Critica al COEMM e spunti riflessivi

Aperto da Voltaire, 02 Novembre 2016, 23:02:41 PM

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davintro

#30
Argomento spinoso e che ad essere sinceri mi tocca anche emotivamente e personalmente, causa anche recenti accese discussioni fuori dal forum riguardo la dignità o meno di uno stile di vita in cui il lavoro, quando non è mezzo necessario alla sopravvivenza materiale, può essere lasciato quantomeno in disparte nei progetti di vita, in favore della preservazione di un tempo libero dedicato alla studio, alla coltivazione di interessi culturali, al godimento delle relazioni umane, stile di vita che io riconosco come profondamente umano.

In questo senso mi conforta notare, dando un'occhiata ai commenti, un consenso diffuso riguardo l'idea che il lavoro sia un mezzo e non un fine, e che una vita in cui ci si può permettere di non lavorare e dedicarsi alle proprie passioni non abbia nulla di immorale o di indegno, in particolare quando tali passioni assumono un carattere culturale, studi accedemici, scrittura, frequentazioni di convegni ecc. Quindi direi che il punto da approfondire diventa più che altro terminologico. Anche chi attribuisce al lavoro non un mero aspetto strumentale, ma qualcosa che lo rende fattore di potenziamento della dignità umana, intende tale concetto non ristretto al "lavoro retribuito economicamente", ma come lavoro inteso come generale espressione di un impegno in cui le doti personali trovano una manifestazione oggettivamente riconoscibile. Considerato in questa accezione larga, posso trovarmi d'accordo sul nesso lavoro-dignità. Meno d'accordo se con "lavoro", va intesa l'idea di "fatica". Dal mio punto di vista la fatica non è un valore positivo, ma un male necessario, un surrogato della mancanza di talento nell'esecuzione di un'attività. Quanto più ho talento quanto meno faticherò a realizzare un'opera. Pensare che la fatica sia un valore porterebbe all'assurdo di pensare che una composizione musicale creata dal genio di Mozart abbia meno valore di un'opera creata da un mediocre dilettante, solo perchè quest'ultimo ha dovuto impegnar maggiore fatica. Il fine, il risultato finale, ha sempre più valore dei mezzi, i mezzi hanno valore solo in relazione a ciò che ad essi è estrinseco. Il sospetto è che l'idea della fatica come valore sia sorta dalla necessità psicologica di autoconsolazione verso i sacrifici e le sofferenze, che, chi più chi meno, tutti siamo costretti a provare. Le sofferenze correlate alla fatica di vivere portano chi le prova, a scopo compensatorio, a ritenere che la fatica e la sofferenza rendano le persone eticamente migliori rispetto ai fortunati, che per talento innato, o favorevoli condizioni sociali-geografiche di appartenenza, riescono a raggiungere i loro obiettivi esistenziali con più facilità. Una sorta di etica dell'invidia e del risentimento.

Considerato come attività volta a contribuire al bene comune, non solo in senso materiale ma anche spirituale, espressione della personalità individuale, dei suoi talenti, e soprattutto considerato a prescindere dalla retribuzione economica, ha un senso l'articolo 1 della costituzione che pone il lavoro come fondamento primario della repubblica. Ciò però non basta a dissipare le mie perplessità su tale formula. Sia per l'equivocità del concetto di lavoro, che al contrario dell'orientamento prevalente del forum, viene intepretata nel senso comune come lavoro retribuito, tagliando fuori dal fondamento della repubblica attività culturali non stipendiate o il volontariato (volendo contrapporsi a questo punto di vista ad essere visto come mezzo e non come fine dovrebbe essere non tanto il "lavoro", quanto il "denaro"), sia perchè, anche accettando l'accezione ampia del "lavoro", si finirebbe pur sempre col porre come valore primario un'attività, che come tutte le attività, i movimenti, rientra pur sempre nel piano dei "mezzi" mentre ciò che più conta dovrebbe essere il fine a cui le attività tendono, ed allora il fondamento della repubblica, dello stato, dovrebbe coincidere con il fine per cui lo stato viene creato dagli uomini. Questo fine è la tutela della libertà e del benessere dei cittadini, anche nel contesto del tempo dello svago e del riposo. Quindi dovessi essere chiamato io a modificare l'articolo, scriverei "...fondata sul valore della libertà e del benessere materiale e spirituale della persona...", o qualcosa del genere

green demetr

Citazione di: Apeiron il 03 Novembre 2016, 17:42:55 PM
@green demetr,
Non capisco perchè tu parli di soggetto e oggetto. Non che la cosa non c'entri ma ci fa entrare in una discussione ben più ampia. In questi termini comunque a mio giudizio il soggetto non deve avere valore in relazione ad un oggetto. La sua dignità è il suo valore intrinseco: se neghiamo questo allora neghiamo l'etica che come prerequisito ha che l'essere umano ha valore intrinseco.

Ma appunto perchè il soggetto ha bisogno di un oggetto che non esiste un valore intrinseco dell'essere umano.

Quello è frutto della tradizione, e francamente è opinabile.

La questione per me, non è come per Maral e Davintro di ordine etico.
(che è nelle loro teste)

Ma è di ordine storico. Io ho dignità solo se posso approfittare dell'altro. La filosofia quella vera, quando guarda,se ha il coraggio di guardare fino in fondo a se stessa, dice quello.

Quindi dell'etica rimane proprio un bel niente. Solo un modo di indossare una maschera per dire che stiamo tutti bene, quando tutti stanno male.(a meno che sei un potente, però anche tu potente, sei impotente rispetto al reale, e perciò infelice).

D'altronde tutta l'etica è questa mellassa cristiana, del vogliamoci tutti bene, quando non so quante guerre sono in corso in questo stesso istante.

Per inciso questa posizione suscita automatico odio, come la psicanalisi testimonia, vedi Zizek e i suoi trattati sulla ideologia. Esatto è l'ordine dell'odio, del nostro auto-distruttivismo. Guardatevi Zizek tutti, immediatamente.
Così iniziamo tutti una bella terapia di gruppo.

;D






Vai avanti tu che mi vien da ridere

sgiombo

#32
Citazione di: davintro il 07 Novembre 2016, 19:54:58 PM
Meno d'accordo se con "lavoro", va intesa l'idea di "fatica". Dal mio punto di vista la fatica non è un valore positivo, ma un male necessario, un surrogato della mancanza di talento nell'esecuzione di un'attività. Quanto più ho talento quanto meno faticherò a realizzare un'opera. Pensare che la fatica sia un valore porterebbe all'assurdo di pensare che una composizione musicale creata dal genio di Mozart abbia meno valore di un'opera creata da un mediocre dilettante, solo perchè quest'ultimo ha dovuto impegnar maggiore fatica.


CitazioneTalento e fatica non si escludono, anche se il primo ceteris paribus può consentire di limitare la seconda e la seconda entro certi limiti può sopperire a una non eccessiva carenza del secondo.

