Cos'è un ente? Perchè è diverso da un niente?

Aperto da Sariputra, 13 Gennaio 2017, 11:13:24 AM

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Sariputra

#90
@ Maral
Infatti la formula completa è "A è anche  non-A, pertanto A". Come vedi questa formula non esclude che A=A ma inserisce il fattore "anche non-A"( che è diverso da A è non-A). Vorrebbe dire che A esiste ma il suo essere anche non-A gli permette di cambiare, di trasformarsi, di vivere. Per dare un'immagine , se ci riesco: un albero è un albero ( A=A) ma tutto cio che non è albero ( la luce, la pioggia, la terra, ecc.) ossia non-A, permette all'albero ( A) di esistere (pertanto A ). La concezione buddhista sostiene che A ( l'albero) non si può intendere come ente permanente, fisso, durevole perché la sua esistenza è dipendente da tutto ciò che è non-A  (non-albero, ossia la pioggia, la luce , la terra). Come vedi niente viene perduto: l'albero è sempre l'albero, la pioggia è sempre la pioggia, la terra è sempre la terra e l'Io che scrive è sempre l'Io che scrive. Si passa solo da una prospettiva in cui si vede l'albero come identità fissa e indipendente, ad un'altra in cui l'albero ( e anche l'io, Acquario...) cambia in continuazione perché dipendente da ciò che non è albero. E questo appare evidente all'osservazione. Se manca l'acqua l'albero rinsecchisce e cambia; resta un albero (A) ma non è più lo stesso albero rigoglioso di prima. Il fattore non-A ( la pioggia assente) gli ha permesso di cambiare. Se non ci fosse il fattore non-A non ci sarebbe alcun cambiamento; tutto sarebbe fisso , eterno, immutabile, sterile come una landa desolata.
Vedi come la formula logica A=A non va perduta ma bensì arricchita? Il fattore non-A non toglie l'esistenza di una cosa ma , al contrario, permette la vita e il tempo di quella cosa.
La mente intuisce naturalmente questo processo, ma la ragione si ostina a fissarlo , a fermarlo in frammenti, ossia si ferma alla formula A=A . Si potrebbe dire che si ostina a vedere il particolare e ignora il generale. La filosofia occidentale, per quel che ne conosco attraverso di voi ( anche per questo passo tanto tempo sul forum, Acquario...), mi sembra ossessionata dal particolare  e gli viene a mancare un "respiro" più ampio ( ovviamente senza generalizzare o banalizzare). Pertanto quando il Sari dice ( e mi ricollego anche alle critiche di Acquario...) che non c'è Io, intende solamente che non c'è un Io indipendente e permanente, ma bensì c'è un Io dipendente da tanti fattori che non -sono Io (  contatto, sensazioni, volizioni, ecc.)e pertanto impermanente. Ma se non ci fossero questi fattori di non-Io non ci sarebbe alcun Io, ma solo fissità immobile.
A me sembra che questa posizione sia più logica e sorretta dall'esperienza concreta della nostra vita, che non la concezione di enti permanenti, fissi, eterni, immutabili, ecc. ( oltre che essere mooolto più artistica e Bella , chè percepisco una bellezza senza fine in questo eterno fluire di tutte le cose che si sorreggono a vicenda, c'è molto Amore...).

P.S. Acquario, è vero, hai ragione, scrivo troppo...pensa però che a me piace veramente anche solo l'atto dello scrivere ( lo facevo molto anche prima che esistesse qualcosa come internet...). Ossia scrivo per il piacere di scrivere. :)

P.S. II  Volevo aggiungere anche che non è una concezione di "ente mutevole" ( di cui mi sembra abbia scritto Apeiron), in quanto il mutare non è dato da una proprietà dell'ente ( cioè dalla possibilità di cambiare indipendentemente dagli altri "enti"), ma dalla presenza del fattore ( fattori) non-A .
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

acquario69

Citazione di: Sariputra il 18 Gennaio 2017, 23:29:55 PM
P.S. Acquario, è vero, hai ragione, scrivo troppo...pensa però che a me piace veramente anche solo l'atto dello scrivere ( lo facevo molto anche prima che esistesse qualcosa come internet...). Ossia scrivo per il piacere di scrivere. :)

Io non sto mettendo in discussione l'io impermanente (l'esempio dell'albero lo conferma anche per me)...ma il fatto di ignorare il Se (principio "fisso" ed immutabile da cui tutto il resto - mutabile - dipende  e che presumo non condividerai 
Se passa solo l'idea di avere un io impermanente privo pero del suo principio fondativo (Se) quello e' secondo me il nichilismo.

PS: Il piacere di scrivere e' anche il mio 

Sariputra

Citazione di: acquario69 il 18 Gennaio 2017, 23:45:52 PM
Citazione di: Sariputra il 18 Gennaio 2017, 23:29:55 PMP.S. Acquario, è vero, hai ragione, scrivo troppo...pensa però che a me piace veramente anche solo l'atto dello scrivere ( lo facevo molto anche prima che esistesse qualcosa come internet...). Ossia scrivo per il piacere di scrivere. :)
Io non sto mettendo in discussione l'io impermanente (l'esempio dell'albero lo conferma anche per me)...ma il fatto di ignorare il Se (principio "fisso" ed immutabile da cui tutto il resto - mutabile - dipende e che presumo non condividerai Se passa solo l'idea di avere un io impermanente privo pero del suo principio fondativo (Se) quello e' secondo me il nichilismo. PS: Il piacere di scrivere e' anche il mio

