conoscenza e critica della conoscenza

Aperto da davintro, 15 Agosto 2016, 18:26:43 PM

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maral

#195
Citazione di: sgiombo il 30 Settembre 2016, 09:09:51 AM
(Circa la Bibbia la parola di Dio può essere intesa benissimo come scritta o come semplicemente pensata, oltre che come pronunciata; per esempio i dieci comandamenti su Sinai sarebbero stati scritti su tavole di pietra e non detti da Dio).
Non mi pare. Quando Dio crea (Genesi) crea con la voce, non scrive da nessuna parte e a Mosè Dio parla e Mosè sente la Sua Voce. Il segno grafico in Occidente è solo traduzione di un fonema, non è originario, ma è il segno di un segno fonico per rendere il segno fonico definitivo, imperituro appunto.

CitazioneEcco, io credo di pensarla proprio al contrario: gli oggetti esistono anche senza che qualcuno dia loro un nome e li pensi (sarebbe molto comodo se fosse come dice Sini: darei subito il nome -e attribuirei il significato- di "nulla" a Renzi, Obama e tantissimi altri e il mondo sarebbe subito molto, molto migliore).
Piacerebbe anche a me, ma purtroppo non accade e non accade non perché le parole sono arbitrarie, mentre quelli sono reali, ma proprio perché le parole non sono il frutto di nessuna arbitrarietà, nessuno dà il nome alle cose come gli pare, il nome corrisponde a quella cosa, perché ci dice cos'è. Senza nome possiamo dire che qualcosa c'è (anzi nemmeno questo a rigore, visto che "qualcosa" è già un nome). ma cos'è quel qualcosa? Ci vuole un nome, ci vuole il suo nome!

CitazioneIo la penso esattamente come Phil: le cose (solito esempio del monte Bianco) sono identiche a se stesse anche se nessuno le pensa (chissà quanti monti ci sono su pianeti di altre galassie che nessuno ha mai visto e concettualizzato, ma non per questo perdono al loro identità per diventare laghi, fiumi, mari, alberi, arcobaleni, nuvole o chissà cos' altro ...ah, se te lo sentisse dire Severino!!!).
Ma il nome è costitutivo dell'ente, non è lo stesso ente un ente che si chiama in due modi diversi. Ma poi mi fai a dire come fai a conoscere quella cosa come un monte, tanto da dire che è un monte identico al suo essere monte ed è sempre e per tutti un monte, se non hai il nome e quindi il concetto di monte?


CitazioneE io sono costretto a ripeterti la domanda:

Ma da dove salta fuori, nel principio di identità questo "mai" (Se A è A non potrà maiessere qualcosa di diverso da A)?
Salta fuori dal fatto che se tautologicamente A non è non A, non ci sarà mai alcun luogo né alcun tempo in cui A è non A pur restando A così da poter dire che lo stesso A che un tempo era A ora è A che è diventato non A. ossia B. Detto in altri termini quel reale e concreto che fu Sgiombo bambino non può essere mai quel reale e concreto Sgiombo adulto che qui appare restando lo stesso Sgiombo. A meno che appunto non prendiamo solo il suo nome in astratto, perché solo quello, tenuto separato da chi lo porta, sembra essere rimasto lo stesso.

CitazioneSe dico che ora questo A è A, domani può tranquillamente, quello che oggi é il medesimo A di oggi, essere diventato B senza alcuna contraddizione.
Se è così quello che ieri era A ieri resta A, mentre quello che oggi è B non potrà mai essere quello che ieri era A che infatti non è quello che oggi è B.
O ancora "quello ieri era un bambino" - indichiamolo (A) - resta ieri un bambino (A), mentre quello che oggi è un adulto - indichiamolo (B) - è quello che oggi è un adulto (B), quindi non è quello che ieri era un bambino - non è (B) -, solo il nome si può dire che gli è rimasto lo stesso, ma mentre ieri era il nome di un bambino oggi è il nome di un adulto, quindi in fondo anche i nomi sono cambiati a meno di non volerli separare da chi li porta.

maral

#196
Citazione di: Phil il 30 Settembre 2016, 16:26:05 PM
Per me l'eternità (così come l'infinito) non può che essere una congettura, perché, per definizione, è ciò che non è verificabile, ma solo ipotizzabile...
Posso essere d'accordo (Severino non sarebbe e ci direbbe che è ciò di cui facciamo continuamente esperienza proprio nell'apparire degli enti), ma in tal caso si implicherebbe che noi possiamo fare esperienza solo della contraddizione, o meglio che possiamo solo contraddirci.

Citazione
Al riguardo richiamerei ancora la differenza fra linguaggio e lingua, ovvero fra giocare a carte in modo istintivo e non-strutturato (linguaggio come predisposizione innata neurologico-comportamentale, che contempla anche la possibilità del "solitario"), e giocare a carte in modo regolamentato (lingua convenzionale), ma con ciò non voglio riavvolgere il discorso a tre o quattro pagine fa...
Mi limito a chiedere se è mai esistito davvero un linguaggio non strutturato o una lingua senza un fondamento istintivo. Noi continuiamo linguisticamente a separare le cose (produrre astrazioni) sperando così di parlare oggettivamente, mentre in realtà parliamo sempre e solo attorno ai nostri astratti concetti (che va anche bene, dato che non possiamo parlare di altro, basta rendersene conto).

Citazioneche sia arrivata a destinazione la bastonata del monaco (non mia)?
Le bastonate dei monaci arrivano sempre prima o poi  :D
CitazioneSchleiermacher direbbe che possiamo capire Severino meglio di lui stesso... comunque, per come la vedo, quando l'ermeneutica si crede (crede se stessa) una ontologia, quando viene confuso il piano del linguaggio con quello dell'essere, si sconfina nell'estetismo, ovvero nel proporre una prospettiva estetizzata, come dimostra Heidegger (è tutta qui la differenza fra la citazione del "suo" Holderlin e quella di Wittgenstein).
Mi dispiace per Schleiermacher e la sua voglia di chiarezza, ma linguaggio è di per sé confuso con l'essere e a separarli trovo si facciano ben più pericolose confusioni.

Citazione...intendo quella in cui si sta nel circolo ermeneutico partendo dal senso (intuito, congetturato, prefigurato) per arrivare all'essere, piuttosto che (come vorrebbe fare l'ontologia autentica, nonostante lo scacco delle scienze) partire dall'essere per arrivare al senso (per inciso, questo dualismo senso/essere, con tutti i rovesciamenti annessi, può essere problematizzato fino al suo superamento).
C'è da dire che anche questa "ontologia autentica" alla fine si rivela solo all'occhio ermeneutico un'interpretazione, che a volte ha valore estetico, altre no, ma il non averlo non la rende per questo più vera, magari solo più brutta.

Severino in realtà non vuole attualizzare Parmenide, anzi, considera Parmenide (con il suo Essere totalizzante) il grande originario proclamatore del Nulla e ritiene che sia proprio da quel Nulla implicato nell'Essere di Parmenide che nasce la follia dell'Occidente. Dire che l'essente è (ove "essente" va inteso al plurale) è qualcosa di radicalmente diverso dal dire che l'Essere (Uno) è. E' proprio a motivo della pluralità infinita degli Essenti che si ha la Gloria, mentre da Parmenide si ha solo una sfera in sé finita che equivale al Non Essere, una sfera perfettamente vuota. La Gloria non è un espediente estetizzante, ma l'infinito apparire degli Enti: come poteva arrivarci Parmenide che ha solo l'Uno?

CitazioneP.s. A scanso di equivoci, preciso che non intendo estetico l'oggetto del discorso severiniano, nè tantomeno voglio dare un'interpretazione estetica della sua ontologia; alludo alla sua prospettiva col termine di "estetizzata" allo stesso modo di come era estetizzata la "visione" proposta dal cubismo: in Severino non c'è il divenire, in Picasso non c'è la prospettiva; in Severino gli enti sono eterni, in Picasso gli enti sono scomposti, etc. la differenza sta nella intenzionalità dell'estetizzare il mondo (anche se sgiombo ha tratteggiato un "colpo di teatro" testamentario decisamente intrigante...) e nello strumento usato (pennello vs penna...).
Ma tu pensi davvero che la visione metafisica classica, quella su cui per senso comune facciamo affidamento, e che immagina uno scorrere nel tempo reale, un ieri, un oggi e un domani effettivi e non immaginati, con un soggetto e un oggetto, un dentro e un fuori ben distinti e separati, sia più realistica? La questione dello scorrere del tempo è di vecchia data, già Agostino la metteva giustamente in dubbio (il passato non è, esiste forse un luogo ove troviamo il passato? Cosa sono passato e futuro se non enti assolutamente senza luogo?).
Ma se vogliamo rimanere in termini pittorici, pensi davvero, ad esempio, che un quadro di Raffaello riproduca  cose e persone in modo più reale di un quadro cubista, al di là delle rispettive scelte estetiche?

