DEL SUICIDIO (assistito e non)

Aperto da Eutidemo, 12 Marzo 2017, 12:49:20 PM

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Eutidemo

E' quasi inutile premettere che, quello del suicidio (assistito e non), è un tema molto delicato e complesso, che coinvolge molti aspetti, dei quali non tutti possono essere approfonditamente trattati in questa sede.
Comunque, in estrema sintesi, secondo me la questione può -e deve- essere principalmente esaminata sotto il profilo "etico-religioso" e sotto quello "filosofico-razionale"; nonchè, in sede di corollario, anche sotto quello "giuridico" (soprattutto per quanto concerne il suicidio assistito).
Ma, ovviamente, si tratta solo di "riduzionismi" non del tutto acconci, sebbene resi necessari da una trattazione sintetica delle inerenti problematiche; ed infatti, occorrere anche considerare quelle sociali, giuridiche ecc., in quanto il suicidio non è un fatto meramente individuale (soprattutto quello assistito).
Comunque, cercherò di fare del mio meglio, chiedendo preventivamente venia per la mia inadeguatezza.
***
ASPETTI ETICI E RELIGIOSI
Anche in tale ambito, il tema potrebbe essere approcciato da varie prospettive, perchè, sul nostro pianeta, di religioni e di morali ce ne sono tante: "Cuius regio, eius et religio" (intendendo il motto in un senso un po' più ampio, di quello della Pace di Augusta del 1555).
Ad ogni modo, per non disperdermi troppo, mi limiterò alla religione cristiana.
Al riguardo, in effetti, in nessun punto del Vangelo (e della Bibbia in generale, se non mi sbaglio) è espressamente proibito il "suicidio" in quanto tale, nè è considerato "peccato"; il suicidio di Giuda, infatti, viene deprecato non tanto in sè e per sè, ma perchè -suicidandosi- Giuda manifestò di non  credere che Gesù lo avrebbe perdonato per il suo tradimento (come invece fece Pietro, che anche lui lo aveva tradito).
Semmai, mediatamente, il divieto di suicidio dovrebbe intendersi implicito nel 5° Comandamento ( «Non uccidere»); e qui il discorso, secondo me, comincia a farsi interessante.
Ed infatti, citando Matteo 22,35-40: "... uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova:  «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?» E Gesù rispose: «"Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". Questo è il grande e il primo comandamento.  Il secondo, simile a questo, è: "Ama il tuo prossimo come te stesso". Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti»."
Non so se qualcuno si è accorto che, in sostanza, Gesù, così dicendo, anticipa la distinzione che Emanuele Kant faceva tra "imperativi ipotetici" ed "imperativi categorici": i primi, in sostanza,   possono tradursi in "se vuoi A devi fare B" , i secondi in "è A che devi comunque perseguire, a prescindere da B".
Secondo la mia interpretazione della Bibbia, quindi:
- i dieci comandamenti debbono considerarsi soltanto "imperativi ipotetici" (prescrizionali);
- i due comandamenti di Gesù, invece, costituiscono i soli veri "imperativi categorici" alla realizzazione dei quali i primi sono meramente strumentali.
"Ama e fai ciò che vuoi" è una delle frasi più celebri di sant'Agostino, ispirata da San Paolo.
In effetti, anche la Chiesa Cattolica (sia pure non espressamente) aderisce a questa mia esegesi.
Al riguardo, ad esempio, ricordo soltanto la dottrina cattolica sul "Tirannicidio"; la quale, sotto tale aspetto, ritenne -e tutt'ora ritiene- l'"omicidio" addirittura un "punto in più" per guadagnarsi il Paradiso, nel caso in cui esso sia "strumentale" per ottenere un bene superiore.
Solo per citare  il più illustre teologo cattolico, Tommaso d'Aquino, costui, nel "commento alle Sentenze di Pietro Lombardo" non considera affatto peccato, bensì eccellente merito, quello di "...colui che libera il suo Paese uccidendo un tiranno."; non a caso Stauffenberg, che tentò invano di uccidere Hitler, era un fervente cattolico.
Se ne desume, quindi, che, il V comandamento (non uccidere), non costituisce affatto un imperativo "categorico", bensì uno meramente "ipotetico"; e lo stesso vale per il "suicidio", come il meno sta al più.
Al riguardo, infatti, riferirò un aneddoto, vissuto personalmente da mio nonno nella prima guerra mondiale; un suo commilitone si gettò su una granata lanciata dagli Austriaci nel loro nido di mitragliatrici, facendone scudo col suo corpo, al fine di evitare che, esplodendo, essa potesse uccidere o ferire i suoi compagni.
Tecnicamente fu un "suicidio", perchè sia lui che mio nonno (che, a sua differenza, lo fece), si sarebbero comunque potuti salvare, abbassandosi sotto il rivellino retrostante l'affusto, mentre gli altri tre nella buca non avrebbero avuto alcuno scampo; ma non dubito affatto che quel generoso soldato, gettandosi suicidamente sulla bomba, sia andato dritto in Paradiso!
Ed infatti, Gesù disse pure:  " ....non esiste un amore così grande, come quello di chi dona la sua vita per salvare quella dei suoi amici"(Giovanni 15,13).
In altre parole, quello che conta non è l'atto in sè (omicidio, suicidio ecc.), bensì il contesto, le sue motivazioni, ed il modo e il fine per cui lo si compie!
Quello solo importa!
Premesso quanto sopra, ovviamente, questo non significa AFFATTO giustificare qualunque tipo di suicidio; ed infatti, a mio avviso tale atto può essere determinato anche da motivi, per così dire, non solo non meritori...ma addirittura disdicevoli.
Ad esempio, a mio parere, se un imprenditore, per evitare il presunto "disonore" derivante da un fallimento economico, oppure da una condanna penale, si toglie la vita, lasciando a piangerlo la moglie e dei figli ancora bambini, indubbiamente commette un atto assolutamente riprovevole e da condannare; cioè, religiosamente parlando, commette un vero "peccato".
Sebbene, sarà sempre Dio a giudicare al riguardo...non certo io (nè nessun altro).
Tra il "suicidio meritevole" (quello del soldato del mio esempio), e quello del "suicidio condannabile" (quello dell'imprenditore), esiste però una vastissima gamma di ipotesi diverse, che andrebbero valutate caso per caso.
Quello che qui intendevo evidenziare, come, in via di principio, l'atto del "suicidio" non sia "in sè e per sè" condannabile, neanche alla luce delle sacre scritture.
Ovviamente (sempre che uno ci creda) ciascuno può interpretarle come crede; anche la Chiesa, ovviamente.
Però mi sembra norma di elementare buon senso, e di  logica, non riconoscere alcun valore ad una procura, firmata dal solo procuratore (o sedicente tale); quale, appunto, è la Chiesa Cattolica, che ha lo stesso diritto di interpretare Bibbia e Vangelo di quello che ho io...fino a prova contraria.
Ma, questo, è un altro discorso!
***
ASPETTI FILOSOFICI
Sotto il profilo che io qui definisco, genericamente, "filosofico", secondo me, la questione è alquanto più chiara (se non più semplice); ed infatti ritengo che il suicidio sia l'atto più "razionale" che un essere pensante possa compiere (quantomeno in determinate circostanze).
