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Del suicidio

Aperto da Eutidemo, 30 Settembre 2019, 15:30:48 PM

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bobmax

Citazione di: Ipazia il 09 Ottobre 2019, 09:12:19 AM
Citazione di: bobmax il 09 Ottobre 2019, 08:54:32 AM
L'irrazionalità non sta nel processo ma nelle premesse. Perché la logica non ammette deroghe.
Quale logica ?  Quali premesse la garantiscono esatta ?
Citazione
Ed è irrazionale credere nell'esistenza dell'io.
Prova a cercarlo questo benedetto 'io', non lo troverai mai!
Io lo trovo tutte le mattine al risveglio e in forma più confusa pure di notte quando sogno; ma per quanto confuso, un io-narrante funziona anche nei sogni e ancor più negli incubi. Tant'è che mi risveglio e la logica mi dice tutto il contrario di:
CitazioneE se tieni ferma la tua logica potrai ben vedere come l'io sia logicamente impossibile!

Grazie Ipazia per questo tuo pungolo, che mi spinge a scavare più in profondità.
 
La logica è lo stesso principio di non contraddizione.
 
Sono irrazionale quando accetto per "vero" ciò che non rispetta questo principio. O pretende di potervi prescindere.
 
Il principio di non contraddizione si fonda su sé medesimo. O se vogliamo sul principio d'identità, che non è altro che una sua forma concisa.
Quindi è l'identità, l'oggettività in sé, la premessa e la conclusione della logica.
 
Di modo che possiamo ben dire che non esistano premesse che garantiscano l'esattezza della logica, se non la logica stessa.
 
La logica "tiene insieme" tutto il nostro universo, ma non vi è nulla che la fondi a sua volta!
 
Nella ricerca della Verità, per avanzare dobbiamo necessariamente prendere per buone alcune premesse, quelle che al momento appaiono le più affidabili.
E così andiamo avanti, tenendo però sempre presente nel nostro cuore che tali premesse potranno un domani rivelarsi fallaci! Così da costringerci a rimettere tutto in discussione per poter riprendere il cammino.
 
Il concetto dell'io non è originario, non fa parte del nostro esserci originario. Ma deriva dalla nostra interpretazione dell'esserci.
 
Ciò che è originario è l'altro.
L'altro appare, c'è, ed essendoci fa in modo che io ci sia.
Se l'altro non ci fosse, io non ci sarei.
 
L'io compare quindi come un riflesso di ciò che c'è
 
Perché c'è soltanto l'altro! Non solo fisicamente (pure il mio corpo è altro) ma anche i pensieri, i sentimenti, anche gli incubi...
Sempre e solo altro.
 
Poiché nel gioco della vita l'altro diviene, magari seguendo pure quella che appare essere la nostra volontà, ci convinciamo di essere un "io" capace di influire sull'altro.
Nel senso di poter determinare, seppur con delle limitazioni, il divenire dell'altro.
 
Alzo una mano, e sono convinto che avrei potuto non alzarla. Perché seppure l'altro diviene principalmente per i fatti suoi, un certo potere comunque ce l'ho, il potere dell'io!
 
Così l'io, che era solo un concetto derivato dall'esserci, diventa invece la "premessa" della nostra interpretazione della realtà!
L'io è così non solo oggettivo, ma pure incausato, senza nulla che lo fondi. In una parola... assoluto!
Mentre è solo un riflesso...
 
Un riflesso di cui la logica, nella sua analisi del mondo, può fare tranquillamente a meno...
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Sariputra

Un'interpretazione errata di pochi testi canonici buddhisti ha portato alla conclusione che il Buddha  abbia avallato il suicidio dei monaci cosiddetti già "illuminati" (e quindi senza ulteriore rinascita..). e , sulla base di quest'erronea interpretazione molti monaci (e non monaci..) si sono sentiti, nei secoli e in vari ambiti culturali, leggittimati a farlo. In realtà il Buddha ha esonerato il monaco Channa, per esempio, che "impugnò il coltello", dagli effetti karmici del suo gesto, ma non ha condonato il gesto in sé.
Invito , per chi lo desiderasse come approfondimento, la lettura di questo testo molto chiarificatore di Damien Keown dell'Università di Londra che è troppo lungo e articolato per poterlo riassumere in breve in questo post.
Questo articolo chiarisce anche alcuni errori interpretativi di termini pali come "upavajja" e "anupavajja ", alla luce dei commentari, che hanno determinato alcuni errori interpretativi...

https://www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=suicidio+nel+buddhismo#

Riporto solamente le conclusioni:

  A cosa ci porta tutto ciò nei confronti del consenso settantennale che il suicidio sia permesso agli arahat?   Penso che ci dia un buon numero di motivi per metterlo in dubbio.  Il primo è che non c'è ragione di ritenere che l' esonerazione di Channa costituisca un precedente che introduca una norma sul suicidio.  Questo perché l'esonerare dalla colpa non è la stessa cosa che condonare.