Un grande talento che si sforza poco produce opere comunque meno pregevoli che se si sforzasse di più.
Michelangelo (che forse potrebbe essere considerato il massimo talento artistico, per lo meno figurativo, di tutti ti tempi, ammesso e non concesso che una simile baggianata all' americana avesse senso), prodigava sforzi titanici e soffriva tantissima fatica (e non solo fisica) nel dipingere e nello scolpire.
E i risultati si vedono!

La cosa é più evidente in un campo più banale come  lo sport (a parte il fatto che oggi l' uso generalizzato del doping, sopattutto da parte di chi ipocritamente lo nega e si scandalizza nei casi in cui, spesso non casualmente -mi scuso per il gioco di parole- viene a galla, rende problematico il concetto di "talento naturale o innato"), ove talenti inestimabili non di rado deludono per scarso impegno (faticoso) in allenamento; e talora soggetti limitatamente meno dotati naturalmente con grande fatica (e destando per questo un "di più di ammirazione") battono avversari più quotati.

In conclusione considero da parte mia valori tanto il talento artistico o generalmente intellettivo quanto l' impegno e lo sforzo faticoso di esprimerlo.

All' ultimo intervento di Green Demetr non obietto: troppa è la distanza che ci divide (su questo argomento anche più che in altri) impedendo a mio parere un confronto produttivo (comunque, solo per la cronaca, per fortuna non sono un potente -fortuna1- e sto piuttostobene -fortuna2- anche perché credo di sapermi accontentare).

maral

#33
Davintro, due veloci osservazioni sulla tua ultima considerazione.
In merito al talento e alla fatica, non è detto che il talento eviti la fatica, anzi in genere non lo fa. Si può avere un enorme talento e uscire letteralmente spossati sia in senso fisico che psichico dal lavoro che si è compiuto con talento. Il punto è che quella fatica è gratificante e si è pronti a ripeterla mille volte anche decuplicata, e questo fa la differenza.
In merito al lavoro retribuito: l'aspetto nobile del lavoro retribuito è, come ho detto prima, il senso di autonomia che procura, di potersi con il proprio sforzo manuale o intellettuale procurarsi ciò di cui si ha bisogno e che si desidera senza dipendere da qualcuno che ci mantiene (magari con il suo lavoro e la sua fatica) e ci condiziona. La retribuzione inoltre costituisce una forma di riconoscimento sociale oggettivo per quello che si fa ed è molto importante per sentire fiducia in se stessi: qualcuno mi paga per quello che so fare, dunque quello che so fare è apprezzabile, letteralmente ha un prezzo riconosciuto, quindi è un valore che non è solo per me e il fatto che mi pagano lo rende tangibile. Essere pagato per quello che si fa garantisce autonomia esistenziale in una dimensione pubblica.

davintro

rispondo a Sgiombo e Maral

Io distinguo "impegno" e "fatica". Nel senso che certamente in ogni forma di impegno è presente una componente di fatica, ma quest'ultima non esaurisce in sè il complesso dell'impegno. Per "impegno" intendo genericamente qualunque forma di attività in cui vengono spese delle energie in vista di uno scopo, mentre la fatica è ciò che introduce nell'impegno una componente di sofferenza e negatività. Come è evidente, non sempre le nostre attività risultano spiacevoli. Dal mio punto di vista (chiaro che nel momento in cui le mie premesse non sono accettate il mio discorso apparirrà non valido, quindi mi limito a cercare di essere coerente con esse), il bene è il fine a cui tendono le inclinazioni naturali di ogni soggetto, ragion per cui per me dal punto di vista "materiale", del contenuto concreto con cui tale nozione si riempie, non esiste un solo "bene", ma tanti beni diversi quante sono le differenze qualitative dei soggetti. La fatica è un male, perchè è la condizione nella quale l'impegno presuppone uno sforzo innaturale, non corrispondente alla nostra personalità, alle nostre attitudini, e l'andare contro la nostra natura provoca sofferenza, mentre l'impegno pur avendo sempre presente tale aspetto, è anche in parte piacevole, lo è nella misura in cui avvertiamo che le nostre azioni esprimono la nostra autentica personalità, ed in questo senso l'impegno è un "bene", "bene perchè piacevole. Fermo restando che la fatica è sempre un male necessario, perchè l'utilizzo degli oggetti presuppone pur sempre da parte del soggetto un doversi adeguare, un fare violenza a se stessi per rendersi atti a vincere la resistenza degli oggetti, come nel caso in cui devo spostare un pesante masso e sono costretto ad utilizzare i miei muscoli in un modo innaturale, cioè spiacevole, lontano dalla mia idea di "bene" in cui rientra il normale movimento dei muscoli. Ciò che contesto è il passaggio arbitrario dal riconoscimento della necessità alla moralizzazione della fatica, al punto di cadere in una sorta di mentalità masochista per cui ciò che si ottiene con fatica dovrebbe avere un valore morale superiore rispetto a ciò che si ottiene alla luce dei nostri talenti naturali, dunque in modo facile e naturale.