Ed infatti, quello della morte, è un <<dies incertus "quando" et "quomodo"...sed certus "an">>.
Per cui, in effetti, si può scegliere se restare celibi o se sposarsi (una delle peggiori forme di suicidio, forse :-) ), ma non si può certo scegliere "se" vivere "se" o morire; si può solo scegliere, eventualmente, "quando" e "come" morire...oppure lasciar fare al caso!
Rispetto ad altre scelte, peraltro, quella vita/morte offre un notevole vantaggio.
Ed infatti, restando all'esempio del matrimonio, uno può scegliere se sposarsi o restare celibe per tutta la vita; ma, in entrambi i casi, può rimpiangere, in futuro, la scelta fatta.
Nel caso della scelta tra la morte e la vita, invece:
- si può rimpiangere amaramente di non essere morti per tempo (ad esempio, nel caso in cui un genitore sopravviva ai propri figli);
- ma non si può in nessun caso rimpiangere di essere morti, perchè viene a mancare il soggetto del verbo rimpiangere (cioè, chi ancora non è nato o è già morto, non è in grado di dolersi di nulla).
Per cui, "eudaimonisticamente" parlando, IN TEORIA, la scelta di morire è sempre più "logicamente" conveniente della scelta di vivere:
-   o perchè la vita è già attualmente fonte di sofferenza;
- oppure perchè, anche quando è attualmente fonte di gioia, la consapevolezza di poter perdere tale felicità da un momento all'altro, è anch'essa una forma di sofferenza.
Essendo morti, invece, non solo non si soffre più...ma non si può essere neanche in ansia per il rischio di soffrire (a volte, anche in modo straziante); sempre ovviamente, che si abbia sufficiente "immaginazione".
Non nego, infatti, che se si è abbastanza in salute, egoisti ed imbecilli, si può anche vivere abbastanza allegramente; però i primi due requisiti sono inutili, se manca il terzo.
:-)
Al riguardo, tanto per fare sfoggio di cultura, farò solo due citazioni:
"Ora dimmi, seguace di Dioniso, qual è la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo?", domandò il re Mida al Sileno, e questi, costretto dalla sua insistenza, con voce stridula gli rispose: "Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto".(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, pp. 31-32)
«Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti.» (Sofocle, Edipo a Colono).
Che allegroni...ma non avevano tutti i torti!
:-)
Ovviamente, qui andrebbe incidentalmente affrontato il tema della sopravvivenza dopo la morte, ma richieremmo di andare "off topics" e di allargare troppo il discorso.
Personalmente, non ho la benchè minima idea di cosa possa esserci dopo la morte (ovviamente), ma sono sicurissimo di quello che non può esserci.
Mi si dirà: "Ma non è la stessa cosa?"
No, per niente!
Ad esempio, io non non ho la benchè minima idea di cosa possa esserci sul terzo pianeta del sistema di Alpha Centauri (ovviamente), ma sono sicurissimo di quello che non può esserci; ad esempio, sono sicurissimo che non ci sia una pizzeria, come quella sotto casa mia (o, almeno, che faccia la pizza così buona).
O meglio, teoricamente potrebbe anche esserci...ma lo ritengo alquanto improbabile (per usare un cauto eufemismo).
Per quanto concerne la cosidetta sopravvivenza dell'anima, invece, pur essendo io convinto (sia pur senza prove), che essa sopravviva, in quanto riassorbita dal SE' universale come un onda nel mare, nego però recisamente che possa sopravvivere "sub specie" di mente e consapevolezza individuale; quest'ultima, infatti, è troppo connessa alla struttura neurale del singolo cervello, per poter sopravvivere alla sua distruzione, così come non è più possibile leggere un libro dopo averlo bruciato.
;-)
Cioè, se mi togliete la mia memoria (conservata nei relativi centri cerebrali), i miei desideri (attivati dall'apparato ormonale), e la mia capacità di ragionare (ubicata nei centri di Broca e Vernicke), mi sembra inevitabile che il mio IO INDIVIDUALE, cessi definitivamente di esistere.
Per esempio:
- sei anni fa mi fratturai una gamba, per cui, per un certo tempo non potei camminare; per inferenza, quindi, mi sembra logico desumere che, se le gambe me le avessero tagliate, non avrei camminato mai più.
- quattro anni fa, subii un'operazione alla testa con anestesia totale, per cui, per un certo tempo non potei nè pensare nè essere consapevole di esistere; per inferenza, quindi, mi sembra logico desumere che, se la testa me l'avessero tagliata del tutto, non avrei pensato mai più, nè più sarei stato consapevole del me stesso (individuale).
:-)
Il mio ragionamento, insomma, è molto simile a quello di Simmia riguardo alla lira, nel Fedone di Platone; ragionamento che, invero, venne abilmente controbattutto da Socrate, con argomentazioni che, sinceramente, ho sempre ritenuto del tutto sofistiche e inconsistenti (FEDONE XXXVI).
Per cui, sono più che ragionevolmente sicuro che non potrò mai dire, come Achille nell'ADE: "Sappi che piuttosto che il re dei morti preferirei essere l'ultimo servo dei vivi." (Odisseo agli inferi: 2014).
Ma è naturale che tutti -me compreso- non riescono inconsciamente ad "accettare" l'idea di dover "finire"; mentre, invece, sia a livello fisico che di coscienza individuale, la cosa è inevitabile, perchè TUTTO QUELLO CHE HA UN INIZIO DEVE AVERE NECESSARIAMENTE UNA FINE (non esiste un bastone che possa avere un'unica estremità).
Noi, però, non riusciamo inconsciamente ad "accettare" l'idea di dover "finire", perchè è il nostro stesso "cervello-rettile" (amigdala o sistema limbico in generale, che dir si voglia) che ce lo impedisce;  occorre un notevole sforzo razionale per rendersene conto.
Ed anche rendendosene conto, nessuno può suicidarsi smettendo di respirare!
:-)
Con questo non intendo certo sostenere che la cosa migliore sarebbe quella di suicidarci im massa (cosa che, peraltro, senza accorgercene, forse stiamo già facendo); dico solo che, se comunque non si perde NIENTE morendo -perchè non c'è più nessuno a potersi rammaricare di aver perso qualcosa- finchè la vita è degna di essere vissuta, tutto sommato tanto vale viverla ne migliore dei modi.
Sempre ricordando, però, come diceva Seneca, che: 
" Non enim vivere bonum est, sed bene vivere" ("Non è un bene il vivere; ma è un bene solo il vivere bene").
Ovvero, come diceva Marziale: "Non est vivere, sed valere vita est" ("Vivere è vivere solo se si è in salute").
Per cui, se la vita diventa soltanto una inutile sofferenza, ritengo estremamente razionale togliersela;  sempre che, così facendo,  non si venga meno ad obblighi verso terzi (ad esempio, figli piccoli e genitori anziani).
In tal caso la vita, gradevole o meno che sia, secondo me diventa un "obbligo morale", abdicare dal quale sarebbe moralmente disdicevole; anche se occorre sempre giudicare caso per caso.

