conoscenza e critica della conoscenza

Aperto da davintro, 15 Agosto 2016, 18:26:43 PM

Discussione precedente - Discussione successiva

anthonyi

Citazione di: davintro il 26 Settembre 2016, 01:32:29 AM
. Considerando la società invece come un fatto, una produzione umana, allora mi pare evidente che ciò che proviene dalla società dovrebbe avere comunque la sua origine nell'uomo, e la ricerca dell'origine ricade nella ciclicità di due termini "uomo" e "società" nella quale nessuno dei due sembra potersi porre come fondativo dell'altro e dove il dibattito pro-contro l'innatismo sembra protrarsi all'infinito


...

In un analisi teorica appropriata l'uomo può essere definito come fondamento della società, nel senso che le proprietà comportamentali che si assegnano a dati individui possono razionalmente costruire un equilibrio culturale che possiamo definire società. E' il contrario che non può essere fatto, nel senso che se definisci una realtà sociale devi implicitamente definire i suoi componenti, fermo restando l'esistenza di meccanismi educativi e di socializzazione che possono aumentare il numero di questi componenti.

maral

Citazione di: sgiombo il 26 Settembre 2016, 19:18:06 PM
Maturana e Varela dovrebbero però, prima di affermare che la conoscenza è indipendente dall' osservatore, dimostrare che oltre alla realtà di quanto percepito fenomenicamente esiste anche un' osservatore (evidentemente dai fenomeni percepiti diverso, trattandosi di un' ulteriore ente reale oltre ad essi). Ma poiché sostengono che non vi è alcun oggetto di conoscenza, non vedo come possano poi (immediatamente di seguito, a mo di conseguenza!) affermare che fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa: di quale "situazione individuale o cooperativa" e di quale "capacità di operare adeguatamente" parlano, se non vi è alcun oggetto di conoscenza (dunque nemmeno è conoscibile –oggetto di conoscenza- alcuna situazione individuale o cooperativa" né alcun "operatore più o meno adeguato ad essa")?
Se invece intendessero dire (non li ho letti, e trovo oscura la tua citazione, che forse potrebbe essere intesa in questo senso) che ciò che può essere conosciuto è unicamente costituito da sensazioni o insiemi di sensazioni, fenomeni e non "realtà in sé o noumeno sarei perfettamente d' accordo.
Il discorso di Maturana e Varela parte dal tentativo di individuare il vivente a prescindere dalla descrizione che ne dà l'osservatore con la sua concettualità astratta che stabilisce astrattamente un mondo esterno che fornisce degli input e un mondo interno che li riceve e risponde con degli output. L'unità vivente funziona come una macchina autopoietica che varia di struttura conservando la propria organizzazione che la mantiene unitaria per cui non conosce nulla di ciò che sta fuori di essa (questo non significa che non vi è nulla fuori di essa, solo che non si può conoscere se non nelle sue rappresentazioni interne), ma continuamente funziona in situazioni individuali e cooperative, ossia interagendo. L'osservatore è solo una macchina autopoietica in grado di sviluppare un dominio linguistico che aumenta le sue possibilità di autopoiesi. In altre parole il processo cognitivo non conosce alcun "oggetto reale fuori di noi", ma è solo un continuo modo di relazionarsi per mantenersi.
Ovviamente, come osservi, anche questo è detto da un osservatore che sceglie un contesto pragmatico (fondato sulle relazioni anziché sulle cose) in cui quello che dice risulta valido nel momento in cui riesce a superare le contraddizioni e i problemi di una metafisica tradizionale (compreso anche quello tra significato della cosa e cosa) che presuppone un mondo oggettuale esterno e uno interno, senza avvedersi che tutti gli enti che considera nella loro realtà oggettiva appartengono solo al discorso astratto dell'osservatore. 
Anche che tre mele o sette colle esitevano prima che qualcuno ne avesse esperienza rientra nel discorso astratto dell'osservatore: come può dirlo? E' solo la sua esperienza attuale che glielo rivela (e , sia ben chiaro, non è che rivelandoglielo glielo fa inventare, come se fosse lui con il suo pensiero a creare i sette colli dal nulla), è solo in virtù della relazione attuale che ha con il mondo per come si riflette a lui come significato che può dire che "i sette colli su cui è sorta Roma esistevano anche quando nessun uomo li aveva visti e men che meno contati", ma nemmeno questo significato dei colli è sorto per progressive trasformazioni dentro la testa di qualcuno da un suo originario essere nulla, nemmeno esso si è creato.