L'autonomia economica, come tutte le autonomie, è utile, ma io eviterei di parlare di "nobiltà". La nobiltà per me attiene al piano dei fini, nobile è qualcosa che possiede un valore intrinseco, mentre il denaro è uno strumento, indispensabile, ma pur sempre uno strumento, un mezzo, dunque ha un valore morale inferiore a ciò che è fine a se stesso. Il rischio di pensarla altrimenti è quello di cadere in un feticismo alienante alla ( chiedo scusa per la citazione non propriamente filosofico- accademica) Zio Paperone, che fà il bagno nei soldi venerando la ricchezza guadagnata come il fine della vita e poi per paura di non disperderla non si concede neanche una vacanza ogni tanto dal lavoro, preferendo restare chiuso nel deposito a contare il patrimonio ed a guadagnarne altro. Uno stile di vita e una mentalità che sinceramente non mi interessa e mi fà quasi orrore. Per me il valore del denaro sta solo ed esclusivamente negli oggetti che si possono comprare con esso. La quantità la rispetto solo al servizio della qualità. L'autonomia è un positivo fattore di libertà, essere autonomo rende meno condizionati dal mondo esterno gli individui. Tuttavia l'autonomia, intesa nel contesto in cui stiamo discutendo rientra anch'essa nel piano dei "mezzi", non dei fini, non della nobiltà morale. Nel piano dei fini rientra la "libertà", che va distinta dall' autonomia. Siamo esseri in relazione, legati sempre a dipendenza e l'affrancamento da tali dipendenze può portare a rinunce alla libertà molto maggiori rispetto a quelle che il restare legati alle dipendenze comporterebbero. Un esempio banale. Se i vestiti che indosso li cucissi io personalmente non avrei bisogno di sarti, e il mio livello di autonomia sociale sarebbe più alto di quello che ha uno che i vestiti li acquista già prodotti nei negozi. Ma tale autonomia sarebbe raggiunta al prezzo di un dispendio significativo di tempo che dovrei sottrarre ad attività per me più interessanti e piacevoli del cucito. A me pare che in questa discussione sul valore del lavoro non possa non essere centrale un punto ancora forse non ben considerato: il tempo, il tempo libero, che non è infinito nella nostra vita, nelle nostre giornate. Il perseguimento dell'autonomia economica attraverso il lavoro sottrae una grande quota di tempo libero che nella maggior parte dei casi un lavoratore, se potesse, occuperebbe in modi molto più piacevoli ed umani, curando le proprie passioni, interessi, relazioni umane. Siamo sicuri che il gioco (l'orgoglio un pò feticista nei confronti dell'autonomia economica) valga sempre la candela (il sacrificio del tempo libero, per noi stessi, per i nostri familiari, amici, conoscenti)? Ho forti dubbi... considerando soprattutto che al di là dell'autonomia economica esiste un'autonomia a mio avviso più nobile, l'autonomia mentale, spirituale che raggiunge chi dedica la maggior tempo allo studio, al pensiero, alla riflessione. E spesso il perseguimento delle due autonomie è conflittuale, il tempo dedicato a una toglie tempo all'altra. Perchè dobbiamo per forza tacciare di immoralità e parassitismo chi, avendone la possibilità di farlo senza gravare entro una certa misura su altri, decide di anteporre al lavoro retribuito attività culturali non sempre pagate come la scrittura, l'arte, la musica, il frequentare più d'un corso di laurea, partecipazione a convegni, lo stesso scrivere su un forum filosofico come questo, utilizzando il tempo libero sgravato dai ritmi spesso opprimenti del "lavoro"? La vera libertà non è un'utopistica autonomia dalle dipendenza che tutti inevitabilmente abbiamo, ma si raggiunge attraverso un'intelligente gestione di tali dipendenze, delegando entro i limiti del possibile i compiti più spiacevoli per ottenere maggio tempo per le attività più corrispondenti alle nostre inclinazioni e dunque più piacevoli. Ad aiutarci in ciò abbiamo la fortuna di vivere in una struttura sociale fondata sulla divisione di ruoli, dove si spera, questo è almeno il mio auspicio ideale, ogni ruolo venga assunto da persone motivate e talentuose per quel ruolo. Delegando, tornando all'esempio di prima, il ruolo di cucire i vestiti ad un sarto, a qualcuno a cui piace questo lavoro lasciando a me il tempo per cose che mi piacciono di più come la lettura finisco di fatto col rendere felici entrambi, me stesso, che ho più tempo per i miei interessi, e il sarto, che può svolgere un lavoro che lui ha scelto, che gli piace e di cui ha necessità

sgiombo

#35
Citazione di: davintro il 19 Novembre 2016, 01:23:55 AM
rispondo a Sgiombo e Maral

Io distinguo "impegno" e "fatica". Nel senso che certamente in ogni forma di impegno è presente una componente di fatica, ma quest'ultima non esaurisce in sè il complesso dell'impegno. Per "impegno" intendo genericamente qualunque forma di attività in cui vengono spese delle energie in vista di uno scopo, mentre la fatica è ciò che introduce nell'impegno una componente di sofferenza e negatività. Come è evidente, non sempre le nostre attività risultano spiacevoli. Dal mio punto di vista (chiaro che nel momento in cui le mie premesse non sono accettate il mio discorso apparirrà non valido, quindi mi limito a cercare di essere coerente con esse), il bene è il fine a cui tendono le inclinazioni naturali di ogni soggetto, ragion per cui per me dal punto di vista "materiale", del contenuto concreto con cui tale nozione si riempie, non esiste un solo "bene", ma tanti beni diversi quante sono le differenze qualitative dei soggetti. La fatica è un male, perchè è la condizione nella quale l'impegno presuppone uno sforzo innaturale, non corrispondente alla nostra personalità, alle nostre attitudini, e l'andare contro la nostra natura provoca sofferenza, mentre l'impegno pur avendo sempre presente tale aspetto, è anche in parte piacevole, lo è nella misura in cui avvertiamo che le nostre azioni esprimono la nostra autentica personalità, ed in questo senso l'impegno è un "bene", "bene perchè piacevole. Fermo restando che la fatica è sempre un male necessario, perchè l'utilizzo degli oggetti presuppone pur sempre da parte del soggetto un doversi adeguare, un fare violenza a se stessi per rendersi atti a vincere la resistenza degli oggetti, come nel caso in cui devo spostare un pesante masso e sono costretto ad utilizzare i miei muscoli in un modo innaturale, cioè spiacevole, lontano dalla mia idea di "bene" in cui rientra il normale movimento dei muscoli. Ciò che contesto è il passaggio arbitrario dal riconoscimento della necessità alla moralizzazione della fatica, al punto di cadere in una sorta di mentalità masochista per cui ciò che si ottiene con fatica dovrebbe avere un valore morale superiore rispetto a ciò che si ottiene alla luce dei nostri talenti naturali, dunque in modo facile e naturale.

Citazione
CitazioneRisposta di Sgiombo:

Concordo con tutto meno che con l' ultimo capoverso.

Non c' é alcun masochismo o compiacimento verso il dolore o la fatica nel provare "un di più di ammirazione" per chi ha conseguito uno scopo onesto a costo di grandi sforzi e fatica rispetto a chi l' ha ottenuto più facilmente perché dotato di maggior talento: semplicemente la forza d' animo é una delle tante virtù degne di ammirazione (intendo usare il termine come lo usavano gli stoici, non le suore che mi hanno rotto le p. nella mia infanzia, cosa che mie lo rende un po' antipatico).

Lo sport (quando non c' erano il doping e soprattutto l' "antidoping"-truffa-wrestling) era pieno di esempi: quando Learco Guerra vinse il suo unico giro d' Italia contro i cinque di Afredo Binda ottenne non a caso e secondo me giustamente una popolarità più o meno simile a quella del ben più titolato rivale.

E così Bartali quando vinse il suo secondo Tour de France contro il più giovane e talentuoso Coppi o Gimondi quando vinse il suo ultimo Giro contro L' immenso Eddy Merckx (c' una bellissima canzone di Enrico Ruggeri che esprime perfettamente -e poeticamente- questo concetto; si intitola per l' appunto "Gimondi e il Cannibale").