Eutidemo

COROLLARIO
Non può mancare, a questo mio discorso, un corollario molto di attualità, concernente temi  connessi tra loro, ma ben distinti gli uni dagli altri:
a) rifiuto dell'accanimento terapeutico;
b) eutanasia;
c)  suicidio assistito;
d) testamento biologico (che, però, non concerne la natura intrinseca dei singoli atti di cui sopra).
Trattandoli tutti insieme, soprattutto in breve spazio, in effetti, si rischia di fare una grande confusione!
---
a)
Quanto al primo (a), in effetti, la legge positiva (che in questo collima con quella naturale e col buon senso) è molto chiara...ed ha poco a che vedere , col tema del suicidio, assistito o meno.
Ed infatti, l'art.32 della Costituzione prevede che NESSUNO PUO' ESSERE SOTTOPOSTO A TRATTAMENTO SANITARIO "CONTRO LA SUA VOLONTA", neanche se tale trattamento è necessario per salvargli la vita; peraltro, tale principio è ribadito dall'art. 1 della legge 180, nonchè dall'art.33 della legge 833/78, che prende in considerazione i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) disposti per qualsiasi causa sanitaria, relativa ragioni di sicurezza pubblica; è ovvio, infatti, che, nel caso dei "pazzi pericolosi" e dei "malati infettivi", l'ordine e la tutela pubblica richiedono che il cittadino possa essere sottoposto a cure sanitarie anche "CONTRO LA SUA VOLONTA".
Negli altri casi, invece, NO!
Per esempio, mio padre (medico), anche lui dolorosamente morente di cancro, nel suo letto di ospedale (perfettamente cosciente), si strappava con le sue mani le cannule delle fleboclisi...che gli infermieri si affrettavano di nuovo a conficcargli nelle vene; lui dava in escandescenze e ripeteva continuamente a me e a loro, che gli togliessero le mani di dosso e che lo lasciassero morire in pace.
Alla fine, minacciando di denuncia l'ospedale (ai sensi della normativa di cui sopra, ed anche di altra), ottenni, anche interponendomi fisicamente, che interrompessero l'alimentazione forzata; ed in breve morì.
Al riguardo, però, si obietta che l'alimentazione forzata (cioè l'idratazione e la nutrizione tramite fleboclisi), non sarebbe un trattamento terapeutico, bensì solo una modalità per nutrire il paziente.
La questione è controversa, ma soprattutto per motivi ideologici e (pseudo)religiosi.
Ed infatti, negare che l'alimentazione e l'idratazione artificiali siano trattamenti medici, è una posizione che puo' essere sostenuta solo da chi non sa quali conoscenze e competenze (anche farmacologiche) siano necessarie per praticarle; negare che siano atti medici avrebbe oltretutto il non trascurabile effetto collaterale di dover consentire a chiunque di praticarli. 
Senza considerare che, nelle soluzioni, non ci sono soltanto acqua e cibo, bensì un'infinità di farmaci di vario tipo.
Peraltro, chi sostiene che alimentazione e idratazione artificiali non siano interventi medici sembra dedurne la conclusione che per ciò stesso debbano essere considerati obbligatori e possano essere imposti anche a chi li vorrebbe interrompere, come nel caso di mio padre; ma la libertà di decidere per se stessi non riguarda solo gli atti medici, ma tutto quello che viene fatto da altri su di noi. 
Anzi, secondo logica, la libertà di non accettare da altri interventi "non medici" dovrebbe esser superiore a quella di rifiutare le cure vere e proprie; mio padre mi diceva: "Impedisci loro di mettermi le mani addosso...che mi lasciassero morire in pace!"
Sotto il profilo giuridico, peraltro, la Cassazione ha sancito che:
" Non v'è dubbio alcuno che l'idratazione e l'alimentazione artificiali costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche. Siffatta qualificazione è, del resto, convalidata dalla comunità scientifica internazionale, e si allinea, infine, agli orientamenti della giurisprudenza costituzionale". (CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. I, del 16 Ottobre 2007 Sentenza n. 21748).
E tanto basti per il rifiuto dell'accanimento terapeutico, che, col tema del suicidio, assistito o meno, a ben poco a che vedere.
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b) e c) 
L'eutanasia ed il suicidio assistito, invece, sono tutto un altro discorso!
Nel primo caso, infatti, il malato non è in grado di suicidarsi, e chiede ad un altro di ucciderlo; mentre, nel secondo caso, il malato si uccide da solo, grazie all'assistenza ed all'aiuto di terzi.
Per fare un esempio, se io sono completamente paralizzato, e chiedo a qualcuno di uccidermi, se costui accetta, mi pratica una qualche forma di "eutanasia"; se invece, sono un malato terminale, che desidera irrevocabilmente morire, ma non ha i mezzi per farlo in modo dignitoso, e chiedo ad un medico una bevanda letale (che, poi, bevo da solo), quello è un vero e proprio "suicidio assistito".
In tutti i casi, però, c'è un lato comune... devono essere  sempre espressione della VOLONTA' MANIFESTATA del malato, presente o differita che sia; altrimenti si parla di "angeli della morte", che configurano una fattispecie completamente diversa...cioè un "omicidio" vero e proprio!
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d)
Quanto al "testamento biologico", esso, appunto, attiene alle modalità della MANIFESTAZIONE DELLA VOLONTA'; che, in tal caso, è differita.
In quest'ultimo caso -ed anche nei precedenti- occorre predisporre le massime cautele, per evitare abusi.
Ed è per questo che serve una legge.
Non comprendo affatto, invero, coloro che manifestano"...preoccupazioni sulle conseguenze non previste nè prevedibili di certe scelte normative", in quanto sono molto più preoccupato dalle  conseguenze non previste nè prevedibili dell'ASSENZA di certe scelte normative; tra cui, appunto, quelle degli "angeli della morte".
Ed infatti -in taluni casi- ritengo un errore pensare che proibire un fenomeno, provochi meno abusi che regolarlo; vedi, ad esempio, il caso dell'aborto (anche se si tratta di una tematica del tutto diversa). 
Ma, purtroppo, qui in Italia vige ancora il vecchio ipocrita principio controriformistico del "si fa, ma non si dice"; ed è anche per questo che gli "angeli della morte" pullulano.
Quanto a come dovrebbe essere scritta tale legge, a me sembra molto valido (con qualche variante) il testo della LEGGE BELGA SULL'EUTANASIA:
http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/144/144_testo_della_legge_belga.htm
Se il nostro legislatore non è capace di fare i suoi doverosi compiti...almeno copi quelli altrui!
Sempre che, almeno, sia capace di copiare!

acquario69

Citazione di: Eutidemo il 12 Marzo 2017, 12:49:20 PM

ASPETTI FILOSOFICI

Non nego, infatti, che se si è abbastanza in salute, egoisti ed imbecilli, si può anche vivere abbastanza allegramente; però i primi due requisiti sono inutili, se manca il terzo.  :)

Al riguardo, tanto per fare sfoggio di cultura, farò solo due citazioni:
"Ora dimmi, seguace di Dioniso, qual è la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo?", domandò il re Mida al Sileno, e questi, costretto dalla sua insistenza, con voce stridula gli rispose: "Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto".(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, pp. 31-32)
«Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti.» (Sofocle, Edipo a Colono).
Che allegroni...ma non avevano tutti i torti!  :)

Estrapolo queste due considerazioni sopra per dire banalmente che le condivido pienamente.
Aggiungo un mio pensiero, anzi una domanda (probabilmente cretina) ma non posso fare a meno di chiedermi il perché si viene al mondo...perché poi succede, come sottolineato sopra,che in un certo senso bisogna fare un percorso a "ritroso" già "qui" in vita (a meno che non si e' ancora consapevoli,come gli allegri imbecilli)

un altro pensiero che mi viene da fare e' che trovo che ci sia una certa ironia quando al momento della nascita sarebbero tutti contenti mentre avverrebbe il contrario quando si muore...per me (per quanto forse possa risultare un po assurdo) sarebbe qualcosa che andrebbe per lo meno indagato più a fondo..

Il tema e' molto ampio e abbraccia tante altre cose...

