Critica al COEMM e spunti riflessivi

Aperto da Voltaire, 02 Novembre 2016, 23:02:41 PM

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maral

Citazione di: The Eater Of Dreams il 01 Dicembre 2016, 13:41:14 PM
Non dover dipendere da altri? Lavorare al massimo significa rendersi indipendenti dai propri genitori, ma sempre "dipendente" in senso assoluto rimani. Dipendente dallo Stato, dipendente dalla clientela che ti paga se lavori in privato, ecc.; comunque la tua sopravvivenza è subordinata ad "entità" altre.
Certo, ognuno di noi dipende sempre e comunque dagli altri per il proprio riconoscimento identitario, non siamo autarchici, l'identità in cui ci riconosciamo non è qualcosa che ci appartiene come innata e la natura non riconosce nessuna dignità agli individui che in essa esistono per il puro fatto di essere (l'essere non conferisce senso), occorre sempre la possibilità di un riconoscimento sociale prodotto dal nostro modo di fare e da quello che sappiamo fare, non nasciamo con dentro un'identità innata, in sé e per sé. La differenza sta nella misura in cui il mondo sociale nel quale ci si trova a esistere ci mostra o ci nega questa identità conferendole o negandole dignità. Identità che, come dicevo, è sempre limitata e parziale, è sempre un processo in corso, non un'essenza stabilita. Nel momento in cui il prodotto del nostro fare è riconosciuto noi possiamo riconoscerci in esso, sentire in esso la nostra identità  in via di definizione senza che una compiuta definizione appaia mai stabilita.

CitazioneEsempi terra terra: se il mio stile di vita prevede che io per sostentarmi scippi le vecchiette, è difficile pensare di poterlo definire un modo di vivere degno. Ma se invece dispongo di risorse economiche la cui fruizione non crea problemi a nessuno, e dedico il mio tempo alle mie passioni o semplicemente a fissare il muro, che problema c'è?
Anche in questo caso la dignità riguarda un riconoscimento sociale per quello che fai rispetto a quello che non fai. Il disporre di risorse economiche implica che qualcuno, lavorando al posto tuo, dia un significato d'uso a quelle risorse economiche, qualcuno di cui, vivendo di rendita, comunque utilizzi il lavoro. Quanto a passare il proprio tempo a fissare il muro credo che sia un lavoro che solo pochissimi possano permettersi di fare senza ritrovarsi dopo poco tempo psichicamente distrutti (passare giornate in cella di isolamento senza fare nulla è devastante quanto e più che essere condannati ai lavori forzati).

E' interessante comunque come al diventare del lavoro umano sempre più superfluo e meno autonomo corrisponda una sottrazione di valore al lavoro stesso in quanto tale. Il problema è che si riesce sempre meno a trovare senso in qualsiasi cosa si faccia, cosicché non resta davvero più niente da fare, solo sperare di crepare prima possibile per eliminare la noia irrimediabile e insopportabile di esistere in totale disimpegno.

The Eater Of Dreams

Citazione di: maral il 01 Dicembre 2016, 23:10:59 PM

Certo, ognuno di noi dipende sempre e comunque dagli altri per il proprio riconoscimento identitario, non siamo autarchici, l'identità in cui ci riconosciamo non è qualcosa che ci appartiene come innata e la natura non riconosce nessuna dignità agli individui che in essa esistono per il puro fatto di essere (l'essere non conferisce senso), occorre sempre la possibilità di un riconoscimento sociale prodotto dal nostro modo di fare e da quello che sappiamo fare, non nasciamo con dentro un'identità innata, in sé e per sé. La differenza sta nella misura in cui il mondo sociale nel quale ci si trova a esistere ci mostra o ci nega questa identità conferendole o negandole dignità. Identità che, come dicevo, è sempre limitata e parziale, è sempre un processo in corso, non un'essenza stabilita. Nel momento in cui il prodotto del nostro fare è riconosciuto noi possiamo riconoscerci in esso, sentire in esso la nostra identità  in via di definizione senza che una compiuta definizione appaia mai stabilita.

Molto banalmente, uno può "saper fare" anche senza che il prodotto del suo saper fare sia retribuito (=lavoro), no?