CitazioneSo bene che Chomsky sostiene essere il linguaggio innato, ma amicus Chomsky, sed magis amica veritas (detto meno pomposamente: la sua autorità non basta a convincermi)
Ni stupisce questa tua affermazione, dato che Chomsky basa la sua asserzione sullo studio della costanza delle strutture sintattiche nelle diverse lingue, è un innatismo, il suo, fondato su una verifica oggettuale, nella quale mi pareva che anche tu credessi. Ma forse, come poi è un po' di tutti, lo accetti solo nella misura in cui non contrasta con i tuoi presupposti metafisici oggettuali a cui quella "veritas" pare alludere  ;)

Phil


maral

#153
Citazione di: Phil il 26 Settembre 2016, 19:44:09 PM
Mi sembra sia invece proprio la distinzione fra tipi o classi di concetti che rende possibile il ragionare e la conoscenza (su cui condivido il "prospettivismo" della citazione): dire "tanto" è molto più impreciso di dire "10", per cui sono concetti gerarchicamente differenti per affidabilità e precisione (a anche la rispettiva "astrazione" è differente per rigore)
E perché mai? 10 ti dice quanti sono, "tanti" ti dice con pari esattezza e astrazione che quei dieci sono tanti che, in quanto tale, quel 10 non te lo dice. Non vedo quale maggiore finezza ci sia in un 10 rispetto a un "tanti", ognuno dei concetti ha la sua specificità e messi insieme si integrano reciprocamente in un significato più complesso.

Citazionecosì come il concetto di "mio padre" e quello di "mio angelo custode" non sono qualitativamente accostabili perché uno dei due è ancorato alla percezione, alla comunicazione diretta, etc. mentre l'altro è una suggestione o una fede (quindi non sperimentata).
Resta il fatto che la maggiore veridicità dell'uno rispetto all'altro è il risultato di un'interazione di significati, non è che i padri sono in sé e per sé e invece gli angeli custodi no. Entrambi sono significati che veniamo scoprendo (non inventando dal nulla) nei contesti di significato da cui la nostra esistenza cognitiva acquista un senso.
In realtà non ci sono pioli di una scala in salita, solo contesti diversi che riflettono possibilità di senso cognitivo diverse. E certamente trovandosi dislocati tra queste possibilità si cade, ma si cade perché non ci si trova in sintonia con quello che il mondo (qualsiasi cosa sia) ai più riflette e ci si può fare molto male, anche se si è sempre sul piano orizzontale che comunque ci si trova.

CitazioneIndubbiamente si inventa sempre partendo da ciò che si ha a disposizione, avevo già premesso che l'invenzione non è ex nihilo...
Infatti parlavo del nulla dell'ente, non del nulla assoluto. Il nulla dell'ente è la fede che quell'ente viene da qualcosa che non è quell'ente, dunque quel qualcosa che non è quell'ente è il suo niente (il niente di quell'ente). E' questa la contraddizione che un ente sia stato e sarò il suo niente (Severino docet  :) ).

CitazioneCredo che (escludendo iperuranio, inconscio, mondi paralleli, volere divino, etc.) resti aperta la domanda:[/size]
Sostenere che "qualcosa è, ma non è da nessuna parte fino a che non accade", non è una machiavellica perifrasi per dire "nasce" o, nel nostro caso, "viene inventato"?

Domanda non risolta dalla congettura
Se nascere vuol dire viene inventato nulla nasce, se vuol dire si lascia scoprire, allora ogni cosa (concetti compresi) possono nascere e quindi morire. Se iperuranio, inconscio, mondi paralleli, volere divino li intendiamo come luoghi ove si trovano gli enti che non appaiono è una contraddizione affermarlo, oiché se lo fossero in qualche modo quegli enti in quei luoghi sarebbero apparsi. Il luogo appare sempre solo insieme all'ente: l'ente è il luogo in cui si manifesta, ma quando non si manifesta nulla di esso appare, men che meno il luogo, ma questo non vuol dire che non è.  
Citazione...Prima di questa manifestazione, fosse anche solo linguistica, se non è "fede metafisica" quella che ci spinge a dire "eppure già esisteva...", in base a cosa possiamo affermarlo? Se qualcosa non ha ancora un nome e non è in un luogo (o meta-luogo "virtuale"), come possiamo, al suo apparire, supporre retroattivamente che esistesse già da prima?
Sull'essere contraddizione il dire che qualcosa che assolutamente non è (che è il suo niente) poi si manifesta come quell'ente che è. A non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
CitazioneCome suggerivo: le note hanno senso solo nello spartito, ma lo spartito ha senso solo se contiene note... si scrive musica da sempre oppure partendo dal "modulare la voce" qualcuno ha inventato note e spartito?
Ma si può modulare la voce in un canto senza che vi siano note con cui modularla? Ci sono le note e c'è la voce, solo se sono messe insieme abbiamo un canto. Se poi il canto vogliamo anche riprodurlo, allora magari lo scriviamo pure e lo spartito allora ci garantisce nella sua scrittura il poter tornare ad apparire di quel canto quando la memoria fa difetto. Na il né il canto né le note diventano spartito.
CitazioneCuriosando su Chomsky, ho trovato questo articolo divulgativo che parla di innatismo, tanto/poco, e numeri
E' il bello della scienza, si possono sempre trovare prove che confutano una teoria (soprattutto in questo campo), figurati che io ho trovato pure un articolo che affermava che probabilmente non solo la sintassi fosse innata, ma pure la terminologia fosse riconducibile a un'unica fonte originaria. Comunque non ho problemi a dichiararmi d'accordo con Everett: grammatica e numeri si scoprono (e non si inventano) grazie alle interazioni sociali, esprimono relazioni non cose.

