Cos'è un ente? Perchè è diverso da un niente?

Aperto da Sariputra, 13 Gennaio 2017, 11:13:24 AM

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acquario69

#15
secondo me presupposto fondamentale per cercare di arrivare a capire le cose (in generale) e' quello di fare un percorso a ritroso per arrivare così alla "radice" di tutto...perché tra l'altro - e analogamente -  può pure succedere che se a un certo punto mi soffermo sulla foglia,o sul tronco,o sui rami,poi non riesco più a cogliere l'albero nel suo intero.

quindi nel caso dell'ente ritengo bisogna ancora prima aver ben chiaro il non-essere/essere - immanifesto/manifesto,da cui in un certo senso dipende,altrimenti si finisce per disperdersi e non arrivare mai a capo di niente e il risultato e' la confusione cioè il contrario di quello che ci si era proposti

da questo punto di vista allora una sintesi potrebbe essere questa:

Non-Essere - Essere -  divenire/ente-i

      0               1           2,3,4,5....

  (immanifesto)            (manifesto)


in termini diversi,potrebbe forse rientrarci anche questo qui sotto?

Il Tao generò l'Uno, l'Uno generò il Due, il Due generò il Tre,il Tre generò le diecimila creature.

0 - 1 (2) ; 2+1 (3) ....4,5.....

cvc

La filosofia è una giungla nella quale ci si sposta con le liane delle parole, dove se si sbaglia lo slancio si finisce col girare su se stessi, e si viene strangolati da quelle stesse liane che dovevano essere il mezzo per spostarsi nella giungla.
Ente è una di queste liane-parole, e il pensatore è come il bambino cui i genitori han detto che non compreranno più giochi: rovescia la scatola dei giocattoli per vedere se ce n'è uno con cui non ha ancora giocato. Ma poi vede che li ha già provati tutti, allora inizia da capo.
Visto che sono anch'io un bambino- filosofo o filosofo -bambino o bambino che gioca al filosofo, visto che anch'io ho la mia scatola dei giochi e anch'io ni aggrappo alle liane per muovermi o strangolarmi, allora io pongo alla base di ciò che è due principi: necessità e volontà. Attorno ad essi ruota tutto, si potrebbe anche definirli destino e libertà dove, purtroppo, si pensa spesso che una cosa escluda l'altra.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Apeiron

@cvc la tua metafora è bellissima e la penso più o meno allo stesso modo. Concordo che i filosofi sono come bambini troppo curiosi e per la loro curiosità la rischiano grossa, finendo spesso di strangolarsi con i loro stessi mostri linguististici.

Detto questo ritengo il taoismo tra le filosofie più rigorose perchè da quello che mi pare di vedere i filosofi taoisti prima formulano un'ipotesi metafisica e poi la distruggono. E in effetti credo che più di ogni altra tradizione viene contemplato il silenzio contemplativo. Ogni riga del Tao Te Ching mi sembra un invito a riconoscere che ogni nostra metafisica non potrà mai cogliere la realtà. Perchè dunque scrivere libri o parlare di queste cose? Semplice per dimostrare che non si può parlare (un po' come il Tractatus...). Motivo per cui non concordo con acquario69 che dice che il Tao è identificabile con lo 0 che genera l'1. Il problema è che se il Tao è qualcosa è già un "1", quindi per non essere identificato con l'1 (in modo simile nel neoplatonismo si dice che l'Uno è ineffabile...). Quello che secondo me voleva dire Laozi è ribadire che il Tao ossia la Via in cui procedono gli eventi è incomprensibile (d'altronde "il Tao che può essere detto non è il Tao eterno...") e lo stesso Chuang-Tzu rifiutava l'idea secondo la quale il taoismo era un filosofia monistica (cioè rifiutava il detto che "tutto è uno"). Infatti se al posto di Tao ci mettete "Mistero" credo che il libro sia più facile da comprendere. In ogni caso il Tao non è né l'Essere né un Ente, cosa che per un occidentale è aberrante.

Detto questo sorprendentemente concordo sul fatto che sia un concetto ben definito l'Ente che è "creatore e sostenitore" di tutto ma questo è appunto un Ente (Dio) e non il Tao.  In ogni caso per spiegare il divenire a mio giudizio si deve accettare di "usare" una metafisica che si fonda sulle logiche paraconsistenti, cioè che ammettono contraddizioni. Altrimenti ci creaiamo dei "sistemi" coi quali finiamo per strangolarci.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

cvc

@Apeiron

La metafisica è una sublimazione razionale che - dato che non può fare completamente a meno del sensibile - subordina il sensibile al razionale.
La metafisica presuppone l'esistenza di un Dio, perché la ragione allo stato puro con cos'altro si identifica se non con la forza immateriale dominatrice del sensibile che è uno dei tratti fondamentali con cui si designa Dio? Poi è venuto il cristianesimo, la verità rivelata, e ci ha incasinato le cose. Perché il cristianesimo ha preso a calci nel sedere la metafisica che può essere tuttalpiù un ancella, con D'Aquino che va in trance alla mensa del Re d'Inghilterra, smette di mangiare e si fa portare da scrivere, per enunciare la sua ennesima prova metafisica dell'esistenza di Dio. Che la metafisica debba preoccuparsi di dimostrare Dio è un assurdo, perché nel mondo classico la metafisica presume Dio, quindi più che un assurdo è un discorso circolare che non porta da nessuna parte. E d'altronde non a caso questa è stata definita l'età oscura cui fece seguito il rinascimento con la riscoperta dei valori classici e la sublimazione del cristianesimo in umanesimo.
Ma, mi chiedo, questo nostro volgerci alle filosofie orientali, non è forse un inconscio tentativo di liberarci dal giogo della realtà rivelata? Perché attraverso il tao e il buddismo noi alla fine ci ricongiungiamo col mondo classico.
E purtroppo il cristianesimo viene inteso come una realtà rivelata che congloba tutto in se, mentre esso è un fenomeno sui generis con le sue straordinarie novità, che si è però annesso altre realtà che non sono farina del suo sacco: il mondo classico, il culto del sole, pure parte del positivismo scientifico con la possibilità di mantenere in vita a tempo indeterminato dei vegetali.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Sariputra