Sariputra

#197
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 21:54:24 PM
Citazione di: Sariputra il 30 Settembre 2016, 01:31:22 AMCitando una frase di Bergson: Tutte le fotografie di una città, prese da tutti i punti di vista possibili, per quanto si completino indefinitamente le une con le altre, non varranno mai quell'esemplare in rilievo che è la città in cui si va a passeggio affermo che : Tutti gli infiniti "Sari che vanno a letto", presi da tutte le angolazioni e punti di vista possibili ( sopra sotto il letto), non varranno mai come quell'esemplare vivente di Sari che va effettivamente a letto. Qui si palesa il primato dell'intelligenza intuitiva su quello della conoscenza analitica. L'intuizione coglie la presenza viva di Sari ( per adesione e simpatia) e il suo essere in divenire, mentre l'analisi deve ricorrere alla frammentazione di "tutti i punti di vista possibili".
Scusa se puntualizzo, ma altrimenti non ci si intende (ah queste parole!). Non è che la miriade di Sari che vanno a letto siano diversi perché c'è una miriade di punti di vista diversi con cui si può osservare Sari che va a letto (questa è una problematica ulteriore sulla quale Severino penso dissentirebbe), ma perché c'è una miriade di atti che Sari (quell'astrazione che chiamiamo Sari e in cui Sari identifica se stesso e corrisponde al significare del suo unico nome) compie per andare a letto e, poiché ognuno di essi istituisce una differenza per quanto possa essere impercettibile, a ognuno di essi corrisponde un diverso ente, un diverso Sari. Ma ciascuno di questi atti è a sua volta suddivisibile all'infinito in atti ancora più infinitesimi, quindi Siamo sempre e comunque davanti a delle astrazioni per quanto a fondo possiamo andare nella nostra analisi. Dunque alla fine siamo costretti ad ammettere che noi conosciamo solo le cose in astratto, conosciamo il loro significato riflesso dal nome, per quanti sforzi facciamo sono solo i nomi che vediamo. L'intuizione che ci scalda molto di più gli animi appare certo più veritiera, ma allora dobbiamo mettere da parte ogni pretesa di fondatezza condivisibile, perché quella vita è solo la mia vita (l'io è l'unico, come diceva Stirner), ma anche così si arriva sempre al punto di interrogarsi su cosa sia io, su cosa sia la mia vita, "io" è davvero reale o è un nome astratto? E anche qui non si può avere alcuna risposta, Forse gli unici momenti in cui davvero viviamo sono quelli in cui non pensiamo (e quindi non parliamo, giacché l'uomo è solo parlando che pensa), Non ci resta che il silenzio, ma nessuno riesce a fare un silenzio sufficiente, nemmeno un monaco zen (e se anche ci riuscisse come potrebbe dircelo o dirselo?).

Ma non potremo mai trovare una "fondatezza condivisibile" se io affermo che A diventa necessariamente B e C, ecc. mentre tu sostieni che A è A in eterno. Tutti e due però viviamo come se A deve diventare necessariamente B e poi C e così via. Anche Severino vive come noi e questo io lo chiamo vivere secondo un'intelligenza intuitiva. Con la necessità di spezzare il fluire in frammenti eterni chiamati enti, per poi trovarsi a dover spezzare i supposti enti in altri enti e poi in altri ancora, si riduce l'ente al nulla , o meglio...lo si riduce esattamente a quello che vuole negare, e cioè al Fluire , al Divenire così odioso. Così, alla fine , le due teorie che paiono alla ragione opposte pervengono alla stessa fattuale realtà. Che sarebbe quella che NON possiamo che vivere "come se A diventa B e poi C e così via..."
Che la teoria sia vera o che sia falsa è ininfluente, perchè siamo soggetti alla Necessità della teoria del divenire e perchè l'intelligenza intuitiva la avverte istinitivamente come vera e la può negare solo negando verità a se stessa. e ciò non è possibile perchè l'intelligenza intuitiva precede quella analitica e la fonda. L'intelligenza intuitiva può cogliere e diventare essa stessa l'"insieme", mente l'analitica coglie e analizza la relazione tra le parti dell'insieme ma sempre "separandole" e non riuscendo a cogliere la visione dell'insieme.
Penso che viviamo in un universo regolato da causa ed effetto e che , tutto quello che non conosciamo, che non riusciamo a capire, che ci sembra misterioso,che ci spinge a formulare variopinte teorie, sia semplicemente dovuto all'ignoranza delle cause e non alla mancanza delle stesse. Che poi sia una teoria giudicata "vecchiotta" e demodè, ne me ne può fregà de meno...anche gli ombrellini per ripararsi dal sole sono fuori moda , ma come sarebbero ancora molto comodi! :D

Tra l'altro il concetto che un'idea è superata è totalmente contrario alla teoria degli enti eterni del buon Severino. Come fa ad essere superata se il tempo non esiste?... ::)

P.s. il famoso monaco zen non fa silenzio e non ce lo racconta...di solito bastona!! ;D ;D ;D
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Phil

Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PM
Citazione di: Phil il 30 Settembre 2016, 16:26:05 PMPer me l'eternità (così come l'infinito) non può che essere una congettura, perché, per definizione, è ciò che non è verificabile, ma solo ipotizzabile...
Posso essere d'accordo (Severino non sarebbe e ci direbbe che è ciò di cui facciamo continuamente esperienza proprio nell'apparire degli enti), ma in tal caso si implicherebbe che noi possiamo fare esperienza solo della contraddizione, o meglio che possiamo solo contraddirci.
"Contraddizione" solo se restiamo dentro alla logica (estetizzata) severiniana (ma per la logica classica non c'è contraddizione...)

Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PMMi limito a chiedere se è mai esistito davvero un linguaggio non strutturato o una lingua senza un fondamento istintivo. 
Un linguaggio non strutturato, secondo me (non potendo parlare con certezza di quello usato dall'uomo preistorico!), può essere quello dei neonati (prima che affinino la capacità di imitare); il fondamento istintivo-biologico è sempre quello innato della comunicazione...

Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PMNoi continuiamo linguisticamente a separare le cose (produrre astrazioni) sperando così di parlare oggettivamente, mentre in realtà parliamo sempre e solo attorno ai nostri astratti concetti 
Per questo sottolineavo la differenza fra ermeneutica e ontologia, fra linguaggio/senso ed essere... ovviamente, le parole (astratte) non sono gli enti a cui si riferiscono!

Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PMMa tu pensi davvero che la visione metafisica classica, quella su cui per senso comune facciamo affidamento, e che immagina uno scorrere nel tempo reale, un ieri, un oggi e un domani effettivi e non immaginati, con un soggetto e un oggetto, un dentro e un fuori ben distinti e separati, sia più realistica? La questione dello scorrere del tempo è di vecchia data, già Agostino la metteva giustamente in dubbio (il passato non è, esiste forse un luogo ove troviamo il passato? Cosa sono passato e futuro se non enti assolutamente senza luogo?). 
Il passato lo troviamo trasfigurato nella memoria, mentre gli enti severiniani, prima del loro apparire, sono ma non sono in nessun tipo di luogo (se ho capito bene): entrambe non sono esperienze di autentico possesso o percezione del passato (che sarebbe logicamente impossibile!), ma quella della memoria come traccia del divenire mi sembra meno "spericolata" e fantasiosa (ma forse è solo una questione di plausibilità secondo la mia prospettiva...).

Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PMMa se vogliamo rimanere in termini pittorici, pensi davvero, ad esempio, che un quadro di Raffaello riproduca cose e persone in modo più reale di un quadro cubista, al di là delle rispettive scelte estetiche?
Il quadro di Raffaello mi pare resti più comprensibile, decifrabile, attendibile come rappresentazione, rispetto ad un quadro di Picasso (così come il divenire resta, per me, più funzionale come chiave di lettura, rispetto ad una metafisica dell'eterno): se tu dovessi mandarmi un quadro per farmi vedere le tue sembianze fisiche (non per stupirmi o darmi qualcosa da appendere in salotto), lo commissioneresti a un Raffaello o a un Picasso?

davintro

a mio avviso l'idea della contraddittorietà del divenire è frutto della confusione tra piano logico-formale e piano materiale-esistenziale. A non potrà mai essere sul piano logico non-A, questa resta una verità indubitabile fondamento trascendentale del nostro pensare. Ma dal punto di vista reale ed esistenziale nessun ente è mai solo una lettera, una proprietà, ma una struttura complessa (anche le entità apparentemente più semplici come pietre e sassi) di differenti proprietà, un intreccio di queste. A non potrà mai essere non-A vuol dire "essere in Italia" non sarà mai come "non essere in Italia", ma non vuol dire che "Tizio è in Italia" sia la condizione definitiva di Tizio, che non potrebbe mai andarsene dall'Italia e visitare un paese straniero. L'immutabilità sottesa al principio di non contraddizione riguarda il significato concettuale di un singolo modo d'essere considerato astrattamente, e formalizzabile in modo simbolico con la lettera A, non la concretezza di un ente sostanziale che vive in una temporalità diacronica (Tizio) e che si pone come relazione dinamica tra una molteplicità di proprietà che non possono essere, se contestualizzate all'interno della realtà del soggetto a cui appartengono. La pretesa di dedurre un'ontologia, una teoria sulla realtà a partire da leggi regolanti i rapporti tra puri concetti rende l'eleatismo in fondo una sorta di idealismo ante litteram che anticipa, giungendo alle sue conclusioni radicali, i sistemi idealisti tedeschi dell'ottocento. A tale confusione idealista occorre rispondere con il realismo aristotelico che distingue all'interno di un ente proprietà sostanziali che restano immutabili all'interno di un ente, finendo con il costituirlo come "quell'ente e non un altro" e proprietà accidentali, mutevoli. Che Tizio si trovi in Italia o in Germania riguarda sue proprietà accidentali, soggette al divenire, che però convivono insieme ad un substrato immutabile, ciò che rende Tizio Tizio e non Caio,la sua sostanzialità, la sua identità personale. Nell'ultimo senso l'essere di Tizio vede il suo nullificarsi come contradditorio, dunque insensato. La soluzione dunque è considerare il divenire non il passaggio dall'essere al nulla, ma trasformazione qualitativa di accidenti che si attua però all'interno dell' essere, essere che resta sempre tale senza mai cadere nel Nulla assoluto.