Phil

Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMIl nulla dell'ente è la fede che quell'ente viene da qualcosa che non è quell'ente
Prendo atto che è un discorso di fede (metafisica), per cui non mi ostino ad argomentare. 
Grazie, dialogando con te mi sono chiarito ulteriormente le idee  :)

Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PME' il bello della scienza, si possono sempre trovare prove che confutano una teoria (soprattutto in questo campo), figurati che io ho trovato pure un articolo che affermava che probabilmente non solo la sintassi fosse innata, ma pure la terminologia fosse riconducibile a un'unica fonte originaria. 
Se posti il link dell'articolo, lo leggo volentieri (se non è troppo "tecnico"!).

Phil

Lasciando fra parentesi la mia prospettiva, per poter comprendere meglio la tua (sperando di non abusare della tua disponibilità), ti chiederei come intendi l'identità dell'ente, ovvero se
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMA non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
Io, come ente, non sono il risultato di un processo in divenire che risale al mio essere feto, prima embrione, prima spermatozoo e cellula uovo, e così via? Quando e dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?

Sariputra

#156
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 08:04:41 AMLasciando fra parentesi la mia prospettiva, per poter comprendere meglio la tua (sperando di non abusare della tua disponibilità), ti chiederei come intendi l'identità dell'ente, ovvero se
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMA non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
Io, come ente, non sono il risultato di un processo in divenire che risale al mio essere feto, prima embrione, prima spermatozoo e cellula uovo, e così via? Quando e dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?

Scusa l'intromissione ma a me pare che, se A non diventa B e poi C ecc., non c'è proprio possibilità del divenire. Si deve per forza arrivare alla conclusione che tutti gli enti già esistono, sono eterni, immutabili e il divenire è solamente l'apparire alla coscienza di questi enti. Praticamente il pensiero tenta di "cristallizzare" il mutamento spezzettandolo in frammenti eterni (Severino?... :-\ ). Come quasi ad affermare che un corso d'acqua è formato da infinite gocce immutabili ed eterne che, solamente perchè così "appaiono" all'osservatore, sembrano un corso fluido d'acqua. Ma come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni? Secondo il mio modesto parere qui si intravedono veramente tutte le difficoltà e i limiti del pensiero designante che annaspa nel tentativo di fermare proprio il divenire, in un certo senso "attorcigliandosi" su se stesso, per darsi ragione del suo pensare. Come si fa a de-finire un qualcosa in perenne trasformazione?
Sembra quasi il desiderio, o il sogno, del pensiero umano di conservare "intatto" il mondo delle idee, di preservarlo dal di-venire stesso, percepito come una minaccia.

P.S: Perdonate il mio gettarmi a capofitto nelle discussioni di carattere filosofico, non avendone la competenza è sicuramente una dimostrazione di latente orgoglio...  :-[ ma ben sapete che , alla passione, non si comanda!!
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

sgiombo

#157
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 21:09:08 PM
Il discorso di Maturana e Varela parte dal tentativo di individuare il vivente a prescindere dalla descrizione che ne dà l'osservatore con la sua concettualità astratta che stabilisce astrattamente un mondo esterno che fornisce degli input e un mondo interno che li riceve e risponde con degli output. L'unità vivente funziona come una macchina autopoietica che varia di struttura conservando la propria organizzazione che la mantiene unitaria per cui non conosce nulla di ciò che sta fuori di essa (questo non significa che non vi è nulla fuori di essa, solo che non si può conoscere se non nelle sue rappresentazioni interne), ma continuamente funziona in situazioni individuali e cooperative, ossia interagendo. L'osservatore è solo una macchina autopoietica in grado di sviluppare un dominio linguistico che aumenta le sue possibilità di autopoiesi. In altre parole il processo cognitivo non conosce alcun "oggetto reale fuori di noi", ma è solo un continuo modo di relazionarsi per mantenersi.
Ovviamente, come osservi, anche questo è detto da un osservatore che sceglie un contesto pragmatico (fondato sulle relazioni anziché sulle cose) in cui quello che dice risulta valido nel momento in cui riesce a superare le contraddizioni e i problemi di una metafisica tradizionale (compreso anche quello tra significato della cosa e cosa) che presuppone un mondo oggettuale esterno e uno interno, senza avvedersi che tutti gli enti che considera nella loro realtà oggettiva appartengono solo al discorso astratto dell'osservatore.  
Anche che tre mele o sette colle esitevano prima che qualcuno ne avesse esperienza rientra nel discorso astratto dell'osservatore: come può dirlo? E' solo la sua esperienza attuale che glielo rivela (e , sia ben chiaro, non è che rivelandoglielo glielo fa inventare, come se fosse lui con il suo pensiero a creare i sette colli dal nulla), è solo in virtù della relazione attuale che ha con il mondo per come si riflette a lui come significato che può dire che "i sette colli su cui è sorta Roma esistevano anche quando nessun uomo li aveva visti e men che meno contati", ma nemmeno questo significato dei colli è sorto per progressive trasformazioni dentro la testa di qualcuno da un suo originario essere nulla, nemmeno esso si è creato.