Eutidemo

Citazione di: acquario69 il 12 Marzo 2017, 13:55:10 PM
Citazione di: Eutidemo il 12 Marzo 2017, 12:49:20 PM

ASPETTI FILOSOFICI

Non nego, infatti, che se si è abbastanza in salute, egoisti ed imbecilli, si può anche vivere abbastanza allegramente; però i primi due requisiti sono inutili, se manca il terzo.  :)

Al riguardo, tanto per fare sfoggio di cultura, farò solo due citazioni:
"Ora dimmi, seguace di Dioniso, qual è la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo?", domandò il re Mida al Sileno, e questi, costretto dalla sua insistenza, con voce stridula gli rispose: "Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto".(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, pp. 31-32)
«Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti.» (Sofocle, Edipo a Colono).
Che allegroni...ma non avevano tutti i torti!  :)

Estrapolo queste due considerazioni sopra per dire banalmente che le condivido pienamente.
Aggiungo un mio pensiero, anzi una domanda (probabilmente cretina) ma non posso fare a meno di chiedermi il perché si viene al mondo...perché poi succede, come sottolineato sopra,che in un certo senso bisogna fare un percorso a "ritroso" già "qui" in vita (a meno che non si e' ancora consapevoli,come gli allegri imbecilli)

un altro pensiero che mi viene da fare e' che trovo che ci sia una certa ironia quando al momento della nascita sarebbero tutti contenti mentre avverrebbe il contrario quando si muore...per me (per quanto forse possa risultare un po assurdo) sarebbe qualcosa che andrebbe per lo meno indagato più a fondo..

Il tema e' molto ampio e abbraccia tante altre cose...


Se ti sono piaciute le mie citazioni, posso aggiungertene anche un'altra, da Erodoto:
"La Divinità fece loro capire che è meglio per l'uomo essere morto, che godere la vita" (ERODOTO, Storie 31). ;)
Sempre nella STORIE, peraltro, Erodoto narra di un popolo della Tracia che era uso accogliere i nuovi nati con pianti e lamentazioni, e che, invece, festeggiava allegramente la morte dei loro congiunti: "Tra le genti della Tracia erano i Trausi che avevano la singolare abitudine di piangere intorno alle partorienti (per le miserie umane che il nascituro dovrà affrontare) e festeggiare chi muore." (Libro quinto
-Tersicore-)  :D

Eutidemo

Vedo che il tema non attrae...peccato :(

sgiombo

#5
Citazione di: Eutidemo il 13 Marzo 2017, 07:12:38 AM
Vedo che il tema non attrae...peccato :(
CitazioneIn realtà penso che susciti interesse nel forum ma si é già iniziato a trattarlo nella discussione "il gesto estremo del suicidio" nel capitolo "Spiritualità" (per parte mia credo di avervi sostenuto tesi sostanzialmente simili alle tue: su molti argomenti, per fortuna, non siamo "condannati al dissenso insanabile" e all' incomprensione; solo su qualcuno...).

Sariputra

Il suicidio sembra proprio una di quelle caratteristiche che pongono l'uomo nella natura e nello stesso tempo fuori di essa. Per curiosità sono andato in cerca di informazioni sul suicidio nel mondo naturale, negli animali in particolare. Sembra che non esista. Persino la storia dei  famosi lemming che si getterebbero in massa dalle scogliere uccidendosi pare una solenne bufala costruita dalla Disney per un famoso documentario. Nel suo desiderio di morte , in un certo senso, l'uomo si pone al di fuori della sua natura condivisa con le altre specie e riafferma la sua unicità che lo fonda come un ibrido: bestia che non desidera essere bestia, per sfuggire al suo destino da bestia, anelando però un'impossibile ritorno alla condizione 'innocente' di bestia. Osservando, per esempio, alcune specie di uccelli che, nati liberi, non sopportano di essere rinchiusi in una gabbia, verrebbe da dire che ' si stanno lasciando morire'. In questo invece io vedo una dimostrazione del superiore valore dello stato di natura ( quindi 'valore' come necessità di vivere nella natura ) che non una specie di suicidio. Nulla impedisce all'uomo , se costretto in una gabbia ( malattia,mancanza di libertà, ecc.) di lasciarsi morire per essere coerentemente naturale con il suo essere bestia. Il problema , che di problema in effetti si tratta a mio parere, e che ci dimostra che l'uomo non è solo bestia , è che l'uomo PENSA di liberarsi da qualcosa , Presumo, non essendo un passero , per esempio, che il passero nel non mangiare e bere in stato di cattività, non PENSI di liberarsi dallo stato di cattività...
Si potrebbe dire che anche il pensare è un prodotto della natura ( attività dell'altrettanto naturale cervello)e ovviamente questo non farebbe che confermare l'ibridicità dell'uomo perché , se il pensare fosse solo un fatto naturale, perché di fatto il nostro comportamento ci distingue da tutte la altre specie in natura? Siamo una natura più 'evoluta' che alla fine , rinnegando se stessa, non desidera esserlo? Desiderio di morte per sfuggire alla sofferenza della vita come desiderio di vita priva di qualunque sofferenza ? (Libertà, paradiso, nirvana, ecc.)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

paul11

caro Eutidemo,
il vero problema è filosofico.
Tu esponi secondo una tua interpretazione l'esistenza in relazione all'essere e gli dai già un giudizio chiamando in causa chi ritiene l'esistenza una "pena"
E trovo strano che nessun nietzchiano del forum non abbia colto il rapporto esistenza/uomo, con la struttura metafisica o la destrutturazione stessa della metafisica nella postmodernità. Come Nietzsche interpreterebbe il suicidio?
C'è un senso nella vita? Che rapporto ha l'esistenza, con L'essere.

Se l'uomo destruttura la metafisica e ritiene l'esistenza una pena, la liberazione è fuggire dall'esistenza.
Oggi l'uomo pretende la proprietà del corpo fisico,ma ha perso il rapporto dei significati che danno sens onell'esistenza, ha quindi perso l'essere. E' un uomo che falsamente ritene di essere libero, perchè ripone la propria fiducia nella tecnica, nel rapporto io sono libero e la scienza mi da salvezza.ma quando quest'ultima perde la possibliità di salvarlo ecco rientrare l'autodeterminazione nell'immediato della proprietà fisica del proprio corpo 

Il problema è soprattutto filosofico, come cultura.
Perchè è di questo tempo come non mai che la tecnica rende possible manipolare la vita con  la biotecnologia.
Noi siamo illusi della salvezza della tecnica reclamando la nostra proprietà fisica del corpo come libertà di autodeterminazione.
ma non abbiamo capto che è la tecnica che ne è padrona, prima come merce, come risorsa umana nell'economia  e non certo come essere, poi come medicina e infine come accompagnamento alla buona morte fino allo scempio dell'autopsia.

Questa cultura interpreta le separazioni del momento determinato e immanente dell'essere che si è fratturato nella esistenza, problematizzando tutti i significati e sensi esistenziali 
Quindi il problema filosofico non è solo il suicidio o l'eutanasia, ma le staminali, i trapianti, la manipolazione genetica.
Tutto ciò che riguarda il rapporto Vita /essere è frantumato nel nulla della fisicità di un corpo  che diverrà polvere, fonte di dolore e sofferenza. 
Ma questa interpretazione è contraddittoria. Se nel tempo della morte di Dio, il destino è in mano all'uomo, com' è che l'uomo non riesce ad autodeterminare il proprio destino, facendo della vita una felicità ,invece che una pena?