Citazione di: Apeiron il 14 Gennaio 2017, 09:33:29 AM@cvc la tua metafora è bellissima e la penso più o meno allo stesso modo. Concordo che i filosofi sono come bambini troppo curiosi e per la loro curiosità la rischiano grossa, finendo spesso di strangolarsi con i loro stessi mostri linguististici. Detto questo ritengo il taoismo tra le filosofie più rigorose perchè da quello che mi pare di vedere i filosofi taoisti prima formulano un'ipotesi metafisica e poi la distruggono. E in effetti credo che più di ogni altra tradizione viene contemplato il silenzio contemplativo. Ogni riga del Tao Te Ching mi sembra un invito a riconoscere che ogni nostra metafisica non potrà mai cogliere la realtà. Perchè dunque scrivere libri o parlare di queste cose? Semplice per dimostrare che non si può parlare (un po' come il Tractatus...). Motivo per cui non concordo con acquario69 che dice che il Tao è identificabile con lo 0 che genera l'1. Il problema è che se il Tao è qualcosa è già un "1", quindi per non essere identificato con l'1 (in modo simile nel neoplatonismo si dice che l'Uno è ineffabile...). Quello che secondo me voleva dire Laozi è ribadire che il Tao ossia la Via in cui procedono gli eventi è incomprensibile (d'altronde "il Tao che può essere detto non è il Tao eterno...") e lo stesso Chuang-Tzu rifiutava l'idea secondo la quale il taoismo era un filosofia monistica (cioè rifiutava il detto che "tutto è uno"). Infatti se al posto di Tao ci mettete "Mistero" credo che il libro sia più facile da comprendere. In ogni caso il Tao non è né l'Essere né un Ente, cosa che per un occidentale è aberrante. Detto questo sorprendentemente concordo sul fatto che sia un concetto ben definito l'Ente che è "creatore e sostenitore" di tutto ma questo è appunto un Ente (Dio) e non il Tao. In ogni caso per spiegare il divenire a mio giudizio si deve accettare di "usare" una metafisica che si fonda sulle logiche paraconsistenti, cioè che ammettono contraddizioni. Altrimenti ci creaiamo dei "sistemi" coi quali finiamo per strangolarci.

Alla fine torniamo al punto che, per comprendere la natura del reale, abbiamo bisogno di quella che viene comunemente chiamata esperienza "mistica"? O esperienza ineffabile, indefinibile, indescrivibile, ecc.?
La quale comporta un alto grado di pericolosità perché, per l'appunto , non dimostrabile e soggetta allo stato condizionato dell'agente. La filosofia ha il merito di mostrare i limiti del ragionamento logico e di ogni pretesa metafisica, ed è assolutamente importante comprendere ed avere consapevolezza di questi limiti della ragione umana. Pertanto non è in discussione, a parer mio, la validità e l'importanza della filosofia e del filosofare ( più o meno bene nei limiti appunto di ognuno...) ma la pretesa della filosofia di superare i limiti della ragione. Senza la filosofia non avremmo nemmeno la consapevolezza di questi limiti, che la riflessione filosofica sposta sempre più in là, rivelando così un "campo" della ragione sempre più vasto. Per es., l'interrogarsi sulla funzione e sulle distorsioni del linguaggio e del suo uso all'interno della filosofia stessa è fondamentale, come scrivono anche Apeiron e Cvc. I limiti del linguaggio sembrano addirittura più stringenti di quelli della ragione stessa.
Per esempio, la funzione "intuitiva" del pensiero non si può descrivere con un linguaggio appropriato, ma si può "suscitare" in qualche modo anche attraverso l'uso del linguaggio. Spesso , leggendo per es. un libro di poesie o di narrativa, si hanno intuizioni più dirette che non ragionando su un trattato filosofico. La mente rivela potenzialità espressive che investono globalmente la persona e possono suscitare quella consapevolezza intuitiva del reale.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

cvc

@Sariputra

Intuito e ragione sono due forze imprescindibili che interagiscono in noi. Dato che noi abbiamo anche la capacità di concentrarci sull'una o sull'altra tendiamo, per semplificazione, a considerarli separatamente scordando l'intuito che c'è nella ragione e la parte di razionalità che alberga nell'untazione.
Come ho detto secondo me i principi cardine sono necessità e volontà. Dato che erroneamente li consideriamo separatamente, e dato che ci è più facile esercitare la volontà sulla ragione che sull'intuito, tendiamo a privilegiare la prima. Ma c'è anche l'altro principio, quello della necessità, dell'inevitabile, del fluire e divenire delle cose che ha una sua logica che ci sfugge e che gli stoici identificano con Dio-Ragione Universale.
A me riesce impossibile negare l'esistenza di Dio, perché anche proclamandomi ateo non posso fare a meno di tornare a pensare a Dio. Si può essere atei solo in vista di un'esistenza creduta o supposta di Dio. E capita di vedere atei incalliti (Corradi Augias ad es) che non smettono di parlare di Dio.
È nel rapporto fra necessità e volontà. - o destino e libertà. - che vedo le cose più interessanti. La libertà giunge solo quando si accetta l'inevitabile - inclusa l'umana ignoranza sull'esistenza o meno di Dio - esercitando la propria volontà e libertà attraverso questa decisione deliberata.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Sariputra