L'autonomia economica, come tutte le autonomie, è utile, ma io eviterei di parlare di "nobiltà". La nobiltà per me attiene al piano dei fini, nobile è qualcosa che possiede un valore intrinseco, mentre il denaro è uno strumento, indispensabile, ma pur sempre uno strumento, un mezzo, dunque ha un valore morale inferiore a ciò che è fine a se stesso. Il rischio di pensarla altrimenti è quello di cadere in un feticismo alienante alla ( chiedo scusa per la citazione non propriamente filosofico- accademica) Zio Paperone, che fà il bagno nei soldi venerando la ricchezza guadagnata come il fine della vita e poi per paura di non disperderla non si concede neanche una vacanza ogni tanto dal lavoro, preferendo restare chiuso nel deposito a contare il patrimonio ed a guadagnarne altro. Uno stile di vita e una mentalità che sinceramente non mi interessa e mi fà quasi orrore. Per me il valore del denaro sta solo ed esclusivamente negli oggetti che si possono comprare con esso. La quantità la rispetto solo al servizio della qualità. L'autonomia è un positivo fattore di libertà, essere autonomo rende meno condizionati dal mondo esterno gli individui. Tuttavia l'autonomia, intesa nel contesto in cui stiamo discutendo rientra anch'essa nel piano dei "mezzi", non dei fini, non della nobiltà morale. Nel piano dei fini rientra la "libertà", che va distinta dall' autonomia. Siamo esseri in relazione, legati sempre a dipendenza e l'affrancamento da tali dipendenze può portare a rinunce alla libertà molto maggiori rispetto a quelle che il restare legati alle dipendenze comporterebbero. Un esempio banale. Se i vestiti che indosso li cucissi io personalmente non avrei bisogno di sarti, e il mio livello di autonomia sociale sarebbe più alto di quello che ha uno che i vestiti li acquista già prodotti nei negozi. Ma tale autonomia sarebbe raggiunta al prezzo di un dispendio significativo di tempo che dovrei sottrarre ad attività per me più interessanti e piacevoli del cucito. A me pare che in questa discussione sul valore del lavoro non possa non essere centrale un punto ancora forse non ben considerato: il tempo, il tempo libero, che non è infinito nella nostra vita, nelle nostre giornate. Il perseguimento dell'autonomia economica attraverso il lavoro sottrae una grande quota di tempo libero che nella maggior parte dei casi un lavoratore, se potesse, occuperebbe in modi molto più piacevoli ed umani, curando le proprie passioni, interessi, relazioni umane. Siamo sicuri che il gioco (l'orgoglio un pò feticista nei confronti dell'autonomia economica) valga sempre la candela (il sacrificio del tempo libero, per noi stessi, per i nostri familiari, amici, conoscenti)? Ho forti dubbi... considerando soprattutto che al di là dell'autonomia economica esiste un'autonomia a mio avviso più nobile, l'autonomia mentale, spirituale che raggiunge chi dedica la maggior tempo allo studio, al pensiero, alla riflessione. E spesso il perseguimento delle due autonomie è conflittuale, il tempo dedicato a una toglie tempo all'altra. Perchè dobbiamo per forza tacciare di immoralità e parassitismo chi, avendone la possibilità di farlo senza gravare entro una certa misura su altri, decide di anteporre al lavoro retribuito attività culturali non sempre pagate come la scrittura, l'arte, la musica, il frequentare più d'un corso di laurea, partecipazione a convegni, lo stesso scrivere su un forum filosofico come questo, utilizzando il tempo libero sgravato dai ritmi spesso opprimenti del "lavoro"? La vera libertà non è un'utopistica autonomia dalle dipendenza che tutti inevitabilmente abbiamo, ma si raggiunge attraverso un'intelligente gestione di tali dipendenze, delegando entro i limiti del possibile i compiti più spiacevoli per ottenere maggio tempo per le attività più corrispondenti alle nostre inclinazioni e dunque più piacevoli. Ad aiutarci in ciò abbiamo la fortuna di vivere in una struttura sociale fondata sulla divisione di ruoli, dove si spera, questo è almeno il mio auspicio ideale, ogni ruolo venga assunto da persone motivate e talentuose per quel ruolo. Delegando, tornando all'esempio di prima, il ruolo di cucire i vestiti ad un sarto, a qualcuno a cui piace questo lavoro lasciando a me il tempo per cose che mi piacciono di più come la lettura finisco di fatto col rendere felici entrambi, me stesso, che ho più tempo per i miei interessi, e il sarto, che può svolgere un lavoro che lui ha scelto, che gli piace e di cui ha necessità

CitazioneRisposta di Sgiombo:

Salvo una valutazione più pessimistica (la ritengo sostanzialmente iniqua e da sovvertire) della realtà sociale di fatto da parte mia. con questo concordo in pieno!