La distinzione tra il piano logico formale e quello ontologico non deve però farci cadere nell'errore di considerare qualunque discorso sull'Essere universale, immutabile, escludente il nulla, come necessariamente astratto, filosoficamente inconcludente, tautologico, sofisitico, opposto alla concretezza del divenire. In realtà l'Essere considerato in  sè stesso, nella sua indeterminatezza, ha una sua concretezza che gli deriva dall'essere la condizione necessaria della manifestazione di ogni ente particolare e della giudicabilità. Ogni ente per essere predicato, giudicato, ha bisogno che si manifesti a noi come avente delle caratteristiche che lo rendono un "non nulla". Affermare, giudicare, predicare delle proprietà circa un soggetto equivale a considerare quel soggetto come avente un qualunque modo d'essere, dunque un essere. L'essere è cioè il presupposto trascendentale dell'affermare  qualcosa di qualcuno, dell'affermare predicati di un soggetto, ciò che determina di fatto la presenzialità di qualunque cosa. Ciò che non posso in alcun modo giudicare è il  Nulla, l'assoluto non-presente. In questo modo si può dire che l'idea di Essere come presupposto trascendentale della giudicabilità è co-implicata nell'idea di Universalità, quest'ultima intesa come presupposto trascendentale della formazione dei concetti, che a loro volta sono i termini che compongono i giudizi, seppur sia la giudicabilità e la concettualizzazione hanno bisogno di un contenuto esperienziale per poter concretezzarsi. Questa relazione di co-implicazione tra idea dell' "essere" e idea di "universalità" compone una struttura originaria (non voglio dire innata) fondante la nostra soggettività mentale.

Questo discorso potrebbe essere contestato dal punto di vista dell'idea (e qui finisco con lo sfiorare l'altro tema in cui mi pare si sia nelle ultime pagine orientata la discussione, il tema del rapporto tra linguaggio-cosa) che nella sintassi della nostra lingua l'essere si limita ad essere una copula, e non un predicato, per il quale si potrebbe dire che ciò che ho di fronte è un "essere". Ma in realtà occorre che l'analisi dei principi fondamentali della soggettività pensante, la speculazione filosofica, sia indipendente dalla molteplicità delle forme culturali linguistiche, e che cerchi di giungere a conclusioni necessarie attraverso un lavoro critico razionale di setaccio e separazione degli aspetti contingenti dagli aspetti essenziali all'interno dell'esperienza di ciò che tematizziamo. Identificare le possibilità del pensiero con quelle del linguaggio dovrebbe portare a smentire l'idea che ogni giudizio presupponga la presenza della nostra mente dell'idea dell'essere sulla base del fatto che alcuni giudizi non sono in lingua italiana strutturati in riferimento esplicito all'essere, tutti giudizi in cui l'essere non compare come soggetto o copula. Ma l'obiezione viene meno nel momento in cui l'Essere non va considerato come parola, convenzione culturale, ma come oggetto di un'intuizione intellettuale di cui ci si può render conto nell'analisi della nostra esperienza considerata a un livello interiore, preesistente alla traduzione a scopi comunicativi con l'esterno in forma simbolica, cioè con le parole. Cioè anche quando dico e scrivo "ho una maglietta","piove", "mangio la piadina", sto utilizzando l'idea dell'Essere, a prescindere dalla sua non utilizzazione a livello linguistico.

sgiombo

#200
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 22:39:00 PM
Citazione di: sgiombo il 30 Settembre 2016, 09:09:51 AM
(Circa la Bibbia la parola di Dio può essere intesa benissimo come scritta o come semplicemente pensata, oltre che come pronunciata; per esempio i dieci comandamenti su Sinai sarebbero stati scritti su tavole di pietra e non detti da Dio).
Non mi pare. Quando Dio crea (Genesi) crea con la voce, non scrive da nessuna parte e a Mosè Dio parla e Mosè sente la Sua Voce. Il segno grafico in Occidente è solo traduzione di un fonema, non è originario, ma è il segno di un segno fonico per rendere il segno fonico definitivo, imperituro appunto.
Citazione1 Non ho scritto che secondo la Bibbia (per quel che me ne frega, mi verrebbe da dire se non volessi evitare di urtare la suscettibilità dei credenti) Dio si rivolge agli uomini "solo" con parole scritte, ma "anche", come dimostra l' elargizione su pietra dei dieci comandamenti.

2 Non ho mai sostenuto la colossale corbelleria secondo cui é stata inventata prima la scrittura e dopo il linguaggio parlato.

CitazioneEcco, io credo di pensarla proprio al contrario: gli oggetti esistono anche senza che qualcuno dia loro un nome e li pensi (sarebbe molto comodo se fosse come dice Sini: darei subito il nome -e attribuirei il significato- di "nulla" a Renzi, Obama e tantissimi altri e il mondo sarebbe subito molto, molto migliore).
Piacerebbe anche a me, ma purtroppo non accade e non accade non perché le parole sono arbitrarie, mentre quelli sono reali, ma proprio perché le parole non sono il frutto di nessuna arbitrarietà, nessuno dà il nome alle cose come gli pare, il nome corrisponde a quella cosa, perché ci dice cos'è. Senza nome possiamo dire che qualcosa c'è (anzi nemmeno questo a rigore, visto che "qualcosa" è già un nome). ma cos'è quel qualcosa? Ci vuole un nome, ci vuole il suo nome!
CitazioneSe nessuno da il nome alle cose come gli pare come mai esistono centinaia di lingue nelle quali in molti casi il medesimo concetto é espresso da vocaboli diversissimi fra loro?
Sono forse le cose poliglotte anziché gli uomini?

Ovvio che senza nome non possiamo parlare delle cose (ma quando mai avrei scritto quest' altra corbelleria?); ma le cose sono reali indipendentemente dagli eventuali nomi che si danno loro e dal fatto che se ne parli o meno (esempio delle numerosissime montagne su pianeti di altre galassie che nessuno vedrà e nominerà mai).

Conoscenza delle cose =/= le cose.

CitazioneIo la penso esattamente come Phil: le cose (solito esempio del monte Bianco) sono identiche a se stesse anche se nessuno le pensa (chissà quanti monti ci sono su pianeti di altre galassie che nessuno ha mai visto e concettualizzato, ma non per questo perdono al loro identità per diventare laghi, fiumi, mari, alberi, arcobaleni, nuvole o chissà cos' altro ...ah, se te lo sentisse dire Severino!!!).
Ma il nome è costitutivo dell'ente, non è lo stesso ente un ente che si chiama in due modi diversi. Ma poi mi fai a dire come fai a conoscere quella cosa come un monte, tanto da dire che è un monte identico al suo essere monte ed è sempre e per tutti un monte, se non hai il nome e quindi il concetto di monte?

CitazioneA no? Dunque il fiume Po e l' Eridano sono due diversi corsi d' acqua?
E il Benaco e il Garda, l' Iseo e il Sebino, ecc.?

Se non conosco la parola "monte" e il relativo concetto non posso sapere cos' é un monte e se "quella cosa alta che vedo" é un monte.
Ma non per questo "quella cosa alta" non esiste o non é un monte (e se tu invece pensi che sia diventato un lago non dirlo a Severino...)!

CitazioneE io sono costretto a ripeterti la domanda:

Ma da dove salta fuori, nel principio di identità questo "mai" (Se A è A non potrà maiessere qualcosa di diverso da A)?
Salta fuori dal fatto che se tautologicamente A non è non A, non ci sarà mai alcun luogo né alcun tempo in cui A è non A pur restando A così da poter dire che lo stesso A che un tempo era A ora è A che è diventato non A. ossia B. Detto in altri termini quel reale e concreto che fu Sgiombo bambino non può essere mai quel reale e concreto Sgiombo adulto che qui appare restando lo stesso Sgiombo. A meno che appunto non prendiamo solo il suo nome in astratto, perché solo quello, tenuto separato da chi lo porta, sembra essere rimasto lo stesso.
CitazioneTautologicamente A non é non A a un tempo e luogo determinato; in altro tempo e luogo può benissimo diventare B nel pieno rispetto del principio di identità - non contraddizione.

Infatti io non sono sempre esattamente, integralmente lo stesso Sgiombo che ero da bambino: quello non é esattamente, integralmente lo stesso Sgiombo di ora (tempi diversi, cose diverse nel pieno rispetto del pr. di identità-non contraddizione!), ma é diventato lo Sgiombo (in parte diverso) di ora: si, solo il nome é rimasto esattamente lo stesso, mentre la "cosa" (io) é cambiata!