Il Sè vero, eterno, ecc. non essendo sperimentabile diventa per me motivo di fede. Non era il motivo di  questa discussione , diciamo. Concordo con te su una cosa: la teoria dell'anatman ( o dell'Io impermanente , chiamiamola così , sono solo definizioni...) può essere facilmente fraintesa e infatti non viene insegnata neanche nei paesi di fede buddhista. E ' molto complessa e in certo senso va contro il pensare comune con cui cresciamo. In questi paesi ci si limita all'insegnamento della teoria del Karma, dell'accumulazione di meriti in vista di una rinascita migliore. E' la concezione delle due verità: una più semplice e alla portata di tutti ( la teoria del karma) e poi l'autentico cuore del buddhismo ( la teoria dell'anatman), riservato a chi è già avanti nella pratica. E questo proprio per il rischio di cui parli di essere concepito come nichilismo e quindi anche dell'irrealtà di ogni valore etico. Pensa che persino il papa Giovanni Paolo II, nel suo libro "Varcare la soglia della speranza", ha relegato il buddhismo nelle visione nichilistiche, provocando molta amarezza negli ambienti di questa religione. E infatti, come ho già scritto, definire nichilista una filosofia di vita che, prima nella storia, faceva costruire ospedali per i viandanti e persino alloggi per curare gli animali, come "nichilistica" può far capire che grado di ignoranza reciproca esista nel mondo.
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Trattiene rondini nei capelli.

acquario69

Citazione di: Sariputra il 19 Gennaio 2017, 00:06:13 AM
Citazione di: acquario69 il 18 Gennaio 2017, 23:45:52 PMIo non sto mettendo in discussione l'io impermanente (l'esempio dell'albero lo conferma anche per me)...ma il fatto di ignorare il Se (principio "fisso" ed immutabile da cui tutto il resto - mutabile - dipende e che presumo non condividerai Se passa solo l'idea di avere un io impermanente privo pero del suo principio fondativo (Se) quello e' secondo me il nichilismo. PS: Il piacere di scrivere e' anche il mio

Il Sè vero, eterno, ecc. non essendo sperimentabile diventa per me motivo di fede.

...... E questo proprio per il rischio di cui parli di essere concepito come nichilismo e quindi anche dell'irrealtà di ogni valore etico. Pensa che persino il papa Giovanni Paolo II, nel suo libro "Varcare la soglia della speranza", ha relegato il buddhismo nelle visione nichilistiche, provocando molta amarezza negli ambienti di questa religione. E infatti, come ho già scritto, definire nichilista una filosofia di vita che, prima nella storia, faceva costruire ospedali per i viandanti e persino alloggi per curare gli animali, come "nichilistica" può far capire che grado di ignoranza reciproca esista nel mondo.

a mio avviso se viene a mancare il SE (che non può essere sperimentato dalla ragione o dai sensi,ma dall'intelletto che li trascende) inevitabilmente si finisce per imboccare la strada del nichilismo,sia pure nelle buone intenzioni.

Apeiron

Il buddismo - come filosofia - ha lo stesso problema di Schopenhauer. Nel caso di Schopenhauer l'ascesi serviva per passare dalla voluntas alla noluntas. Il punto è che se "tutto è Volontà" allora estinguere la volontà diventa "nichilismo":

In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero d'incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell'interna verità, dall'arte ci son posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla. (Arthur Schopenhauer, Mondo come Volontà e Rappresentazione)

Secondo Schopenhauer tutto nasce proprio dalla Volontà che si "oggettiva" nelle cose. Tolta la Volontà cosa rimane?
Così in modo simile il buddismo con l'assenza di enti distinti può essere inteso come "nichilismo compassionevole" (a la Schopenhauer) nel quale si fa tutto per sfuggire ad un'esistenza del dolore togliendo il problema alla radice. Di certo i buddisti stessi non dicono che l'Estinzione/Nirvana sia il Nulla ma una Realtà incomprensibile a noi.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Duc in altum!

#95
**  scritto da Apeiron:
CitazioneCosì in modo simile il buddismo con l'assenza di enti distinti può essere inteso come "nichilismo compassionevole" (a la Schopenhauer) nel quale si fa tutto per sfuggire ad un'esistenza del dolore togliendo il problema alla radice.
Esatto, si fa di tutto, ma chi ci è riuscito davvero a sfuggirlo, quando quantunque vi si dovesse riuscire il solo fatto che un amico o una persona a noi cara non ce l'abbia fatta, ci farebbe di nuovo sprofondare nel dolore.

Purtroppo il dolore, quello dell'animo, nasce con l'amore, quindi, secondo me, estirpare il problema alla radice significa non amare o amare poco (che poi in fin dei conti danno lo stesso risultato); tralasciando che poi la stessa natura umana, fattasi per amare, così facendo genererebbe un dolore maggiore, apparentemente non rilevato, ma col tempo ben manifestato: basta guardarsi intorno.



P.S. = riscontro che la "divinità" che davvero unisce noi amanuensi (donandole la nostra fiducia) del sito è: Il Piacere dello Scrivere!                       
;D  8)  ;D
"Solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso;
allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell'evoluzione".
(Benedetto XVI)

donquixote

Citazione di: Sariputra il 19 Gennaio 2017, 00:06:13 AMIl Sè vero, eterno, ecc. non essendo sperimentabile diventa per me motivo di fede. Non era il motivo di questa discussione , diciamo. Concordo con te su una cosa: la teoria dell'anatman ( o dell'Io impermanente , chiamiamola così , sono solo definizioni...) può essere facilmente fraintesa e infatti non viene insegnata neanche nei paesi di fede buddhista. E ' molto complessa e in certo senso va contro il pensare comune con cui cresciamo. 