  Secondo: ci sono ragioni basate sui testi per pensare che l'apparente esonerazione del Buddha non sia invece per niente un'esonerazione.  I problemi legati a[lla corretta interpretazione de]i testi sono troppo complessi e non sarebbe prudente trarne conclusioni definitive.  Si può osservare al volo che l'evidenza contenuta nei testi che il suicidio possa essere permesso è molto maggiore nel cristianesimo che nel buddhismo.  Ci sono molti esempi di suicidio nel vecchio testamento: questo non ha tuttavia impedito alla tradizione cristiana d'insegnare con ferma continuità che il suicidio sia un errore grave.  In confronto i testi theravāda sono un modello di coerenza nel loro rifiuto di ammettere la distruzione intenzionale di vita.

  Terzo: la tradizione dei commentari trova l'idea che un arahat si tolga la vita come Channa ebbe a fare completamente inaccettabile.

  Quarto: c'è una quarta considerazione logica che, per quanto ovvia, sembra sia stata trascurata nelle precedenti discussioni.  Se assumiamo, come fa il commentario e la letteratura successiva, che Channa non fosse un arahat prima del suo suicidio, l'estrapolare da questo caso una regola che ammetta il suicidio come una pratica ammessa per gli arahat è fallace.  La ragione perché sia da ritenersi tale è che il suicidio di Channa era - sotto tutti i punti di vista degni di nota - il suicidio di una persona non illuminata.  La motivazione, la deliberazione e l'intenzione che hanno preceduto il suo suicidio - tutto fino all'atto dell'afferrare la lama - tutto ciò era stato compiuto da una persona non illuminata.  Il suicidio di Channa non può quindi essere preso come un precedente valido per gli arahat per la semplice ragione che lui stesso non lo era fino a dopo ch'ebbe portato a termine l'atto di suicidarsi.

  Quinto e ultimo: il suicidio è ripetutamente condannato nelle fonti canoniche e non canoniche e va direttamente "contro la corrente" degli insegnamenti morali buddhisti.  Un elenco di motivi per i quali il suicidio è sbagliato si può trovare nei testi, anche se non è sviluppata nessuna obiezione di principio contro il suicidio.  Questa non è una cosa facile da farsi, Schopenhauer non aveva completamente torto nel dichiarare che le motivazioni morali contro il suicidio "risiedano nel più profondo [dell'animo] e non sono scalfiti dall'etica ordinaria".  In precedenza ho affermato come la critica del suicidio quale "radice del male", ossia che il suicidio sia sbagliato a causa della presenza del desiderio o dell'avversione, sia insoddisfacente in quanto conducente verso il soggettivismo.  L'obiezione più profonda al suicidio mi sembra non si possa trovare in uno stato emotivo dell' agente, piuttosto trovo sia da ricercare in una qualche caratteristica intrinseca dell'atto del suicidio che lo renda moralmente sbagliato.  Credo, tuttavia, che ci sia una maniera di conciliare i due modi di affrontare la questione.  Per farlo sarà necessario riconoscere l'erroneità del suicidio come risiedente nell'illusione (moha) piuttosto che nelle "radici" emotive del desiderio e dell'odio.

  Considerato su queste basi il suicidio è da ritenersi sbagliato in quanto costituente un atto irrazionale.  Questo non significa che è attuato [solo] quando l'equilibrio della mente è alterato, ma che è incoerente nel contesto degli insegnamenti buddhisti.  E questo è da intendersi nel senso di essere contrario ai valori fondamentali buddhisti.  Quello che per il buddhismo ha valore non è la morte, ma la vita.  Il buddhismo vede la morte come un' imperfezione, un difetto della condizione umana, una cosa che dev'essere superata piuttosto che ricercata.  La morte compare nella prima nobile verità come uno degli aspetti primari della sofferenza (dukkha-dukkha).  Una persona che opti per la morte credendola una soluzione alla sofferenza dimostra un'incomprensione fondamentale della prima nobile verità.  La prima nobile verità insegna che la morte è il problema, non la soluzione.  Il fatto che la persona che commette il suicidio rinascerà e vivrà di nuovo non è importante.  La cosa più rilevante [del suo gesto] è che con l'esaltare la morte egli abbia, nel suo cuore, abbracciato Māra.  Da un punto di vista buddhista questo è chiaramente irrazionale.  Potendo quindi considerare il suicidio [un atto] irrazionale, sotto questo punto di vista si può sostenere che ci siano basi oggettive perché sia considerato moralmente sbagliato (dal punto di vista buddhista nota d.Sari)..
Trad. di Alessandro Selli
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

bobmax

@Sariputra
 
Condivido molte delle valutazioni che fai nei tuoi interventi.
Vi avverto lo slancio etico.
 
Vi è molto che "non va per il giusto verso" nel mondo.
E' quindi importante denunciare il male che è diffuso un po' dovunque.
 
Tuttavia, a mio avviso, dovremmo sempre tenere viva, nel profondo del nostro cuore, la fede nella Verità.

Che è fede nel Bene assoluto.
Fede assurda, nel nostro mondo, ma indispensabile.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

bobmax

No, Eutidemo, senza andare a scomodare tesi, antitesi e compagnia bella, il significato di "sintesi" è molto semplice.
La sintesi è il movimento opposto all'analisi. Prende le parti scaturite dall'analisi per giungere ad una conclusione unitaria.