CitazioneSe dico che ora questo A è A, domani può tranquillamente, quello che oggi é il medesimo A di oggi, essere diventato B senza alcuna contraddizione.
Se è così quello che ieri era A ieri resta A, mentre quello che oggi è B non potrà mai essere quello che ieri era A che infatti non è quello che oggi è B.
O ancora "quello ieri era un bambino" - indichiamolo (A) - resta ieri un bambino (A), mentre quello che oggi è un adulto - indichiamolo (B) - è quello che oggi è un adulto (B), quindi non è quello che ieri era un bambino - non è (B) -, solo il nome si può dire che gli è rimasto lo stesso, ma mentre ieri era il nome di un bambino oggi è il nome di un adulto, quindi in fondo anche i nomi sono cambiati a meno di non volerli separare da chi li porta.
CitazioneNo, quello che ieri era A oggi é diventato B senza alcuna contraddizione.

L' adulto di oggi non é esattamente integralmente il bambino di ieri proprio per il fatto che il bambino di ieri é diventato l' adulto di oggi.
Ed é appunto per questo che quello che ieri era il nome di un bambino oggi é (diventato) il nome di un adulto (ma se il nome era Giulio, tale resta senza cambiare, a meno che non lo decida per un qualche motivo il suo portatore arbitrariamente, e convenzionalmente non venga accettato dai parlanti).

maral

Credo che comunque la si pensi, il dibattito ricco di significati che si sta qui sviluppando, faccia risaltare il punto focale che la filosofia di Severino (per quanto quasi sconosciuta all'estero) costituisce. La sua è filosofia nel senso più alto del termine, proprio per la carica dirompente di quanto sostiene come incontrovertibile (ammesso che oggi si sia ancora disposti ad accettare l'incontrovertibilità), non un semplice gioco formale (come lo avverte Paul 11) condotto con una logica estetizzata (come scrive Phil) fine a se stessa (peraltro la logica che usa Severino è quella della dialettica hegeliana, né più né meno). Lo sottolineano sia Cacciari che Sini nel loro discorso su Severino in occasione dell'omaggio tributatogli  alla presentazione di "Dike" in questo video che ho trovato molto interessante e in cui vi sono vari e profondi riferimenti a quanto fin qui discusso: https://www.youtube.com/watch?v=01wBjB1jMro
Se avrete la pazienza di visionarlo poi credo sarà interessante discuterne: le posizioni dei tre filosofi emergono ben evidenti nella registrazione.

Vengo a qualche commento su alcune delle vostre ulteriori osservazioni.
Sariputra chiede in sostanza che influenza può mai avere concretamente una teoria che nega il divenire, quando alla comunque con il divenire, che lo si voglia o no, si ha da fare conto tutti, Severino compreso. Cosa importa intendere il divenire come un continuo apparire, se poi l'apparire della totalità dell'ente (che corrisponde alla sua eternità), non appare e, lo spiega Sini commentando e spiegando per noi il passo su "Dike", non appare giacché ciò che sopraggiunge non può essere l'eterno, non può essere la totalità, pur sopraggiungendo. Io penso che, sia pure in modo solo formale, la posizione severiniana mostri comunque l'assurdo della pretesa oggettiva della morte, mostrando come essa sia negata in partenza dalla premessa logica fondamentale, dalla pura e semplice tautologia dell'esistenza. Sini riferisce questa eternità al significato (che qui afferma esplicitamente venir prima della cosa) e su questo piano è disposto a seguire Severino, anche se poi la conclusione spinoziana di Sini non può essere con lui condivisa. Ma quello che è essenziale e che fa la differenza è appunto l'incontrovertibile certezza logica (il Destino nell'accezione in cui Severino lo intende) che appunto la morte è solo un'interpretazione errata dell'eterno apparire degli enti. Le conseguenze sono enormi e prima tra tutte che non c'è bisogno di inventarsi alcun eterno privilegiato ente supremo (Dio o principio razionale, o qualsiasi altro onnicomprensivo contenitore di mortalità) per sentirsi salvi e al riparo da essa, perché ognuno, solo perché è, è già eternamente salvo, nessuna eternità può venirgli donata, con tutte le ambiguità e i ricatti che i doni recano con sé. Fosse pure, come dice spinozianamente Sini, che "questa è l'opinione che il modo si fa della sua eterna esistenza" si tratta di un'opinione che fa un'enorme differenza nel modo di intendere l'esistenza nella sua stessa apparente contingenza e, se non altro, accoglie l'aver gettata alle ortiche ogni metafisica trascendente in una sorta di immanenza assoluta in ogni infinitesimo ente dell'eternità. Riesco a farti sentire la differenza e la rilevanza che ha sul significato?

Dice poi Phil:
CitazioneIl passato lo troviamo trasfigurato nella memoria, mentre gli enti severiniani, prima del loro apparire, sono ma non sono in nessun tipo di luogo (se ho capito bene): entrambe non sono esperienze di autentico possesso o percezione del passato (che sarebbe logicamente impossibile!), ma quella della memoria come traccia del divenire mi sembra meno "spericolata" e fantasiosa (ma forse è solo una questione di plausibilità secondo la mia prospettiva...).

No, gli eterni di Severino sono comunque in altri cerchi dell'apparire, in altri luoghi e contesti umani ove appaiono in modo diverso.
Quello su cui concordo è che il passato trasfigurato nella memoria (il passato presente sempre variabile al presente) non è il passato, come non è il passato quello che ricostruiamo nelle storiografie dai resti che troviamo nel presente, ricostruzioni che sono sempre prodotte solo dal presente modo di intendere. Il passato non c'è e non ha luogo plausibile, anche se alcune presenti elaborazioni di questi immaginari luoghi del passato ci sembrano più attendibili di altre, ma solo perché si accordano meglio con il nostro modo presente di essere.
Il divenire (a differenza di un mio ritratto dipinto da Raffaello o da Picasso, che dopotutto mostrano aspetti diversi dello stesso ente) è il solo modo che abbiamo di vedere le cose, ma questo non significa che sia il loro modo di essere, anzi non lo è, è il loro modo di apparire: sopraggiungendo e oltrepassandoci mentre continuano sempre a essere.
 
Citazione di: davintro il 01 Ottobre 2016, 02:10:58 AM
Che Tizio si trovi in Italia o in Germania riguarda sue proprietà accidentali, soggette al divenire, che però convivono insieme ad un substrato immutabile, ciò che rende Tizio Tizio e non Caio,la sua sostanzialità, la sua identità personale.
E qual è questo substrato immutabile? Dove sta? Tu dici, seguendo Aristotele, che ci sono delle proprietà accidentali che possono variare, mentre altre che definiscono stabilmente l'identità. Facile a dirsi, ma quali? Tizio è sempre Tizio perché si chiama sempre così e basta? Perché dovrebbe essere solo accidentale l'essere in Germania o in Italia di Tizio? Cos'è il sostanziale? Forse la forma del naso di Tizio che è rimasta sempre la stesa da quando ce lo ricordiamo? O il suo modo di sentire e di pensare? O la sua anima? Qui si accusa di metafisicità astratta e derivazione parmenidea un modo di pensare che vede che Tizio è espresso da ognuno dei suoi modi effettivi di essere, nessuno escluso, rispetto a un pensiero ben più metafisico e astratto che pretende di estrarre tra tutti questi modi una sostanza indefettibile sulla base della quale Tizio, pur cambiando resta sempre lo stesso. E' qui che sta l'astrazione e il conseguente errore, non il contrario!

sgiombo

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PM
Sariputra chiede in sostanza che influenza può mai avere concretamente una teoria che nega il divenire, quando alla comunque con il divenire, che lo si voglia o no, si ha da fare conto tutti, Severino compreso. Cosa importa intendere il divenire come un continuo apparire, se poi l'apparire della totalità dell'ente (che corrisponde alla sua eternità), non appare e, lo spiega Sini commentando e spiegando per noi il passo su "Dike", non appare giacché ciò che sopraggiunge non può essere l'eterno, non può essere la totalità, pur sopraggiungendo. Io penso che, sia pure in modo solo formale, la posizione severiniana mostri comunque l'assurdo della pretesa oggettiva della morte, mostrando come essa sia negata in partenza dalla premessa logica fondamentale, dalla pura e semplice tautologia dell'esistenza. Sini riferisce questa eternità al significato (che qui afferma esplicitamente venir prima della cosa) e su questo piano è disposto a seguire Severino, anche se poi la conclusione spinoziana di Sini non può essere con lui condivisa. Ma quello che è essenziale e che fa la differenza è appunto l'incontrovertibile certezza logica (il Destino nell'accezione in cui Severino lo intende) che appunto la morte è solo un'interpretazione errata dell'eterno apparire degli enti. Le conseguenze sono enormi e prima tra tutte che non c'è bisogno di inventarsi alcun eterno privilegiato ente supremo (Dio o principio razionale, o qualsiasi altro onnicomprensivo contenitore di mortalità) per sentirsi salvi e al riparo da essa, perché ognuno, solo perché è, è già eternamente salvo, nessuna eternità può venirgli donata, con tutte le ambiguità e i ricatti che i doni recano con sé. Fosse pure, come dice spinozianamente Sini, che "questa è l'opinione che il modo si fa della sua eterna esistenza" si tratta di un'opinione che fa un'enorme differenza nel modo di intendere l'esistenza nella sua stessa apparente contingenza e, se non altro, accoglie l'aver gettata alle ortiche ogni metafisica trascendente in una sorta di immanenza assoluta in ogni infinitesimo ente dell'eternità. Riesco a farti sentire la differenza e la rilevanza che ha sul significato?