CitazioneTrovo assai realistico e concreto il fatto che alcune sensazioni (immaginazioni, pensieri, ragionamenti, desideri, sentimenti, ecc. -"res cogitans"- sono solitamemnte discretamente (anche se non assolutamente) dominabili volontariamente (ho generalmente buone possibilità di concentrare la mia attenzione su certe determinate piuttosto che su certe determinate altre di esse; anche se vi sono casi di pensieri "assillanti" e di ricordi "non evocabili" malgrado sforzi "eroici"); mentre altre (di oggetti materiali -res extensa- come pietre, alberi, case, montagne, ecc.) invece non sono dominabili ad libitum dalla mia volontà (se non, molto limitatamente, agendo su di essi o allontanandomi da essi nel rispetto di inderogabili leggi del divenire naturale onde praticare mezzi atti a conseguire i miei scopi purché realistici).


Ritengo inoltre che eventuali conoscenze non possano essere conseguite dalla macchina umana omeostatica e sociale (corpo, cervello) ma casomai nell' ambito della coscienza che la "accompagna".


Ritengo che tutti gli enti ed eventi conoscibili sono fenomenici, facenti parte dell' esperienza cosciente; ma non che ci sia contraddizione fra significato della cosa e cosa (sono diverse "cose" o eventi, ma non concetti o predicati reciprocamente contraddittori).


La conoscenza circa la preesistenza dei sette colli alla conoscenza di essi si fonda su assunzioni indimostrabili, su questo concordo.
Ma (se la conoscenza scientifica é vera, come credo senza poterlo dimostrare) il colle é sorto, fuori da qualsiasi testa (ma nell' ambito di esperienze fenomeniche coscienti intersoggettive), per mutamenti geologici ove prima non c' era.


CitazioneSo bene che Chomsky sostiene essere il linguaggio innato, ma amicus Chomsky, sed magis amica veritas (detto meno pomposamente: la sua autorità non basta a convincermi)
Ni stupisce questa tua affermazione, dato che Chomsky basa la sua asserzione sullo studio della costanza delle strutture sintattiche nelle diverse lingue, è un innatismo, il suo, fondato su una verifica oggettuale, nella quale mi pareva che anche tu credessi. Ma forse, come poi è un po' di tutti, lo accetti solo nella misura in cui non contrasta con i tuoi presupposti metafisici oggettuali a cui quella "veritas" pare alludere  ;)

Citazione
Confesso di conoscere Chomsky (come linguista; ho invece letto tutti o quasi i suoi scritti politici tradotti in italiano) solo "per sentito dire".
Ma ho sempre dissentito da ogni innatismo gnoseologico (che non sia di mere attitudini potenziali, attuate di fatto in seguito all' esperienza, a posteriori).
Inoltre sono convinto che il liguaggio (le lingue) sia (-no) una delle prime e fondamentali invenzioni "culturali" umane e non un comportamento istintivo innato biologicamente determinato, "naturale").


P.S.: Avendo già lungamente (e vanamente) discusso con Maral in altre occasioni nel vecchio forum le tesi "fissiste" parmenidee o piuttosto severiniane da lui sostenute (per me il divenire non é affatto contraddittorio, come sarebbe invece l' essere e non essere degli stessi enti nei medesimi lassi di tempo e intervalli di spazio), mi astengo dal ripetere vecchie argomentazioni in riposta alla sua replica a Phil.

sgiombo

Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 08:31:55 AM
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 08:04:41 AMLasciando fra parentesi la mia prospettiva, per poter comprendere meglio la tua (sperando di non abusare della tua disponibilità), ti chiederei come intendi l'identità dell'ente, ovvero se
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMA non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
Io, come ente, non sono il risultato di un processo in divenire che risale al mio essere feto, prima embrione, prima spermatozoo e cellula uovo, e così via? Quando e dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?