Il Sé non può essere motivo di fede ma è necessario logicamente e anche ontologicamente, quindi sperimentabile da un punto di vista logico (non essendo materiale l'unica esperienza che se ne può fare è ovviamente mentale, o se vuoi spirituale). Se non ci fosse non ci sarebbe nemmeno l'impermanenza di tutto ciò che è impermanente. Per potersi dare il divenire è necessario l'essere, altrimenti cos'è che diviene: il nulla? Si potrà rispondere, come Eraclito, che tutto diviene, ma allora questo "tutto" deve necessariamente essere (come in effetti è) perchè il divenire non identifica un'essenza ma un movimento, un cambiamento. E fra l'altro uno che a mio avviso la sapeva molto lunga come Ananda Kentish Coomaraswamy scriveva "Il buddhismo, se lo si studia superficialmente, sembra differire dal brahmanesimo da cui deriva; ma se se ne approfondisce lo studio diventa difficile distinguerli e stabilire per quali aspetti il buddhismo non sia ortodosso". Nel buddhismo viene dato rilievo ad alcuni aspetti dell'insegnamento invece che ad altri, ma nella sostaza, o forse meglio nell'essenza, le dottrine non differiscono, così come essenzialmente non differiscono i darshana induisti anche se pongono ognuno l'accento su parti diverse della dottrina. Gautama fu un riformatore nel senso etimologico che cambiò la forma, ma la sostanza della dottrina rimane la medesima.
Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo. NGD

donquixote

Citazione di: Apeiron il 19 Gennaio 2017, 09:25:29 AMIl buddismo - come filosofia - ha lo stesso problema di Schopenhauer. Nel caso di Schopenhauer l'ascesi serviva per passare dalla voluntas alla noluntas. Il punto è che se "tutto è Volontà" allora estinguere la volontà diventa "nichilismo": In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero d'incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell'interna verità, dall'arte ci son posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla. (Arthur Schopenhauer, Mondo come Volontà e Rappresentazione) Secondo Schopenhauer tutto nasce proprio dalla Volontà che si "oggettiva" nelle cose. Tolta la Volontà cosa rimane? Così in modo simile il buddismo con l'assenza di enti distinti può essere inteso come "nichilismo compassionevole" (a la Schopenhauer) nel quale si fa tutto per sfuggire ad un'esistenza del dolore togliendo il problema alla radice. Di certo i buddisti stessi non dicono che l'Estinzione/Nirvana sia il Nulla ma una Realtà incomprensibile a noi.

Schopenhauer ha elaborato la gran parte della sua filosofia dalle concezioni orientali, e da quella buddhista in particolare, ma ha fatto qualche errore di interpretazione e la sua elaborazione ne ha risentito parecchio. Quindi il nichilismo non è un problema del buddhismo, ma semmai solo di Schopenhauer. In fondo al suo libretto intitolato "Il mio Oriente" uno studioso del buddhismo commenta: «Il fatto che personaggi del calibro di Nietzsche, von Hartmann, Scheler, Schweitzer, Jaspers, Keyselring, Mann, Hesse, Fromm debbano a Schopenhauer il proprio vivido interesse per l'India e il Buddhismo - e che ancora oggi il suo nome resti universalmente legato alla diffusione della cultura orientale in Occidente - dimostra che egli, a suo modo, fu senz'altro il miglior apostolo del Buddha in Europa. Ma al tempo stesso fu forse, anche, il suo peggior allievo. Malgré lui».
Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo. NGD