Nello specifico del suicidio ho già scritto parecchio altrove.
La libertà è fondamento del rapporto fra il Sè con il se stesso:l'autocoscienza.
Significa che ogni coscienza vive una sua esperienza e io non conosco il punto di vista di Dio per poter dire è giusto  o sbagliato.
Solo pietà e compassione amorevole sono possibili, in assenza di giudizio, perchè non conoscendo il disegno divino, non ne conosco il destino.
Il suicidio è togliere la fatica alla natura nel percorso dalla nascita alla morte

Eutidemo

Citazione di: sgiombo il 14 Marzo 2017, 08:52:53 AM
Citazione di: Eutidemo il 13 Marzo 2017, 07:12:38 AM
Vedo che il tema non attrae...peccato :(
CitazioneIn realtà penso che susciti interesse nel forum ma si é già iniziato a trattarlo nella discussione "il gesto estremo del suicidio" nel capitolo "Spiritualità" (per parte mia credo di avervi sostenuto tesi sostanzialmente simili alle tue: su molti argomenti, per fortuna, non siamo "condannati al dissenso insanabile" e all' incomprensione; solo su qualcuno...).
Chiedo scusa, non mi ero accorto del TOPIC  "il gesto estremo del suicidio" nel capitolo "Spiritualità"; in effetti, prima di aprire un TOPIC, bisognerebbe sempre controllare che non sia stato già aperto altrove :-\
Però mi fa piacere che su molti argomenti, per fortuna, non siamo "condannati al dissenso insanabile" e all' incomprensione; anche se, su alcuni argomenti, secondo me dissentiamo solo per alcuni aspetti, e non "in toto" :)

Eutidemo

Citazione di: paul11 il 14 Marzo 2017, 10:02:53 AM
caro Eutidemo,
il vero problema è filosofico.
Tu esponi secondo una tua interpretazione l'esistenza in relazione all'essere e gli dai già un giudizio chiamando in causa chi ritiene l'esistenza una "pena"
E trovo strano che nessun nietzchiano del forum non abbia colto il rapporto esistenza/uomo, con la struttura metafisica o la destrutturazione stessa della metafisica nella postmodernità. Come Nietzsche interpreterebbe il suicidio?
C'è un senso nella vita? Che rapporto ha l'esistenza, con L'essere.

Se l'uomo destruttura la metafisica e ritiene l'esistenza una pena, la liberazione è fuggire dall'esistenza.
Oggi l'uomo pretende la proprietà del corpo fisico,ma ha perso il rapporto dei significati che danno sens onell'esistenza, ha quindi perso l'essere. E' un uomo che falsamente ritene di essere libero, perchè ripone la propria fiducia nella tecnica, nel rapporto io sono libero e la scienza mi da salvezza.ma quando quest'ultima perde la possibliità di salvarlo ecco rientrare l'autodeterminazione nell'immediato della proprietà fisica del proprio corpo

Il problema è soprattutto filosofico, come cultura.
Perchè è di questo tempo come non mai che la tecnica rende possible manipolare la vita con  la biotecnologia.
Noi siamo illusi della salvezza della tecnica reclamando la nostra proprietà fisica del corpo come libertà di autodeterminazione.
ma non abbiamo capto che è la tecnica che ne è padrona, prima come merce, come risorsa umana nell'economia  e non certo come essere, poi come medicina e infine come accompagnamento alla buona morte fino allo scempio dell'autopsia.

Questa cultura interpreta le separazioni del momento determinato e immanente dell'essere che si è fratturato nella esistenza, problematizzando tutti i significati e sensi esistenziali
Quindi il problema filosofico non è solo il suicidio o l'eutanasia, ma le staminali, i trapianti, la manipolazione genetica.
Tutto ciò che riguarda il rapporto Vita /essere è frantumato nel nulla della fisicità di un corpo  che diverrà polvere, fonte di dolore e sofferenza.
Ma questa interpretazione è contraddittoria. Se nel tempo della morte di Dio, il destino è in mano all'uomo, com' è che l'uomo non riesce ad autodeterminare il proprio destino, facendo della vita una felicità ,invece che una pena?

Nello specifico del suicidio ho già scritto parecchio altrove.
La libertà è fondamento del rapporto fra il Sè con il se stesso:l'autocoscienza.
Significa che ogni coscienza vive una sua esperienza e io non conosco il punto di vista di Dio per poter dire è giusto  o sbagliato.
Solo pietà e compassione amorevole sono possibili, in assenza di giudizio, perchè non conoscendo il disegno divino, non ne conosco il destino.
Il suicidio è togliere la fatica alla natura nel percorso dalla nascita alla morte

Caro Paul11,
per prima cosa, come ho già fatto con Sgiombo, chiedo scusa per non essermi accorto del TOPIC  "il gesto estremo del suicidio" nel capitolo "Spiritualità"; in effetti, prima di aprire un TOPIC, bisognerebbe sempre controllare che non sia stato già aperto altrove :-\ 
Quanto alla concezione nicciana della questione, che tu esponi in modo molto più ampio ed approfondito del mio, io mi ero limitato a riportare il passo de: "La nascita della tragedia", che, mi sembra, centra in modo molto "icastico" il punto centrale della questione.
"Ora dimmi, seguace di Dioniso, qual è la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo?", domandò il re Mida al Sileno, e questi, costretto dalla sua insistenza, con voce stridula gli rispose: "Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto".(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, pp. 31-32)
Tale passo de: "La nascita della tragedia" di Nietzsche , in effetti, si riallaccia a concezioni molto antiche.
***
Solo per citarne alcune:
"Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti."(Sofocle, Edipo a Colono).
"La Divinità fece loro capire che è meglio per l'uomo essere morto, che godere la vita" (ERODOTO, Storie 31). ) e sottolineo LA DIVINITA'!
Sempre nella STORIE, peraltro, Erodoto narra di un popolo della Tracia che era uso accogliere i nuovi nati con pianti e lamentazioni, e che, invece, festeggiava allegramente la morte dei loro congiunti: "Tra le genti della Tracia erano i Trausi che avevano l'abitudine di piangere intorno alle partorienti (per le miserie umane che il nascituro dovrà affrontare) e festeggiare chi muore." (Libro quinto)
TALE CONCEZIONE, PERALTRO, E' PRESENTE MOLTO CHIARAMENTE ANCHE IN ALCUNI PUNTI DELLA BIBBIA!!!
Per esempio:
"Ho detto beati i morti che già sono morti, più dei vivi che ancora son vivi; ma meglio ancora di tutti e due, chi ancora non è nato, perché ancora non ha visto tutto il male che c'è sotto il sole. "(Qoelet (Ecclesiaste), 4).
***
Per cui, secondo me, non è necessario "destrutturare" la metafisica,  per ritenere che l'esistenza sia una pena, e che la liberazione (suicidio a parte) sia:
- fuggire dall'esistenza;
- o pervenire ad una esistenza diversa!
Per citare Platone: "Dicono alcuni che il corpo è séma (segno, tomba) dell'anima, quasi che ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che con esso l'anima semaínei (significa) ciò che semaíne (significhi), anche per questo è stato detto giustamente séma." (CRATILO).
Oggi, però, facendo leva sulle sue "magnifiche sorti e progressive", l'uomo pretende la proprietà del corpo fisico,ma ha perso il rapporto dei significati che danno senso nell'esistenza, ha quindi perso l'essere.
Mi piace la tua seguente considerazione, che condivido: 
"E' un uomo che falsamente ritene di essere libero, perchè ripone la propria fiducia nella tecnica, nel rapporto io sono libero e la scienza mi da salvezza; ma quando quest'ultima perde la possibilità di salvarlo ecco rientrare l'autodeterminazione nell'immediato della proprietà fisica del proprio corpo." 
Non sono ben sicuro, però, di condividere le conclusioni che tu ritieni di poter trarre da tali premesse.
Indubbiamente siamo un po' troppo illusi della salvezza della tecnica reclamando la nostra proprietà fisica del corpo come libertà di autodeterminazione; ma, tra il gettarsi sulla propria spada, come facevano gli antichi romani, o far ricorso al Nembutal, non vedo poi una gran differenza, quanto al reclamare  la nostra proprietà fisica del corpo come libertà di autodeterminazione.
Il modo è diverso (quello attuale è un po' più indolore, il che non guasta), ma identica è la sostanza!
Quanto alla "tecnica", almeno sin dalla preistoria con la "rivoluzione della selce", sino all'odierna "rivoluzione del silicio" (che sempre selce è), secondo me essa rientra nella natura dell'uomo: che è, sostanzialmente, una "scimmia artigiana".
Per cui ho sempre trovato alquanto inappropriate le deprecazioni antimoderniste dei "Laudatores temporis acti".
Quanto all'"accompagnamento alla buona morte", infatti, se ne avvalevano anche gli antichi (vedi la morte di Seneca, con assistenza medica), sebbene con tecniche meno perfezionate delle nostre; nella sostanza, non vedo radicali differenze.
Quanto allo "scempio dell'autopsia", non capisco in quale senso lo ritieni tale, se può risultare utile:
- ai progressi della medicina;
- a scoprire il colpevole di un omicidio.
Quanto alle staminali, i trapianti e la manipolazione genetica, secondo me, bisogna vedere COME e con QUALI FINI vengono condotte tali ricerche.
Faccio notare, però, per quanto concerne la "manipolazione genetica", che l'uomo la pratica da millenni sugli animali domestici; sarà stata pure tramite incroci, ma sempre "manipolazione genetica" è stata! 
Quanto al suicidio, mi pare che siamo abbastanza d'accordo: il suicidio è togliere la fatica alla natura nel percorso dalla nascita alla morte.
Ad ogni modo, ce ne possono essere di vario tipo, ciascuno dei quali, secondo me, deve essere valutato in modo diverso. ;)