Scusa l'intromissione ma a me pare che, se A non diventa B e poi C ecc., non c'è proprio possibilità del divenire. Si deve per forza arrivare alla conclusione che tutti gli enti già esistono, sono eterni, immutabili e il divenire è solamente l'apparire alla coscienza di questi enti. Praticamente il pensiero tenta di "cristallizzare" il mutamento spezzettandolo in frammenti eterni (Severino?... :-\ ). Come quasi ad affermare che un corso d'acqua è formato da infinite gocce immutabili ed eterne che, solamente perchè così "appaiono" all'osservatore, sembrano un corso fluido d'acqua. Ma come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni? Secondo il mio modesto parere qui si intravedono veramente tutte le difficoltà e i limiti del pensiero designante che annaspa nel tentativo di fermare proprio il divenire, in un certo senso "attorcigliandosi" su se stesso, per darsi ragione del suo pensare. Come si fa a de-finire un qualcosa in perenne trasformazione?
Sembra quasi il desiderio, o il sogno, del pensiero umano di conservare "intatto" il mondo delle idee, di preservarlo dal di-venire stesso, percepito come una minaccia.

P.S: Perdonate il mio gettarmi a capofitto nelle discussioni di carattere filosofico, non avendone la competenza è sicuramente una dimostrazione di latente orgoglio...  :-[ ma ben sapete che , alla passione, non si comanda!!
CitazioneFai benissimo a gettarti nelle discussioni filosofiche (in base al principio "amicus quisquid -Platone, Chomsky, perfino Hume!!!-, sed magis amica veritas").

Condivido la sostanza delle tue considerazioni.
Preciserei (scusa la pignoleria) che enti ed eventi in perenne trasformazione (ed eventi) si possono definire (e conoscere scientificamente, se sono pure misurabili e intersoggettivi) se il loro divenire é ordinato sec. leggi universali e costanti (cosa indimostrabile: Hume! ma credibile "per fede"): una sorta di "sintesi dialettica" fra mutamento assoluto, integrale (caotico), "tesi", e fissità assoluta, integrale (parmenidea - severiniana), antitesi: mutamento di particolari concreti nel quale si possono astrarre modalità generali fisse e costanti.



Sariputra

Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2016, 11:30:38 AM
Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 08:31:55 AM
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 08:04:41 AMLasciando fra parentesi la mia prospettiva, per poter comprendere meglio la tua (sperando di non abusare della tua disponibilità), ti chiederei come intendi l'identità dell'ente, ovvero se
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMA non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
Io, come ente, non sono il risultato di un processo in divenire che risale al mio essere feto, prima embrione, prima spermatozoo e cellula uovo, e così via? Quando e dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?
Scusa l'intromissione ma a me pare che, se A non diventa B e poi C ecc., non c'è proprio possibilità del divenire. Si deve per forza arrivare alla conclusione che tutti gli enti già esistono, sono eterni, immutabili e il divenire è solamente l'apparire alla coscienza di questi enti. Praticamente il pensiero tenta di "cristallizzare" il mutamento spezzettandolo in frammenti eterni (Severino?... :-\ ). Come quasi ad affermare che un corso d'acqua è formato da infinite gocce immutabili ed eterne che, solamente perchè così "appaiono" all'osservatore, sembrano un corso fluido d'acqua. Ma come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni? Secondo il mio modesto parere qui si intravedono veramente tutte le difficoltà e i limiti del pensiero designante che annaspa nel tentativo di fermare proprio il divenire, in un certo senso "attorcigliandosi" su se stesso, per darsi ragione del suo pensare. Come si fa a de-finire un qualcosa in perenne trasformazione? Sembra quasi il desiderio, o il sogno, del pensiero umano di conservare "intatto" il mondo delle idee, di preservarlo dal di-venire stesso, percepito come una minaccia. P.S: Perdonate il mio gettarmi a capofitto nelle discussioni di carattere filosofico, non avendone la competenza è sicuramente una dimostrazione di latente orgoglio... :-[ ma ben sapete che , alla passione, non si comanda!!
CitazioneFai benissimo a gettarti nelle discussioni filosofiche (in base al principio "amicus quisquid -Platone, Chomsky, perfino Hume!!!-, sed magis amica veritas"). Condivido la sostanza delle tue considerazioni. Preciserei (scusa la pignoleria) che enti ed eventi in perenne trasformazione (ed eventi) si possono definire (e conoscere scientificamente, se sono pure misurabili e intersoggettivi) se il loro divenire é ordinato sec. leggi universali e costanti (cosa indimostrabile: Hume! ma credibile "per fede"): una sorta di "sintesi dialettica" fra mutamento assoluto, integrale (caotico), "tesi", e fissità assoluta, integrale (parmenidea - severiniana), antitesi: mutamento di particolari concreti nel quale si possono astrarre modalità generali fisse e costanti.

