conoscenza e critica della conoscenza

Aperto da davintro, 15 Agosto 2016, 18:26:43 PM

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Phil

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMnon si inventa nulla se per inventare si intende creare qualcosa (qualsiasi cosa, compreso numeri, colori) facendo essere qualcosa che prima non era. Nella loro qualità di numeri e colori, questi enti in quanto essenti, sono da sempre e per sempre
Cercando di restare sul piano ontologico (anche se il mio era perlopiù linguistico), non confonderei gli enti con i concetti: gli enti non si inventano, i concetti direi di si (non ex nihilo, ovviamente...), altrimenti il concetto di "inflazione" sarebbe dovuto esistere prima dell'invenzione del denaro... e ciò è ammissibile solo con una fantasiosa teoria neo-platonica, o mistica, in cui tutto il pensabile c'è già, da qualche parte (metaforicamente parlando, ma non troppo...) e noi ci limitiamo, epoca dopo epoca, ad attingere da questo "serbatoio concettuale eterno e completo" (è questa per me la congettura ardua da sostenere, se non per "fede"... ma non voglio impantanare il discorso con speculazioni ontologiche).

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMdove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza? 
In questa domanda affiora il preconcetto che la (pre)orienta, ovvero che i numeri debbano essere sempre stati da qualche parte, per cui non resta che chiederci "dove?"; e se invece, fossero uno dei tanti concetti inventati? 
Proviamo a fare una dimostrazione per assurdo: se credere che i numeri non sono innati, comporta una contraddizione o va contro esperienze attendibili, allora i numeri sono innati... la contraddizione sarebbe ammetterne l'invenzione? Non sembra poi molto contraddittorio in sé, né andare contro esperienze attendibili (al di là di essere d'accordo o meno con la possibilità di inventare qualcosa).
Se invece (per "par condicio") vogliamo applicare una dimostrazione per assurdo all'invenzione dei numeri, dovremo postulare che non siano inventati, e ciò dovrebbe essere contraddittorio o andare contro un'esperienza attendibile... la contraddizione in questo caso sarebbe l'ammissione di un'esistenza-non-manifesta (vedi sotto) che quindi va contro ogni esperienza attendibile (e anche se si è d'accordo con questa prospettiva, non sono pochi i punti interrogativi metafisici e epistemologici che ne conseguono...).
Tuttavia, non insisto oltre, capisco che sono prospettive inconciliabili  ;)

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMNon stanno in un altro mondo, in un iperuranio, semplicemente sono, ma non appaiono. In questi termini parlo di inconscio. 
Ci sono inconsci e quindi non hanno per la nostra esperienza un luogo "scoperto", perché se lo avessero ci apparirebbero, ma non avere un luogo scoperto alla nostra esperienza non vuole dire che sono niente [...] mantenendo fermo che numeri e colori sono e non possono non essere, 
"Sono ma non appaiono"(cit.), quindi sono "esseri immanifesti", immanifesti quindi indimostrabili, indimostrabili quindi oggetto di "fede" (uso anche qui le virgolette perché non parlo di fede religiosa...).

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMNon trovo nessuna lingua naturale frutto di una convenzione. 
Chiaramente le lingue, e le rispettive convenzioni, si sono modificate con i secoli, nessuna lingua è nata dalla sera alla mattina o ad opera di un solo uomo... per "convenzione" va inteso un "inventare artificiale" che diventa poi un "affermarsi socialmente"; se le lingue non fossero convenzioni, a cosa servirebbero i dizionari, le grammatiche, etc.? 

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMnon c'è mai stato un momento originario in cui si è stabilito che il colore rosso dovesse chiamarsi "rosso" potendolo anche dire in modo diverso, il colore e la combinazione fonetica che lo mostra sono tra loro sempre legati secondo un'intrinseca necessità, non è una scelta convenzionalmente stabilita, anche se certamente varia.
La prospettiva diacronica delle lingue sembra indicare il contrario: non c'è necessita del nominare qualcosa con un determinato segno o suono, semplicemente una comunità ha deciso di usare quella combinazione, altre una combinazione differente, ma non c'è nessuna "intrinseca necessità"(cit.) fra l'oggetto e la parola (salvo per le onomatopeiche), solo arbitrarietà convenzionale... 
Pensa anche ai neologismi, che abbondano con il fiorire di nuove dimensioni (come quella attuale dell'informatica), che necessità c'è di chiamare alcune novità tecnologiche proprio con quel nome? Nessuna, semplicemente qualcuno le battezza così e gli altri "condividono" (in tutti i sensi  ;D ) quella parola...