maral

#98
Citazione di: Sariputra il 18 Gennaio 2017, 23:29:55 PM
@ Maral
Infatti la formula completa è "A è anche  non-A, pertanto A". Come vedi questa formula non esclude che A=A ma inserisce il fattore "anche non-A"( che è diverso da A è non-A). Vorrebbe dire che A esiste ma il suo essere anche non-A gli permette di cambiare, di trasformarsi, di vivere. Per dare un'immagine , se ci riesco: un albero è un albero ( A=A) ma tutto cio che non è albero ( la luce, la pioggia, la terra, ecc.) ossia non-A, permette all'albero ( A) di esistere (pertanto A ). La concezione buddhista sostiene che A ( l'albero) non si può intendere come ente permanente, fisso, durevole perché la sua esistenza è dipendente da tutto ciò che è non-A  (non-albero, ossia la pioggia, la luce , la terra). Come vedi niente viene perduto: l'albero è sempre l'albero, la pioggia è sempre la pioggia, la terra è sempre la terra e l'Io che scrive è sempre l'Io che scrive. Si passa solo da una prospettiva in cui si vede l'albero come identità fissa e indipendente, ad un'altra in cui l'albero ( e anche l'io, Acquario...) cambia in continuazione perché dipendente da ciò che non è albero. E questo appare evidente all'osservazione. Se manca l'acqua l'albero rinsecchisce e cambia; resta un albero (A) ma non è più lo stesso albero rigoglioso di prima. Il fattore non-A ( la pioggia assente) gli ha permesso di cambiare. Se non ci fosse il fattore non-A non ci sarebbe alcun cambiamento; tutto sarebbe fisso , eterno, immutabile, sterile come una landa desolata.
Vedi come la formula logica A=A non va perduta ma bensì arricchita? Il fattore non-A non toglie l'esistenza di una cosa ma , al contrario, permette la vita e il tempo di quella cosa.
La mente intuisce naturalmente questo processo, ma la ragione si ostina a fissarlo , a fermarlo in frammenti, ossia si ferma alla formula A=A . Si potrebbe dire che si ostina a vedere il particolare e ignora il generale. La filosofia occidentale, per quel che ne conosco attraverso di voi ( anche per questo passo tanto tempo sul forum, Acquario...), mi sembra ossessionata dal particolare  e gli viene a mancare un "respiro" più ampio ( ovviamente senza generalizzare o banalizzare). Pertanto quando il Sari dice ( e mi ricollego anche alle critiche di Acquario...) che non c'è Io, intende solamente che non c'è un Io indipendente e permanente, ma bensì c'è un Io dipendente da tanti fattori che non -sono Io (  contatto, sensazioni, volizioni, ecc.)e pertanto impermanente. Ma se non ci fossero questi fattori di non-Io non ci sarebbe alcun Io, ma solo fissità immobile.
A me sembra che questa posizione sia più logica e sorretta dall'esperienza concreta della nostra vita, che non la concezione di enti permanenti, fissi, eterni, immutabili, ecc. ( oltre che essere mooolto più artistica e Bella , chè percepisco una bellezza senza fine in questo eterno fluire di tutte le cose che si sorreggono a vicenda, c'è molto Amore...).
Sari, quello che sostieni qui (ossia che l'identità di A a se stesso è fondata da ogni NON A) è esattamente quello che sostiene la dialettica hegeliana che è proprio quella che segue Severino: l'Essere A di A comprende il NON A, tant'è che solo l'infinito apparire di tutti NON A possono manifestare A. L'isolamento di A in se stesso è invece, al contrario, proprio quello che Severino chiama la Terra Isolata, ossia l'ente astratto preso in astratto (che se vogliamo corrisponde a una figura della logica formale classica).
La differenza tra Hegel e Severino consiste nel fatto che mentre per il secondo A diventa la totalità (espressa dal totale delle sue negazioni) in un progressivo divenire, per Severino lo è già da sempre e per sempre, anche se questa totalità viene in eterno continuamente ad apparire, senza mai potersi esaurire o concludere (metaforicamente, come nonostante questo testo è un ente unico e immediato nella sua totalità, esso si può leggere solo una parola dopo l'altra, c'è quindi la necessità di una successione nel suo apparire, l'apparire è il tempo stesso in cui la successione ha luogo, ma l'apparire non è divenire se per divenire si intende passare da non essere a essere e quindi di nuovo a essere da parte dell'essente). E l'apparire dell'apparire è la stessa Gloria, ben diversa dalla totalità Hegeliana posta alla fine dei tempi e raggiungibile dal pensiero dialettico che muove dall'oscurità ove tutte le vacche sono nere, alla luce ove tutte le vacche saranno viste nel loro vero colore, in una sintesi che tutto abbraccia. Per Severino la totalità di ogni ente (e la totalità di tutti gli enti) c'è sempre e immutabile, ma via via appare nelle sue negazioni che sono gli altri enti.
Anch'io sono perfettamente d'accordo sulla necessità di intendere l'identità su base dialettica e non formale, ma a questo il pensiero occidentale c'è comunque arrivato, per di più in quel punto culminante per la metafisica che è rappresentato da Hegel.

Sariputra

Credo che l'incomprensione del vero cuore di una filosofia come quella del Buddha , nasca  perché noi la giudichiamo secondo le categorie di pensiero occidentale ( sostanzialmente sulla base della filosofia greca da quello che capisco...). Secondo queste categorie l'Essere e il Divenire sono incompatibili, si negano a vicenda, sono opposti. Secondo il pensiero buddhista ( ma forse orientale in genere, e qui sono solo parzialmente d'accordo con Coomaraswamy) l'essere è ( esiste quindi ) nel divenire e non può che manifestarsi nel divenire. Essere e divenire vanno a braccetto, se così si può dire e si sostengono a vicenda, dato che non è possibile l'uno senza l'altro. Il Buddha non si è mai occupato della questione del Vero Sè, giudicandola non rilevante all'interno del suo Insegnamento, in quanto inteso non come "Annientameto dell'essere" (Schopenauer, accidenti a lui e al tutto il male che ha fatto per la sua superficiale conoscenza di queste filosofie...) ma come annientamento del dolore insito nel divenire continuo.
Questo annientamento del dolore non si può intendere in maniera nichilistica, altrimenti non verrebbe data nessuna enfasi alla dimensione non-dolorosa che esiste  ( il non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.). Se però  si intende questo stato non-composto come una divinità o come un Essere in sé ( induismo) il buddhismo diverge totalmente perché pone questa dimensione spirituale all'interno del divenire stesso ( i confini del Nirvana sono i confini del samsara). Per il buddhismo tutto è natura e nulla trascende la natura ( nemmeno il Nirvana). Nella mia personale concezione del Dharma ( perché , come ogni cristiano ha la sua personale riflessione e visione di Dio, anch'io ho maturato la mia su questo tema... ;D) questo non "abbassa" l'esistenza rendendola un cieco vortice di semplici cause e condizioni , ma invece la "innalza" perché non ponendo distinzioni tra il divenire e lo stato che non-diviene rende il divenire manifestazione di quello stato inesprimibile, pertanto il buddhismo "santifica" ( usando un termine giudaico-cristiano) in un certo modo il divenire stesso che la filosofia Parmenidea e poi la teologia giudaico cristiana aveva relegato nella categoria del male ( L'Essere è il bene - il Divenire è il male e dentro questo dualismo si è sempre mossa e compiaciuta). Infatti Nagarjuna afferma " All'interno del samsara sono contenuti infiniti mondi di Buddha"( Buddha qui è sinonimo di "Mondi di libertà dal dolore" e non come divinità...).
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Phil

@ Jean
Scusa, a volte per essere sintetico risulto criptico (che è un difetto, non un pregio!).