Sono d'accordo. Non ci troviamo di fronte ad un divenire nel caos.
Pensa, ma quasi mi vergogno a dirlo, che trovo ci sia addirittura un "senso etico" a questo perenne mutamento. Ma non so come spiegarlo filosoficamente... :'(
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

maral

Citazione di: Phil
Se posti il link dell'articolo, lo leggo volentieri (se non è troppo "tecnico"!).
Purtroppo non lo ritrovo, ma comunque non era un articolo, solo si annunciava che alcuni studiosi ritenevano, sulla base della analisi linguistica condotta su diverse lingue, che fosse possibile ravvisare una radice comune dei termini, mentre altri contestavano questo argomento sull'analisi di altri termini. In ogni caso la questione se sia o meno esistito un originario linguaggio universale (prima della mitica Babele), non credo sia determinante per stabilire se le parole esistono di per sé o meno.

Per quanto riguarda la questione sul divenire e come la intende Severino se ne è molto discusso a suo tempo nel vecchio forum. Comunque in breve Severino parte dalla tautologia di ogni ente che si basa sul principio di identità (A è A) su cui non si può dubitare. Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A nella sua concreta presenza (ove concreta significa completamente definita) da quello che è, quindi non solo Phil che adesso legge questo messaggio è mai stato un oocita, né un embrione, né un feto, tutti enti diversi da quello che Phil che legge questo messaggio è, ma non è nemmeno il Phil che qualche ora fa scriveva un altro messaggio, anche costui è un ente diverso ed eterno, non potendo mai essere altro da quello che è. Severino considera la fede nel divenire la follia e la violenza estrema dell'Occidente (che si esercita ogni volta che si vuole far diventare una cosa un'altra cosa), appunto perché con essa si crede che le cose possano essere ciò che non sono, pur restando ciò che sono (se dico che A è diventato B, dico che pur non essendo A B a un certo momento A è davvero B, e per diventare B A si è annullato pur rimanendo A).

CitazioneMa come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni?
Ottima domanda, infatti fenomenologicamente gli enti eterni non appaiono. Ma per Severino  noi non percepiamo affatto il mutamento, il mutamento che crediamo di percepire è solo il frutto di una volontà di crederlo (noi non percepiamo A che diventa B, ma A e B e poi affermiamo volendolo credere che l'uno è diventato l'altro). Questa fede sostiene che le cose possano cambiare pur rimanendo le stesse (lo stesso uomo che da embrione diventa bambino, poi adulto, poi  vecchio poi cadavere pur rimanendo il medesimo uomo). Questo errore è dato dal pensare astrattamente le cose non nella loro concreta ed effettiva interezza che è eterna e si manifesta nella dimensione di un continuo sopraggiungere e passare oltre degli enti eterni nei vari contesti di significato in cui parzialmente si mostrano. La dimensione in cui appaiono gli eterni è dunque quella di un immenso fluire la cui totalità è infinita.

Comunque anche partendo dall'idea pragmatica opposta che si basa sul principio che tutto è un continuo divenire di relazioni che continuamente si intrecciano, la questione se sia più fondamentale e originario l'oggetto o il suo significato soggettivo perde di senso ed è appunto a questa posizione (sicuramente meno sconvolgente di quella severiniana) a cui mi ero riferito, anche nei riferimenti ai testi tratti da Maturana e Varela.

anthonyi

Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 13:59:23 PM
Citazione di: Phil
Se posti il link dell'articolo, lo leggo volentieri (se non è troppo "tecnico"!).
Purtroppo non lo ritrovo, ma comunque non era un articolo, solo si annunciava che alcuni studiosi ritenevano, sulla base della analisi linguistica condotta su diverse lingue, che fosse possibile ravvisare una radice comune dei termini, mentre altri contestavano questo argomento sull'analisi di altri termini. In ogni caso la questione se sia o meno esistito un originario linguaggio universale (prima della mitica Babele), non credo sia determinante per stabilire se le parole esistono di per sé o meno.

Per quanto riguarda la questione sul divenire e come la intende Severino se ne è molto discusso a suo tempo nel vecchio forum. Comunque in breve Severino parte dalla tautologia di ogni ente che si basa sul principio di identità (A è A) su cui non si può dubitare. Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A nella sua concreta presenza (ove concreta significa completamente definita) da quello che è, quindi non solo Phil che adesso legge questo messaggio è mai stato un oocita, né un embrione, né un feto, tutti enti diversi da quello che Phil che legge questo messaggio è, ma non è nemmeno il Phil che qualche ora fa scriveva un altro messaggio, anche costui è un ente diverso ed eterno, non potendo mai essere altro da quello che è. Severino considera la fede nel divenire la follia e la violenza estrema dell'Occidente (che si esercita ogni volta che si vuole far diventare una cosa un'altra cosa), appunto perché con essa si crede che le cose possano essere ciò che non sono, pur restando ciò che sono (se dico che A è diventato B, dico che pur non essendo A B a un certo momento A è davvero B, e per diventare B A si è annullato pur rimanendo A).