Sariputra

#10
Presumo che il suicida sia un essere sostanzialmente 'ottimista' e infatti , se non lo fosse, non spererebbe di migliorare la sua situazione uccidendosi. Il pessimista radicale invece dubita che il suicidarsi migliori la sua situazione, proprio perchè, essendo pessimista, teme anzi che la peggiori ( il famoso cadere dalla padella nella brace...)  ;D
Mi viene in mente una battuta di Woody Allen che mi sembra recitasse più o meno così:


Quando vivevo a Brooklyn, non si ammazzava nessuno...erano tutti troppo infelici e pessimisti per farlo... :)

Non penso che sia corretto definire con il termine suicidio l'azione , per es., di un soldato che fa scudo con il proprio corpo al commilitone o quella di una madre , di qualunque specie animale, che si lancia contro gli aggressori dei suoi piccoli. In questa azione infatti non c'è alcun desiderio di porre fine alla propria vita ma si ritiene che il valore della vita altrui superi quello della propria, così da poterla mettere a rischio ( perché l'attore non sa l'esito della sua azione di salvezza...anche se può più o meno immaginarlo). Il termine 'suicidio' è un termine sostanzialmente vuoto se non lo definiamo attraverso il contesto e le motivazioni.
Sul fatto che " meglio sarebbe non esser mai nati" dissento. Intanto come potrei affermarlo se non fossi mai nato? L'esistere non è un fatto accidentale che 'ci capita' ma la conseguenza di cause ben precise, a loro volta determinate da altre cause, e così via. Ritorna in questa affermazione ( "meglio sarebbe non esser mai nato") la tipica impostazione nostrana , occidentale della visione dell'esistenza come qualcosa 'slegata' dall'insieme, una cosa chiara e ben definita, con un ben definito inizio e una ben chiara fine. Manca il sentire l'esistenza come un continuum che si sostanzia nella relazione con le cause che ci formano, quelle che produciamo e che ci seguone. Per questo, a mio parere, ogni gesto ha il suo significato, e le sue cause ed effetti, all'interno della relazione stessa.
Mi viene in mente il caso di un medico che , diagnosticatogli un tumore al cervello, si è lanciato dal nono piano dell'ospedale. Avendo uno dei figli che frequentava la classe della mia, un giorno torna a casa e mi racconta che il ragazzo era scoppiato in pianto in classe. Quando l'insegnante ha tentato di confortarlo dicendogli che doveva vedere l'atto del padre come un gesto d'amore verso di loro, così che non soffrissero per vedere in che condizioni si sarebbe ridotto, il ragazzo è esploso: "Ma io volevo soffrire insieme a lui! Perché me lo ha impedito?"... Non ci sono risposte :'(
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

baylham

Citazione di: Sariputra il 15 Marzo 2017, 08:35:47 AM
Presumo che il suicida sia un essere sostanzialmente 'ottimista' e infatti , se non lo fosse, non spererebbe di migliorare la sua situazione uccidendosi. Il pessimista radicale invece dubita che il suicidarsi migliori la sua situazione, proprio perchè, essendo pessimista, teme anzi che la peggiori ( il famoso cadere dalla padella nella brace...)  ;D 

Probabilmente un pessimista radicale sceglierà la soluzione meno pessimistica.

Citazione di: Sariputra il 15 Marzo 2017, 08:35:47 AM
Mi viene in mente il caso di un medico che , diagnosticatogli un tumore al cervello, si è lanciato dal nono piano dell'ospedale. Avendo uno dei figli che frequentava la classe della mia, un giorno torna a casa e mi racconta che il ragazzo era scoppiato in pianto in classe. Quando l'insegnante ha tentato di confortarlo dicendogli che doveva vedere l'atto del padre come un gesto d'amore verso di loro, così che non soffrissero per vedere in che condizioni si sarebbe ridotto, il ragazzo è esploso: "Ma io volevo soffrire insieme a lui! Perché me lo ha impedito?"... Non ci sono risposte :'(

Secondo me il giudizio dell'insegnante era infondato: il medico ha immaginato la propria morte dolorosa e ha scelto egoisticamente di suicidarsi.
La reazione del ragazzo è altrettanto egoista.

Sariputra

Citazione di: baylham il 15 Marzo 2017, 09:44:35 AM
Citazione di: Sariputra il 15 Marzo 2017, 08:35:47 AMPresumo che il suicida sia un essere sostanzialmente 'ottimista' e infatti , se non lo fosse, non spererebbe di migliorare la sua situazione uccidendosi. Il pessimista radicale invece dubita che il suicidarsi migliori la sua situazione, proprio perchè, essendo pessimista, teme anzi che la peggiori ( il famoso cadere dalla padella nella brace...) ;D
Probabilmente un pessimista radicale sceglierà la soluzione meno pessimistica.
Citazione di: Sariputra il 15 Marzo 2017, 08:35:47 AMMi viene in mente il caso di un medico che , diagnosticatogli un tumore al cervello, si è lanciato dal nono piano dell'ospedale. Avendo uno dei figli che frequentava la classe della mia, un giorno torna a casa e mi racconta che il ragazzo era scoppiato in pianto in classe. Quando l'insegnante ha tentato di confortarlo dicendogli che doveva vedere l'atto del padre come un gesto d'amore verso di loro, così che non soffrissero per vedere in che condizioni si sarebbe ridotto, il ragazzo è esploso: "Ma io volevo soffrire insieme a lui! Perché me lo ha impedito?"... Non ci sono risposte :'(
Secondo me il giudizio dell'insegnante era infondato: il medico ha immaginato la propria morte dolorosa e ha scelto egoisticamente di suicidarsi. La reazione del ragazzo è altrettanto egoista.