Quindi la sintesi tende all'Uno tanto per essere chiari.
 
Altro che riassunto... Ma appunto, il riassunto è lo fa chi considera essenziale la distinzione.
 
Riguardo al razionale, riporto la tua frase:

[chiedersi se l'Universo sia "razionale" ovvero "irrazionale" (di per sè ed a livello fenomenico), per me equivale a chiedersi  se l'Universo sia "diarroico" ovvero "stitico".   "It does not make sense!]
 
dove l'inconciliabilità mi sembra ben affermata...
 
Vorrei pure notare come il Nulla non sia una certezza, ma la necessaria conclusione (sintesi) a cui il pensiero logico/razionale perviene analizzando il mondo.
Le certezze sono altre, e consistono sempre nel dare per scontate "verità" che Verità non sono.
 
Noto una qual crescente irritazione.
Il che è naturale, perché l'illusione dell'io fa di tutto pur di non svanire.
 
Ma intanto forse un lieve sospetto si è insinuato...
 
Insistere sarebbe però solo controproducente.
Mi fermo qui.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Sariputra

Sappiamo che è sempre molto difficile conciliare l'etica con tutte le variabili della vita concreta. Per questo, come giustamente ha scritto anche Eutidemo, bisogna prestare attenzione ad ogni singolo caso e "osservarlo" alla luce dell'etica in cui si ripone il proprio giudizio. L'etica dovrebbe essere una cosa che indirizza il comportamento e le scelte, ma non una sorta di imposizione esterna. Nel Buddhsimo, per ritornare all'argomento del mio precedente post, pur nell'oggettiva difficoltà interpretativa di testi così antichi, si manifesta questa difficoltà. Abbiamo così il monaco che, sopraffatto dalla sofferenza, decide di por fine alla vita ritenendo che la pratica gli permetta di morire senza alcun residuo kammico (cioè senza rinascere..).La sofferenza è tale che il Buddha stesso, pur non ammettendo il gesto in sè (l'uso dell'arma), e conoscendo la virtù palesata in vita da quest'uomo, "certifica" per così dire la sua dipartita "senza residuo kammico" . Channa era o non era illuminato ? Non possiamo saperlo con certezza, pertanto non si devono tirare conclusiosi affrettate dicendo: "Il Buddha ha sdoganato il suicidio". Diversissimo il caso del samurai che fa seppuku. Le motivazioni infatti sono del tutto mondane: l'onore, l'orgoglio, la vergogna, ecc. Ma ovviamente l'uomo piega l'etica alla cultura in cui vive e per un guerriero 'perdere' è umiliante. ...Qui sì si vede l'orgoglioso "Io" in piena attività, con tutta evidenza...
Il non riuscire più a sopportare il peso della sofferenza e finire per cedere sotto questo fardello è ben diverso da una morte dimostrativa piena di sé, ovviamente...
In queste ( e altre) grandi differenze sta tutta la difficoltà di conciliare i principi con il vissuto particolare, con l'unicità di ogni singola esistenza. Questo significa che dobbiamo rinunciare ai principi? No, a parer mio, significa che ognuno è chiamato a conciliare questi principi col proprio mestiere di vivere. E non è semplice...
Un tempo ci fu uno che disse che il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato. Ed è vero...ma se non ci fosse alcun sabato quando potrebbe 'riposare' l'uomo?
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Ipazia

Citazione di: bobmax il 09 Ottobre 2019, 14:56:25 PM
Il concetto dell'io non è originario, non fa parte del nostro esserci originario. Ma deriva dalla nostra interpretazione dell'esserci.

Ciò che è originario è l'altro.
L'altro appare, c'è, ed essendoci fa in modo che io ci sia.
Se l'altro non ci fosse, io non ci sarei.

L'io compare quindi come un riflesso di ciò che c'è

Perché c'è soltanto l'altro! Non solo fisicamente (pure il mio corpo è altro) ma anche i pensieri, i sentimenti, anche gli incubi...
Sempre e solo altro.

Metafisicamente può anche funzionare così. Logicamente un po' meno: potrebbe essere, cartesianamente, ciò che c'è un riflesso dell'io, della res cogitans. Non abbiamo una logica che a priori ci dica qual'è la logica vera, la Verità. Il mondo è una nostra rappresentazione mentale su basi sensoriali e la conferma ci viene da altre menti che condividono il nostro esserci e la nostra sensorialità. La quale ci riconferma continuamente nella nostra identità autocosciente ogni volta che a sentire il bruciore della fiamma sono io e non un "altro". Esperienza in-mediata, difficilmente esorcizzabile anche se sono convinto che ciò che si scotta è un "altro" che non ha nulla da spartire col mio io, inteso come id-entità autocosciente. Il quale, non esistendo, non dovrebbe sentire alcun bruciore.