CitazioneMa come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni?
Ottima domanda, infatti fenomenologicamente gli enti eterni non appaiono. Ma per Severino  noi non percepiamo affatto il mutamento, il mutamento che crediamo di percepire è solo il frutto di una volontà di crederlo (noi non percepiamo A che diventa B, ma A e B e poi affermiamo volendolo credere che l'uno è diventato l'altro). Questa fede sostiene che le cose possano cambiare pur rimanendo le stesse (lo stesso uomo che da embrione diventa bambino, poi adulto, poi  vecchio poi cadavere pur rimanendo il medesimo uomo). Questo errore è dato dal pensare astrattamente le cose non nella loro concreta ed effettiva interezza che è eterna e si manifesta nella dimensione di un continuo sopraggiungere e passare oltre degli enti eterni nei vari contesti di significato in cui parzialmente si mostrano. La dimensione in cui appaiono gli eterni è dunque quella di un immenso fluire la cui totalità è infinita.

Comunque anche partendo dall'idea pragmatica opposta che si basa sul principio che tutto è un continuo divenire di relazioni che continuamente si intrecciano, la questione se sia più fondamentale e originario l'oggetto o il suo significato soggettivo perde di senso ed è appunto a questa posizione (sicuramente meno sconvolgente di quella severiniana) a cui mi ero riferito, anche nei riferimenti ai testi tratti da Maturana e Varela.

La tesi di una lingua comune non è altro che l'ipotesi sulla radice comune delle lingue Indo-Europee, cioè delle lingue sviluppatesi nelle aree mediterranee, mediorientali fino al continente Indiano, certamente c'è chi la mette in discussione ma è una tesi linguisticamente dominante. Essa è d'altronde associata con contenuti culturali, mitologici e cultuali che mantengono elementi comuni in tutte queste aree.

maral

#162
Per meglio chiarire ancora la questione mi rifaccio a un testo di Sini che è su posizioni pragmatiche ben diverse da quelle severiniane.  Nell'opinione comune, osserva Sini, si pensa che le parole siano dei segni convenzionali per indicare o evocare (nominare) l'assente. Se dico ad esempio "cavallo" io evoco quel particolare ente che è un cavallo quando ad esempio non abbiamo un cavallo sotto gli occhi. La parola sta al posto della cosa che non c'è. Ma, fa ancora notare Sini, per potersi accordare che la vocalizzazione (il segno vocale) "cavallo" significa l'animale in questione, dobbiamo già avere un linguaggio e delle parole e delle parole. Ma, aggiunge, "il fatto fondamentale è che la cosa della parola è assente anche quando, per ipotesi, la cosa stessa sia presente. La presenza davanti a noi di un cavallo non renderebbe meno assente l'oggetto della parola "cavallo". E inoltre noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione... le cose si manifestano nelle parole e non prima di esse, così che noi possiamo stabilire dei segni che vi rimandino." (da C.Sini "Il silenzio e la parola")
Questo significa, che anche chi pensa in modo esperenziale e strettamente fenomenologico, senza alcuna implicazione metafisica ontologica, che nessuna cosa può essere prima della parola che la nomina, cosa e parola sono sempre insieme, sono il frutto di una rete di relazioni assai complessa che sola ce ne dà presenza reale e significato, sempre indissolubilmente e originariamente insieme.

