si basano in maniera prevalente sui metodi scientifici canonici (ma le interpretazioni restano in parte estranee al metodo scientifico), altre li usano solo come strumento ausiliario di maggiore o minore rilevanza. Il comportamentismo e le cosiddette neuroscienze sono tra le prime, i diversi tipi di psicoanalisi tra le seconde.
Io non parlerei di oggettività, a proposito delle scienze, ma di verificabilità e replicabilità, che sono concetti molto diversi. Il mio concetto di oggettività comprende tutto ciò che si presenta alla coscienza, contrapposto alla soggettività, attributo della sola coscienza osservatrice. E il termine che userei per indicare ciò che normalmente è designato da "oggettività" tout-court potrebbe essere "oggettività intersoggettiva" o "oggettività condivisa".
La scienza spesso sconfina nella metafisica, ed è inevitabile. Infatti spesso gli scienziati si convincono che la loro scienza ci faccia vedere le cose "così come sono in realtà", che è una comune fallacia scientifica (e anche filosofica, dal mio punto di vista). Ma qui la confusione è enorme. A rigore la metafisica dovrebbe solo supervisionare i risultati delle scienze fisiche, andando a coincidere più o meno con l'epistemologia, ma il significato comune è più ampio e indistinto, più o meno coincidente con la descrizione del mondo, esterno e interiore, nalla sua "verità oggettiva" ossia assoluta. Dal momento che nel mio pensiero non trova posto nessuna verità assoluta, non trova posto neppure una simile concezione della metafisica.
Comunque, usando i termini nel significato che sembri attribuirgli, direi che ogni scienza è un miscuglio, con proporzioni variabili, di "scientifico" (verificabile e replicabile) e di "metafisico" (affidato unicamente alla forza di convincimento del pensiero e all'intuizione). Nelle scienze "hard" prevale la prima componente, in quelle "soft", come le psicologie, la seconda.

CitazioneBuber Martin, con il suo: "Colpa e sensi di colpa" chiarisce a mio avviso molto bene l'insufficienza dell'approccio psicologico nell'affrontare situazioni-limite. In sostanza la psicologia altro non fa che curare i sintomi, depotenziandoli, facendo perdere così l'occasione data dalla situazione-limite.
Karl Jaspers, grande psichiatra oltre che filosofo, fonda buona parte della sua filosofia proprio sulle situazioni-limite. E infatti la sua è metafisica.
Si direbbe che tu abbia ignorato del tutto quanto ho detto a proposito della psicologia, in particolare di quella transpersonale, e continui a identificare questa indistinta "psicologia" con alcune prassi di alcuni tipi di psicologia, scambiando una baia per l'intero oceano. La psicologia è sempliceente lo studio del mondo interiore umano e si serve dei metodi e delle contaminazioni più svariate. Si serve di scienza, filosofia, dottrine e pratiche spirituali, che spesso coesistono senza soluzione di continuità. La conoscenza non è a compartimenti stagni, i vari approcci si completano a vicenda e non sono mutuamente esclusivi.

CitazioneComunque la questione chiave, a mio avviso, riguarda la fede nella Verità. Che non può avere alcuna ragione per esserci. Siamo solo noi, in perfetta solitudine, a dover decidere.
 Quando la si rifiuta, compaiono "verità relative" incluse comunque in un orizzonte di senso che, seppur implicitamente, pretende si stabilire cosa sia la Verità.
Un orizzonte che può essere l'indefinito allargamento della coscienza, così come il vuoto nichilista.
Nel primo caso l'"informazione" in quanto tale assurge a fondamento, e quindi in buona sostanza a verità assoluta.  Nel secondo, neppure l'informazione ha effettivo valore, vero è soltanto che nulla ha valore.
Di modo che, senza la fede nella Verità, vi è sempre, in un modo o nell'altro, una pretesa verità implicitamente considerata assoluta.
Quello che non capisco è come pensi che possa seguire il filo dei tuoi pensieri se non mi dai un appiglio, un bandolo della matassa da cui partire. Io conosco solo la mia coscienza, l'osservatore, e i dati della coscienza, l'osservato. E confido che tali elementi di conoscenza siano condivisi anche dagli altri centri di coscienza simili al mio (quasta si può considerare la mia unica fede).
Se tu non cerchi di farmi capire cosa sia questa "Verità" nelle tua effettiva esperienza, come dato della coscienza, dato che non c'è nulla nella mia esperienza che abbia quei connotati di assolutezza di cui parli, non abbiamo alcun modo di intenderci. Non solo, ma, ripeto, non sento nessun bisogno di immaginare l'esistenza di questà Verità o di qualsiasi assoluto, ritengo che tutto quello con cui abbiamo a che fare, quello di cui è fatta la nostra oggettività, sia un intreccio di relazioni. Non percepisco altro che relazioni, non concepisco altro che relazioni, non vedo come possa esserci qualcosa di non relativo. Se un altro percepisce o concepisce altro, va bene, ma se non mi spiega che posto abbia questo assoluto tra i dati esperienziali, non so proprio che collocazione, che rappresentazione dargli, e che bisogno ce ne sia.