Perchè la tua logica sia vera bisognerebbe che fosse davvero un altro a scottarsi. Solo allora potrei intendere il m-io corpo come "altro". Nè si va lontano affermando che per eliminare il dolore basta eliminare la sensibilità nervosa perchè i danni poi sono a carico del m-io corpo e non mi è di consolazione alcuna pensare che il rapporto tra la mente-io e il m-io corpo è illusoria.

Citazione
Poiché nel gioco della vita l'altro diviene, magari seguendo pure quella che appare essere la nostra volontà, ci convinciamo di essere un "io" capace di influire sull'altro.
Nel senso di poter determinare, seppur con delle limitazioni, il divenire dell'altro.

Alzo una mano, e sono convinto che avrei potuto non alzarla. Perché seppure l'altro diviene principalmente per i fatti suoi, un certo potere comunque ce l'ho, il potere dell'io!

Così l'io, che era solo un concetto derivato dall'esserci, diventa invece la "premessa" della nostra interpretazione della realtà!
L'io è così non solo oggettivo, ma pure incausato, senza nulla che lo fondi. In una parola... assoluto!
Mentre è solo un riflesso...

Un riflesso di cui la logica, nella sua analisi del mondo, può fare tranquillamente a meno...

L'io non è un concetto derivato dall'esserci, ma il dispositivo che permette all'esserci di rendersene conto e di provvedere ai suoi bisogni. Il combinato disposto dei due referenti concettuali permette di interpretare la realtà. La causazione è del tutto naturale come insegnanono la biologia e la psicologia dell'età evolutiva. Che in ciò ci sia pure della riflessione lo dice anche il nome del forum. Una riflessione di cui, forse, si può tranquillamente fare a meno. Ma anche no.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

bobmax

@Ipazia

Eh, sì, sento dolore, perché è il mio dito che brucia...
Ma la non esistenza dell'io non implica il mio non esserci.
Perché ci sono! E vivo e soffro tutto quello che avviene sulla mia pelle.
Non è questo ad essere messo in discussione.

È infatti il significato di questo stesso esserci, di questa stessa vita, a cambiare radicalmente prospettiva!

Perché mi ritrovo ad essere spettatore. Che è immerso totalmente nella storia che sta vivendo, godendone i piaceri e soffrendone i dispiaceri. Ma solo in quanto spettatore!
Che assiste ad una commedia divina.

Così come alla visione di un film mi emoziono e patisco le disavventure dei protagonisti, allo stesso modo, vivendo in questo caso la storia in prima persona e con maggior vividezza, assisto allo svolgersi di questa mia vita.

Una vita che si svolge davanti a me, senza che io possa influire minimamente in ciò che vi viene rappresentato.
Perché pure il "mio" volere è iscritto anch'esso nel copione che deve essere recitato.

E allora, una volta afferrato questo, godiamoci lo spettacolo!

(Anche questa presa di coscienza non dipende da me, fa anch'essa parte della storia)
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Ipazia

Psicologicamente regge. Metafisicamente pure, ma con una importante limitazione: il palco da cui assisto allo spettacolo sono io. E pure l'attore con cui mi identifico giorno e notte. Chiunque sia il regista, è un dettaglio non trascurabile. Superabile solo narrativamente. Fino al giorno della mia morte in cui cadrà l'ultimo velo di questa narrazione.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Eutidemo

Ciao Sariputra. :)
Nessuna interpretazione errata: il testo buddista che ho riportato è chiaro e non necessita di interpretazione alcuna, in quanto ammette apertamente il suicidio!
Se poi ci sono altri testi, che, secondo diverse interpretazioni, non lo ammettono, al massimo si può dire che l'esegesi e controversa.
Ma dire che il Budda ha "esplicitamente" ed "incontrovertibilmente" proibito il suicidio, è assolutamente FALSO; come ho detto, al massimo si può dire che l'esegesi e controversa...e ciascuno può scegliere quella che preferisce.
Punto.
Un saluto! :)

Eutidemo

#69
Ciao Bob :)
Ripeto che ti sbagli, in quanto, per "sintesi", nella lingua italiana, si può intendere:
- o il semplice riassunto di un testo più ampio (come si diceva nella scuola elementare);
- ovvero l'accordo fra tesi ed antitesi, secondo Hegel (come si diceva nel Liceo).
Punto! ;)
Tu fai confusione tra concetti diversi, come già ti ho spiegato; eppure mi sembra una distinzione ovvia, che nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione.
Ecco, per esempio, questa è una "sintesi" di quello che ho scritto la volta scorsa; ed in questo non c'è niente di "metafisico!"

***
Per il resto ormai ho compreso che tu sei buddista (come Sariputra), per cui, pur non citandole, non fai altro che ripetere le teorie:
- dell'ANATTA, che è una parola composta dal prefisso privativo "a" o "ana" (in greco "alpha steritikon") e dal termine "atman", traducibile come "io", "personalità individuale" e simili, la cui esistenza tu, appunto, neghi.
- del SUNYATA, ovvero della vacuità dell'intima natura dei fenomeni o dharma.
Entrambi i concetti, peraltro, vengano diversamente interpretati dalle varie scuole buddiste (Theravāda,  Prajñāpāramitāsūtra, Mahāyāna Madhyamaka, Cittamātra, Chán, Zen,  Vajrayana, almeno stando a quelle che mi ricordo), ma non sono abbastanza addentro al buddismo da capire a quale corrente appartieni tu!