#21
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 10:41:33 AM@Sariputra Intuito e ragione sono due forze imprescindibili che interagiscono in noi. Dato che noi abbiamo anche la capacità di concentrarci sull'una o sull'altra tendiamo, per semplificazione, a considerarli separatamente scordando l'intuito che c'è nella ragione e la parte di razionalità che alberga nell'untazione. Come ho detto secondo me i principi cardine sono necessità e volontà. Dato che erroneamente li consideriamo separatamente, e dato che ci è più facile esercitare la volontà sulla ragione che sull'intuito, tendiamo a privilegiare la prima. Ma c'è anche l'altro principio, quello della necessità, dell'inevitabile, del fluire e divenire delle cose che ha una sua logica che ci sfugge e che gli stoici identificano con Dio-Ragione Universale. A me riesce impossibile negare l'esistenza di Dio, perché anche proclamandomi ateo non posso fare a meno di tornare a pensare a Dio. Si può essere atei solo in vista di un'esistenza creduta o supposta di Dio. E capita di vedere atei incalliti (Corradi Augias ad es) che non smettono di parlare di Dio. È nel rapporto fra necessità e volontà. - o destino e libertà. - che vedo le cose più interessanti. La libertà giunge solo quando si accetta l'inevitabile - inclusa l'umana ignoranza sull'esistenza o meno di Dio - esercitando la propria volontà e libertà attraverso questa decisione deliberata.

C'è sempre in noi questa sorta di ambivalenza, di affermare negando e di negare affermando. Spesso, quelli che non credono in Dio ( noi diamo per scontato che quando si parla di Dio s'intende il dio cristiano, ma ci sono molte visioni e idee diverse su questo "Dio"...), passano la vita a tentar di dimostrare che il loro non credere è veritiero. quindi inconsciamente , negando l'Altro, tentano di affermare se stessi. Personalmente vedo , sia nel credere indimostrabile che nel non credere, lo stesso tentativo fatto dall'Io di delimitarsi dei confini precisi. Per affermare il suo "essere ente" reale, sostanziale questa creatura immaginaria ha bisogno di sentirsi in relazione con altro ( nel caso del credente) o con se stesso ( nel caso dell'incredulo). E' un bisogno psicologico fondamentale, direi quasi naturale. Essere consapevoli di questo bisogno naturale aiuta, a mio parere, ad osservarlo, a comprenderne l'irrealtà pur essendone vincolati come necessità. Già solo la pratica di osservare questo fenomeno mentale interiore, questa necessità e volontà di essere un ente ben definito, crea un minor attaccamento a questo processo mentale incessante. Da non sottovalutare  anche la necessità e volontà di sicurezza dell'Io e la necessità e volontà di fuggire la Paura. Nel primo caso si manifesta nell'egoismo personale e nel secondo nella credenza in una divinità protettrice dalle nostre paure ( di non-essere un ente ben definito in questo caso...). Le due fasi d'essere dell'Io si alternano continuamente. e s'intrecciano senza sosta durante l'esistenza. Osserviamo come all'aumentare della paura ci si rivolga all'Altro protettore e al diminuire si ritorni velocemente all'ego...( basta la minaccia di una malattia per accorgersi di come funziona la nostra mente...). Ai due estremi abbiamo il mistico che si identifica con la divinità protettrice adorata e viceversa , dall'altra parte, l'incredulo che si identifica totalmente con il proprio egoismo, assumendo di fatto il volto di un "demone".
Questa necessità e volontà dell'Io di "appoggiarsi" all'ego o all'Altro ne rivela la fragilità, l'inconsistenza oltre che variabilità. Se l'Io fosse realmente un "ente in se stesso fondato" non avrebbe bisogno di identificarsi incessamente con altro per essere.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

cvc

Citazione di: Sariputra il 14 Gennaio 2017, 11:21:16 AM
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 10:41:33 AM@Sariputra Intuito e ragione sono due forze imprescindibili che interagiscono in noi. Dato che noi abbiamo anche la capacità di concentrarci sull'una o sull'altra tendiamo, per semplificazione, a considerarli separatamente scordando l'intuito che c'è nella ragione e la parte di razionalità che alberga nell'untazione. Come ho detto secondo me i principi cardine sono necessità e volontà. Dato che erroneamente li consideriamo separatamente, e dato che ci è più facile esercitare la volontà sulla ragione che sull'intuito, tendiamo a privilegiare la prima. Ma c'è anche l'altro principio, quello della necessità, dell'inevitabile, del fluire e divenire delle cose che ha una sua logica che ci sfugge e che gli stoici identificano con Dio-Ragione Universale. A me riesce impossibile negare l'esistenza di Dio, perché anche proclamandomi ateo non posso fare a meno di tornare a pensare a Dio. Si può essere atei solo in vista di un'esistenza creduta o supposta di Dio. E capita di vedere atei incalliti (Corradi Augias ad es) che non smettono di parlare di Dio. È nel rapporto fra necessità e volontà. - o destino e libertà. - che vedo le cose più interessanti. La libertà giunge solo quando si accetta l'inevitabile - inclusa l'umana ignoranza sull'esistenza o meno di Dio - esercitando la propria volontà e libertà attraverso questa decisione deliberata.