Non so se conosci la storiella, riportata tra gli altri da Stephen Hawking: una signora, a difesa della tesi del mondo piatto sorretto da un tartaruga gigante, all'obiezione "ma cosa sorregge la tartaruga?" risponde "it's turtles all the way down" che in sostanza significa che a sorreggere una tartaruga c'è sempre un'altra tartaruga. Io sono d'accordo (metaforicamente) con la signora: c'è sempre una "verità" che ne sorregge un'altra, ma non c'è nulla che giustifichi il pensiero che vi sia un "fondamento ultimo" una "tarataruga ultima o assoluta" che sorregge tutte le altre e non è sorretta da niente. E non sono neppure sicuro che queste tartarughe restino sempre uguali a sé stesse e non possano essere sostituite o trasformarsi in altri animali. Quindi diciamo che, per usare i tuoi termini, per me "l'orizzonte di senso" è variabile sia in estensione che in conformazione, non ha stabilità, e l'informazione assume un ruolo fondamentale. Ma questo non significa affatto che assuma anche l'attributo di assoluto.

Per quanto riguarda poi il "valore", quello è nostra esclusiva scelta e responsabilità. Assumersi questa responsabilità significa assumersi l'onore e l'onere di essere umani. Ma fare scelte implica la possibilità di sbagliare e di correggere. Immaginare di stabilire, attraverso queste scelte, una verità assoluta non solo è fuorviante, ma anche pericoloso, come dimostrano i vari tipi di fondamentalismo.

bobmax

Riguardo alla Verità non posso darti alcun appiglio, alcun bandolo della matassa. Se ci provassi sarebbe un inganno. Non vi è appiglio possibile per giungere all'Assoluto, ossia alla Verità. Se vi fosse non sarebbe Assoluto.
È proprio per questo che occorre aver fede. Ed è questa l'unica autentica fede, ogni altra è solo superstizione.
Se vi fosse un appiglio il tuo credere sarebbe condizionato da esso, non sarebbe fede, ma la pretesa, attraverso un appiglio, di conoscere la Verità! Sarebbe perciò superstizione.

Il tuo relativismo si regge solo perché in te è presente, seppur inconsapevolmente, l'Assoluto. Se non vi fosse questa tua fede nella Verità, il tuo relativismo virerebbe inevitabilmente in nichilismo.
È infatti proprio la fede nella Verità il baluardo ai fondamentalismi, i quali sono sempre alimentati dal pensiero nichilista.

Perciò il relativismo è alimentato dalla fede nella Verità. Se questa fede non regge alla prova, allora trionfa il nichilismo. Con le sue più varie manifestazioni. Tra le quali i fondamentalimi, che altro non sono che la disperata ricerca di un rimedio, ossia una verità oggettiva, da contrapporre all'angoscia nichilista.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

viator

Salve. Per Bobmax: Diagnosi completamente appropriata.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

sgiombo

Citazione di: bobmax il 21 Maggio 2018, 18:46:41 PMÈ infatti proprio la fede nella Verità il baluardo ai fondamentalismi, i quali sono sempre alimentati dal pensiero nichilista.

Non commento le altre tesi esposte in questa discussione perché per lo più le comprendo ben poco o addirittura per niente, a cominciare dal concetto di "Verità" con l' iniziale maiuscola (prendetelo pure come un mio limite).

Ma come si fa a considerare (e per giunta "sempre"!) "alimentata dal pensiero nichilista" la scelta (giusta o sbagliata che sia; in questa sede non intendo pronunciarmi in proposito) di quei fondamentalisti che sacrificano la loro stessa vita (quantomeno anche, fra le eventuali altre motivazioni) proprio per la fede nella verità delle proprie convinzioni (per esempio religiose; che personalmente considero false -tutte le religioni propriamente dette, "in senso stretto", indistintamente- ma tutt' altro che eticamente nichilistiche, come a mio parere incontrovertibilmente dimostrato proprio dal loro sacrificio non a caso e del tutto appropriatamente detto "supremo")?