Sariputra

Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 13:59:23 PM
Citazione di: PhilSe posti il link dell'articolo, lo leggo volentieri (se non è troppo "tecnico"!).
Purtroppo non lo ritrovo, ma comunque non era un articolo, solo si annunciava che alcuni studiosi ritenevano, sulla base della analisi linguistica condotta su diverse lingue, che fosse possibile ravvisare una radice comune dei termini, mentre altri contestavano questo argomento sull'analisi di altri termini. In ogni caso la questione se sia o meno esistito un originario linguaggio universale (prima della mitica Babele), non credo sia determinante per stabilire se le parole esistono di per sé o meno. Per quanto riguarda la questione sul divenire e come la intende Severino se ne è molto discusso a suo tempo nel vecchio forum. Comunque in breve Severino parte dalla tautologia di ogni ente che si basa sul principio di identità (A è A) su cui non si può dubitare. Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A nella sua concreta presenza (ove concreta significa completamente definita) da quello che è, quindi non solo Phil che adesso legge questo messaggio è mai stato un oocita, né un embrione, né un feto, tutti enti diversi da quello che Phil che legge questo messaggio è, ma non è nemmeno il Phil che qualche ora fa scriveva un altro messaggio, anche costui è un ente diverso ed eterno, non potendo mai essere altro da quello che è. Severino considera la fede nel divenire la follia e la violenza estrema dell'Occidente (che si esercita ogni volta che si vuole far diventare una cosa un'altra cosa), appunto perché con essa si crede che le cose possano essere ciò che non sono, pur restando ciò che sono (se dico che A è diventato B, dico che pur non essendo A B a un certo momento A è davvero B, e per diventare B A si è annullato pur rimanendo A).
CitazioneMa come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni?
Ottima domanda, infatti fenomenologicamente gli enti eterni non appaiono. Ma per Severino noi non percepiamo affatto il mutamento, il mutamento che crediamo di percepire è solo il frutto di una volontà di crederlo (noi non percepiamo A che diventa B, ma A e B e poi affermiamo volendolo credere che l'uno è diventato l'altro). Questa fede sostiene che le cose possano cambiare pur rimanendo le stesse (lo stesso uomo che da embrione diventa bambino, poi adulto, poi vecchio poi cadavere pur rimanendo il medesimo uomo). Questo errore è dato dal pensare astrattamente le cose non nella loro concreta ed effettiva interezza che è eterna e si manifesta nella dimensione di un continuo sopraggiungere e passare oltre degli enti eterni nei vari contesti di significato in cui parzialmente si mostrano. La dimensione in cui appaiono gli eterni è dunque quella di un immenso fluire la cui totalità è infinita. Comunque anche partendo dall'idea pragmatica opposta che si basa sul principio che tutto è un continuo divenire di relazioni che continuamente si intrecciano, la questione se sia più fondamentale e originario l'oggetto o il suo significato soggettivo perde di senso ed è appunto a questa posizione (sicuramente meno sconvolgente di quella severiniana) a cui mi ero riferito, anche nei riferimenti ai testi tratti da Maturana e Varela.

Beh...direi che si può anche pensare che A non è un ente fisso e immutabile, ma un ente mutabile che ha in sè il "seme" di B e poi di C, ecc. Nel reale infatti osserviamo che l'entità seme, diventa l'entità germoglio e poi l'entità albero. Dov' è andato l'ente seme quando percepiamo l'ente albero ? Non è "scomparso" nel Nulla , ma si è trasformato nell'ente albero, che diventerà ente humus e così via in eterno...Questo non mi sembra contraddica il principio di identità. Quando il seme esiste come seme è un seme, quando esiste come germoglio è un germoglio, e così via. Quando è albero non sarà certo roccia; quando è seme non sarà ancora albero. Che "necessità" c'è per il pensiero di dover fermare tutti gli infiniti attimi in eterno? Per dare sostanzialità all'esperire? Ritorna sempre, mi pare, il sentimento del mutare percepito come grave minaccia che incombe sulle certezze del pensiero. Ma un seme che muta in albero e poi in humus non è privato di sostanza. E' una "sostanza che muta".
Tra l'altro, se non comprendo male, il portare alle estreme conseguenze il concetto di enti ( come fa Severino, mi par di capire) fa rientrare dalla finestra il concetto di Divenire, da lui negato e ritenuto cacciato dalla porta. Infatti, se tutti questi infiniti enti appaiono e devono seguire una logica nell'apparire, in che cosa differiscono dal divenire stesso? Dire che un corso d'acqua fluisce per la somma di infinite, eterne e immutabili, goccioline o dire che infinite goccioline si trasformano in un corso d'acqua fluente non è, di fatto, la stessa cosa?
 In ogni caso "fluiscono", con un senso logico. E questo solo noi percepiamo. Mi sembra illogico pensare che tutti, indistintamente, dall'inizio dei tempi vogliamo e crediamo di percepire il divenire ( compreso Severino stesso che pare si desse molta pena di esser "riconosciuto" nel divenire) ma che in realtà tutto è immutabile. Siccome mai potrò tornar ente feto e poi ente bimbo e poi ente adolescente, e sicuramente diverrò l'ente chiamato vecchiaccio rincoglionito, mi dovrebbero spiegare che me faccio di questa strampalata teoria...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Phil

Concordo; inoltre mi sembra problematico proprio il definire l'identità dell'ente eterno; va bene astrarre logicamente in "A" e "B", ma concretamente (onticamente): se io che adesso scrivo, sono un ente diverso dal me che 15 minuti fa stendeva i panni, non diventa puro arbitrio (e quasi capriccio) distinguermi e scandirmi in enti potenzialmente infiniti? 

Il solito monaco zen avrebbe dato a Severino una "bastonata didattica", anche se intimamente avrebbe sorriso, perché questo continuo focalizzarsi su di sé, come ente sempre nuovo, potrebbe essere un modo eterodosso di mantenere la concentrazione sul presente e non attaccarsi ai residui mnemonici del passato (a quello ci pensa il karma  ;D).

P.s. Per quanto riguarda l'essere-niente ("A è il niente di B" e viceversa), non so se Severino mischi troppo le carte fra ni-ente, differ-ente, conting-ente, evid-ente, diveni-ente...

Discussioni simili (5)