CitazioneNon vorrei che il tono decisamente polemico e forse eccessivamente sarcastico delle mie obiezioni (sono fatto così, mi dispiace...) inducesse qualcuno, e men che meno il sempre correttissimo (forse a differenza di me...) Maral, a credere che io non consideri (e rispetti) quella di Severino (ma ovviamente anche di Sini) filosofia nel senso più alto del termine, proprio anche (nel caso di Severino) per la carica dirompente di quanto sostiene come incontrovertibile (ammesso che oggi si sia ancora disposti ad accettare l'incontrovertibilità).

Semplicemente la ritengo gravemente errata (sarò presuntuoso, ma non sono disposto a piegarmi all' autorità di nessuno, preferisco sparare -eventualmente- cazzate di cui il mio senso critico mi fa convinto).
 
Credo che, seguendo Severino, non ci sia bisogno di inventarsi alcun eterno privilegiato ente supremo (Dio o principio razionale, o qualsiasi altro onnicomprensivo contenitore di immortalità) per sentirsi salvi e al riparo dalla morte per il semplice fatto che è la sua stessa filosofia a costituire un' ontologia, sia pure pretesa non metafisica e immanente, che erroneamente e falsamente (a mio modestissimo avviso) pretende di garantire una sorta di immanenza assoluta in ogni infinitesimo ente dell'eternità (ovvero, per dirlo più prosaicamente, di scongiurare lo spiacevole inconveniente della morte cui tutti siamo destinati; senza iniziale maiuscola, naturalistissimamente).
 
 
Concordo che Il passato non c'è e non ha luogo plausibile (non é più reale), anche se alcune presenti elaborazioni di questi immaginari luoghi del passato ci sembrano più attendibili di altre, ma solo perché si accordano meglio con il nostro modo presente di essere.
Ma non per questo non è il passato quello che ricostruiamo nelle storiografie dai resti che troviamo nel presente, ricostruzioni che sono sempre prodotte solo dal presente modo di intendere: il passato è passato e non è più (presentemente, attualmente, realmente) reale, anche se l' illudersi che lo sia e che lo sia in eterno consola, esattamente come le metafisiche della presunta eternità dello spirito o del pensiero e le religioni, di fronte alla prospettiva della morte.

Phil

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMCosa importa intendere il divenire come un continuo apparire, se poi l'apparire della totalità dell'ente (che corrisponde alla sua eternità), non appare e, lo spiega Sini commentando e spiegando per noi il passo su "Dike", non appare giacché ciò che sopraggiunge non può essere l'eterno, non può essere la totalità, pur sopraggiungendo. 
[corsivo mio]
L'assunto in corsivo è la congettura fondante che andrebbe ragionata/spiegata/dimostrata, non presupposta, altrimenti è inevitabile che i conti torneranno sempre (tramite petitio principii).

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMIo penso che, sia pure in modo solo formale, la posizione severiniana mostri comunque l'assurdo della pretesa oggettiva della morte, mostrando come essa sia negata in partenza dalla premessa logica fondamentale, dalla pura e semplice tautologia dell'esistenza. 
Ricorderei che la logica prescinde dal fattore tempo, ma la vita no... mentre parlo con qualcuno, io e lui, siamo solo due enti che comunicano, oppure siamo un'infinità di enti per cui l'ente-Phil che inizia la conversazione non è lo stesso ente-Phil che la conclude? Se è così, come spiegare l'illusione della continuità della conversazione per la coscienza e la memoria?
Comunque, l'ente Phil-cadavere è eternamente e oggettivamente morto (quindi la morte non esce affatto di scena!), per cui fatemi le condoglianze finché sono vivo... o dovrei dire fate le condoglianze a qualcuno dei tanti Phil vivi  ;)

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMLe conseguenze sono enormi e prima tra tutte che non c'è bisogno di inventarsi alcun eterno privilegiato ente supremo (Dio o principio razionale, o qualsiasi altro onnicomprensivo contenitore di mortalità) per sentirsi salvi e al riparo da essa, perché ognuno, solo perché è, è già eternamente salvo, nessuna eternità può venirgli donata, con tutte le ambiguità e i ricatti che i doni recano con sé. 
Ho il sospetto che in questo sia l'estremismo metafisico di Severino: non un ente supremo, ma tutti gli enti sono supremi possedendo le caratteristiche assolute (eternità, immortalità...). Severino in fondo ha divinizzato gli enti (plurale obbligatorio) al punto che, proprio come con le divinità, essi non hanno un tempo ed uno spazio proprio, ma ogni tanto si concedono ad una rivelazione-manifestazione, sulla cui causa sarebbe interessante avere delucidazioni: perché l'ente eterno appare? cosa lo porta ad apparire?

Tempo e spazio, se ho ben capito, per gli enti eterni non esistono, esistono sono nella loro mondana apparizione; eppure: quanto dura un ente? dov'è un ente quando non appare? Sono domande che forse minano tutta la solidità dell'eternalismo severiniano. Ora che sto scrivendo, quanti enti-Phil si avvicendano? Uno ogni lettera? Uno ogni battito di ciglia? Uno al minuto? La decisione è arbitraria, tutt'altro che logicamente solida... poi c'è quella "fede" nell'ente eterno che, quando non appare, è ma non è (da nessuna parte certa), e anche qui la logica aggrotta la fronte...

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMl'aver gettata alle ortiche ogni metafisica trascendente in una sorta di immanenza assoluta in ogni infinitesimo ente dell'eternità. 
Secondo me, ogni volta che sale sul palco il concetto di eternità, lo spettacolo non può che essere metafisico... così come le spade laser e le astronavi denotano un film di fantascienza, parimenti la """presenza""" dell'eterno denota una teoria metafisica (sempre stando al mio modo di valutare; secondo il quale immanentizzare l'eternità nella manifestazione degli enti è uno dei gesti più filo-trascendentali che possano compiersi...).

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMNo, gli eterni di Severino sono comunque in altri cerchi dell'apparire, in altri luoghi e contesti umani ove appaiono in modo diverso. 
Scappatoia estetizzata o universi paralleli? :)  
Gli eterni, come osservavi, non possono sempre essere manifesti; ma quando non lo sono, dove sono?

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMun mio ritratto dipinto da Raffaello o da Picasso, che dopotutto mostrano aspetti diversi dello stesso ente
Raffaello raffigura, Picasso sfigura (artisticamente parlando  ;D ), Raffaello "rispetta", asseconda la percezione dell'occhio umano, Picasso la trascende proponendo un "astigmatismo stroboscopico"...

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMQui si accusa di metafisicità astratta e derivazione parmenidea un modo di pensare che vede che Tizio è espresso da ognuno dei suoi modi effettivi di essere, nessuno escluso, rispetto a un pensiero ben più metafisico e astratto che pretende di estrarre tra tutti questi modi una sostanza indefettibile sulla base della quale Tizio, pur cambiando resta sempre lo stesso. E' qui che sta l'astrazione e il conseguente errore, non il contrario!
"Tizio, pur cambiando resta sempre lo stesso" è più surreale (nel senso nobile del termine) di "Tizio è/sono un susseguirsi di enti eterni che appaiono e scompaiono ma consentono una continuità del flusso di coscienza e di memoria"? Opinioni "estetiche"...
"Tizio cambia restando sempre lo stesso" è un paradosso basato sulla cosiddetta "anfibolia", uso ambiguo dei termini: ciò che cambia e ciò che resta lo stesso sono su due piani differenti, infatti ciò che cambia è il corpo, l'apparenza, etc., mentre ciò che resta lo stesso è l'identità (per come l'ho descritta parlando della "nave di Teseo" nell'omonimo topic, senza che vi annoi oltre!).

P.s. Appena posso cercherò di gustarmi quel video, grazie per il link!

maral

Per quanto riguarda la questione della poliglossia posta da Sgiombo, ossia perché mai le lingue sono tante anziché una sola, noto solo che, anche se sono tante non significa che le tante parole usate per designare la stessa cosa non implica che queste parole vengano messe arbitrariamente a posteriori (tra l'altro è anche vero il contrario, si può usare un'unica parola per designare tante cose). Vuol solo dire che i significati si presentano in molti modi diversi (come inizia Aristotele il libro della Metafisica: "l'Essere si dice in molti modi" e i modi di dirlo potremmo pensare che sono gli enti), ma non c'è altro modo che la cosa (l'essente) si presenti se non attraverso l'espressione dei suoi significati (che debbano poi essere tutti o ne basti solo qualcuno è faccenda collegata a quella degli Eterni di Severino, l'importante comunque è non credere che quando se ne sono presentati solo alcuni, quei pochi siano tutto ciò che si può dire, questo è quello che ho chiamato astrazione e Severino pensiero astratto dell'astratto).
In fondo è vero: le cose significando sono poliglotte e insegnano con la loro presenza fisica i loro linguaggi agli uomini che le percepiscono, i quali (seguendo la distinzione di Phil) poi ne fanno delle lingue con cui parlarsi. 