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMVeramente Derrida parla di una scrittura che precede l'oralità della comunicazione (e ovviamente non è una scrittura che appartiene al soggetto umano; è segno muto e di per sé insignificante che dà significato a ogni cosa) Non abbiamo mai conosciuto alcuna cosa senza un segno che ce la connotasse, fosse questo segno anche solo un gesto, e quel gesto, quell'espressione fonetica di un altro soggetto che ci ha mostrato quella cosa nessuno lo ha mai scelto né quindi convenzionato per quella cosa.
Credo vada distinta la "scrittura" dal "gesto" (e penso lo faccia anche Derrida quando, vado a memoria, distingue il "segno" dal "fare-segno"...), altrimenti "scrivere" e "gesticolare" diventano sinonimi! Non ricordo bene, ma non scommetterei che il concetto di "archiscrittura" di Derrida, al netto di metafore e giochi linguistici, neghi che ci sia stato, come sottolineavo, un momento in cui l'uomo non scriveva ma comunicava solo oralmente...

P:s. La convenzione, non la intenderei solo in modo accademico: ad esempio, come accennavo prima, molti neologismi nascono ed entrano nel vocabolario senza che ci sia un convegno di esperti, ma soltanto perché si innesca un "passaparola" fortuito e molto esteso: l'espressione "figlio dei fiori" (con tutti i riferimenti concettuali annessi) è ormai comprensibile a tutti, eppure non è sempre esistita, ma il suo successo sociale ne ha decretato la legittima appartenenza alla comunicazione (pur non sapendo, almeno io, chi sia stato il primo a coniare questa espressione). 
Magari mi dirai che anche questa espressione esisteva da sempre, ma attendeva solo di manifestarsi, che "era ma non appariva", ma mi concederai che con questo presupposto di innatismo radicale, perdiamo ogni presa epistemologica sull'argomento, abbandoniamo la ricerca per "accomodarci" in una "fede metafisica" di cui tutto il '900 (con buona pace di Severino?) ci ha insegnato a dubitare...

paul11

#136
Phil,
penso che vi siano divari, non so se colmabili, fra ontologia e gnoseologia(o epistemologia).
Non è nemmeno più una questione di mistifica o metafisica.
Persino le teorie affidabiliste, quelle linguistiche ,quelle etiche che non sono metafisiche oggi come un tempo
spostano il problema in "internalismo" ed "esternalismo".Basta vedere le posizioni di Searle e Davidson sull'etica.
Il problema è spostato sul processo, il focus quindi è più importante nel soggetto ,internalismo, oppure nell'oggetto esternalismo. Essendo l'uomo un essere pensante e riflessivo ci si chiede dove abita il pensiero ,ma ci si sposta di più sull'azione, sulla pratica, sull'esperienza.
Chomsky, citato da Maral, ad esempio. ha delle sue teorie sulla "grammatica trasformazionale" e una "teoria della competenza". Chomsky teorizza un innatismo.
Tutto questo per semplicemente dire che la teoria della conoscenza e la relativa critica non è più solo patrimonio della filosofia classica,  o addirittura della metafisica, ma anche della tradizione anglo-statunitense della filosofia analitica e dei suoi sviluppi.
Quindi sono parte degli stessi "empiristi" che si chiedono se c'è una coscienza,se c'è una mente se c'è una lingua, se esiste un sistema o dominio, come l'uomo lo abbia potuto costruire.
La risposta non può essere solo evolutiva biologica, perchè anche il DNA si esprime in un codice e da dove venga e come si sia formato questa modalità e perchè così e non "cosà", nessuno lo sa.Ma è altrettanto strano che la stessa vita sia un codice come un sistema, e un codice è un informazione che si trasmette con un emittente e un ricevente e quindi comunica, proprio come i linguaggi.

maral

#137
Citazione di: Phil il 24 Settembre 2016, 17:12:43 PM
Cercando di restare sul piano ontologico (anche se il mio era perlopiù linguistico), non confonderei gli enti con i concetti: gli enti non si inventano, i concetti direi di si (non ex nihilo, ovviamente...), altrimenti il concetto di "inflazione" sarebbe dovuto esistere prima dell'invenzione del denaro... e ciò è ammissibile solo con una fantasiosa teoria neo-platonica, o mistica, in cui tutto il pensabile c'è già, da qualche parte (metaforicamente parlando, ma non troppo...) e noi ci limitiamo, epoca dopo epoca, ad attingere da questo "serbatoio concettuale eterno e completo" (è questa per me la congettura ardua da sostenere, se non per "fede"... ma non voglio impantanare il discorso con speculazioni ontologiche).
In termini ontologici è ente tutto ciò che è essente come unità, non alcuni elementi degli essenti, dunque anche i concetti sono essenti solo in virtù del loro esserci. E, dal punto di vista della sola essenza tutti gli enti sono perfettamente equivalenti, non ve ne sono alcuni che precedono altri in essenza.
Il concetto di inflazione peraltro non necessariamente è riferibile al denaro: si accompagna anche al concetto di denaro per descrivere certe situazioni, ma non solo mi pare.