Lungi dal costituire un "baluardo contro di esso", é proprio la fede in "qualcosa" (bene o mal riposta che sia) a generare il fondamentalismo (non necessariamente, ma comunque anche, fra il resto che, magari in alternativa al fondamentalismo stesso, può pure generare)!

bobmax

Per Sgiombo
Occorre secondo me distinguere tra "fede" e "superstizione".
La superstizione consiste nel credere che qualcosa ci sia senza che questo suo esserci possa essere provato.
Viceversa la fede non riguarda affatto un qualcosa, non è una credenza in qualcosa che dovrebbe esserci. La fede riguarda solo ed esclusivamente l'Assoluto. E poiché l'Assoluto non c'è (non appare nell'esserci mondano) possiamo ben dire che l'autentica fede è fede nel Nulla.
 
Tuttavia questo è il Nulla fonte d'infinite possibilità, opposto al nulla nichilistico che è il nulla assoluto.
Le religioni (tutte), così come qualsiasi ideologia che pretenda di conoscere la Verità, sono fondate dal nichilismo. Traggono da esso la loro ragion d'essere.
 
Infatti le "verità" che esse propugnano non sono che dei rimedi all'angoscia esistenziale nichilistica. Queste "verità", con la loro pretesa di affermare il Vero senza poterlo fondare, non sono che superstizioni.
 
Certo che vi è chi sacrifica la vita!, così come chi uccide chiunque non la pensi come lui, ma la motivazione non è la fede. La spinta originaria è sempre il nulla nichilistico, alla cui angoscia l'ego cerca di imporre una sua "verità", nell'illusione che imponendola, anche attraverso il sacrificio, questa "verità" possa davvero diventare assoluta.
 
Ben difficilmente il nichilismo si mostra con la propria essenza. Sono davvero pochi quelli che hanno provato ad affrontarlo ossia pensatori come Leopardi o Nietzsche. Di solito si mostra attraverso le reazioni che suscita, come le varie credenze (superstizioni) e la volontà di potenza.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

sgiombo

Citazione di: bobmax il 24 Maggio 2018, 19:31:17 PM
Per Sgiombo
Occorre secondo me distinguere tra "fede" e "superstizione".
La superstizione consiste nel credere che qualcosa ci sia senza che questo suo esserci possa essere provato.
Viceversa la fede non riguarda affatto un qualcosa, non è una credenza in qualcosa che dovrebbe esserci. La fede riguarda solo ed esclusivamente l'Assoluto. E poiché l'Assoluto non c'è (non appare nell'esserci mondano) possiamo ben dire che l'autentica fede è fede nel Nulla.

CitazioneNo, scusa, ma tanto la religione quanto le superstizioni si basano sulla fede indimostrata (e il resto sono per me parole senza senso).

E fino a prova contraria quella degli attentatori suicidi islamici é fede religiosa.

Tuttavia questo è il Nulla fonte d'infinite possibilità, opposto al nulla nichilistico che è il nulla assoluto.
Le religioni (tutte), così come qualsiasi ideologia che pretenda di conoscere la Verità, sono fondate dal nichilismo. Traggono da esso la loro ragion d'essere.

CitazioneE chi lo dice?
Non certo i credenti nelle religioni (che credo siano i più autorevoli interpreti del loro proprio pensiero).

E come lo si dimostra?


Infatti le "verità" che esse propugnano non sono che dei rimedi all'angoscia esistenziale nichilistica. Queste "verità", con la loro pretesa di affermare il Vero senza poterlo fondare, non sono che superstizioni.

CitazioneInterpretazione del tutto soggettiva.
Ma io comprendo che cosa significa "(un) vero"; non che cosa potrebbe significare "(il) Vero"

Certo che vi è chi sacrifica la vita!, così come chi uccide chiunque non la pensi come lui, ma la motivazione non è la fede. La spinta originaria è sempre il nulla nichilistico, alla cui angoscia l'ego cerca di imporre una sua "verità", nell'illusione che imponendola, anche attraverso il sacrificio, questa "verità" possa davvero diventare assoluta.

CitazioneQuesto lo dici del tutto arbitrariamente tu.
Io credo a quanto dicono di se stessi coloro che per la loro fede religiosa sacrificano al propria vita (e quelle di altri); credo che il sacrificio stesso della loro vita escluda qualsiasi malafede da parte loro, e che loro siano interpreti di se stessi migliori di te.

Ben difficilmente il nichilismo si mostra con la propria essenza. Sono davvero pochi quelli che hanno provato ad affrontarlo ossia pensatori come Leopardi o Nietzsche. Di solito si mostra attraverso le reazioni che suscita, come le varie credenze (superstizioni) e la volontà di potenza.
CitazioneCon Cesare Luprini (di cui ho letto "Leopardi progressivo") ed altri non ritengo affatto nichilista Leopardi.

Nietzche non mi interessa proprio per nulla.

La seconda frase é espressione della solita tua pretesa di interpretare il pensiero degli altri meglio di loro stessi.

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