Citazione di: Jean il 18 Gennaio 2017, 22:23:51 PM-l'io "arriva" all'esistenza tramite l'accumulo  di "strutture" apprese dal contesto culturale> chi è il soggetto che apprende?
Il soggetto si forma (azione riflessiva) apprendendo dall'ambiente (che comprende anche gli altri soggetti), sin dall'infanzia, e continua anche in seguito (finché c'è interazione con l'ambiente circostante).

Citazione di: Jean il 18 Gennaio 2017, 22:23:51 PM-se viene decostruito... > chi potrebbe decostruire l'io, la persona (?) altri o specifiche circostanze?
Può essere una auto-manutenzione, un lavorio su se stessi (come quando si cerca di "migliorare" nei propri difetti), oppure, certamente, può essere un evento esterno, magari accidentale (magari un incontro), a provocare un cambiamento significativo che "decostruisce" un po' di quello che era stato accumulato...

Citazione di: Jean il 18 Gennaio 2017, 22:23:51 PM-raggiungere uno stato neutro karmicamente > è una tua ipotesi o proviene da qualche spiegazione/tradizione ecc.? Che significa?
Con "neutralità karmica" alludevo al non accumulo di karma negativo (parafrasando il buddhismo) o, meglio ancora, accumulo di karma positivo per ribilanciare il negativo precedente (quindi raggiungere il punto zero, se prima si era "in passivo"... e il punto zero, senza più meriti né demeriti, forse può essere inteso anche come "illuminazione").

Citazione di: Jean il 18 Gennaio 2017, 22:23:51 PM-In quest'ottica ci sono dunque due piani, nessuno dei quali è ingannevole, ma sono entrambi "reali", solo che uno è "artificiale", l'altro è "distillato" > Quale ottica, piani... reali, artificiali e distillati..?
Secondo l'ottica (mia?) in cui l'io esiste, non è illusione ma (auto)costruzione, eppure è anche possibile decostruirlo fino a renderlo "insostanziale" (stando a quanto prospetta il buddhismo), ci sono due "piani", due livelli di esistenza, entrambi reali (ovvero non "falsi"): quello della artificiale accumulazione di karma su un io strutturato (ma non illusorio) e quello dell'identità "distillata", destrutturata, che non si riconosce più come identità distinta e separata del resto ("illuminata" per dirla in gergo buddhico).

Apeiron

#101
Citazione di: Duc in altum! il 19 Gennaio 2017, 10:33:09 AM** scritto da Apeiron:
CitazioneCosì in modo simile il buddismo con l'assenza di enti distinti può essere inteso come "nichilismo compassionevole" (a la Schopenhauer) nel quale si fa tutto per sfuggire ad un'esistenza del dolore togliendo il problema alla radice.
Esatto, si fa di tutto, ma chi ci è riuscito davvero a sfuggirlo, quando quantunque vi si dovesse riuscire il solo fatto che un amico o una persona a noi cara non ce l'abbia fatta, ci farebbe di nuovo sprofondare nel dolore. Purtroppo il dolore, quello dell'animo, nasce con l'amore, quindi, secondo me, estirpare il problema alla radice significa non amare o amare poco (che poi in fin dei conti danno lo stesso risultato); tralasciando che poi la stessa natura umana, fattasi per amare, così facendo genererebbe un dolore maggiore, apparentemente non rilevato, ma col tempo ben manifestato: basta guardarsi intorno. P.S. = riscontro che la "divinità" che davvero unisce noi amanuensi (donandole la nostra fiducia) del sito è: Il Piacere dello Scrivere! ;D 8) ;D

Sono d'accordo con te, Duc. Infatti il pregio del concetto cristiano dell'amore come servizio e disponibilità a condividere il dolore con l'altro mi paiono più realistici dell'"assenza di dolore". Voglio dire: che "valore" ha un atto di carità se in esso non c'è della fatica, della rinuncia da parte nostra? Ma è anche vero che il buddismo non è lo schopenhauerismo (che però diciamo è il buddismo per come noi possiamo comprenderlo, secondo me) in quanto nel buddismo la rinuncia e misericordia ("metta")è uno dei valori più riconosciuti. In entrambi i casi l'obbiettivo non è far soffrire sé e l'altro (dolorismo) ma aiutare sé e l'altro. Comunque una delle grandi differenze tra il buddismo theravada e mahayana è che il buddismo mahayana (di cui la scuola madhyamaka - che è quella che mi pare che segua il Sari - fa parte) ritiene migliori i bodhisattva, ossia coloro che rinunciano alla Liberazione e rimangono nel samsara,rispetto agli arhant, coloro che hanno ottenuto la Liberazione individuale. Anzi alcune tradizioni del buddismo mahayana ritengono la Liberazione individuale una contraddizione in termini (appunto perchè non ci sono "sé" separati ma solo esistenza condizionata) e cercano la Liberazione di tutti gli esseri senzienti e quindi il bodhisattva si sacrifica (e a volte arriva a qualcosa di simile al martirio...) per cercare di salvare gli altri esseri. Personalmente non capisco come si possa "voler salvare l'altro" senza pensare che abbia un'identità separata, però come spero di aver fatto capire questo è anche dovuto al fatto che penso in modo troppo "occidentale".