***
Io, invece, come già avevo scritto, propendo per l'Advaita Vedanta, secondo la dottrina di Shankara, che è probabilmente la più conosciuta fra tutte le scuole Vedānta della religione Induista; letteralmente il termine Advaita significa "non duale", ma viene anche utilizzato per indicare il sistema monistico su cui si fonda il principio dell'indivisibilità del Sé o Ātman dall'Unità (Brahman).

***
Per cui, è inutile che continuiamo a contrapporci le due dette visioni (sebbene, secondo me, non siano poi così distanti come alcuni pensano), in quanto, non trattandosi di cose verificabili, nessuno di noi due può pretendere che la sua sia vera e l'altra falsa. ;)

***
Comunque, l'una nè l'altra c'entrano ben poco con il mio Topic! ::)

***
Un saluto! :)

P.S.

Poi, comunque, mi spieghi come sia possibile che la non esistenza del tuo io non implichi il tuo non esserci, perché ci sei!

Però forse ho capito: è un  un "koan" zen; che, spesso, si fonda appunto sul "nonsense"! ;)

Sariputra

#70
Non solo l'esegesi ma anche la prassi millenaria buddhista è contraria al suicidio (e sempre e solo degli "illuminati" perché per i non illuminati la questione non si pone...) e quindi, mi dispiace, ma è assolutamente errato affermare che il Buddhismo ammetta apertamente il suicidio. Questo anche se non ci sono passi in cui il fondatore sia esplicito al riguardo. Sarebbe come affermare che l'Ebraismo ammette che i bambini dei nemici possono venire sfracellati contro le rocce perchè questo è presente in un salmo antichissimo...
E' molto più importante in casi come questi in cui non abbiamo o non sono pervenuti testi chiari al riguardo, o sono presenti testi controversi, la riflessione che consegue ad una linea logica sulla dottrina stessa. Che è quello che si fa naturalmente, e si è fatto nel corso dei secoli, nell'approfondimento nei vari commentari, del significato dei testi nel Sangha buddhista stesso (comunità monacale)...Tenendo naturalmente conto anche che, come sicuramente sai, non esiste " IL " Buddhismo (termine coniato dagli occidentali...)ma una serie numerosa di scuole con ampie differenze dottrinali (come tra lo zen e il lamaismo, per es.). Personalmente mi rifaccio più alla cosiddetta Scuola degli Anziani o dei Nikaya che prende spunto dal Canone Pali che è la raccolta più antica di testi buddhisti e che ritengo la più vicina all'insegnamento originale (anche se, tra gli stessi studiosi , non c'è unanimità su questo punto..).
saluti

P.S. Non c'entra niente con la discussione, ma sentivo ieri per radio che un notissimo cantante "si è avvicinato molto" al Buddhsimo (non ricordo più il nome, data la mia poca conoscenza del mondo musicale giovanile...). E' interessante interrogarsi sui motivi di questa propensione attuale di molti occidentali verso il B. nel mentre c'è un calo generalizzato di interesse verso il Cristianesimo (almeno nei paesi occidentali ricchi..). E qui, ahimè, sono particolarmente critico perché un'errata interpretazione di questa dottrina, anche da parte di molti 'maestri' , presenta il B. come una religione in cui l'etica è meno vincolante (cosa graditissima a noi occidentali nichilisti e soggettivisti) e quindi più 'tollerante' verso comportamenti di vita non propriamente 'etici'. Naturalmente è una interpretazione errata. L'etica nel B. è più importante che non nel Cristianesimo, per fare un esempio. Non esistono "grazia" e "perdono" nella visione karmica buddhista (a parte naturalmente in quelle scuole che hanno deificato Siddhartha...)... :(
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

bobmax

Mi sa proprio che non sia io a sbagliarmi, Eutidemo.
"Sintesi" ha un sacco di significati diversi, oltre ai due da te descritti. Ma il suo significato di base è proprio la sua contrapposizione all'analisi: dalle parti giungere all'unità.
Basta consultare un dizionario...
Comunque ci siamo intesi, l'etimologia alla fin fine diventa un intralcio.
 
Non mi considero Buddista, perché anche in esso vi sono troppe "verità" da accettare.
 
Tu ritieni di propendere per il non-dualismo. Ma nei tuoi discorsi predomina la distinzione. Il tuo perciò è un approccio analitico. Che molto apprezzo, tra l'altro, per la tua attenta lucidità.
 
L'analisi è stata tra le mie attività professionali la preferita, e molte soddisfazioni mi ha dato. Tuttavia l'analisi è solo la fase necessaria e preparatoria che porta alla sintesi. La quale, se l'analisi è stata fatta bene, è quasi automatica.
 
Quasi, però, perché nella sintesi deve necessariamente intervenire quel "quid" in più.
E' come un salto, che prende la sua spinta da ciò che si è conosciuto nell'analisi, ma poi ci si muove soli, senza rete...
 