C'è sempre in noi questa sorta di ambivalenza, di affermare negando e di negare affermando. Spesso, quelli che non credono in Dio ( noi diamo per scontato che quando si parla di Dio s'intende il dio cristiano, ma ci sono molte visioni e idee diverse su questo "Dio"...), passano la vita a tentar di dimostrare che il loro non credere è veritiero. quindi inconsciamente , negando l'Altro, tentano di affermare se stessi. Personalmente vedo , sia nel credere indimostrabile che nel non credere, lo stesso tentativo fatto dall'Io di delimitarsi dei confini precisi. Per affermare il suo "essere ente" reale, sostanziale questa creatura immaginaria ha bisogno di sentirsi in relazione con altro ( nel caso del credente) o con se stesso ( nel caso dell'incredulo). E' un bisogno psicologico fondamentale, direi quasi naturale. Essere consapevoli di questo bisogno naturale aiuta, a mio parere, ad osservarlo, a comprenderne l'irrealtà pur essendone vincolati come necessità. Già solo la pratica di osservare questo fenomeno mentale interiore, questa necessità e volontà di essere un ente ben definito, crea un minor attaccamento a questo processo mentale incessante. Da non sottovalutare  anche la necessità e volontà di sicurezza dell'Io e la necessità e volontà di fuggire la Paura. Nel primo caso si manifesta nell'egoismo personale e nel secondo nella credenza in una divinità protettrice dalle nostre paure ( di non-essere un ente ben definito in questo caso...). Le due fasi d'essere dell'Io si alternano continuamente. e s'intrecciano senza sosta durante l'esistenza. Osserviamo come all'aumentare della paura ci si rivolga all'Altro protettore e al diminuire si ritorni velocemente all'ego...( basta la minaccia di una malattia per accorgersi di come funziona la nostra mente...). Ai due estremi abbiamo il mistico che si identifica con la divinità protettrice adorata e viceversa , dall'altra parte, l'incredulo che si identifica totalmente con il proprio egoismo, assumendo di fatto il volto di un "demone".
Questa necessità e volontà dell'Io di "appoggiarsi" all'ego o all'Altro ne rivela la fragilità, l'inconsistenza oltre che variabilità. Se l'Io fosse realmente un "ente in se stesso fondato" non avrebbe bisogno di identificarsi incessamente con altro per essere.
Si potrebbe dire che tutto è relazione. Però la relazione stessa ha bisogno di un principio, la funzione che unisce elementi di insiemi diversi. E questo principio deve rimanere immutabile affinché la relazione sia valida. Perciò la relazione è un qualcosa di dinamico che ha però bisogno di una costante. Quindi le cose sono sempre più complesse di quando diciamo che tutto è questo o tutto è quest'altro . E Dio è la più grande delle semplificazioni. Sta di fatto che abbiamo bisogno di semplificare per orientarci in un mondo complesso, e abbiamo bisogno di orientarci per adattarci, per assimilare, per obbedire al nostro istinto di autoconservazione. Perché conservarci è la nostra necessità maggiore, la priorità. Ma quando, data la nostra natura razionale, capiamo di non poterci conservare per sempre, allora assume importanza la nostra idea di libertà. Perché a fianco di ciò che non possiamo cambiare scopriamo la nostra facoltà di dare un senso alle cose. E questa è la sola vera libertà, la libertà di giudicare, perché essa sola può dipendere esclusivamente da noi. In questo senso l'io acquista la sua autonomia.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Phil

Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 23:34:02 PM
la premessa di base della logica espressa nella formula A=A è pertanto una verità presunta, non dimostrata. Penso possa essere definita come una verità di tipo intuitivo, infatti  intuiamo che un cane è un cane e non certo un asino. Questa intuizione però, che è vera certamente, è condizionata e non esclude altre intuizioni quali per l'appunto: A non è A, pertanto A, la realtà esistenziale nel tempo dell'ente cane.
L'impermanenza non può essere tradotta "al volo" in forme logiche permanenti (l'ambizioso isomorfismo logico neopositivista), il linguaggio arranca sempre dietro allo scorrere del reale, restando sempre un passo indietro... l'assioma A=A è fuori dal tempo, ma il tempo umano non ha "realmente" un fuori (e ciò la dice lunga sulla fallibilità del linguaggio). E aggiungendo quantificatori temporali, rimane comunque arbitraria e "ritardata" (fuori sincrono) la loro esatta quantificazione: At1=At1, At2=At2, etc. ma in quell'"uguale", c'è tutta l'inafferrabile transitorietà dell'"è" pensato al presente: nel momento in cui lo dici è già passato, e anderebbe verificato di nuovo (se invece lo poni nel futuro, non puoi affermalo perchè non hai potuto ancora verificarlo...).
I principi della logica (assiomi non dimostrabili all'interno dello stesso sitema che fondano) servono per poter parlare e, nella migliore delle ipotesi, ragionare correttamente, ma tale correttezza è "formale", quindi permanente, quindi astratta (alienata?) dall'impermanenza dell'accadere. Sostenere "A è anche Non-a, e proprio per questo può essere A"(cit.) probabilmente allude proprio alla temporalità fluente in cui "A" è in potenza anche "non A", ovvero "A" è la causa presente del suo successivo essere "non più A" (così come è stata effetto del suo precedente essere "non ancora A").