Penso che sia impossibile per noi comprendere, o immaginare, tutte le motivazioni di una parte e dell'altra del dramma. Ci possono essere molte chiavi di interpretazioni. La tua può essere senz'altro inclusa tra queste , ma non esaurirle. Ho portato l'esempio non per fare una nostra valutazione ' dall'esterno' di una tragedia in cui non ci sentiamo realmente coinvolti, ma per mettere in evidenza come la relazione tra noi sia totale. In altre parole non c'è un unico attore del dramma ( il suicida) ma è un dramma che coinvolge tutta la relazione dell'attore stesso con la realtà che vive, a volte con conseguenze imprevedibili (penso per esempio ad una mia cara amica che, trovato per prima il corpo 'appeso' del fratello , che soffriva di depressione, non è mai riuscita a superare quel dramma, tanto che tutta la sua vita di relazione ne è stata fortemente compromessa...). Come vedi cerco di non formulare alcun tipo di giudizio 'morale' sull'atto in sè, ma di metterne in evidenza le implicazioni nel concreto del vivere ( di relazioni).
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

baylham

Non ho nessuna contestazione morale da opporre al suicidio, è di per sé una scelta sofferta, estrema, cui riconosco il massimo rispetto e dignità.

Volevo far risultare il fatto che normalmente il suicidio è una scelta individuale, non condivisa con altri, che per questo definisco egoistica, sebbene le motivazioni possano anche essere altruistiche.

Ciò che invece apprezzo del suicidio assistito è proprio la sua preparazione, partecipazione collettiva.

Ripeto che il suicidio assistito e l'eutanasia sono per me legalizzabili soltanto in casi ben determinati, per anticipare una morte che si prevede dolorosa, per porre un limite alla sofferenza.

Ho la personale certezza che la morte sia la fine di ogni sofferenza, come di ogni piacere.

Eutidemo

Citazione di: Sariputra il 15 Marzo 2017, 08:35:47 AM
Presumo che il suicida sia un essere sostanzialmente 'ottimista' e infatti , se non lo fosse, non spererebbe di migliorare la sua situazione uccidendosi. Il pessimista radicale invece dubita che il suicidarsi migliori la sua situazione, proprio perchè, essendo pessimista, teme anzi che la peggiori ( il famoso cadere dalla padella nella brace...)  ;D
Mi viene in mente una battuta di Woody Allen che mi sembra recitasse più o meno così:


Quando vivevo a Brooklyn, non si ammazzava nessuno...erano tutti troppo infelici e pessimisti per farlo... :)

Non penso che sia corretto definire con il termine suicidio l'azione , per es., di un soldato che fa scudo con il proprio corpo al commilitone o quella di una madre , di qualunque specie animale, che si lancia contro gli aggressori dei suoi piccoli. In questa azione infatti non c'è alcun desiderio di porre fine alla propria vita ma si ritiene che il valore della vita altrui superi quello della propria, così da poterla mettere a rischio ( perché l'attore non sa l'esito della sua azione di salvezza...anche se può più o meno immaginarlo). Il termine 'suicidio' è un termine sostanzialmente vuoto se non lo definiamo attraverso il contesto e le motivazioni.
Sul fatto che " meglio sarebbe non esser mai nati" dissento. Intanto come potrei affermarlo se non fossi mai nato? L'esistere non è un fatto accidentale che 'ci capita' ma la conseguenza di cause ben precise, a loro volta determinate da altre cause, e così via. Ritorna in questa affermazione ( "meglio sarebbe non esser mai nato") la tipica impostazione nostrana , occidentale della visione dell'esistenza come qualcosa 'slegata' dall'insieme, una cosa chiara e ben definita, con un ben definito inizio e una ben chiara fine. Manca il sentire l'esistenza come un continuum che si sostanzia nella relazione con le cause che ci formano, quelle che produciamo e che ci seguone. Per questo, a mio parere, ogni gesto ha il suo significato, e le sue cause ed effetti, all'interno della relazione stessa.
Mi viene in mente il caso di un medico che , diagnosticatogli un tumore al cervello, si è lanciato dal nono piano dell'ospedale. Avendo uno dei figli che frequentava la classe della mia, un giorno torna a casa e mi racconta che il ragazzo era scoppiato in pianto in classe. Quando l'insegnante ha tentato di confortarlo dicendogli che doveva vedere l'atto del padre come un gesto d'amore verso di loro, così che non soffrissero per vedere in che condizioni si sarebbe ridotto, il ragazzo è esploso: "Ma io volevo soffrire insieme a lui! Perché me lo ha impedito?"... Non ci sono risposte :'(


Caro Sariputra,
personalmente, nel valutare se sia meglio vivere o morire (tematica del suicidio a parte), non ritengo di essere nè "ottimista" nè "pessimista", ma soltanto "logico".
Ed infatti, come ho già avuto modo di rilevare altrove,  "eudaimonisticamente" parlando, IN TEORIA, la scelta di morire, in genere, è sempre più "logicamente" conveniente della scelta di vivere:
-   o perchè la vita è già attualmente fonte di sofferenza;
- oppure perchè, anche quando è attualmente fonte di gioia, la consapevolezza di poter perdere tale felicità da un momento all'altro, è anch'essa una forma di sofferenza.
Essendo morti, invece, non solo non si soffre più...ma non si può essere neanche in ansia per il rischio di poter soffrire (a volte, anche in modo straziante); sempre ovviamente, che si abbia sufficiente "immaginazione".
Non nego, infatti, che se si è abbastanza in salute, egoisti ed imbecilli, si può anche vivere abbastanza allegramente; però i primi due requisiti sono inutili, se manca il terzo.
;)
Ed infatti, nella migliore della ipotesi, la vita non è che un "picnic" su un lago ghiacciato a primavera; per cui, per poterselo davvero godere, bisogna avere davvero scarsa immaginazione!
***
Quanto al fatto -morendo- di temere di cadere dalla padella nella brace, anche questo, secondo me, non è molto logico, sebbene sia la vera sostanza del "dubbio amletico".
Ed infatti, il pallido Prence di Elsinore, così rifletteva:
"Morire, dormire... nient'altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. 
HMMMMM!!!!
Sì, qui è l'ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci riflettere."
Ma anche questo dubbio, almeno a mio parere, è ingiustificato.
Ed  infatti:
1) o dopo la morte c'è ancora qualcosa;
2) oppure dopo la morte non c'è più nulla.
Partiamo dalla prima ipotesi:
***
1) Dopo la morte c'è ancora qualcosa.
Al riguardo, a parte il fatto che, se dopo la morte fisica la nostra "anima" individuale dovesse sopravvivere "tel quel" (o, più correttamente, il nostro "IO" psichico), morrebbe solo il corpo fisico, ma "noi non saremmo morti affatto"; in effetti, sarebbe come se avessimo semplicemente dismesso un vecchio abito usato, per usarne un altro o per fluttuare come anime nude in un altro mondo... empireo od infernale che esso sia.
Per cui, l'alternativa non sarebbe tra "vita" e "morte", bensì tra "due diversi tipi di vita"; e, con tutta la buona volontà, dubito assai che il secondo tipo possa essere peggiore del primo.
Tuttavia, con buona pace di chi ci crede, io, però, pur non sapendo COSA C'E dopo la morte, penso di essere pressochè sicuro di COSA NON C'E!
Ed infatti, per quanto concerne la cosidetta sopravvivenza dell'anima, pur essendo io convinto (sia pur senza prove), che essa sopravviva, in quanto riassorbita dal SE' universale come un onda nel mare, nego però recisamente che possa sopravvivere "sub specie" di mente e consapevolezza individuale; quest'ultima, infatti, è troppo connessa alla struttura neurale del singolo cervello, per poter sopravvivere alla sua distruzione, così come non è più possibile leggere un libro dopo averlo bruciato.
Vedi il mio commento alla tesi di Simmia, nel Fedone.
Cioè, se mi togliete la mia memoria (conservata nei relativi centri cerebrali), i miei desideri (attivati dall'apparato ormonale), e la mia capacità di ragionare (ubicata nei centri di Broca e Vernicke), mi sembra inevitabile che il mio IO INDIVIDUALE, cessi definitivamente di esistere.
Per esempio:
- sei anni fa mi fratturai una gamba, per cui, per un certo tempo non potei camminare; per inferenza, quindi, mi sembra logico desumere che, se le gambe me le avessero tagliate, non avrei camminato mai più.
- quattro anni fa, subii un'operazione alla testa con anestesia totale, per cui, per un certo tempo non potei nè pensare nè essere consapevole di esistere; per inferenza, quindi, mi sembra logico desumere che, se la testa me l'avessero tagliata del tutto, non avrei pensato mai più, nè più sarei stato consapevole del me stesso (individuale).
Questa è "logica inferenziale" (magari errata), ma non è nè pessimismo ottimismo.