***

Lo so che ti faccio soffrire, dicendoti che il tuo sapere ti è d'intralcio, ma ne sono convinto.
E te lo dico perché ho colto in te tante volte la compassione e l'insoddisfazione per come va il mondo. Questa tua compassione non ha nulla a che fare con la tua erudizione. E' anch'essa un salto, nel vuoto.
 
****
 
Non vi può essere nessuna autentica dottrina sulla non dualità. Perché indottrinare qualcuno riguardo al non duale sarebbe un'assurdità. Non vi è infatti nessuno. E' solo una voce che grida nel deserto.
Ed è lo stesso deserto a gridare, non vi è nessun'altro.
 
Ricordi il discorso sul soffrire e sul ridere, senza che vi sia nessuno che soffra o che rida?
 
Tu pretendevi vi fosse il soggetto! Che ride o che soffre.
Se no, che senso ha?
Infatti, allo stadio dell'analisi non ha senso.
 
E invece... vi è solo il ridere e il soffrire...
E a questo si giunge con la sintesi.
Perché la sintesi, nel suo salto nel vuoto, scarta ciò che dell'analisi è ormai inutile. Per cogliere l'essenza!
 
***
 
Riguardo al mio esserci pur in assenza di un io, qui mi trovo in maggior difficoltà per via del linguaggio.
 
Il linguaggio infatti deriva dalla stessa oggettività in sé. Quindi è frutto della "distinzione". D'altronde non potrebbe essere altrimenti...
 
Perché "ci sono" dà per sottinteso che "io" ci sono.
 
E' per questo motivo che ho cercato tempo fa di fare una distinzione tra "esserci" e "esistenza", seguendo l'impostazione di Jaspers.
 
Intendendo con "esserci" questo nostro mondo immanente dove domina l'oggettività in sé, composta da enti distinti, molteplice.
 
Mentre con "esistenza" intendere invece l'autentica realtà che prescinde dall'oggettività in sé, ossia mettere in secondo piano gli enti, per concentrarsi su cosa "davvero" esiste.
E ciò che esiste è la comunicazione. Comunicazione pura, che prescinde dagli attori della comunicazione stessa!
Perché di questo, e solo di questo, abbiamo contezza che esista davvero.
Anche se questa visione risulta davvero assurda dal punto di vista dell'esserci, dove cioè sono gli enti a dare significato al mondo.
 
Di modo che, "ci sono" in quanto esserci, ma "non esisto" in quanto esistenza. Perché l'esistenza, ossia la comunicazione, prescinde da me, da me che ci sono.
 
Non so se sono riuscito a rendere l'idea. Sono due stati, due interpretazioni della nostra realtà.
 
Il primo, l'esserci, è quello usuale, ma errato.
 
Il secondo, l'esistenza, si "avvicina" alla Verità.
 
(Si avvicina, perché toglie via inutili orpelli, che poi ci si avvicini davvero è un atto di fede...)
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

bobmax

Citazione di: Ipazia il 10 Ottobre 2019, 10:48:39 AM
Psicologicamente regge. Metafisicamente pure, ma con una importante limitazione: il palco da cui assisto allo spettacolo sono io. E pure l'attore con cui mi identifico giorno e notte. Chiunque sia il regista, è un dettaglio non trascurabile. Superabile solo narrativamente. Fino al giorno della mia morte in cui cadrà l'ultimo velo di questa narrazione.

Sì, forse con la mia morte cadrà l'ultimo velo.

Tuttavia può capitare in vita di ritrovarsi all'improvviso a vedere.

Come in Nietzsche:

"Egli non vuole niente, non si preoccupa di niente, il suo cuore è fermo, solo il suo occhio vive,  è una morte a occhi aperti.
Molte cose vede allora l'uomo, che non aveva mai viste, e fin dove giunge lo sguardo tutto è avvolto da una rete di luce e per così dire sepolto in essa."
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Eutidemo

Ciao Bob. :)
Hai ragione, lasciamo perdere la semantica, in quanto, effettivamente, "sintesi" ha un sacco di significati diversi, oltre a quelli descritti da noi due.
L'unico che non accetto, è l'equivalente di "minestrone", in quanto, a mio avviso:
- è perfettamente legittimo, come scrivi tu, intendere la "sintesi" come quella procedura che serve per giungere dalle parti all'unità;
- non è invece legittimo intendere la "sintesi" come quella procedura che serve mescolare tra loro cose che non hanno niente a che vedere le une con le altre (cioè, "fare di tutte le erbe un fascio").
Quella io la chiamo "caciara", per distinguere un coro da uno schiamazzo.

***
Prendo atto che tu non ti consideri Buddista, perché anche nel Buddismo ci sono troppe "verità" da accettare; sul che sono perfettamente d'accordo anche io.
Però alcune tue concezioni sono molto simili a quelle buddiste; nella qual cosa non c'è niente di male.

***
Quanto a me, anche io non mi considero Vedantino, perché pure nell'Advaita Vedanta ci sono troppe "verità" da accettare; però alcune mie  concezioni sono molto simili a quelle Vedanta (e a quelle mistiche Cristiane).
Ed anche in questo non c'è niente di male.