Sariputra

Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 11:56:29 AM
Citazione di: Sariputra il 14 Gennaio 2017, 11:21:16 AM
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 10:41:33 AM@Sariputra Intuito e ragione sono due forze imprescindibili che interagiscono in noi. Dato che noi abbiamo anche la capacità di concentrarci sull'una o sull'altra tendiamo, per semplificazione, a considerarli separatamente scordando l'intuito che c'è nella ragione e la parte di razionalità che alberga nell'untazione. Come ho detto secondo me i principi cardine sono necessità e volontà. Dato che erroneamente li consideriamo separatamente, e dato che ci è più facile esercitare la volontà sulla ragione che sull'intuito, tendiamo a privilegiare la prima. Ma c'è anche l'altro principio, quello della necessità, dell'inevitabile, del fluire e divenire delle cose che ha una sua logica che ci sfugge e che gli stoici identificano con Dio-Ragione Universale. A me riesce impossibile negare l'esistenza di Dio, perché anche proclamandomi ateo non posso fare a meno di tornare a pensare a Dio. Si può essere atei solo in vista di un'esistenza creduta o supposta di Dio. E capita di vedere atei incalliti (Corradi Augias ad es) che non smettono di parlare di Dio. È nel rapporto fra necessità e volontà. - o destino e libertà. - che vedo le cose più interessanti. La libertà giunge solo quando si accetta l'inevitabile - inclusa l'umana ignoranza sull'esistenza o meno di Dio - esercitando la propria volontà e libertà attraverso questa decisione deliberata.
C'è sempre in noi questa sorta di ambivalenza, di affermare negando e di negare affermando. Spesso, quelli che non credono in Dio ( noi diamo per scontato che quando si parla di Dio s'intende il dio cristiano, ma ci sono molte visioni e idee diverse su questo "Dio"...), passano la vita a tentar di dimostrare che il loro non credere è veritiero. quindi inconsciamente , negando l'Altro, tentano di affermare se stessi. Personalmente vedo , sia nel credere indimostrabile che nel non credere, lo stesso tentativo fatto dall'Io di delimitarsi dei confini precisi. Per affermare il suo "essere ente" reale, sostanziale questa creatura immaginaria ha bisogno di sentirsi in relazione con altro ( nel caso del credente) o con se stesso ( nel caso dell'incredulo). E' un bisogno psicologico fondamentale, direi quasi naturale. Essere consapevoli di questo bisogno naturale aiuta, a mio parere, ad osservarlo, a comprenderne l'irrealtà pur essendone vincolati come necessità. Già solo la pratica di osservare questo fenomeno mentale interiore, questa necessità e volontà di essere un ente ben definito, crea un minor attaccamento a questo processo mentale incessante. Da non sottovalutare anche la necessità e volontà di sicurezza dell'Io e la necessità e volontà di fuggire la Paura. Nel primo caso si manifesta nell'egoismo personale e nel secondo nella credenza in una divinità protettrice dalle nostre paure ( di non-essere un ente ben definito in questo caso...). Le due fasi d'essere dell'Io si alternano continuamente. e s'intrecciano senza sosta durante l'esistenza. Osserviamo come all'aumentare della paura ci si rivolga all'Altro protettore e al diminuire si ritorni velocemente all'ego...( basta la minaccia di una malattia per accorgersi di come funziona la nostra mente...). Ai due estremi abbiamo il mistico che si identifica con la divinità protettrice adorata e viceversa , dall'altra parte, l'incredulo che si identifica totalmente con il proprio egoismo, assumendo di fatto il volto di un "demone". Questa necessità e volontà dell'Io di "appoggiarsi" all'ego o all'Altro ne rivela la fragilità, l'inconsistenza oltre che variabilità. Se l'Io fosse realmente un "ente in se stesso fondato" non avrebbe bisogno di identificarsi incessamente con altro per essere.
Si potrebbe dire che tutto è relazione. Però la relazione stessa ha bisogno di un principio, la funzione che unisce elementi di insiemi diversi. E questo principio deve rimanere immutabile affinché la relazione sia valida. Perciò la relazione è un qualcosa di dinamico che ha però bisogno di una costante. Quindi le cose sono sempre più complesse di quando diciamo che tutto è questo o tutto è quest'altro . E Dio è la più grande delle semplificazioni. Sta di fatto che abbiamo bisogno di semplificare per orientarci in un mondo complesso, e abbiamo bisogno di orientarci per adattarci, per assimilare, per obbedire al nostro istinto di autoconservazione. Perché conservarci è la nostra necessità maggiore, la priorità. Ma quando, data la nostra natura razionale, capiamo di non poterci conservare per sempre, allora assume importanza la nostra idea di libertà. Perché a fianco di ciò che non possiamo cambiare scopriamo la nostra facoltà di dare un senso alle cose. E questa è la sola vera libertà, la libertà di giudicare, perché essa sola può dipendere esclusivamente da noi. In questo senso l'io acquista la sua autonomia.

Sono d'accordo. Tra l'altro un'autonomia della volontà è necessaria perchè ci sia un'etica. Infatti la critica all'idea di Io, non si rivolge alla sua necessità , che è un fattore naturale e necessario, come ben scrivi, ma solamente all'idea della sua sostanzialità e pemanenza in senso ultimo, o metafisico.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Sariputra

Citazione di: Phil il 14 Gennaio 2017, 12:00:16 PM
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 23:34:02 PMla premessa di base della logica espressa nella formula A=A è pertanto una verità presunta, non dimostrata. Penso possa essere definita come una verità di tipo intuitivo, infatti intuiamo che un cane è un cane e non certo un asino. Questa intuizione però, che è vera certamente, è condizionata e non esclude altre intuizioni quali per l'appunto: A non è A, pertanto A, la realtà esistenziale nel tempo dell'ente cane.
L'impermanenza non può essere tradotta "al volo" in forme logiche permanenti (l'ambizioso isomorfismo logico neopositivista), il linguaggio arranca sempre dietro allo scorrere del reale, restando sempre un passo indietro... l'assioma A=A è fuori dal tempo, ma il tempo umano non ha "realmente" un fuori (e ciò la dice lunga sulla fallibilità del linguaggio). E aggiungendo quantificatori temporali, rimane comunque arbitraria e "ritardata" (fuori sincrono) la loro esatta quantificazione: At1=At1, At2=At2, etc. ma in quell'"uguale", c'è tutta l'inafferrabile transitorietà dell'"è" pensato al presente: nel momento in cui lo dici è già passato, e anderebbe verificato di nuovo (se invece lo poni nel futuro, non puoi affermalo perchè non hai potuto ancora verificarlo...). I principi della logica (assiomi non dimostrabili all'interno dello stesso sitema che fondano) servono per poter parlare e, nella migliore delle ipotesi, ragionare correttamente, ma tale correttezza è "formale", quindi permanente, quindi astratta (alienata?) dall'impermanenza dell'accadere. Sostenere "A è anche Non-a, e proprio per questo può essere A"(cit.) probabilmente allude proprio alla temporalità fluente in cui "A" è in potenza anche "non A", ovvero "A" è la causa presente del suo successivo essere "non più A" (così come è stata effetto del suo precedente essere "non ancora A").