***
2) Dopo la morte non c'è più nulla.
In tal caso, (sempre con riferimento all'io psichico), è parimenti logico desumere che la morte sia preferibile alla vita; se non altro perchè ci mette al sicuro da qualsiasi sofferenza, o rischio di sofferenza.
Ed infatti  si può rimpiangere amaramente di non essere morti per tempo (ad esempio, nel caso in cui un genitore sopravviva ai propri figli);
- ma non si può in nessun caso rimpiangere di essere già morti, perchè viene a mancare il soggetto del verbo rimpiangere (cioè, chi ancora non è nato o è già morto, non è in grado di dolersi di nulla).
Per cui, "eudaimonisticamente" parlando, IN TEORIA, la scelta di morire è sempre più "logicamente" conveniente della scelta di vivere:
-   o perchè la vita è già attualmente fonte di sofferenza;
- oppure perchè, anche quando è attualmente fonte di gioia, la consapevolezza di poter perdere tale felicità da un momento all'altro, è anch'essa una forma di sofferenza.
Essendo morti, invece, non solo non si soffre più...ma non si può essere neanche in ansia per il rischio di soffrire (a volte, anche in modo straziante); sempre ovviamente, che si abbia sufficiente "immaginazione".

***
Per passare ad esaminare le tue ulteriori considerazioni circa il "suicidio", che è connesso, ma che non coincide con la tematica "se sia meglio vivere o morire", il caso (da me riportato) del soldato che fa scudo con il proprio corpo al commilitone, sono perfettamente d'accordo con te che quel poveraccio non nutriva alcun desiderio di porre fine alla propria vita, bensì, eroicamente,  ritenne che il valore della vita altrui superasse quello della propria.
Però, tecnicamente, fu sicuramente un "suicidio" (motivazioni a parte), perchè, gettandosi di pancia su una granata, l'attore SA BENISSIMO l'esito della sua azione ...non è che soltanto "se lo immagini".
Sono però d'accordo con te che il termine 'suicidio' è sostanzialmente vuoto se non lo definiamo attraverso il contesto e le motivazioni; il che era proprio quanto sostenevo io, dicendo che non si può considerare tale atto sempre e comunque allo stesso modo.
Ed infatti, "suicidi eroici" a parte, ce ne sono altri, non certo eroici, ma sicuramente del tutto giustificabili!
Ad esempio, uno dei motivi per i quali i piloti della prima guerra mondiale erano equipaggiati di pistola, era quello di  consentire loro di suicidarsi prima di morire arrostiti, quando i loro aerei prendevano fuoco; lo stesso Francesco Baracca, eroico pilota italiano, sembra che sia stato ucciso da un colpo della sua pistola, suicida per non morire arso vivo, orrida fine di molti, moltissimi, piloti.
Io, comunque, se di notte scoppiasse un incendio, cercherei senz'altro di fuggire in qualche modo, per salvarmi la vita; ma se proprio constatassi di non avere scampo, sono sicuro che mi sparerei un colpo in testa con la pistola che ho nel comodino, prima di morire comunque....arso vivo!
Tu no? ;)

***
Quanto al fatto  " meglio sarebbe stato non esser mai nati", non si può certo dire se non si nasce, ma solo se si è venuti ad esistenza: non ci trovo niente di contraddittorio! 
Quanto alla argomentazione, condivisibile, che l'esistere non è un fatto accidentale che 'ci capita' ma la conseguenza di cause ben precise, a loro volta determinate da altre cause, e così via, sono del tutto d'accordo; ma che c'entra? 
Ed invero, anche andare a vedere un film scadente al cinematrografo, non è un fatto accidentale che 'ci capita' ma la conseguenza di cause ben precise (noia), a loro volta determinate da altre cause (non avevamo altro da fare), e così via; ma se poi il film ci fa schifo, non è mica che, in conseguenza dell'eziologia della cosa,  sarebbe illogico che noi esclamassimo:" ...meglio sarebbe stato non esser mai venuti a vedere questo film di cacca!"
La differenza, semmai, è che il "film di cacca" siamo noi che abbiamo scelto di andarlo a vedere; mentre, invece, non abbiamo certo scelto noi di venire al mondo!
Per cui, se uno non è soddisfatto della cosa, è perfettamente legittimato a dire: "meglio sarebbe non esser mai nato".
Semmai, una affermazione del genere, costituisce una sorta "periodo ipotetico dell'irrealtà" (se ricordo bene). 

***
Sicuramente l'esistenza è un continuum che si sostanzia nella relazione con le cause che ci formano, quelle che produciamo e che ci seguone; e per questo, anche secondo me, ogni gesto ha il suo significato, e le sue cause ed effetti, all'interno della relazione stessa.
Ma non capisco che c'entra col nostro discorso.

***
Quanto all'aneddoto del medico, che, diagnosticatogli un tumore al cervello, si è lanciato dal nono piano dell'ospedale, osservo due cose;
- l'incivilità di un ordinamento giuridico, che ci costringe a toglierci la vita in modi così brutali (a rischio anche della vita dei terzi passanti, i quali, magari, non hanno nessuna intenzione di morire)
- l'estrema cautela che si deve COMUNQUE avere nell'assumere decisioni così estreme, soprattutto quando si hanno figli piccoli.
Ed invero, nemmeno io saprei rispondere se, per quel bambino (il quale, ovviamente, non poteva immaginare a cosa sarebbe andato incontro), sarebbe stato peggio:
- sapere che il padre si era suicidato;
- assistere al suo lento degrado cerebrale ed al suo progressivo decadimento fisico.
Sinceramente, a questa domanda non saprei rispondere neanche io.  :-[
Penso solo che in tali materie, non ci si possa arroccare su dogmatiche convinzioni preconcette, e che, invece, occorre valutare caso per caso!

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