Anche in questo caso la dignità riguarda un riconoscimento sociale per quello che fai rispetto a quello che non fai. Il disporre di risorse economiche implica che qualcuno, lavorando al posto tuo, dia un significato d'uso a quelle risorse economiche, qualcuno di cui, vivendo di rendita, comunque utilizzi il lavoro.

Ma se quel qualcuno è d'accordo con me, dov'è l'indegnità? A questo punto sospetto anche io che la controversia si riduca un po' a una questione di "invidia" nei confronti di chi può eventualmente permettersi di non lavorare (sempre senza sottrarre ad altri quelle risorse in assenza del loro consenso), sentimento che va a inquinare il discorso "morale" andando di fatto a costituire un "moraleggiamento", più che altro...come d'altra parte accade per tanti altri temi sociali.


Quanto a passare il proprio tempo a fissare il muro credo che sia un lavoro che solo pochissimi possano permettersi di fare senza ritrovarsi dopo poco tempo psichicamente distrutti (passare giornate in cella di isolamento senza fare nulla è devastante quanto e più che essere condannati ai lavori forzati).

Può darsi, ma ancora una volta, che c'entra con la dignità? Se uno vuole devastarsi psichicamente, nel rispetto dell'incolumità altrui, puoi consigliargli di fare altrimenti per il suo bene, ma poi stop

E' interessante comunque come al diventare del lavoro umano sempre più superfluo e meno autonomo corrisponda una sottrazione di valore al lavoro stesso in quanto tale. Il problema è che si riesce sempre meno a trovare senso in qualsiasi cosa si faccia, cosicché non resta davvero più niente da fare, solo sperare di crepare prima possibile per eliminare la noia irrimediabile e insopportabile di esistere in totale disimpegno.

Non riesco a cogliere come sei giunto all'ultima conclusione, per cui se uno non ritiene che il lavoro rappresenti la fonte della dignità, dovrebbe svuotarsi di senso la sua intera esistenza; né ho capito da dove deduci che la persona "disimpegnata" si annoi necessariamente; magari invece si annoia di più l'uomo costretto a stare sul posto di lavoro 40+ ore a settimana perché qualcuno lo ha convinto che ciò farà di lui un essere degno (e magari di quel lavoro non gliene frega molto perché mica tutti a questo mondo, già, hanno la possibilità di accedere ad un'attività lavorativa che rappresenti quello che sentono di essere o di "voler fare"). 

In conclusione posso dirti che personalmente trovo che la vita non abbia senso - ma a prescindere da quello che uno fa o non fa. Si tratta di passare il tempo come uno meglio crede, sostanzialmente (e sempre tenendo a mente il precetto piuttosto intuitivo del "non nuocere alle altre individualità", per quanto possibile).  La pretesa che tutto questo abbia un significato più grande, o forse proprio un qualche tipo di significato, mi sembra una delle classiche risposte adattative messe in atto da una creatura scagliata nell'esistenza, dotata di coscienza e costretta fisicamente a chiedersi "perché?".

The Eater Of Dreams

Scusa, leggo solo adesso un tuo post precedente in cui affermi che l'essere pagati per quello che si fa rappresenta la modalità imprescindibile di riconoscimento del proprio "valore" di individuo, da parte della società in prima battuta e quindi a seguire da parte di sé stessi.
Che dire, qui non ho molto altro da argomentare, se non che mi sembra un'affermazione con caratteristiche di pura soggettività che tu hai elevato a considerazione oggettiva. O meglio, che la società e il giudizio sociale attualmente funzionino, su larga scala, secondo questi criteri, è innegabile, ma è proprio la fondatezza di questi criteri che io contesto; e d'altra parte mi colloco ben lontano da questo tipo di "sensazioni", riuscendo a svincolarmi con discreti risultati da questo meccanismo aprioristico di auto-riconoscimento di "dignità" esclusivamente in funzione del costume sociale vigente.