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMdove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza?
Citazione di: PhilIn questa domanda affiora il preconcetto che la (pre)orienta, ovvero che i numeri debbano essere sempre stati da qualche parte, per cui non resta che chiederci "dove?"; e se invece, fossero uno dei tanti concetti inventati?
Scusa, ma la mia domanda introduceva un dubbio a quello che venivo dicendo io stesso, non tu, e, per risolvere il dubbio concludevo che la domanda non ha senso: non può apparire un luogo dove stanno gli essenti prima di apparire, se questo luogo apparisse sarebbero già apparsi.
CitazioneProviamo a fare una dimostrazione per assurdo: se credere che i numeri non sono innati, comporta una contraddizione o va contro esperienze attendibili, allora i numeri sono innati...
La contraddizione è che non si può contare senza avere i numeri dunque non è contando che si arriva a inventare il numero, deve già esserci e non in un modo generico e impreciso da raffinare (un "tanti" o "pochi"), ma proprio per quello che è (dal "tanti" o "pochi", proprio come è già stato detto, non si arriva a nessun numero).
Citazionela contraddizione in questo caso sarebbe l'ammissione di un'esistenza-non-manifesta (vedi sotto) che quindi va contro ogni esperienza attendibile (e anche se si è d'accordo con questa prospettiva, non sono pochi i punti interrogativi metafisici e epistemologici che ne conseguono...).
Bè mi pare che di esistenze non manifeste ce ne siano sempre state tante nella storia dell'umanità (e sicuramente ce ne sono tuttora che forse si manifesteranno in futuro), senza che questo pregiudichi alcuna esperienza attendibile. Tanto più che i numeri sono esistenze manifeste che ora hanno luogo, dunque esistenze si sono manifestati senza che, mi pare, questo implichi che a un certo punto siano sorti per pura invenzione da altro (da un non numero), ossia siano nati dal loro essere niente come numero.
Non è fede ciò che asserisce che ogni essente è, ma non ogni essente solo a un dato momento appare, lo constatiamo continuamente.

CitazioneChiaramente le lingue, e le rispettive convenzioni, si sono modificate con i secoli, nessuna lingua è nata dalla sera alla mattina o ad opera di un solo uomo... per "convenzione" va inteso un "inventare artificiale" che diventa poi un "affermarsi socialmente"; se le lingue non fossero convenzioni, a cosa servirebbero i dizionari, le grammatiche, etc.?
I dizionari e le grammatiche fissano le lingue esistenti temporaneamente a mezzo di convenzioni, ma non è certo dai dizionari e dalle grammatiche che nascono le lingue. Ossia le lingue possono portare a convenzioni sull'uso dei termini, ma non viceversa. Non mi pare risulti a nessun antropologo che per cominciare a parlare una lingua si sia iniziato con il convenirne un dizionario, scritto o orale che fosse.

CitazioneLa prospettiva diacronica delle lingue sembra indicare il contrario: non c'è necessita del nominare qualcosa con un determinato segno o suono, semplicemente una comunità ha deciso di usare quella combinazione, altre una combinazione differente, ma non c'è nessuna "intrinseca necessità"(cit.) fra l'oggetto e la parola (salvo per le onomatopeiche), solo arbitrarietà convenzionale...
Pensa anche ai neologismi, che abbondano con il fiorire di nuove dimensioni (come quella attuale dell'informatica), che necessità c'è di chiamare alcune novità tecnologiche proprio con quel nome? Nessuna, semplicemente qualcuno le battezza così e gli altri "condividono" (in tutti i sensi  ;D ) quella parola...
Certo a posteriori posso dire che se chiamo quel colore con la parola rosso o red è sempre lo stesso colore e sicuramente è così, ma nessuna comunità fa questa scelta, cioè nessuna comunità si è mai trovata davanti a qualcosa di rosso e ha cominciato a discutere se chiamare quel colore rosso o red, mettendosi d'accordo magari per alzata di mano a maggioranza come suonava meglio. Anche perché se ci fosse mai stata questa discussione le parole avrebbero ben dovuto già esserci e dunque, di nuovo, come per i numeri, per avere le parole, ci vogliono delle parole!  