Sono d'accordo con te e sottolineo che "A è anche non-A, pertanto può essere A" non è altro che una formula che cerca di definire il fluire, l'impermanenza, che non può essere fermata, per sua natura, in una formula verbale. Tra l'altro non ha nemmeno l'intenzione di sostituirsi all'intuizione A=A, che viene ritenuta come "vera" nel senso comune di percepire gli enti , Che un albero sia un albero è vero, ma è una forma di verità parziale, incompleta, se così ci si può esprimere. Nel pensiero buddhista non si può staccare la formulazione di Nagarjuna dalla catena di produzione condizionata ( paticcasammupada): proprio perché A è anche Non-A, può essere causa del successivo essere A, come hai scritto...
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maral

Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 22:20:05 PM

Anche Severino però, come mi sembra ricordare dalla bellicosa discussione di qualche tempo fa, pare approdare alle stesse conclusioni di Parmenide, ossia negando in definitiva il divenire e "cristallizzando" in eterno gli enti...
Se mi tiri in ballo Severino mi sento in dovere di soffermarmi un poco sulla questione del Divenire, di A che diventa B, passando per innumerevoli stati intermedi; del pezzo di legno che, passando per il fuoco diventa piano piano o rapidamente cenere.
Severino parte dal principio di identità a se stesso di ogni ente, come Parmenide, non c'è dubbio (e anche come Aristotele che lo presenta come il fermissimo principio di non contraddizione o del terzo escluso, stabilendo così la regola logica fondamentale che tu hai contestato: di nessun ente si può dire nel medesimo rispetto e momento che è e non è ciò di cui si dice), ma Severino contesta sia Parmenide che Aristotele, il primo in quanto per costruire l'Essere (il perfetto Uno), nega gli Enti (innumerevoli) che lo costituiscono facendoli svanire nel Niente, il secondo perché l'ente, per quello che concretamente è respinge di per sé ogni contraddizione e quindi ogni possibilità di mutare, di essere altro da ciò che è, lo esclude ontologicamente, non solo logicamente. Per questo Severino non considera nella sua filosofia l'Essere e critica la logica aristotelica, in nome della concretezza dell'Ente (ossia l'ente è quello che è proprio perché non può essere le infinite cose che non è, ma nel contempo è quello che è, esattamente come tu dici, in virtù delle infinite cose che non è, hegelianamente Severino ci dice che ciò che l'ente è partecipa necessariamente di tutto ciò che esso non è, ossia partecipa di ogni altro ente, l'affermazione non solo implica, ma è data dalla negazione, da ciò che all'infinito contraddice quella affermazione).
Il divenire (inteso come un ente che viene a essere un altro ente, la legna che viene a essere cenere passando attraverso tutti gli stati intermedi che si vuole) è però impossibile proprio in quanto l'ente, nella specifica identità di quello che è datagli da ciò che non è, non può cambiare nemmeno di un minimo dettaglio: non c'è un legno che si fa cenere, ma un ente legno e un ente cenere (e tutti gli enti che vediamo intermedi) che si richiamano l'uno con l'altro in virtù di quanto è tra loro comune e per questo si presentano in successione, ma quel legno è sempre quel legno e quella cenere (cenere di quel legno) è sempre e solo cenere. Ogni stato intermedio non può essere un infinitesimo mutare, poiché per quanto infinitesimo ogni mutare sarebbe sempre un passare dall'ente a niente e da niente a un altro ente pur rimanendo, il nuovo ente, quell'ente che non c'è più. Dire che il legno è diventato cenere significa dire che il legno non c'è più, ma tuttavia c'è ancora, che, pur evidentemente non essendolo, è proprio in tutto e per tutto quella cenere (non legno) che è diventato. Dunque ciò che accade è solo un diverso e infinito venire ad apparire degli enti che si richiamano l'un l'altro, che all'infinito entrano in scena (vengono ad esistere, nel senso che dicevo prima) attraverso il richiamo delle negazioni che li definiscono e tramontano uscendo di scena senza mai diventar quel loro essere niente che è l'essere altro, ma conservandosi proprio per quello che sono, immutabili, mentre la danza dell'apparire (forse potremmo per certi versi considerarla come la danza di Maya, la danza dell'illusione e dell'esistenza) procede all'infinito perché gli enti sono infiniti, perché infinite sono le negazioni che tra loro li legano e li chiamano ad apparire.
Il diventar altro è quindi l'inganno supremo, ben più ingannevole dello stesso Niente, perché il Niente alla fine è sincero, dice di sé che non è, mentre il Divenire, che non è (quindi non è radicalmente ente, è niente) pretende di essere tutto, pretende che tutto è Divenire, mentre è solo un continuo apparire. Ma proprio questo continuo e immane apparire che coinvolge ogni ente nel suo gioco, è la Gloria a cui ogni ente partecipa in eterno e che culmina nella Gioia del Destino che coinvolge tutti gli enti. Il Destino significa essere concretamente quello che si è (e si è sempre stati e sempre si sarà) nel gioco infinito e immenso di un apparire che non ha mai termine. A non sarà mai non A, ma ogni non A gioca all'infinito con A, apparendo e scomparendo, ma senza mai cessare di essere, senza mai che il futuro venga a uccidere il presente per presentarsi come presente in atto da quell'essere in potenza che era. Ogni ente è sempre in atto.    

CitazioneP.S. Tra poco entrerò nella ristretta elite degli utenti "storici" del forum, dove mi sembra abbia trovato posto fin'ora, e da poco tempo, il solo Paul11 ( cha Allah lo preservi!). Per l'occasione ho intenzione di festeggiare con un sontuoso e poco buddhista banchetto tenuto nel salone della Villa. Naturalmente siete tutti virtualmente invitati. Potrete conoscere meglio la Vania e la Maddi... ;D
Ti sbagli, ci è già entrato pure Sgiombo che ti ha preceduto, tu probabilmente sarai il terzo, con te avremo una trinità storica, ma continueremo sempre filosoficamente a giocare per la Gloria di ciascuno :D