davintro

Citazione di: sgiombo il 19 Novembre 2016, 07:59:46 AM
Citazione di: davintro il 19 Novembre 2016, 01:23:55 AMrispondo a Sgiombo e Maral Io distinguo "impegno" e "fatica". Nel senso che certamente in ogni forma di impegno è presente una componente di fatica, ma quest'ultima non esaurisce in sè il complesso dell'impegno. Per "impegno" intendo genericamente qualunque forma di attività in cui vengono spese delle energie in vista di uno scopo, mentre la fatica è ciò che introduce nell'impegno una componente di sofferenza e negatività. Come è evidente, non sempre le nostre attività risultano spiacevoli. Dal mio punto di vista (chiaro che nel momento in cui le mie premesse non sono accettate il mio discorso apparirrà non valido, quindi mi limito a cercare di essere coerente con esse), il bene è il fine a cui tendono le inclinazioni naturali di ogni soggetto, ragion per cui per me dal punto di vista "materiale", del contenuto concreto con cui tale nozione si riempie, non esiste un solo "bene", ma tanti beni diversi quante sono le differenze qualitative dei soggetti. La fatica è un male, perchè è la condizione nella quale l'impegno presuppone uno sforzo innaturale, non corrispondente alla nostra personalità, alle nostre attitudini, e l'andare contro la nostra natura provoca sofferenza, mentre l'impegno pur avendo sempre presente tale aspetto, è anche in parte piacevole, lo è nella misura in cui avvertiamo che le nostre azioni esprimono la nostra autentica personalità, ed in questo senso l'impegno è un "bene", "bene perchè piacevole. Fermo restando che la fatica è sempre un male necessario, perchè l'utilizzo degli oggetti presuppone pur sempre da parte del soggetto un doversi adeguare, un fare violenza a se stessi per rendersi atti a vincere la resistenza degli oggetti, come nel caso in cui devo spostare un pesante masso e sono costretto ad utilizzare i miei muscoli in un modo innaturale, cioè spiacevole, lontano dalla mia idea di "bene" in cui rientra il normale movimento dei muscoli. Ciò che contesto è il passaggio arbitrario dal riconoscimento della necessità alla moralizzazione della fatica, al punto di cadere in una sorta di mentalità masochista per cui ciò che si ottiene con fatica dovrebbe avere un valore morale superiore rispetto a ciò che si ottiene alla luce dei nostri talenti naturali, dunque in modo facile e naturale.
Citazione
CitazioneRisposta di Sgiombo: Concordo con tutto meno che con l' ultimo capoverso. Non c' é alcun masochismo o compiacimento verso il dolore o la fatica nel provare "un di più di ammirazione" per chi ha conseguito uno scopo onesto a costo di grandi sforzi e fatica rispetto a chi l' ha ottenuto più facilmente perché dotato di maggior talento: semplicemente la forza d' animo é una delle tante virtù degne di ammirazione (intendo usare il termine come lo usavano gli stoici, non le suore che mi hanno rotto le p. nella mia infanzia, cosa che mie lo rende un po' antipatico). Lo sport (quando non c' erano il doping e soprattutto l' "antidoping"-truffa-wrestling) era pieno di esempi: quando Learco Guerra vinse il suo unico giro d' Italia contro i cinque di Afredo Binda ottenne non a caso e secondo me giustamente una popolarità più o meno simile a quella del ben più titolato rivale. E così Bartali quando vinse il suo secondo Tour de France contro il più giovane e talentuoso Coppi o Gimondi quando vinse il suo ultimo Giro contro L' immenso Eddy Merckx (c' una bellissima canzone di Enrico Ruggeri che esprime perfettamente -e poeticamente- questo concetto; si intitola per l' appunto "Gimondi e il Cannibale").
L'autonomia economica, come tutte le autonomie, è utile, ma io eviterei di parlare di "nobiltà". La nobiltà per me attiene al piano dei fini, nobile è qualcosa che possiede un valore intrinseco, mentre il denaro è uno strumento, indispensabile, ma pur sempre uno strumento, un mezzo, dunque ha un valore morale inferiore a ciò che è fine a se stesso. Il rischio di pensarla altrimenti è quello di cadere in un feticismo alienante alla ( chiedo scusa per la citazione non propriamente filosofico- accademica) Zio Paperone, che fà il bagno nei soldi venerando la ricchezza guadagnata come il fine della vita e poi per paura di non disperderla non si concede neanche una vacanza ogni tanto dal lavoro, preferendo restare chiuso nel deposito a contare il patrimonio ed a guadagnarne altro. Uno stile di vita e una mentalità che sinceramente non mi interessa e mi fà quasi orrore. Per me il valore del denaro sta solo ed esclusivamente negli oggetti che si possono comprare con esso. La quantità la rispetto solo al servizio della qualità. L'autonomia è un positivo fattore di libertà, essere autonomo rende meno condizionati dal mondo esterno gli individui. Tuttavia l'autonomia, intesa nel contesto in cui stiamo discutendo rientra anch'essa nel piano dei "mezzi", non dei fini, non della nobiltà morale. Nel piano dei fini rientra la "libertà", che va distinta dall' autonomia. Siamo esseri in relazione, legati sempre a dipendenza e l'affrancamento da tali dipendenze può portare a rinunce alla libertà molto maggiori rispetto a quelle che il restare legati alle dipendenze comporterebbero. Un esempio banale. Se i vestiti che indosso li cucissi io personalmente non avrei bisogno di sarti, e il mio livello di autonomia sociale sarebbe più alto di quello che ha uno che i vestiti li acquista già prodotti nei negozi. Ma tale autonomia sarebbe raggiunta al prezzo di un dispendio significativo di tempo che dovrei sottrarre ad attività per me più interessanti e piacevoli del cucito. A me pare che in questa discussione sul valore del lavoro non possa non essere centrale un punto ancora forse non ben considerato: il tempo, il tempo libero, che non è infinito nella nostra vita, nelle nostre giornate. Il perseguimento dell'autonomia economica attraverso il lavoro sottrae una grande quota di tempo libero che nella maggior parte dei casi un lavoratore, se potesse, occuperebbe in modi molto più piacevoli ed umani, curando le proprie passioni, interessi, relazioni umane. Siamo sicuri che il gioco (l'orgoglio un pò feticista nei confronti dell'autonomia economica) valga sempre la candela (il sacrificio del tempo libero, per noi stessi, per i nostri familiari, amici, conoscenti)? Ho forti dubbi... considerando soprattutto che al di là dell'autonomia economica esiste un'autonomia a mio avviso più nobile, l'autonomia mentale, spirituale che raggiunge chi dedica la maggior tempo allo studio, al pensiero, alla riflessione. E spesso il perseguimento delle due autonomie è conflittuale, il tempo dedicato a una toglie tempo all'altra. Perchè dobbiamo per forza tacciare di immoralità e parassitismo chi, avendone la possibilità di farlo senza gravare entro una certa misura su altri, decide di anteporre al lavoro retribuito attività culturali non sempre pagate come la scrittura, l'arte, la musica, il frequentare più d'un corso di laurea, partecipazione a convegni, lo stesso scrivere su un forum filosofico come questo, utilizzando il tempo libero sgravato dai ritmi spesso opprimenti del "lavoro"? La vera libertà non è un'utopistica autonomia dalle dipendenza che tutti inevitabilmente abbiamo, ma si raggiunge attraverso un'intelligente gestione di tali dipendenze, delegando entro i limiti del possibile i compiti più spiacevoli per ottenere maggio tempo per le attività più corrispondenti alle nostre inclinazioni e dunque più piacevoli. Ad aiutarci in ciò abbiamo la fortuna di vivere in una struttura sociale fondata sulla divisione di ruoli, dove si spera, questo è almeno il mio auspicio ideale, ogni ruolo venga assunto da persone motivate e talentuose per quel ruolo. Delegando, tornando all'esempio di prima, il ruolo di cucire i vestiti ad un sarto, a qualcuno a cui piace questo lavoro lasciando a me il tempo per cose che mi piacciono di più come la lettura finisco di fatto col rendere felici entrambi, me stesso, che ho più tempo per i miei interessi, e il sarto, che può svolgere un lavoro che lui ha scelto, che gli piace e di cui ha necessità
CitazioneRisposta di Sgiombo: Salvo una valutazione più pessimistica (la ritengo sostanzialmente iniqua e da sovvertire) della realtà sociale di fatto da parte mia. con questo concordo in pieno!

Tra "forza d'animo" e "fatica" non c'è un rapporto diretto e necessario. La forza d'animo è quella spinta interiore che ci porta a desiderare con ardore il raggiungimento di un obiettivo e ad essere disponibili a passare momenti di sofferenza e a faticare per raggiungerlo. Ma essere disposti alla sofferenza ed alla fatica non vuol dire cercare la sofferenza e la fatica più del necessario sufficiente a raggiungere l'obiettivo che ci si prefigge. In linea teorica si può essere dotati di una grande fermezza, forza d'animo e poi trovarsi a realizzare con relativa facilità un certo risultato. Si sarebbe stati pronti a fare sacrifici, fatica, ma se ciò non è necessario meglio così. La fatica può però essere un'importante segno rivelatore della forza d'animo di una persona. Osservando la fatica e le sofferenze di una persona nello svolgere un'azione posso rendermi conto della sua tenacia ed apprezzarla per questo. Ma non si deve confondere l'idea che la fatica sia un segno rivelatore della forza d'animo con l'idea che quanto più sia desideri fortemente qualcosa tanto più si debba fare effettivamente fatica. La fatica cioè non rende direttamente moralmente migliore un'azione ma può essere un segno di riconoscimento esteriore a-posteriori per un giudizio morale sulla disposizione interiore. Può apparire una distinzione troppo sottile ma per me è fondamentale. Tra l'altro neanche la "forza d'animo" per me è di per sè una virtù, ma una sorta di "accrescitivo moralmente neutro". La forza interiore la si può applicare ad un'azione rivolta ad un fine negativo o positivo, e in base a tale differenza essa aumenta o diminuisce la moralità dell'azione: quanto più la forza d'animo si esprime in una buona azione tanto più l'azione la giudico buona, quanto più la si mette in un fine malvagio tanto più l'azione diventa cattiva, in questo caso si deve parlare di un'ostinazione verso il male, il male viene preseguito con più intensità, dunque la volontà è più malvagia. Il valore morale da mio punto di vista è dato soprattutto dall'intenzione soggettiva che progetta il fine