***
Io propendo per il non-dualismo a livello "noumenico"; ma, ovviamente, nei miei discorsi (ed anche nei tuoi ed in quelli di chiunque) predomina necessariamente la distinzione e il dualismo, perchè i nostri "IO" a livello "fenomenico" possono esprimersi soltanto in modo analitico e duale.

***
Mi rendo conto che è una cosa difficile da spiegare, se non con analogie del tutto inadeguate;  ad esempio, potrei dire che io "distinguo" il mio "IO" che sogna (il quale può essere anche una persona diversa da me), dal mio "IO" da sveglio, ma, ovviamente, sono perfettamente consapevole che siamo "sostanzialmente" la stessa cosa.
Lo stesso dicasi del mio "IO" da sveglio, finchè il mio corpo vive, ed il "SE'" in cui lui si ridesterà dopo morto; quella sì che è la REALTA' monistica che costituisce la "trama" dell'ESSERE, mentre quella fenomenica ne è soltanto l'"ordito".
Se vogliamo, possiamo anche chiamarla "SINTESI"; ma secondo me sarebbe un uso inappropriato del termine, perchè la sintesi richiede l'esistenza di "parti", benchè omogenee, mentre per me l'ESSERE ASSOLUTO è "privo di parti", sebbene, a livello "fenomenico", si manifesti in modo "plurale".
Sarebbe come voler definire il mare una "sintesi" delle onde.

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Poichè io ho approcciato il tema del suicidio a livello "fenomenico", il mio non poteva che essere un approccio analitico; altrimenti, considerando le "onde" solo in quanto "mare", è ovvio che non avrebbe avuto senso parlare di suicidio.
Si nasce e si muore "uti singuli", ma "sub specie aeternitatis" nessuno nasce e nessuno muore!

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Non mi fai affatto soffrire, dicendomi che il mio sapere mi è d'intralcio, perchè ne sono convinto io per primo.
Ed infatti, dal mio libro preferito in assoluto, cioè ""L'IMITAZIONE DI CRISTO", scritto (sembra) da Tommaso da Kempis, ho estrapolato questa frase, e l'ho incollata sullo specchio del bagno:
"Non volerti gonfiare, dunque, per alcuna arte o scienza, che tu possegga, ma piuttosto abbi timore del sapere che ti è dato; ed infatti, anche se ti pare di sapere molte cose, ed anche se hai buona intelligenza, ricordati che sono molte di più le cose che non sai."


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Riguardo al "tuo esserci pur in assenza di un io", comprendo perfettamente la tua difficoltà per via del linguaggio, che, come scrivevo sopra, è anche la mia; ed infatti, anche io penso, come scrivi tu, che "Il linguaggio è frutto della "distinzione" e d'altronde non potrebbe essere altrimenti".
Ed invero, dire "ci sono", più che darlo  per sottinteso, equivale esattamente a dire che "io" ci sono; perchè la prima persona presente di un verbo, implica "intrinsecamente" e "logicamente" il soggetto "io", e non si limita a meramente "sottintenderlo".
E' la stessa cosa!
Tanto è vero che, stilisticamente, precisare "io" viene da molti autori considerato sconveniente, in quanto ridondante e "superfluo" (laddove, ovviamente, non ci sia la possibilità di confonderlo con la terza persona plurale)!

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Quanto al fatto che "non vi può essere nessuna autentica dottrina sulla non dualità, perché indottrinare qualcuno riguardo al non duale sarebbe un'assurdità", secondo me, allora, si può a maggior ragione sostenere che non vi può essere nessuna autentica dottrina sulla non esistenza dell'io, perché indottrinare qualcuno riguardo al fatto che lui non esiste, è un'assurdità ancora più grande. ;)
Una dottrina sulla non dualità a livello "noumenico", se impartita a livello "fenomenico", ha invece un senso; perchè ammette l'esistenza dell'IO individuale nel mondo fisico.

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Quanto al discorso sul soffrire e sul ridere, senza che vi sia nessuno che soffra o che rida, non solo non ha senso allo stadio dell'"analisi", ma non ce l'ha neanche a livello della "sintesi".
Ed infatti, se come scrivi tu (e su cui sono d'accordo), si può intendere per "sintesi" anche quella procedura che serve per giungere dalle parti all'unità, se le parti non esistono, come tu sostieni, non può neanche trarsene una sintesi.
Ed infatti, sintesi di cosa?

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Tu cerchi di spiegarlo dicendo: "Vi è solo il ridere e il soffrire...e a questo si giunge con la sintesi."
Ripeto, la sintesi di cosa?