CitazioneOvvio che senza nome non possiamo parlare delle cose (ma quando mai avrei scritto quest' altra corbelleria?); ma le cose sono reali indipendentemente dagli eventuali nomi che si danno loro e dal fatto che se ne parli o meno (esempio delle numerosissime montagne su pianeti di altre galassie che nessuno vedrà e nominerà mai).

Conoscenza delle cose =/= le cose.
Il fatto che ci siano montagne che nessuno ha mai visto, come il fatto che quella montagna c'era anche prima che ci fosse un uomo a dire il suo nome è ancora nel significato della parola "montagna" che permette di pensarla ovunque si possano formare delle rocce e ci siano moti tettonici, la montagna non è una cosa in sé, ma un significato ed è del significato che solo si parla e con i cui segni si parla e anche si agisce.
La conoscenza della cosa è effettivamente la cosa solo se ne cogliamo tutti i significati, ossia tutte le relazione che accadendo essa instaura, ma questo, concordo, è impossibile ed è il motivo per cui avremo sempre qualcosa ancora da conoscere e da poter dire su qualsiasi cosa.

CitazioneA no? Dunque il fiume Po e l' Eridano sono due diversi corsi d' acqua?
E il Benaco e il Garda, l' Iseo e il Sebino, ecc.?
No, ma quei due nomi alludono a significati diversi del medesimo corso d'acqua (astratto come una pura entità fisica). Il fatto di chiamare quel corso d'acqua Po o Eridano indica a chi li chiama in un modo o a chi li chiama nell'altro una storia di significati diversi che non è lui a decidere arbitrariamente cosi da credere che chi lo chiama Po avrebbe benissimo potuto chiamarlo anche Eridano o viceversa. E' solo quando in questi nomi non se ne sente più il significato che diventano solo etichette interscambiabili e sulle quali ci si può anche mettere d'accordo su come segnare quel corso d'acqua, solo fisicamente inteso, sulla carta geografica.
E' chiaro poi che il "corso d'acqua" o la "cosa alta" esistono comunque li chiami, ma esistono anch'essi come significati: corso d'acqua e cosa alta sono pur sempre ancora parole con i loro significati, no? E sono proprio le parole che nominano le cose che solo consentono significandola la permanenza presso di noi di qualsiasi cosa.

CitazioneTautologicamente A non é non A a un tempo e luogo determinato; in altro tempo e luogo può benissimo diventare B nel pieno rispetto del principio di identità - non contraddizione.
Sgiombo, se A è sempre A, in nessun altro luogo o tempo può essere B che è non A. Puoi dirmi che A e B condividono degli aspetti in comune, ad esempio il nome (proprio perché cose diverse possono avere lo stesso nome quando ci si limita a considerarle per quella parte dei loro significati che condividono e quindi le si prende in astratto), ma se li consideri nella loro totalità di significato, ossia per quello che concretamente sono, A e B non sono lo stesso ente. Tu stesso ammetti ovviamente che il bambino Sgiombo non è l'adulto Sgiombo, ma se dici che oggi lo è diventato dici che quel bambino oggi è davvero quell'adulto proprio mentre riconosci che non lo è e non lo è in nulla tranne il nome, ma a cosa si riferisce quel nome che accomuna quei due diversi enti, il bambino e l'adulto?




maral

Citazione di: Phil il 01 Ottobre 2016, 17:52:30 PM
L'assunto in corsivo è la congettura fondante che andrebbe ragionata/spiegata/dimostrata, non presupposta, altrimenti è inevitabile che i conti torneranno sempre (tramite petitio principii).
L'assunto in questione quindi è: totalità dell'ente = eternità dell'ente
Sia A un essente, ad esempio questa lampada accesa. se l'essente è (se questa lampada accesa è), è in tutti i suoi modi di essere, nessuno escluso (se non fosse in tutti i suoi modi di essere, sarebbe un altro essente, ad esempio una lampada spenta). Come si può allora dire che questa lampada accesa cessa di essere una lampada accesa (cessa di essere quello che è) per essere una lampada spenta senza passare da un ente all'altro? Non è forse una contraddizione pensare che questa lampada che quello è (nella totalità di quello che è) in quanto è accesa poi è spenta? E' qui che si può anche capire tutta la differenza tra il divenire e l'apparire: con il divenire si crede che la stessa lampada possa passare da accesa a spenta restando la stessa cosa al cui significato sostanziale i modi "acceso" o "spento" sono del tutto indifferenti e superflui, nell'apparire invece si dice che c'è (appare) una lampada accesa, al cui posto ne sopraggiunge una spenta, mentre quella accesa esce di scena pur continuando a essere (poi potremo chiederci cosa significa uscire di scena), ma quella spenta che ora appare non ha reso niente (o assorbito totalmente in se stessa) quella accesa che prima appariva. 
CitazioneRicorderei che la logica prescinde dal fattore tempo, ma la vita no...
Certo, la vita si svolge nel tempo, solo il tempo è l'autore di ogni significato, ma questo non toglie che questo tempo è sempre e solo al presente, è esclusivamente nel presente che ci sono tutte le storie, tutti i discorsi e tutte le vite. La continuità di questa storia è garantita proprio dal suo essere presente, tutta qui in questo istante di significato, non di tempo. Se l'istante è di significato e non di tempo, tutto il discorso di Severino acquista un senso molto più chiaro e quell'infinita frammentazione di cui parlavo prima è risolta. Peraltro, se il tempo non esiste, l'istante non può che essere di significato.   
CitazioneComunque, l'ente Phil-cadavere è eternamente e oggettivamente morto (quindi la morte non esce affatto di scena!), per cui fatemi le condoglianze finché sono vivo... o dovrei dire fate le condoglianze a qualcuno dei tanti Phil vivi  ;)
il Phil cadavere è eterno quanto è eterno il Phil che vivo e vegeto legge sul computer queste parole (e non so sinceramente cosa abbiano in comune per poterli considerare lo stesso Phil)  :D
CitazioneHo il sospetto che in questo sia l'estremismo metafisico di Severino: non un ente supremo, ma tutti gli enti sono supremi possedendo le caratteristiche assolute (eternità, immortalità...). Severino in fondo ha divinizzato gli enti (plurale obbligatorio) al punto che, proprio come con le divinità, essi non hanno un tempo ed uno spazio proprio, ma ogni tanto si concedono ad una rivelazione-manifestazione, sulla cui causa sarebbe interessante avere delucidazioni: perché l'ente eterno appare? cosa lo porta ad apparire?
Severino ha ultra divinizzato ogni ente, ogni ente, uomo compreso che è già Oltre Uomo (riferimento a Nietzsche) e Oltre Dio (come puoi sentire da lui stesso verso la fine della registrazione che ho linkato).
Cosa spinge l'ente ad apparire? il semplice fatto che è. L'apparire è modo dell'essere, come il non apparire, dunque l'essere in quanto è, comprende necessariamente sia il suo apparire che il suo non apparire, Ogni ente deve apparire e scomparire poiché è nel modo che gli è proprio.

CitazioneDov'è un ente quando non appare?
L'ente appare sempre in un cerchio dell'apparire o in un altro, quindi per Severino in qualche luogo è. I cerchi dell'apparire (quell'essere in scena o fuori scena di cui sopra) non sono niente di fantascientifico, nessun universo parallelo. Sono semplicemente la coscienza degli osservatori, sono gli stessi esseri umani, ogni essere umano in relazione a tutti gli altri, niente di più. Quando l'ente non appare alla mia coscienza è nella coscienza di qualche altro ente umano con cui sono direttamente o meno intrecciato, è la storia che a qualcun altro appare. Se mio nonno che è morto tanti anni fa non è qui, e quindi non appare, è per quell'ente maral bambino che pure è e che, pur non essendo il maral ormai vecchio di ora, qualcosa in comune con lui ce l'ha.
La cosa che mi lascia perplesso semmai è che nella Gloria l'ente deve apparire in ogni cerchio dell'apparire e nella Gioia della Gloria questo accade concretamente a ogni ente. Non so, forse questo può accadere nel momento in cui la Terra Isolata (questa nostra terra in cui gli enti si manifestano mutilati, quindi sopraggiungono non sopraggiungendo) può apparire compresa nel Destino.

Citazionesempre stando al mio modo di valutare; secondo il quale immanentizzare l'eternità nella manifestazione degli enti è uno dei gesti più filo-trascendentali che possano compiersi...).
Eppure noi non sperimentiamo mai la morte. Sperimentiamo solo il cessare di apparirci degli altri enti, il loro lasciarci. Questo è tutto quello che noi sperimentiamo concretamente e che astrattamente chiamiamo morire. forse è morire, cessare di essere, il concetto più di tutti trascendentale.

CitazioneRaffaello raffigura, Picasso sfigura (artisticamente parlando  ;D ), Raffaello "rispetta", asseconda la percezione dell'occhio umano, Picasso la trascende proponendo un "astigmatismo stroboscopico"...
Picasso non dipinge così per vezzo o perché avesse difetti visivi, ma perché tenta di riflettere nell'immagine il significato di quello che realmente vede, esattamente come Raffaello. E' che il significato di quello che realmente si vede è diverso per Picasso e per Raffaello.