CitazioneCredo vada distinta la "scrittura" dal "gesto" (e penso lo faccia anche Derrida quando, vado a memoria, distingue il "segno" dal "fare-segno"...), altrimenti "scrivere" e "gesticolare" diventano sinonimi! Non ricordo bene, ma non scommetterei che il concetto di "archiscrittura" di Derrida, al netto di metafore e giochi linguistici, neghi che ci sia stato, come sottolineavo, un momento in cui l'uomo non scriveva ma comunicava solo oralmente...
Premesso che non conosco direttamente Derrida e quindi mi riferisco solo alla lezione di Sini che, per quanto ne so, potrebbe anche averlo interpretato male. Premesso che mi pare che lo scrivere nasce comunque come un gesto (anche se non direttamente rivolto all'interlocutore, ma rivolto all'interlocutore attraverso un mezzo che rende possibile una dilatazione del tempo tra espressione e ricevimento e forse questo è quello che distingue il gesto dello scrivere dal gesto del gesticolare). Non è di una scrittura umana che qui si parla, ma di una scrittura più originaria che nell'uomo si traduce in una ricerca di significati e quindi in suoni vocali, poi questa parola si può tradurre per l'uomo in una scrittura fonetica, come è accaduto in Occidente, ma non necessariamente in Oriente, ove la scrittura intende ancora richiamare direttamente proprio quella scrittura- segno originario e silente. Per questo, in Oriente, la scrittura viene prima della oralità e non è la semplice traduzione grafica di un suono. Questo mi pare si dica nella lezione di Sini.

CitazioneP:s. La convenzione, non la intenderei solo in modo accademico: ad esempio, come accennavo prima, molti neologismi nascono ed entrano nel vocabolario senza che ci sia un convegno di esperti, ma soltanto perché si innesca un "passaparola" fortuito e molto esteso: l'espressione "figlio dei fiori" (con tutti i riferimenti concettuali annessi) è ormai comprensibile a tutti, eppure non è sempre esistita, ma il suo successo sociale ne ha decretato la legittima appartenenza alla comunicazione (pur non sapendo, almeno io, chi sia stato il primo a coniare questa espressione).
Magari mi dirai che anche questa espressione esisteva da sempre, ma attendeva solo di manifestarsi, che "era ma non appariva", ma mi concederai che con questo presupposto di innatismo radicale, perdiamo ogni presa epistemologica sull'argomento, abbandoniamo la ricerca per "accomodarci" in una "fede metafisica" di cui tutto il '900 (con buona pace di Severino?) ci ha insegnato a dubitare...
Figurati, Severino è colui che vuole proprio mettere in dubbio le radici stesse della metafisica dell'Occidente che ritiene basata sulla pretesa assurda di un'assoluta e incontestabile evidenza del divenire. Ma tornando al tema, l'espressione "figlio dei fiori", certamente è apparsa a un certo punto come un composito fatto da espressioni che avevano già significato, è una combinazione di termini che si rivela nell'apparire di una certa figura umana che la richiama, per via metaforica. Tutti i linguaggi non sono altro fondamentalmente che metafore, ossia accoppiamenti tra enti diversi che si richiamano (si fanno segno) l'un l'altro, indipendentemente da qualsiasi scelta. I linguaggi sono sistemi di metafore non scelte, non eterne e tanto meno convenzionate.  

sgiombo

Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AM
CitazioneChiedo scusa a Phil (che ovviamente risponderà da par suo) per l' "entrata a gamba tesa".