Citazione di: Sariputra il 19 Gennaio 2017, 11:59:49 AMCredo che l'incomprensione del vero cuore di una filosofia come quella del Buddha , nasca perché noi la giudichiamo secondo le categorie di pensiero occidentale ( sostanzialmente sulla base della filosofia greca da quello che capisco...). Secondo queste categorie l'Essere e il Divenire sono incompatibili, si negano a vicenda, sono opposti. Secondo il pensiero buddhista ( ma forse orientale in genere, e qui sono solo parzialmente d'accordo con Coomaraswamy) l'essere è ( esiste quindi ) nel divenire e non può che manifestarsi nel divenire. Essere e divenire vanno a braccetto, se così si può dire e si sostengono a vicenda, dato che non è possibile l'uno senza l'altro. Il Buddha non si è mai occupato della questione del Vero Sè, giudicandola non rilevante all'interno del suo Insegnamento, in quanto inteso non come "Annientameto dell'essere" (Schopenauer, accidenti a lui e al tutto il male che ha fatto per la sua superficiale conoscenza di queste filosofie...) ma come annientamento del dolore insito nel divenire continuo. Questo annientamento del dolore non si può intendere in maniera nichilistica, altrimenti non verrebbe data nessuna enfasi alla dimensione non-dolorosa che esiste ( il non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.). Se però si intende questo stato non-composto come una divinità o come un Essere in sé ( induismo) il buddhismo diverge totalmente perché pone questa dimensione spirituale all'interno del divenire stesso ( i confini del Nirvana sono i confini del samsara). Per il buddhismo tutto è natura e nulla trascende la natura ( nemmeno il Nirvana). Nella mia personale concezione del Dharma ( perché , come ogni cristiano ha la sua personale riflessione e visione di Dio, anch'io ho maturato la mia su questo tema... ;D) questo non "abbassa" l'esistenza rendendola un cieco vortice di semplici cause e condizioni , ma invece la "innalza" perché non ponendo distinzioni tra il divenire e lo stato che non-diviene rende il divenire manifestazione di quello stato inesprimibile, pertanto il buddhismo "santifica" ( usando un termine giudaico-cristiano) in un certo modo il divenire stesso che la filosofia Parmenidea e poi la teologia giudaico cristiana aveva relegato nella categoria del male ( L'Essere è il bene - il Divenire è il male e dentro questo dualismo si è sempre mossa e compiaciuta). Infatti Nagarjuna afferma " All'interno del samsara sono contenuti infiniti mondi di Buddha"( Buddha qui è sinonimo di "Mondi di libertà dal dolore" e non come divinità...).

Pel la scuola theravada dire "il samsara e il nirvana sono la stessa cosa" è affermare una sorta di "eresia":
http://www.accesstoinsight.org/lib/authors/bodhi/bps-essay_27.html
Traducendo un pass: "Le scuole Mahayana, a dispetto delle loro grandi differenze, concorrono nell'appoggiare una tesi che dal punto di vista Theravada confina con l'essere oltraggio. Questa è l'affermazione c'è nessuna differenza ultima tra nirvana e samsara, purezza e profanazione, ignoranza e illuminazione...". Per questo motivo la scuola Theravada riconosce l'Anatta ma è dualistica. La cosa interessante è che il Nirvana della scuola Theravada è anch'esso "senza sé", tuttavia è "permanente, non originato...". Con questo voglio dire che gli stessi buddisti a quanto pare hanno grosse difficoltà a capire la loro dottrina... quindi non è un problema occidentale.

Comunque il cristianesimo non mi pare che dica che il divenire in sé è un male, ma il divenire che non "segue la volontà di Dio lo è".

@maral, a mio giudizio la dialettica di Hegel è errata perchè il movimento dialettico è visto come una necessità. Ritengo invece come Kierkegaard che la dialettica sia condizionata dalla possibilità e quindi dal libero arbitrio: le nostre scelte condizionano il nostro essere. Tramite le nostre scelte diventiamo e il nostro essere coincide con ciò.

Da qui l'importanza dell'etica e con ciò della fede. Vista la nostra imperfezione (e dal "pentimento" che essa comporta...) secondo me è impossibile fare una vita completamente senza "peccati" o azioni "che producono karma negativo". La fede in sostanza è riconoscere di avere bisogno d'aiuto. Duc forse potrà chiarirci meglio sul fatto che a mio giudizio nel cristianesimo il bene lo si fa perchè si sceglie di "lasciarsi andare" e "far agire l'amore divino in sé". Personalmente però ho difficoltà a accettare la dottrina cristiana per come essa è.


P.S. Voglio anche spezzare una lancia a favore di Schopenhauer. Schopenhauer ritiene che in sostanza la causalità e l'io sono espressioni del mondo fenomenico - ossia oggettivazione della Volontà - e la Liberazione consiste nel "rinunciare" alla Volontà di modo da "nullificare il fenomeno". Con questo Schopenhauer in sostanza voleva dire che l'io, la causaltà e gli enti sono prodotti dalla nostra intima tendenza all'attaccamento. Rinunciando all'attaccamento e riconoscendo che il proprio io è illusorio sembra non rimanere che il Nulla. Ma per lui rimane la Liberazione. Tuttavia ritiene che le dottrine dell'Advaita e del Buddismo siano "mitologie" della sua che è più "razionalistica". Mitologie perchè vogliono dire ciò che è ineffabile, ossia l'Estinzione della Volontà. In questo Schopenhauer mi sembra molto simile al buddismo.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

davintro

rispondo a Phil:


Un conto è descrivere, constatare la situazione attuale del clima culturale individuando gli orientamenti dominanti, ed in questo senso, purtroppo a mio avviso, tali orientamenti consistono soprattutto nello scetticismo e nel materialismo che tenta di riportare in auge l'assolutizzazione dell'ambito delle scienze naturali tipica del positivismo ottocentesco, che era stato superato proprio dagli sviluppi dell'epistemologia novecentesca (penso ad esempio a un Popper), un altro dedurre dal riconoscimento di tali orientamenti come dominanti l'idea che essi possiedano un valore teoretico superiore rispetto ad orientamenti che furono dominanti nel passato ma oggi marginali. Tale deduzione è scorretta ed arbitraria. Il filosofo deve avere il coraggio intellettuale di difendere le sue opinioni fintanto che le ritiene razionali e vere non curandosi di quali posizioni sono egemoni nella sua epoca. Se così non fosse la filosofia si ridurrebbe dogmaticamente a senso comune. Io non me la sento di rinunciare a portare avanti le mie modestissime idee, in buona parte ispirate alla metafisica classica, Platone, Agostino, Tommaso, Cartesio ecc., poi personalmente rielaborate, o almeno ci provo, perché nell'epoca in cui mi è capitato vivere questi orientamenti hanno da tempo ormai perso l'egemonia culturale e sembrano dover finire nel dimenticatoio o al museo. Eventualmente andrò nel museo anch'io! E chissà che fra qualche tempo ciò che ora si trova al museo non esca fuori a riconquistare l'egemonia e ciò che ora è egemone non entri al museo... Del resto la decostruzione della metafisica classica è tutto da dimostrare sia stata davvero un valido e razionale superamento. Tra l'altro non direi che la contemporaneità (per intenderci, il novecento), sia così caratterizzata dalla scomparsa dalla scena del modello della metafisica classica o della filosofia di impronta essenzialista o trascendentalista. Pensiamo a tutta la corrente dello spiritualismo neoagostiniano in Italia e in Francia (a proposito, sono reduce dalla visione su Youtube di una bella lezione del compianto Reale sull'attualità del pensiero di Agostino), alla neoscolastica che riprende e riattualizza Tommaso in autori come Maritain, Fabro, Bontadini, quest'ultimo grande maestro del così tanto citato in questo forum Severino. Pensiamo alla ripresa del tema dell'ontologia classica e delle prove dell'esistenza di Dio nella filosofia analitica anglosassone, superficialmente considerata una roccaforte del positivismo. Soprattutto pensiamo alla centralità che ha rivestito la fenomenologia husserliana, tutta protesa alla polemica contro i positivisti, "gli uomini di fatto", in favore della considerazione della filosofia come "scienza di essenze", dell'idea di riduzione trascendentale, di un certo ritorno a Cartesio, dell'Io puro, della messa tra parentesi delle scienze naturali e che poi trova tra le sue ramificazioni proprio il ripristino dell'ontologica classica su base fenomenologica in autori come Scheler, la Stein, la Conrad Martius... esiste oggi un'intera area di ricerca universitaria dedicata all'analisi di un possibile recupero della metafisica e di un'antropologia classica che si giova di spunti fenomenologici. E Siamo nel novecento, non nel paleolitico!

 

L'epistemologia non può mandare in soffitta la metafisica perché la prima di fatto è una ramificazione, una conseguenza della seconda. Un'epistemologia, una riflessione filosofica sulla scienza è possibile nella misura in cui l'epistemologo, che è sempre un filosofo, sa qualcosa che la scienza che diviene oggetto della riflessione non può possedere nella sua immanenza, è in possesso di un punto di vista ulteriore, trascendente. Riflettere sulla scienza, mettere in discussione le sue pretese conoscitive, stabilirne i limiti e le possibilità rientra nell'acquisizione di un complesso di significati che la scienza non possiede in sé, ma riceve da qualcosa di esterno ad essa, il punto di vista del sapere riflettente. Come potrebbe la scienza da sola criticare sé stessa senza mediarsi in una prospettiva ad essa esterna? Sarebbe assurdo e lo sarebbe alla luce del principio per cui la condizione di soggetto riflettente determina sempre un'irriducibilità, un margine di autonomia nei confronti di ciò che si pone nella condizione di oggetto, che subisce passivamente l'atto riflessivo. In altre parole, ogni riflessione presuppone sempre uno scindersi tra soggetto ed oggetto. Non potrebbe dunque la stessa scienza oggetto della riflessione epistemologica lo stesso punto di vista che opera tale riflessione, altrimenti ogni epistemologia cadrebbe nel circolo vizioso argomentativo: il sapere riflettente per mettere in discussione la scienza e coincidendo esso stesso con la scienza da mettere in discussione dovrebbe mettere in discussione se stessa all'infinito senza mai trovare criteri di giudizio intrinsecamente validi che blocchino la necessità del ricorso all'infinito, il classico cane che si morde la coda. Tali criteri intrinsecamente validi l'epistemologia non può trovarli nelle scienze che mette in discussione ma deve per forza attingerli ad una dimensione trascendente, filosofica: l'epistemologo non ha bisogno di essere scienziato, ma filosofo, e la riflessione sulla fisica dovrà porsi in atto a partire da un punto di vista che per essere valido non può coincidere con la fisica ma la deve trascendere, cioè un punto di vista metafisico. La metafisica resta così la necessaria base fondativa della possibilità dell'epistemologia, della filosofia della scienza