p.s. breve nota assolutamente non filosofica ma fatta come tifoso (per pigrizia non praticante) di ciclismo: nel secondo tour di Bartali, quello del 1948, quello celebre che secondo molti evitò la guerra civile in Italia dopo l'attentato a Togliatti calmando gli animi, Coppi non c'era. Tra i rivali principali di Bartali in quell'edizione c'erano Robic e Bobet! Condivido il giudizio sulla canzone di Ruggieri

sgiombo

#37
Citazione di: davintro il 23 Novembre 2016, 00:11:15 AM

Tra "forza d'animo" e "fatica" non c'è un rapporto diretto e necessario. La forza d'animo è quella spinta interiore che ci porta a desiderare con ardore il raggiungimento di un obiettivo e ad essere disponibili a passare momenti di sofferenza e a faticare per raggiungerlo. Ma essere disposti alla sofferenza ed alla fatica non vuol dire cercare la sofferenza e la fatica più del necessario sufficiente a raggiungere l'obiettivo che ci si prefigge. In linea teorica si può essere dotati di una grande fermezza, forza d'animo e poi trovarsi a realizzare con relativa facilità un certo risultato. Si sarebbe stati pronti a fare sacrifici, fatica, ma se ciò non è necessario meglio così. La fatica può però essere un'importante segno rivelatore della forza d'animo di una persona. Osservando la fatica e le sofferenze di una persona nello svolgere un'azione posso rendermi conto della sua tenacia ed apprezzarla per questo. Ma non si deve confondere l'idea che la fatica sia un segno rivelatore della forza d'animo con l'idea che quanto più sia desideri fortemente qualcosa tanto più si debba fare effettivamente fatica. La fatica cioè non rende direttamente moralmente migliore un'azione ma può essere un segno di riconoscimento esteriore a-posteriori per un giudizio morale sulla disposizione interiore. Può apparire una distinzione troppo sottile ma per me è fondamentale.

CitazioneNon credo di averla mai ignorata nella discussione.
Non ho mai sostenuto che si debba faticare "per il gusto di faticare": questo sì che sarebbe masochismo!
A posteriori va riconosciuto più merito a chi ha faticato di più che a chi ha faticato di meno per raggiungere uno scopo onesto (che non é certo la fatica fine a se stessa).

Ma fin qui mi sembra di concordare, per lo meno nella "sostanza" della questione.

Tra l'altro neanche la "forza d'animo" per me è di per sè una virtù, ma una sorta di "accrescitivo moralmente neutro". La forza interiore la si può applicare ad un'azione rivolta ad un fine negativo o positivo, e in base a tale differenza essa aumenta o diminuisce la moralità dell'azione: quanto più la forza d'animo si esprime in una buona azione tanto più l'azione la giudico buona, quanto più la si mette in un fine malvagio tanto più l'azione diventa cattiva, in questo caso si deve parlare di un'ostinazione verso il male, il male viene preseguito con più intensità, dunque la volontà è più malvagia. Il valore morale da mio punto di vista è dato soprattutto dall'intenzione soggettiva che progetta il fine

CitazioneMa anche quando impiegata a fin di male la forza d' animo di per sé resta un pregio in chi la possiede (un pregio maggiore o minore a seconda che la si possieda in maggiore o minor misura.
Anche una grande conoscenza teorica e abilità di applicarla tecnologicamente può essere usata bene o male, ma non é -per esempio- che poiché un elicottero può essere usato per bombardare dei combattenti per la propria sovranità, allora dovremmo distruggere tutti gli elicotteri privandoci della possibilità di prestare tempestivamente cure urgenti  anche ne  ha bisogno.
Come l' elicottero in sé é qualcosa di utile e positivo (un "bene" materiale) anche se usato efficacemente pure per conseguire fini malvagi potenziando la malvagità delle azioni in cui ci si serve di esso, così la forza d' animo di per sé é una qualità morale positiva, anche se in chi é per altri versi malvagio ne potenzia la malvagità.



p.s. breve nota assolutamente non filosofica ma fatta come tifoso (per pigrizia non praticante) di ciclismo: nel secondo tour di Bartali, quello del 1948, quello celebre che secondo molti evitò la guerra civile in Italia dopo l'attentato a Togliatti calmando gli animi, Coppi non c'era. Tra i rivali principali di Bartali in quell'edizione c'erano Robic e Bobet! Condivido il giudizio sulla canzone di Ruggieri

CitazioneMannaggia, sei al corrente di quelle vicende sportive almeno quanto me!

E devo confessare che (deplorevolmente; ma credo che le suore della mia infanzia l' avrebbero classificato come "peccato veniale") lo sapevo anch' io che al tour del '48 non c' era Coppi e lo sconfitto principale fu l' astro nascente francese Louison Bobet (e proprio nel fatto che il "deuteragonista" fosse francese sta una delle chiavi che hanno reso tale impresa leggendaria in quella temperie politica postbellica "e i francesi ci rispettano"; "e le palle ancor gli girano", altra bella canzone, di Paolo Conte); ho "forzato la cosa a fin di bene" onde spiegarmi meglio, contando sulla probabile scarsa conoscenza di quei fatti tua e di altri del forum.

Comunque é stato deplorevole da parte mia: lo confesso e chiedo venia.

(E se é per questo, anche all' ultimo giro di Gimondi il sommo Eddy Mrckx era in fase decisamente calante, non era più il "cannibale"; e infatti l' anno dopo "appese la bici al chiodo", come si diceva allora).
A suo merito va ascritto il fatto che poteva ritirarsi e prese in considerazione l' ipotesi di farlo, ma resistette (con una certa fatica...) fino alla fine perché per il suo avversario-amico, da lui molto stimato, Gimondi un conto sarebbe stato vincere un giro davanti a chichessia, un altro conto vincerlo davanti al più grande di tutti i tempi (ovviamente non pretendo che altri condividano questa mia valutazione, legata anche ai miei ricordi e alla mie personali vicende di quegli anni, quelli della mia adolescenza). 


Donalduck

Voltaire ha scritto:
Citazioneè attraverso il lavoro che l'essere umano si esplica, acquista dignità, diventa essere umano

E' senza dubbio un'asserzione gratuita, e tale rimane finché non ne viene fornita qualche giustificazione plausibile.
Io sono un grande estimatore dell'ozio e delle attività meditative, che in genere si contrappongono al "lavoro" comunemente inteso.
Ma in realtà il punto è cosa esattamente si vuole intendere con "lavoro".

Partendo dallo spunto iniziale, sono decisamente d'accordo sull'opinione che sia sbagliato fondare una repubblica sul "lavoro". In quasto caso il significato si circoscrive alle cosiddette attività produttive, qualle che direttamente generano beni consumabili. E se non sono d'accordo in generale, ancor meno lo sono considerando quanto sia degradante per l'essere umano la gran parte dei lavori che si è costretti a fare per vivere.