Citazione"Tizio cambia restando sempre lo stesso" è un paradosso basato sulla cosiddetta "anfibolia", uso ambiguo dei termini: ciò che cambia e ciò che resta lo stesso sono su due piani differenti, infatti ciò che cambia è il corpo, l'apparenza, etc., mentre ciò che resta lo stesso è l'identità (per come l'ho descritta parlando della "nave di Teseo" nell'omonimo topic, senza che vi annoi oltre!).
Appunto, il punto fondamentale è cos'è l'identità? Per Severino è l'intero dei modi di essere di ogni ente, nessun modo escluso, quello che è per te andrò a leggermelo nella "nave di Teseo".
Grazie per i tuoi interventi.

davintro

#206
Rispondo a Maral

Ciò che permane di Tizio è ciò che lo rende un individuo, una realtà non-divisibile, ciò che lo rende distinto dagli altri individui, il "principium individuationis", un "per sè". La sua anima, intesa non cartesianamente come sostanza separata dal corpo, ma come sua forma, ciò che rende il corpo non materia informe, potenziale, ma corpo determinato, attualmente esistente. Questa anima personale andrebbe vista come il realizzarsi di un "progetto", che nell'uomo si costituisce come personalità che è il fine di un movimento che è già in atto sin dal nascita, una progressiva attualizzazione di potenzialità. Così come nella pianta la forma finale dell'albero è immutabile, in quanto è il fine (certo non cosciente in questo caso) del divenire già in atto nel seme. Ciò che non muta è cioè il fine a cui tende il processo di formazione spontaneo che attraversa l'ente, e che nel caso di enti finiti e imperfetti, può anche deviare e non realizzarsi completamente. Ciascuno di noi crescendo forma un modo d'essere personale distinto dagli altri che può in relazione a fattori esterni o interni essere realizzato in forme adeguate o meno. Non ha senso però chiedere in cosa consista il carattere immutabile in termini concettuali, se sia un tratto fisico o caratteriale esprimendolo in termini linguistici, perchè ciò che è definibile a parole è anche comunicabile, cioè potenzialmente appartenente ad altri enti, mentre ciò che costituisce la mia individualità sostanziale, considerata cioè in modo distinto dal resto, non può essere condivisa con altri enti. Il principio che rende l'individuo tale non possiamo nominarlo, sappiamo solo che c'è, a partire da un'esperienza interiore, l'autocoscienza, con cui riconosciamo come i nostri atti coscienti partano da un Io che si riconosce come lo stesso soggetto dei suoi atti presenti come la percezione o la volontà e dei suoi atti riferiti al passato, come i ricordi. Quest'unità soggettiva si può definire trascendentale in quanto è al di là di qualunque proprietà concettuale linguistica, che essendo potenzialmente comune a più enti appartiene al singolo individuo come accidentale. Il mio nome,  il mio status universitario, familiare, la mia nazionalità, il mio luogo di residenza può mutare, rientrano nell'accidentalità, nella contingenza, ma resto sempre un Io, questa qualifica di soggetto, intesa formalmente resta essenzialmente costitutiva del mio essere. Eppure questa formalità non va vista come vuota astrattezza, ma è concreta, perchè concretamente in atto nel corso della mia esistenza, principio soggettiva dei miei atti, mentali, sentimentali, volontari... In altre parole l'immutabilità a cui mi riferivo non va vista come un'immutabilità assolutamente reale, una realtà del tutto immutabile, ma un'immutabilità che è più un' idea regolativa, il fine del divenire che interessa la nostra individualità che può più o meno realizzarsi. In un certo senso "diventiamo immutabili"

Phil

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 22:37:02 PMLa continuità di questa storia è garantita proprio dal suo essere presente, tutta qui in questo istante di significato, non di tempo. Se l'istante è di significato e non di tempo, tutto il discorso di Severino acquista un senso molto più chiaro e quell'infinita frammentazione di cui parlavo prima è risolta. Peraltro, se il tempo non esiste, l'istante non può che essere di significato.
Se "il tempo non esiste"(cit.), non può esistere nemmeno l'istante (come lo definiamo?), né il presente (e allora la memoria che abbiamo è solo lo scherzo di un Maligno?). Per me, quell'"infinita frammentazione", senza luogo (la congettura del "da qualche parte" per salvare l'eternità, non mi quadra) e senza tempo (vedi sotto), non è una buona alternativa logica (semmai estetizzata) al divenire.

Ho ascoltato il primo intervento del video che hai linkato; Cacciari sostiene che "il pensiero di Severino ha fondato l'eternità", ma forse, logicamente, è più corretto dire che "il pensiero di Severino è fondato sull'eternità": la pietra angolare è l'eternità, il resto dell'impalcatura teoretica la presuppone e appoggia su di lei tutto il suo peso concettuale. Se Severino ha frammentato il monolite dell'essere parmenideo per trarne gli enti eterni da usare come mattoni, resta da valutare l'abitabilità di tale costruzione. E tale casa è secondo me inabitabile perché è basata su un fraintendimento: per Severino "A=A" significa "A è sempre uguale ad A", ma in quella formalizzazione logica, in quanto tale, non c'è temporalità... e l'assenza di temporalità non è eternità (che è comunque un concetto, seppur radicale, riferito al tempo: dentro l'eternità è pensabile un prima e un dopo, il tempo c'è...).

Se infatti decliniamo quell'identità con il fattore tempo, diviso in momenti (t1, t2, t3...) otteniamo At1=At1, At2=At2, At3=At3... e se A è un seme (sviluppo l'esempio di Davintro), arriviamo ad un momento (che qui numeriamo arbitrariamente) t9, in cui At9=At9, ma stiamo parlando ormai di una pianta. E dire At9 è "il seme A nel suo nono momento" oppure è "una pianta B al suo primo momento"(Bt1), risulta, come ogni identità, sempre arbitrario, ma non per questo contraddittorio.

Per cui possiamo chiamarlo tranquillamente At9 o Bt1 senza ombra di contraddizione (il senso di una costante è attribuito a tavolino, per cui At9 = Bt1, proprio come dire "Severino = S" è uguale a "il filosofo di cui parliamo = F", ovvero S = F).

A partire da questa "confusione" (senza offesa per Severino) entriamo in una dimensione "zenoniana", paradossale e anti-esperenziale (nel senso che viene falsificata dall'esperienza) in cui risulta assurdo che la medesima lampada si possa accendere e spegnere, che io muoia, etc. ma il fondamento logico è instabile, il che non impedisce comunque di derivarne delle conseguenze (come quando si fa un castello di carte e si costruiscono piani su piani...).

P.s. Se vogliamo leggere questa eternità severiniana come applicazione della legge di conservazione della massa "nulla si crea, nulla di distrugge", bisogna anche ricordare che il motto prosegue con "ma tutto si trasforma", ovvero con l'inconorazione del divenire come "trama narrativa" dell'accadere.

sgiombo

Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 21:05:41 PM
Per quanto riguarda la questione della poliglossia posta da Sgiombo, ossia perché mai le lingue sono tante anziché una sola, noto solo che, anche se sono tante non significa che le tante parole usate per designare la stessa cosa non implica che queste parole vengano messe arbitrariamente a posteriori (tra l'altro è anche vero il contrario, si può usare un'unica parola per designare tante cose). Vuol solo dire che i significati si presentano in molti modi diversi (come inizia Aristotele il libro della Metafisica: "l'Essere si dice in molti modi" e i modi di dirlo potremmo pensare che sono gli enti), ma non c'è altro modo che la cosa (l'essente) si presenti se non attraverso l'espressione dei suoi significati (che debbano poi essere tutti o ne basti solo qualcuno è faccenda collegata a quella degli Eterni di Severino, l'importante comunque è non credere che quando se ne sono presentati solo alcuni, quei pochi siano tutto ciò che si può dire, questo è quello che ho chiamato astrazione e Severino pensiero astratto dell'astratto).
In fondo è vero: le cose significando sono poliglotte e insegnano con la loro presenza fisica i loro linguaggi agli uomini che le percepiscono, i quali (seguendo la distinzione di Phil) poi ne fanno delle lingue con cui parlarsi.  

CitazionePer quanto la traduzione da lingua a lingua non sia mai "perfetta" (ma nemmeno fra i parlanti la stessa lingua l' identità -delle connotazioni- dei concetti espressi dalle parole è mai "perfetta"; regola generale: nulla è perfetto in natura e men che meno nell' uomo e nel suo operato), tuttavia è sempre ragionevolmente possibile intendersi mediante di essa fra parlanti idiomi diversi.
Dunque quando un italiano dice, scrive o sente: "albero" intende sostanzialmente ciò che un inglese intende quando dice, scrive o sente: "tree" (anche se con qualche ineliminabile "residuo di diversità"; che peraltro è ineliminabile, al massimo con una modesta differenza meramente quantitativa, anche fra ciò che due italiani intendono per "albero" e ciò che due inglesi intendono per "tree"; anzi, è probabile che con i due diversi termini un botanico inglese e uno italiano intendano -connotino- concetti reciprocamente più affini che un botanico inglese e un ingegnere italiano; che magari progetta alberi motori).
 