cvc

@Maral

Scusa ma tu dici che non c'è l'ente legno che diventa cenere, ma ci sono semplicemente l'ente legno e l'ente cenere. Quindi fra l'ente legno che si trova ad una certa coordinata spazio-temporale e l'ente cenere che occupa la stessa coordinata spazio-temporale non c'è in mezzo niente? C'è in mezzo il tempo, ma stando alla logica del tuo discorso il tempo è niente. Perché se - come credo - il tempo è divenire, allora secondo il tuo ragionamento il tempo non esiste. È un punto di vista non impensabile perché se deve esistere una sostanza - al di là della quahle tutto sarebbe parvenza - allora deve esserci qualcosa che permane immutato nel tempo e, d'altronde, le due realtà possibili - quella dell'immutabilità e quella del divenire - paiono escludersi vicendevolmente. Però se torniamo al punto che esiste l'ente legno e l'ente cenere, innegabilmente esiste anche l'ente fuoco. Ora seguendo sempre il tuo discorso, anche il fuoco è un ente immutabile. Però ragione ed esperienza ci dicono che il fuoco è un processo che trasforma una materia in un'altra e produce energia, e ciò non può avvenire in un piatto mondo atemporale. Anche la fisica dimostra che la materia permane nel tempo mutandosi, perciò l'immutabilità - che è una categoria necessaria di realtà - va posta nell'ambito generale dell'esistenza e non della semplice forma dell'essere.  Il marmo del blocco grezzo permane nella statua, nella forma della statua. Ma la statua è anzitutto un pezzo di marmo e poi, più particolarmente, una statua bella o brutta a seconda dell'artista. Ma ne tu ne Parmenide o Severino danno - a mio parere - dimostrazione di necessità dell'implicazione fra esistenza e immutabilità, più di quanto all'interno del divenire sia anche contemplata l'immutabilità della materia - che cambia forma ma non sostanza - e dei principi che caratterizzano il muoversi dell'universo, appunto attraverso spazio e tempo.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

sgiombo

#28
Citazione di: Phil il 13 Gennaio 2017, 18:02:05 PM

Il linguaggio si appropria degli enti (materiali o concettuali o altro) tramite definizioni, ovvero la possibilità di dirne qualcosa a riguardo, ma non bisogna confondere l'essere-parola con l'essere-esistente-empiricamente: finche restiamo aldiquà dei limiti del linguaggio, possiamo parlare di tutto ciò che ha una parola corrispondente (il niente. il silenzio, l'assenza, etc.), pur rispettando le differenze logiche, le negazioni, che distinguono i concetti connessi alle parole. Il parlare dell'ente o del niente non è indifferente: dell'ente possiamo specificare caratteristiche, localizzarlo, etc. del niente ce ne serviamo solo come contrappeso logico, come negazione dell'ente, ma senza confonderlo con esso. Entrambi sono predicabili, ma l'essenza della loro predicazione è proprio l'incolmabile "distanza" logica che li separa.
Mi auguro di essere stato almeno vagamente comprensibile  :)

CitazioneQuesto mi sembra il punto fondamentale per districarsi nel groviglio di significati dei concetti.

Secondo me al fondo della questione sta la differenza fra realtà e pensiero (circa la realtà o meno), fra "essere" (o divenire) ed "essere pensato" (o accadere di essere pensato).
L' essere pensato, se accade realmente, é un fatto reale, che realmente é o accade; ma inoltre é un "tipo molto peculiare" di evento reale, che "allude" a "qualcosa" (tante virgolette, tanta oscurità, lo so) che potrebbe essere reale (l' essere del cavallo Bigio di mio nonno; ovviamente quando era vivo, quando c' era come cavallo vivente; mi scuso ma non conosco altri cavalli presentemente vivi e sono troppo affezionato agli ippogrifi), oppure non essere reale (non del pensiero di esso, ma dell' oggetto di pensiero o di "allusione": il solito ippogrifo Pegaso tanto caro a me, e in fondo anche a Maral).

Per la definizione (arbitraria) di tali concetti, può darsi realtà in quanto tale (per esempio del cavallo Bigio) e realtà di (in quanto) concetto pensato (per esempio dell' ippogrifo Pegaso).
E può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, inoltre "accompagnata da", coesistente con (dandosi anche) denotato reale di essa, del concetto pensato: Bigio; e può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, non inoltre "accompagnata da", non coesistente con (non dandosi anche) denotato reale di essa: Pegaso.

Secondo me da Parmenide e da Platone in poi (con particolare risalto in Hegel e altri, fra cui Severino; di Heidegger non mi sento di dire per la mia personale ignoranza) il confondere questi due ben diversi concetti (di "realtà" e di "concettualità"), che non necessariamente si danno (accadono realmente) entrambe, é all' origine della gran confusione lamentata dall' ottimo Sariputra, sempre franco, chiaro, profondo: sarà pure un non-cultore ufficiale di filosofia occidentale, ma per me é un ottimo filosofo (e anche autoironico e simpaticissimo; coi tempi che corrono sarà bene che -senza alcuna omofobia, ci mancherebbe altro! Mica ho la vocazione del martire che vuole essere messo in croce!- non sono innamorato del Sari, anche perché sono eterosessuale "di stretta osservanza").

In linea concettuale, puramente logica, l' essere si può anche predicare del non essere (così complessivamente negando, come nel caso di ogni "prodotto" di un numero di affermazioni e un numero di negazioni fra loro uguali o, di di un numero dispari di negazioni; mentre nel caso del prodotto di un numero di negazioni e un numero di affermazioni diverso, se si ha un eccesso -una differenza positiva- di affermazioni si afferma, se si ha un eccesso -una differenza positiva di negazioni- si nega se questo eccesso é dispari, si afferma se é pari); tutto ciò per definizione (arbitraria) di affermazione (essere concettualmente) e negazione (non essere concettualmente).

Nella realtà invece (sempre per le definizioni arbitrarie dei termini qui usati) o si dà -necessariamente- essere (o divenire; realmente) oppure si dà -necessariamente- non essere (o non divenire; realmente): tertium (per esempio "possibile") non datur.