Non che i lavori siano degradanti in sé, ma per come sono gestiti e per il malefico contesto in cui sono inseriti (sono fermamente convinto del carattere involutivo, degradante e distruttivo del capitalismo e della "filosofia" che lo anima).

Secondo me la dignità, per gli uomini come per tutti gli esseri, è gratis, non c'è alcun bisogno di conquistarla, mentre è possibile minarla o demolirla, ad esempio attraverso diverse attività lavorative che la nostra società ci offre.

Se invece si dà una definizione diversa di lavoro, ad esempio genericamente un insieme di azioni volte a ottenere un certo risultato, il valore del lavoro dipende più che altro dal valore dell'obiettivo e dall'abilità ed efficacia con cui viene svolto. In questo caso, comunque, il lavoro non può essere considerato prerogativa degli esseri umani. Basta considerare cose come gli alveari, i formicai, e dighe dei castori, per citare gli esempi più evidenti. Prerogativa dell'uomo, forse, è solo il lavoro degradato, quello che deriva dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sulla coercizione e la sottomissione della volontà altrui alla propria.

Per quanto riguarda la Costituzione, a mio parere andrebbe interamente riscritta, e fondata unicamente su valori etici (noto per inciso che l'etica sì, a differenza del lavoro, può essere considerata a buon diritto una prerogativa umana, almeno per quanto ne sappiamo), definendo in primo luogo un sistema di valori di riferimento, ossia quali sono i valori a cui si ispira e in quale ordine di priorità, e facendo conseguire il resto da questo sistema di valori. E il lavoro è un'attività, non un valore, casomai può esserlo l'operosità, non necessariamente applicata a beni immadiatamente consumabili o servizi immediatamente fruibili.

maral

La dignità che offre il lavoro è quella di non dovere dipendere da altri (altre persone o organizzazioni) per il proprio mantenimento, di sentirsi individui adulti e autonomi in grado di procacciarsi da soli quanto necessario per vivere e quindi di sentirsi liberi in quanto capaci. Detto questo non vi è dubbio che il lavoro possa esercitare l'effetto contrario soffocando anziché promuovere la propria autonomia, soprattutto da quando, con l'affermarsi della visione economica dell'esistenza, della produzione industriale e del conseguente consumismo, è stato identificato con il lavoro salariato e con l'alienazione da esso prodotto.

davintro

Citazione di: Donalduck il 27 Novembre 2016, 16:49:32 PMVoltaire ha scritto:
Citazioneè attraverso il lavoro che l'essere umano si esplica, acquista dignità, diventa essere umano
E' senza dubbio un'asserzione gratuita, e tale rimane finché non ne viene fornita qualche giustificazione plausibile. Io sono un grande estimatore dell'ozio e delle attività meditative, che in genere si contrappongono al "lavoro" comunemente inteso. Ma in realtà il punto è cosa esattamente si vuole intendere con "lavoro". Partendo dallo spunto iniziale, sono decisamente d'accordo sull'opinione che sia sbagliato fondare una repubblica sul "lavoro". In quasto caso il significato si circoscrive alle cosiddette attività produttive, qualle che direttamente generano beni consumabili. E se non sono d'accordo in generale, ancor meno lo sono considerando quanto sia degradante per l'essere umano la gran parte dei lavori che si è costretti a fare per vivere. Non che i lavori siano degradanti in sé, ma per come sono gestiti e per il malefico contesto in cui sono inseriti (sono fermamente convinto del carattere involutivo, degradante e distruttivo del capitalismo e della "filosofia" che lo anima). Secondo me la dignità, per gli uomini come per tutti gli esseri, è gratis, non c'è alcun bisogno di conquistarla, mentre è possibile minarla o demolirla, ad esempio attraverso diverse attività lavorative che la nostra società ci offre. Se invece si dà una definizione diversa di lavoro, ad esempio genericamente un insieme di azioni volte a ottenere un certo risultato, il valore del lavoro dipende più che altro dal valore dell'obiettivo e dall'abilità ed efficacia con cui viene svolto. In questo caso, comunque, il lavoro non può essere considerato prerogativa degli esseri umani. Basta considerare cose come gli alveari, i formicai, e dighe dei castori, per citare gli esempi più evidenti. Prerogativa dell'uomo, forse, è solo il lavoro degradato, quello che deriva dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sulla coercizione e la sottomissione della volontà altrui alla propria. Per quanto riguarda la Costituzione, a mio parere andrebbe interamente riscritta, e fondata unicamente su valori etici (noto per inciso che l'etica sì, a differenza del lavoro, può essere considerata a buon diritto una prerogativa umana, almeno per quanto ne sappiamo), definendo in primo luogo un sistema di valori di riferimento, ossia quali sono i valori a cui si ispira e in quale ordine di priorità, e facendo conseguire il resto da questo sistema di valori. E il lavoro è un'attività, non un valore, casomai può esserlo l'operosità, non necessariamente applicata a beni immadiatamente consumabili o servizi immediatamente fruibili.

completamente d'accordo con questo intervento, in particolare circa l'idea che la dignità sia qualcosa di gratuito e non da conquistare aderendo a un sistema di convinzioni morali che pretende di essere oggettiva. Essendo il giudizio di "dignità" un giudizio morale, non legato a una conoscenza razionale dei fatti, ma la sensibilità soggettiva verso i valori, non si dovrebbe pensare di porre come oggettivo il fatto di reputare "degno" o "non degno" il modo di vivere di una persona (specie nei casi nei quali tale modo di vivere viene in fondo condotto senza far del male ad altri). La distinzioni humeana tra "essere" e "dover essere" e il riconoscimento di ogni passaggio dal primo ambito al secondo come sempre arbitrario è sempre un principio importante per me

maral

Mi chiedo come possa sussistere un essere senza un "dover essere". Il lavoro è la fatica che si fa per tentare di diventare se stessi e lo si compie con gli atti che pubblicamente si compiono con gli altri e per gli altri e che ci riflettono (ci permettono di riconoscerci) per quello che siamo.
Credere di essere senza il lavoro di "dover essere" è consegnarsi come schiavi a chi solo intende definirci in oggetto, ossia come oggetti a disposizione.

davintro

Citazione di: maral il 30 Novembre 2016, 23:08:25 PMMi chiedo come possa sussistere un essere senza un "dover essere". Il lavoro è la fatica che si fa per tentare di diventare se stessi e lo si compie con gli atti che pubblicamente si compiono con gli altri e per gli altri e che ci riflettono (ci permettono di riconoscerci) per quello che siamo. Credere di essere senza il lavoro di "dover essere" è consegnarsi come schiavi a chi solo intende definirci in oggetto, ossia come oggetti a disposizione.



non direi che con il lavoro "si diventa se stessi", ma che con esso esprimiamo in forme oggettivate e sociali un'identità che ci costituisce aprioristicamente e interiormente. Se l'identità fosse una costruzione a posteriori del lavoro allora il problema dell'alienazione, del vivere il lavoro come costrizione non potrebbe sussistere. Come si potrebbe infatti percepire il lavoro che svolgiamo come insoddisfacente in base alle nostre esigenze esistenziali se non si ammette implicitamente uno scarto, una distinzione tra la nostra identità e il ruolo lavorativo, con il secondo non adeguato ma in conflitto con la prima? Se la mia identità coincidesse col lavoro allora quest'ultimo sarebbe sempre fonte di felicità e mai come fatica, sacrificio, rinunce. Io non sono il mio lavoro, come non sono il mio ruolo familiare, accademico, l'immagine che gli altri hanno di me. Io sono una soggettività unica, irripetibile, irriducibile ad una categoria collettiva che però può esprimere se stessa più o meno, parzialmente nelle varie relazioni sociali (compreso il lavoro) senza mai risolversi del tutto in esse. Il "dover essere" diviene schiavitù quando impostomi dall'esterno, espressione di libertà quando stabilito dal soggetto stesso chiamato ad agire coerentemente con esso. 