La fisica non può essere la base dell'ontologia, perché la fisica, occupandosi di realtà materiali, di cui possiamo avere solo un'esperienza sensibile, corporea, non potrebbe avere mai  gli strumenti per analizzare concetti aventi un significato intelligibile e dunque spirituale. Come è possibile che pensare di sezionare in laboratorio concetti come "Essere", "ente", "essenza"? Qua saremmo in una chiara ed evidente inadeguatezza del metodo, l'esperienza sensibile valida per l'apprensione di una parte limitata dell'Essere, la parte degli oggetti fisici, nei confronti degli oggetti al cui studio ci si rivolge, ciò che è universale, la totalità del pensabile, non riducibile a ciò che cade sotto i 5 sensi, e che possiamo considerare solo attraverso uno sforzo di astrazione dal sensibile, per il quale la sensibilità più che essere un supporto è un'impiccio, in quanto ostacolo l'elaborazione di una visione eidetica e intelligibile adeguata all'intelligibilità dei concetti ontologici. Dunque l'ontologia resta pieno appannaggio della filosofia. Mi parrebbe eccessivo sostenere che senza il vincolo della fisica l'ontologia sarebbe rimasta a Parmenide. A parte il fatto che andrebbe ancora dimostrato che Parmenide abbia avuto tutti i torti, dopo di lui l'ontologia ne ha fatta di strada, c'è stato Platone, Aristotele, la scolastica medievale, Cartesio, Spinoza, l'idealismo hegeliano, Rosmini, la fenomenologia husserliana, Heidegger, tutti orientamenti che nelle loro differenze hanno provato a impostare il discorso sull'Essere senza che siano identificabili con la fisica, quantomeno come la si intende comunemente in senso stretto 

Apeiron

Domanda per il Sari: il Dhamma affinchè il buddismo abbia senso deve essere immutabile, eterno e assoluto. Altrimenti non sarebbe possibile liberarsi "ascoltando e mettendo in pratica l'insegnamento di Gotama". Mi chiedo: non è che il Dhamma fa il ruolo di un Dio non-personale, ossia una Legge Eterna, nel buddismo? E Gotama in questo senso sarebbe una sorta di " "messaggero" (tra virgolette perchè è insostanziale  ;D ) di questa Legge". In sostanza per te il Dhamma è al di fuori dei condizionamenti?
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

Citazione di: Apeiron il 19 Gennaio 2017, 17:25:46 PMDomanda per il Sari: il Dhamma affinchè il buddismo abbia senso deve essere immutabile, eterno e assoluto. Altrimenti non sarebbe possibile liberarsi "ascoltando e mettendo in pratica l'insegnamento di Gotama". Mi chiedo: non è che il Dhamma fa il ruolo di un Dio non-personale, ossia una Legge Eterna, nel buddismo? E Gotama in questo senso sarebbe una sorta di " "messaggero" (tra virgolette perchè è insostanziale ;D ) di questa Legge". In sostanza per te il Dhamma è al di fuori dei condizionamenti?

Dhamma  come dukkha sono termini che hanno una tale ricchezza di significati e implicazioni che nessuna traduzione in una lingua occidentale può renderne giustizia.  Cito , nel caso di Dhamma, solo alcuni:
Verità, Natura, Legge, Verità naturale, Dovere, Ordinamento, il modo di essere delle cose, dovere in armonia con la Legge di natura e i Frutti che derivano dall'aderire a questo dovere.
Personalmente preferisco "il modo di essere delle cose" ( ossia impermanente, doloroso, privo di sè-autonomo), quindi le cose mutano ma sempre condizionate dal loro modo d'essere. Buddha quindi non è il messaggero di nessuno , ma lo scopritore ( per i fedeli buddhisti ovviamente...) del modo di essere delle cose . Questa scoperta è alla portata di ogni mente, anzi è la Natura della mente non offuscata dall'attaccamento ...gratti via avijja ( errata comprensione) ed ecco... risplende la mente di Buddha... ;D ossia risplende panna , la saggezza, la conoscenza, la visione corretta e diretta esperienza di ciò che occorre conoscere per l'estinzione del dukkha, cioè: le quattro nobili verità, i tre segni dell'essere, l'originazione interdipendente e il vuoto. Il termine 'conoscere' nel buddhismo  non deve lasciar intendere una comprensione intellettuale ( filosofica) , benchè anche questa abbia la sua parte. L'accento è sull'esperienza diretta, intuitiva, non concettuale della vita, qui e ora. Memoria, linguaggio e pensiero non sono necessari ( Saichi , per es. era un pastore semianalfabeta...). E' panna ( prajna), più che la fede o la volontà, il tratto distintivo del Buddhismo.
Volevo chiarire a quale scuola appartengo. La scuola che seguo è il Sariyana, molto diffusa nella Contea  e di cui Villa Sariputra ne è il tempio. Il Sari, modestamente, ricopre la carica di abate di questa scuola... ;D ;D  
A parte gli scherzi, penso che sia ormai giunto il tempo di superare lo schematismo dei "veicoli" con il loro dogmatismo poco buddhista e aderire a quello che ajahn Buddhadasa chiamava "Buddhayana", veicolo del Buddha. Buddhadasa come penso conosci fu una delle più importanti personalità del buddhismo nel XX secolo e considerato il fondatore del riformismo theravada. E se vuoi un esempio della sua visione riformista ti lascio questo passo:
"Questo spiega perché oggi il Buddhismo non offre il rifugio che si propone di offrire, anche se è opinione corrente che il Buddhismo sia molto più diffuso ora che in passato e che sia conosciuto di più e meglio. E' vero: si studia molto l'insegnamento e si è raggiunta una conoscenza notevole ma, se non capiamo di essere malati spirituali, che uso faremo degli insegnamenti? Se non sappiamo di essere malati, non andiamo dal dottore e non ci curiamo. E' ovvio. I più non vedono la propria malattia e fanno collezione di medicine. Ascoltiamo il Dhamma, ne studiamo le virtù curative, senza capire che siamo noi i malati. Lo accettiamo solo per aggiungere una cosa in più a tutte le altre cose. Oppure per usarlo come argomento di discussione ( ahem... :-[ :-[ :-[ ), quando non di disputa o di lite. Ecco perché il Dhamma non è lo strumento efficace di cura che potrebbe essere...Fatene un farmaco che guarisce, non una semplice parodia."  ( Ajahn Buddhadasa-Il cuore della malattia).
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

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