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Dire che "la sintesi, nel suo salto nel vuoto, scarta ciò che dell'analisi è ormai inutile, per cogliere l'essenza", per me è una proposizione priva di senso; cioè, vuota e senza significato!
Può suonare bene "poeticamente", come dire che "l'amore, nel suo salto nel vuoto, scarta ciò che dell'amore è ormai inutile, per cogliere l'essenza", ma che non ha senso logico alcuno.
Comunque riconosco che è un ottimo espediente dialettico, perchè una affermazione senza senso non è confutabile in alcun modo. :D

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Lo stesso vale per altre tue singolari formulazioni, tipo che "esiste solo la comunicazione, a prescindere dagli attori della comunicazione stessa", ovvero "di  modo che, "ci sono" in quanto esserci, ma "non esisto" in quanto esistenza, erché l'esistenza, ossia la comunicazione, prescinde da me, da me che ci sono."
Tu ti chiedi se sei riuscito a rendere l'idea?
Assolutamente NO, mi dispiace! ::)

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Un saluto!  :)

bobmax

Ciao Eutidemo,
vedi come distingui tra "noumenico" e "fenomenico"?
Dai così per implicito che vi siano due realtà!
 
Il tuo non-dualismo, che limiti al "noumenico", è così fallace dall'inizio.
Vuoi salvare capre e cavoli, ma così facendo le capre se li mangiano i cavoli...
E il fenomenico finisce per prevalere sul noumenico, inevitabilmente.
 
Il noumenico diventa una speranza che non ha però alcun fondamento.
Ti ritrovi con un non-dualismo astratto, immaginato, e in ultima "analisi" impossibile.

Difatti la realtà è una!
E invece postuli che le realtà siano due, come quando dici:
 
[Si nasce e si muore "uti singuli", ma "sub specie aeternitatis" nessuno nasce e nessuno muore!]
 
Poco importa se vuoi credere che l'Essere assoluto sia privo di parti, perché per te le parti esistono, eccome!
 
Se questa non è una contraddizione...
 
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La frase che hai incollato sullo specchio del bagno non fa che confermare la mia idea. Riguardo alla sofferenza che deriva dal constatare l'inutilità (o almeno l'inessenzialità) dell'erudizione nella ricerca della Verità.
Per due motivi principali:
 
Per prima cosa perché questa frase è un invito alla modestia. Modestia autentica, concreta, ma pur sempre modestia. Mentre il "Sapere di non sapere" non ha nulla a che fare con la modestia, anzi! E' la constatazione dell'impossibilità del conoscere per davvero qualcosa. Se vogliamo può essere considerato, seppur paradossalmente, il culmine della presunzione: "So di non sapere un bel niente!"
 
Ed inoltre, perché il fatto stesso di metterla in bella mostra, di fronte a te ogni mattina che ti radi, dimostra il bisogno di riconfermarla ogni volta. Questo bisogno non può che derivare dal timore di non aver fatto ancora tuo ciò che c'è scritto.
Un po' come chi reitera a se stesso i 10 comandamenti: ha il timore di infrangerli? O i crocefissi messi in ogni angolo della casa: non si crede abbastanza?
 
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L'assurdità sull'indottrinamento sulla non-dualità non riguarda la non-dualità! Ma l'indottrinamento!
Perché non vi può essere una "dottrina" riguardo alla non-dualità.
Vi può essere solo una constatazione. Occorre viverla.
E ciò può avvenire anche alla conclusione di un processo di ricerca (evito "sintesi" perché questo termine causa tra noi dei malintesi).
 
Se ti capitasse di avvertire davvero la non-dualità, e non soltanto per sentito dire, o per aver letto qualcosa, potresti verificare che una dottrina a riguardo è impossibile. Perché non c'è nessuno da indottrinare!
 
Chi ne parla, o ci gira attorno senza mai poterla cogliere davvero, oppure cerca, conscio di ciò che pure ha sperimentato (ma non di sua volontà), il nulla in tutte le cose dell'esserci.
 
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[Ed infatti, se come scrivi tu (e su cui sono d'accordo), si può intendere per "sintesi" anche quella procedura che serve per giungere dalle parti all'unità, se le parti non esistono, come tu sostieni, non può neanche trarsene una sintesi.
Ed infatti, sintesi di cosa?]
 
Intendendo con "sintesi" "conclusione", tanto per evitare ulteriori malintesi, la vedi l'assurdità della tua domanda?
La non esistenza delle parti è il frutto dell'analisi, che affrontando l'oggettività in sé scopre che non vi è niente di oggettivo, né di separato.
Ma per te il noumeno se ne sta nell'iperuranio, mentre tu te ne stai qui! Nell'esserci!
E pure il Sé per te esiste, ma non qui...
 
Chiedersi "sintesi di cosa?" mostra proprio con quel "cosa" il vincolo che hai con l'esserci, che per te è assoluto!
 
 [Dire che "la sintesi, nel suo salto nel vuoto, scarta ciò che dell'analisi è ormai inutile, per cogliere l'essenza", per me è una proposizione priva di senso; cioè, vuotae senza significato!]
 
Certamente è per te senza significato.
Perché sei ancorato all'esserci, all'oggettività in sé.
Non vi è alcuna percezione dell'Uno nel tuo pensiero.
Ne puoi parlare, magari dichiari pure l'assolutezza del Sé, ma tanto per dire.

In quanto poi al "minestrone" e alla "caciara" hai senz'altro ragione, dal tuo punto di vista. Di chi appunto non si schioda dall'esserci.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

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