maral

#48
Citazione di: The Eater Of Dreams il 02 Dicembre 2016, 01:45:47 AM
Molto banalmente, uno può "saper fare" anche senza che il prodotto del suo saper fare sia retribuito (=lavoro), no?
Sì, ma occorre che venga riconosciuto come un saper fare. La retribuzione è un aspetto di questo riconoscimento che diventa sempre più fondamentale in un contesto come quello attuale, in cui il riconoscimento finisce con l'essere monopolizzato dal denaro come medio assoluto di accesso al mondo (con questo non nego che vi possano essere resistenze soggettive, ma tali resistenze sono sempre più vanificate e riassorbite nel significato pubblico e universale dell'economia). Di questo va tenuto conto, perché si ha un bel da dire che ognuno va riconosciuto semplicemente per quello che è, di fatto non è mai così, nemmeno nel riconoscimento di se stessi (che non è mai rivolto al proprio puro esserci, ma a ciò che ci si sente capaci o incapaci di fare e per questo fa sentire di esserci) tanto è vero che chi perde il proprio lavoro (quel lavoro in cui trovava un'identità fosse pure alienante) prima o poi cade in depressione acuta se non trova un'altra occupazione a cui dedicarsi con impegno (un'occupazione vera, non un simulacro passatempo che la modernità ha creato con le sue "mode" hobbistiche), fino a potersi riconoscere per quello che pubblicamente sa fare. Leggevo proprio recentemente dell'incidenza che ha avuto sulla salute mentale e conseguentemente sulle speranze di vita media la crisi del mercato del lavoro: non è una questione solo economica (l'economia della sussistenza regalata come un'elemosina pubblica non la può risolvere) sia per chi  ha perduto il lavoro, sia per chi lo cerca e non lo trova.

CitazioneMa se quel qualcuno è d'accordo con me, dov'è l'indegnità? A questo punto sospetto anche io che la controversia si riduca un po' a una questione di "invidia" nei confronti di chi può eventualmente permettersi di non lavorare (sempre senza sottrarre ad altri quelle risorse in assenza del loro consenso), sentimento che va a inquinare il discorso "morale" andando di fatto a costituire un "moraleggiamento", più che altro...come d'altra parte accade per tanti altri temi sociali.

Può darsi, ma ancora una volta, che c'entra con la dignità? Se uno vuole devastarsi psichicamente, nel rispetto dell'incolumità altrui, puoi consigliargli di fare altrimenti per il suo bene, ma poi stop

Certamente la dignità sta in ciò che sentiamo di essere, ma ciò che sentiamo di essere è il prodotto di ciò che facciamo. E' sempre ciò che si fa (e quindi ciò che non si fa) rispetto al significato che il contesto riflette sui modi di fare che determina il sentimento di dignità di se stessi. Una cultura predatrice certamente riconosce come persona degnissima chi si dedica con successo alla rapina e lo eleva ai vertici dello stato sociale, Una visione del mondo economico-finanziaria può riconoscere come persona degnissima chi si occupa solo di denaro vivendo sul lavoro altrui che trasforma quel denaro in risorsa utilizzabile, in un ambito nichilista stare tutto il giorno a fissare il vuoto può risultare la cosa più opportuna da fare e lo stato depressivo venir considerato come ideale di dignità in cui riconoscersi. In ogni caso c'è sempre un fare e l'immagine che quel fare riflette rendendosi pubblico, e in quanto pubblico oggettivamente condivisibile in quell'ambito in cui trova effettiva condivisione.


CitazioneNon riesco a cogliere come sei giunto all'ultima conclusione, per cui se uno non ritiene che il lavoro rappresenti la fonte della dignità, dovrebbe svuotarsi di senso la sua intera esistenza;

Dalla considerazione che in ciò che il nostro fare produce generando risposte che lo riflettono troviamo comunque il senso di noi stessi, non c'è alcun senso che metafisicamente lo preceda, l'essere come tale non ha nessun significato, è una pura tautologia (e per questo è oggettiva in modo assoluto).


CitazioneLa pretesa che tutto questo abbia un significato più grande, o forse proprio un qualche tipo di significato, mi sembra una delle classiche risposte adattative messe in atto da una creatura scagliata nell'esistenza, dotata di coscienza e costretta fisicamente a chiedersi "perché?".

E non è poco, questo lavoro del chiedersi perché, che non si risolve nel fatto che non si trovi risposta esaustiva. Anzi, proprio in quanto nessuna risposta esaustiva può mai essere data, continuiamo a cercare significati e il lavoro ci impegna a produrre resti (qualcosa che ci resta), consentendoci di vivere sentendoci vivi. In questi resti consiste la remunerazione fondamentale del lavoro. Poiché solo l'uomo lavora (né gli dei né gli animali lo fanno, a meno che questi ultimi non siano costretti dall'uomo come mezzi per il suo lavoro), proprio perché solo l'uomo è gettato nel mondo.

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