Conclusione a mio parere inevitabile, logicamente cogente: il "possibile" può darsi solo del pensiero (dell' essere o divenire concettualmente), mai della realtà (dell' essere o divenire realmente): si può pensare che Bigio e anche Pegaso esistono e si può parimenti pensare che Pegaso e anche Bigio non esistano.
Ma se nella realtà Bigio esiste (é esistito) e Pegaso non esiste (non é mai esistito) non può affatto darsi anche (lo si può bensì pensare, può darsi nel pensiero, nella realtà meramente concettuale) che Bigio non esista e che Pegaso esista.

Nella realtà: possibile = pensabile (alternativa meramente concettuale e non alternativa reale).

Corollari:

Falsità dell' "argomento ontologico" dell' esistenza di Dio: solo ciò che é - accade realmente necessariamente é - accade realmente, non può non essere - non accadere realmente, qualsiasi cosa sia (e non in quanto connotazione determinata di concetti, come può essere "Dio"; a meno che per "dio" non si intenda "ciò che è reale qualsiasi cosa sia": che sia più o meno  buono o cattivo, onnipotente o impotente, ecc.).

Insensatezza del problema avvertito come "fondamentalissimo" da chiunque sia dotato di "temperamento filosofico", quello del "perché" della realtà in generale e di se stessi in particolare: perché c' é qualcosa, e in articolare quel determinato "qualcosa" che c' é (e nel suo ambito perché ci sono io, così come sono) anziché esserci altro (per esempio un altro, diverso "qualcosa", una realtà che non mi includa) o addirittura nulla?
Risposta: perchè tutto ciò realmente accade, e realmente accadendo non può darsi ce non accada (non c' é alternativa reale possibile; e dunque non c' bisogno di spiegazione alcuna per il verificarsi reale di quella alternativa che si verifica di fatto fra altre possibili; che per l' appunto non si danno).
E' solo concettualmente, come ipotesi del pensiero e non come fatti reali. che si danno altre possibilità (per esempio di un diverso "qualcosa" di reale non includente me; o magari di alcunché di reale): non c' é alternativa da spiegare (bisognosa di spiegazione, senso, ragione, "perché") nel reale, ma solo si dà alternativa nel concettuale, nel pensabile, la cui spiegazione sta nelle definizioni (arbitrarie) di "reale", "concettuale", "negazione" ("non reale", "non concettuale"), "necessario", "possibile", "impossibile", ecc., nel fatto che si può anche pensare ciò che non accade realmente (Pegaso), oltre a ciò che accade realmente (Bigio), e che può accadere realmente anche ciò che non é pensato (un' "infinità" -insieme indefinito-  di cose), oltre a ciò che é pensato (Bigio e un' "infinità" di altre cose).

P.S. delle ore 15, 30: Non avendo ancora letto l' intervento di Apeiron di ieri alle 18:58:33 (col quale credo di sostanzialmente concordare, pur nella mia totale ignoranza della filosofia orientale) al momento di scrivere questo mio, mi scuso per non averlo citato (beh, paradossalmente l' ho citato; per quanto solo ora).

sgiombo

Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 21:44:12 PM
Parmenide ci dice che l'ente è l'essere di una cosa. Questo mi sembra prestarsi a parecchie complicazioni. Il greco era assolutamente convinto che, per il solo fatto di pensare, dobbiamo postulare che qualcosa "è". Ciò che non-è non è possibile nemmeno pensarlo; come può allora essere una parte della realtà? Non-essere, per Parmenide, è pertanto impossibile. Il corollario di questa affermazione è l'impossibilità del cambiamento, dato che il cambiamento comporta tanto l'essere che il non-essere. Per es. quando A cambia in B, A non esiste più. Come si può pensare una siffatta contraddizione? Una qualità non si può cambiare in un'altra qualità; affermare questo significa affermare, a parer mio, che qualcosa "è" e al contempo "non-è". Quindi  l'ente , per poter cambiare, è nel contempo non-ente ( ni-ente?..?.
Inoltre, se l'essere è diventato, deve pure esser venuto o da un essere o da un non-essere. Però se viene da un non-essere è impossibile. Come può un qualcosa venir fuori dal nulla? Se viene da un essere, allora è venuta da se stesso, che sarebbe come dire che è identico a se stesso, e così è sempre stato. Se è questo il caso, non è certo un caso di "divenire". Parmenide , da quel poco che ho letto, è costretto a concludere che da un essere può venire solo un essere, che nulla può diventare qualcos'altro, che qualsiasi cosa ( ente) è, è sempre stata e sempre sarà e che ogni cosa rimane ciò che è. Quindi, alla fine della fiera, può esistere solo un unico, eterno, indiviso e immutabile Essere.
Questo ragionamento, se non sbaglio, è alla base dell'Occidente ( con infinite variazioni ma partendo da..) e di svariate religioni, credi, ecc. ( Sono d'accordo con Apeiron che lo definisce un Errore, con la maiuscola...).


CitazioneCredo in accordo con Apeiron (e probabilmente Donquixote e Phil e altri...; o almeno mi pare che così stiano le cose, ma se mi sbaglio chiedo anticipatamente scusa agli interessati), ribadisco che l' Errore di Parmenide (e di tanti altri occidentali) nasce dal confondere l' "essere realmente" e l' "essere concettualmente (in quanto mero oggetto di considerazione, di pensiero)":

Per definizione ciò che é non può non essere e viceversa; ma ciò vale per "ciò che é qualsiasi cosa sia" (ciò che é é e non può non essere -e viceversa- in assoluto, "per sempre", salvo arbitrarie e convenzionali modifiche dei concetti, che non cambiano la realtà ma -solo la realtà di- ciò che si pensa della realtà).
Ma in realtà ciò che é qualsiasi cosa sia potrebbe anche essere (e a quanto pare di fatto é) il mutamento, il divenire; e se così é, allora ciò che era prima può benissimo non essere adesso o dopo di adesso, e ciò che non era prima può benissimo essere adesso o dopo di adesso: la realtà, che può solo essere come é e non diversamente, può ben cambiare (essere "cangiante", divenire).

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