Mi sembra che questo basti per negare la tua affermazione "siniana" che "le parole non sono il frutto di nessuna arbitrarietà, nessuno dà il nome alle cose come gli pare".
 
E' ovvio che gli enti (ed eventi!) si possono conoscere solo attraverso le parole con cuii ne predichiamo l' essere (o accadere).
Ma conoscere (il "presentarcisi") delle cose è diverso dalla realtà (l' essere/accadere) delle cose; e ovviamente può essere più o meno completo, integrale, ma mai perfettamente tale (includente la totalità degli "aspetti delle cose" o "considerabili nelle cose").
 
Dissento dall' antropomorfizzazione finale delle "cose" (se non come metafora; ma allora in questo caso, le cose non sarebbero realmente poliglotte).


CitazioneOvvio che senza nome non possiamo parlare delle cose (ma quando mai avrei scritto quest' altra corbelleria?); ma le cose sono reali indipendentemente dagli eventuali nomi che si danno loro e dal fatto che se ne parli o meno (esempio delle numerosissime montagne su pianeti di altre galassie che nessuno vedrà e nominerà mai).

Conoscenza delle cose =/= le cose.
Il fatto che ci siano montagne che nessuno ha mai visto, come il fatto che quella montagna c'era anche prima che ci fosse un uomo a dire il suo nome è ancora nel significato della parola "montagna" che permette di pensarla ovunque si possano formare delle rocce e ci siano moti tettonici, la montagna non è una cosa in sé, ma un significato ed è del significato che solo si parla e con i cui segni si parla e anche si agisce.
La conoscenza della cosa è effettivamente la cosa solo se ne cogliamo tutti i significati, ossia tutte le relazione che accadendo essa instaura, ma questo, concordo, è impossibile ed è il motivo per cui avremo sempre qualcosa ancora da conoscere e da poter dire su qualsiasi cosa.

Citazione
E' l' affermazione, la conoscenza del fatto, e non il fatto! (continui a confondere le due ben diverse "cose"!) che ci siano montagne che nessuno ha mai visto, come il fatto che quella montagna c'era anche prima che ci fosse un uomo a dire il suo nome ad essere ancora inevitabilmente contenuta nel significato della parola "montagna"; ribadisco: non il fatto che ci sono montagne, e fra di esse anche montagne  che nessuno ha mai visto (e dunque reali senza la realtà della parola e del concetto "montagna" che le denoti o meno).
E' il significato della parola "montagna" che permette di pensarla, certo, ma sicuramente non è esso che le permette di essere reale, dal momento che in tantissimi casi montagne sono reali senza che nessuno le denoti con tale parola.
 
Per me la montagna non è una cosa in sé ma (un insieme di sensazioni o) fenomeni; tuttavia (se e quando accadono) reali (in quanto tali: "esse est percipi"!) indipendentemente dall' eventuale esistenza reale o meno (pensata, scritta o detta; e parimenti fenomenica) della parola "montagna" col suo significato, di cui la cosa costituita da quella montagna (fenomenica, non in sé) sia la denotazione.
 
Concordo che la nostra conoscenza delle cose non sarà mai perfetta, completa, integrale; ma non affatto che essa coincida effettivamente con le cose stesse.
 


CitazioneA no? Dunque il fiume Po e l' Eridano sono due diversi corsi d' acqua?
E il Benaco e il Garda, l' Iseo e il Sebino, ecc.?
No, ma quei due nomi alludono a significati diversi del medesimo corso d'acqua (astratto come una pura entità fisica). Il fatto di chiamare quel corso d'acqua Po o Eridano indica a chi li chiama in un modo o a chi li chiama nell'altro una storia di significati diversi che non è lui a decidere arbitrariamente cosi da credere che chi lo chiama Po avrebbe benissimo potuto chiamarlo anche Eridano o viceversa. E' solo quando in questi nomi non se ne sente più il significato che diventano solo etichette interscambiabili e sulle quali ci si può anche mettere d'accordo su come segnare quel corso d'acqua, solo fisicamente inteso, sulla carta geografica.
E' chiaro poi che il "corso d'acqua" o la "cosa alta" esistono comunque li chiami, ma esistono anch'essi come significati: corso d'acqua e cosa alta sono pur sempre ancora parole con i loro significati, no? E sono proprio le parole che nominano le cose che solo consentono significandola la permanenza presso di noi di qualsiasi cosa.

CitazioneGuarda che io, nato a Cremona, nel bel mezzo del fiume, ove da bambino mio padre mi portava a pescare (era ricchissimo delle più svariate specie di pesci, anche pregiatissime, come gli enormi storioni: tutt' altri tempi! A Cremona c' era che faceva il pescatore di professione e campava anche abbastanza bene!) ho sempre usato i due termini del tutto indifferentemente (non è che quando penso -o dico o scrivo- "Eridano" lo penso in modo sia pur minimamente diverso da quando penso "Po").
Ma di fatto chiunque chiama quel fiume del tutto indifferentemente con i due nomi alternativi: se lo si chiama con l' uno lo si sarebbe potuto benissimo chiamare con l' altro e viceversa (e così la maggior parte dei grandi laghi italiani e tantissime altre cose).
 
La permanenza presso di noi dei concetti, dei pensieri di qualsiasi cosa (reale o meno) solo nel caso di cose non reali (esempio: ippogrifi) è (si identifica con) le cose stesse "presso di noi"; invece nel caso di cose reali (esempio: cavalli) è tutt' altro che le cose stesse che ne sono denotate.
 


CitazioneTautologicamente A non é non A a un tempo e luogo determinato; in altro tempo e luogo può benissimo diventare B nel pieno rispetto del principio di identità - non contraddizione.
Sgiombo, se A è sempre A, in nessun altro luogo o tempo può essere B che è non A. Puoi dirmi che A e B condividono degli aspetti in comune, ad esempio il nome (proprio perché cose diverse possono avere lo stesso nome quando ci si limita a considerarle per quella parte dei loro significati che condividono e quindi le si prende in astratto), ma se li consideri nella loro totalità di significato, ossia per quello che concretamente sono, A e B non sono lo stesso ente. Tu stesso ammetti ovviamente che il bambino Sgiombo non è l'adulto Sgiombo, ma se dici che oggi lo è diventato dici che quel bambino oggi è davvero quell'adulto proprio mentre riconosci che non lo è e non lo è in nulla tranne il nome, ma a cosa si riferisce quel nome che accomuna quei due diversi enti, il bambino e l'adulto?

CitazioneSe A è sempre A, in nessun altro luogo o tempo può essere B che è non A.
Ma se A è A non sempre, bensì per un certo lasso di tempo finito (spero tu colga la differenza!), allora può benissimo essere diventata B in un diverso lasso di tempo finito.
E naturalmente A e B in questo caso possono benissimo condividere e di solito condividono in maggiore o minor misura, oltre al nome, degli aspetti in comune (se non altro l' aspetto astrattissimo di "essere", o meglio "accadere", "divenire", ovvero la "realtà" genericissimamente intesa).

E' una questione meramente linguistica, convenzionale chiamare sempre "Sgiombo" il me bambino e il me vecchio o meno.
E infatti il soprannome "Sgiombo" mi fu dato dai compagni di scuola del liceo: fino a sedici anni non ero affatto "Sgiombo" (pur essendo sempre io, ben vivo e reale!); poi cadde in disuso all' università, ove i compagni erano in gran parte diversi, e tornò ad essere in auge (tronai a essere chiamato "Sgiombo", ma solo dai frequentatori di Internet), quando lo scelsi come nomignolo (gli anglofili o meglio i non anglofobi -ma io sono amerikanofobo, nel senso degli USA- dicono "nick nane").
Comunque nessuno mi confonde irrimediabilmente con un altro e non sorgono malintesi insanabili per il fatto che in certe occasioni e/o in certi periodi della mia vita sono chiamato "Sgiombo" e in altri periodi o in altre occasioni negli stessi periodi sono chiamato "Giulio Bonali" (e in altri ancora, tipicamente burocratici, "Giulio Maria Bonali"): esistono facili "regole di traduzione" onde intendersi perfettamente su di me (per quanto umanamente possa darsi di perfezione).
 
(Ma come mi sento narcisisticamente "autobiografico" oggi!): chiedo scusa a tutti.
 
Comunque quel bambino è diventato (non: è) questo adulto (vecchio, per la precisione!), dunque per certi aspetti, in una certa misura, non è più lo stesso ente, mentre per altri aspetti, in un certa altra misura, lo è ancora (non è affatto vero che non lo sia in nulla salvo il nome: il mio anticonfrmismo è sempre tale! E mal che vada sarei sempre qualcosa di reale; se non io la materia -massa e/o energia- che costituisce il mio corpo; per la verità la mia persona, che è ben altra cosa, credo non sarà più, dopo la morte del mio corpo).

Sariputra

Sgiombo scrive:
"Ma come mi sento narcisisticamente "autobiografico" oggi!): chiedo scusa a tutti."

E' l'autunno Sgiombo, fa questo effetto di melanconica introspezione, di riaffiorare alla memoria degli "enti ricordi". Si potrebbe, severinianamente, anche definirlo come l'apparire dell'"ente autunno"... ;)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

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