Comunque non ho mai negato un aspetto morale del lavoro, solo ritengo che la retribuzione economica sia un fattore che alimenta non il carattere morale del lavoro, ma solo la sua utilità materiale. A meno di non ritenere materialisticamente e volgarmente che il valore morale delle persone sia determinato da quanti soldi guadagnano,va  riconosciuto che il denaro e il guadagno non sono  valori fini a se stessi ma un utili mezzi, che l'autonomia economica è utile ma ci sono forme di autonomia più importanti, e che nel momento in cui il conseguimento dell'autonomia economica viene raggiunto a costo dell'annullamento del tempo libero ci troviamo di fronte ad un processo disumanizzante in cui si capovolge la corretta gerarchia anteponendo i mezzi, ciò che è utile per altro (il denaro) a ciò che è fine a se stesso (il tempo da dedicare a ciò che ci piace più fare, coltivando le nostre passioni e interessi, i rapporti affettivi). Ovviamente so che in molte situazioni concrete purtroppo ciò diviene una necessità di sopravvivenza per sé e la propria famiglia, ma ciò che  contesto è che debba divenire un ideale normativo morale in generale, specie nelle situazioni in cui tutto ciò non è strettamente necessario dal punto di vista della sopravvivenza

The Eater Of Dreams

Citazione di: maral il 29 Novembre 2016, 11:44:04 AM
La dignità che offre il lavoro è quella di non dovere dipendere da altri (altre persone o organizzazioni) per il proprio mantenimento, di sentirsi individui adulti e autonomi in grado di procacciarsi da soli quanto necessario per vivere e quindi di sentirsi liberi in quanto capaci. Detto questo non vi è dubbio che il lavoro possa esercitare l'effetto contrario soffocando anziché promuovere la propria autonomia, soprattutto da quando, con l'affermarsi della visione economica dell'esistenza, della produzione industriale e del conseguente consumismo, è stato identificato con il lavoro salariato e con l'alienazione da esso prodotto.

Non dover dipendere da altri? Lavorare al massimo significa rendersi indipendenti dai propri genitori, ma sempre "dipendente" in senso assoluto rimani. Dipendente dallo Stato, dipendente dalla clientela che ti paga se lavori in privato, ecc.; comunque la tua sopravvivenza è subordinata ad "entità" altre.

Concordo con chi sostiene che la dignità appartiene "di natura" ad ogni essere umano per il semplice fatto di essere una creatura esistente, cosciente e in varia misura sofferente; e allargando il concetto, come già scritto da altri, degno potrebbe essere definito chi "è cosciente delle coscienze altrui" e vive di conseguenza, cercando di non arrecare danno agli altri, nei limiti del possibile.

Esempi terra terra: se il mio stile di vita prevede che io per sostentarmi scippi le vecchiette, è difficile pensare di poterlo definire un modo di vivere degno. Ma se invece dispongo di risorse economiche la cui fruizione non crea problemi a nessuno, e dedico il mio tempo alle mie passioni o semplicemente a fissare il muro, che problema c'è?

Il postulare l'esistenza di questa concatenazione indissolubile lavoro/dignità onestamente mi mette un po' i brividi, mi evoca istintivamente immagini come lo yuppie di American Psycho o peggio ancora certi slogan visti su certi cancelli in tempi passati.

maral

Citazione di: davintro il 01 Dicembre 2016, 11:37:29 AM
non direi che con il lavoro "si diventa se stessi", ma che con esso esprimiamo in forme oggettivate e sociali un'identità che ci costituisce aprioristicamente e interiormente.
E' solo facendo che si può sentire un'identità, la nostra identità che il contesto degli altri ci riflette in risposta al nostro fare e al nostro modo di fare. Non c'è alcun senso di identità se non in quello che abbiamo fatto che determina ciò che resta ancora da fare. Il problema nasce quando non si trova il senso di quello che si è fatto e non lo si trova poiché il mondo non ce lo riflette come qualcosa che abbia significato in cui possiamo riconoscerci, in cui possiamo stare per un po' identici a noi stessi. E' questo il motivo dell'alienazione che può produrre il lavoro, non perché io sono sempre lo stesso, come se il "me stesso fosse una sorta di ente metafisica in sé stante, ma se in quello che faccio posso sentirmi da me stesso, attraverso la risposta degli altri, riconosciuto. Facendo, letteralmente produco ciò che mi resta come immagine di me stesso, ma a volte in quell'immagine non sento di poter corrispondere. L'identità è un processo continuo del fare, è sempre un processo in atto e non è mai una cosa compiutamente realizzata, se non nel momento in cui si muore, quando non resta più niente da fare. 
Il lavoro non alienante è allora quello in cui il prodotto di ciò che ho fatto contiene qualcosa in cui gli altri vedono me come soggetto che sa fare, se questo non accade non posso sentire in me alcuna identità.
L'aspetto economico del lavoro è importante (e lo è per tutti) come elemento di riconoscimento, diventa alienante quando è intesa come l'unico elemento di riconoscimento possibile (come tu stesso dici nella tua risposta). Il delitto che abbiamo commesso è stato quello di subordinare ogni fare al denaro ed è in questa totalità di senso solo monetaria che pretende di definire completamente quello che siamo in cui ci si ritrova alienati.
Lo stesso concetto di "tempo libero" è un assurdo prodotto nell'epoca dell'industrializzazione, non c'è un tempo libero e uno occupato, ma un tempo unico in cui qualsiasi cosa si fa, siamo chiamati a riconoscerci a mezzo di ciò che facciamo. Così il cosiddetto !tempo libero" è ormai diventato ancora più alienante di quello occupato, è il tempo in cui siamo utilizzati come unità di consumo, ove il consumo è una sorta di lavoro ombra che manco ci rendiamo conto di compiere e che non ci lascia nulla.
Una società in cui non si fa nulla e non si è più capaci di fare nulla è una società di disperati, proprio come accade in un'azienda in cui ti mettono in un ufficio senza darti nulla da fare, in attesa che la tua disperazione ti obblighi ad andartene se vuoi conservare la tua salute mentale.
 


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