Citazione di: Phil il 24 Settembre 2016, 17:12:43 PM
Cercando di restare sul piano ontologico (anche se il mio era perlopiù linguistico), non confonderei gli enti con i concetti: gli enti non si inventano, i concetti direi di si (non ex nihilo, ovviamente...), altrimenti il concetto di "inflazione" sarebbe dovuto esistere prima dell'invenzione del denaro... e ciò è ammissibile solo con una fantasiosa teoria neo-platonica, o mistica, in cui tutto il pensabile c'è già, da qualche parte (metaforicamente parlando, ma non troppo...) e noi ci limitiamo, epoca dopo epoca, ad attingere da questo "serbatoio concettuale eterno e completo" (è questa per me la congettura ardua da sostenere, se non per "fede"... ma non voglio impantanare il discorso con speculazioni ontologiche).
In termini ontologici è ente tutto ciò che è essente come unità, non alcuni elementi degli essenti, dunque anche i concetti sono essenti solo in virtù del loro esserci. E, dal punto di vista della sola essenza tutti gli enti sono perfettamente equivalenti, non ve ne sono alcuni che precedono altri in essenza.
Il concetto di inflazione peraltro non necessariamente è riferibile al denaro: si accompagna anche al concetto di denaro per descrivere certe situazioni, ma non solo mi pare.
CitazioneNon ti seguo bene attraverso i concetti (severiniani? Hedeggeriani?) Di ente! Ed "essente".
Ma se usiamo quelli a me comprensibili di "cosa reale" (indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato, dall' essere inoltre oggetto di pensiero, eventualmente di conoscenza vera) e "concetto pensato" (reale unicamente in quanto pensato; anche se può esistere -o meno- pure una "cosa reale" da esso denotata), allora non mi sembra che non abbia obiettato efficacemente a Phil: gli enti reali esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero, come dimostra l' esempio di "inflazione" intesa come concetto economico (che sul vocabolario ha una definizione diversa, pur sotto lo stesso lemma, di "inflazione" in senso fisico: per lo meno il primo concetto (l' aumento del denaro in circolazione e dei prezzi) con tutta evidenza non è innato, sempre esistito "inconsciamente" nella mente degli uomini in attesa che qualcuno lo conoscesse a priori: è stato "confezionato" dopo che qualcuno ha studiato l' economia capitalistica, e la parola che lo simboleggia é stata adottata da tutti i parlanti convenzionalmente.
Se l' umanità si fosse estinta all' età della pietra nessuno avrebbe mai saputo a priori che cosa significa "inflazione" in senso economico.

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMdove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza?
CitazioneIn questa domanda affiora il preconcetto che la (pre)orienta, ovvero che i numeri debbano essere sempre stati da qualche parte, per cui non resta che chiederci "dove?"; e se invece, fossero uno dei tanti concetti inventati?
Scusa, ma la mia domanda introduceva un dubbio a quello che venivo dicendo io stesso, non tu, e, per risolvere il dubbio concludevo che la domanda non ha senso: non può apparire un luogo dove stanno gli essenti prima di apparire, se questo luogo apparisse sarebbero già apparsi.
CitazioneMa i gruppi di cose simili diversamente numerosi  (tre mele o tre pere, sette colli o sette laghi, dieci dita delle mani o dieci dita dei piedi, ecc.), esistevano prima dell' invenzione per astrazione da essi dei numeri naturali e della matematica.
E i rispettivi concetti astratti (i numeri naturali) esistono a posteriori, previa astrazione e non priori, nelle menti di chi li pensa.

CitazioneProviamo a fare una dimostrazione per assurdo: se credere che i numeri non sono innati, comporta una contraddizione o va contro esperienze attendibili, allora i numeri sono innati...
La contraddizione è che non si può contare senza avere i numeri dunque non è contando che si arriva a inventare il numero, deve già esserci e non in un modo generico e impreciso da raffinare (un "tanti" o "pochi"), ma proprio per quello che è (dal "tanti" o "pochi", proprio come è già stato detto, non si arriva a nessun numero).
CitazioneChe non si possa contare senza avere i numeri non dice nulla circa il problema se la conoscenza dei numeri sia innata o acquisita per astrazione dall' esperienza: vale esattamente allo stesso modo in entrambi i casi.

Citazionela contraddizione in questo caso sarebbe l'ammissione di un'esistenza-non-manifesta (vedi sotto) che quindi va contro ogni esperienza attendibile (e anche se si è d'accordo con questa prospettiva, non sono pochi i punti interrogativi metafisici e epistemologici che ne conseguono...).
Bè mi pare che di esistenze non manifeste ce ne siano sempre state tante nella storia dell'umanità (e sicuramente ce ne sono tuttora che forse si manifesteranno in futuro), senza che questo pregiudichi alcuna esperienza attendibile. Tanto più che i numeri sono esistenze manifeste che ora hanno luogo, dunque esistenze si sono manifestati senza che, mi pare, questo implichi che a un certo punto siano sorti per pura invenzione da altro (da un non numero), ossia siano nati dal loro essere niente come numero.
Non è fede ciò che asserisce che ogni essente è, ma non ogni essente solo a un dato momento appare, lo constatiamo continuamente.
CitazioneEsistenze non manifeste se ne sono sempre credute (non necessariamente sono tutte esistite) ma in quanto pensate attraverso (denotate da) pensieri consapevolmente avvertiti nell' ambito della propria esperienza cosciente (e non: inconsciamente).


E i numeri naturali sono concetti stabiliti a posteriori per astrazione in seguito all' osservazione (e al conseguente ragionamento: attuazione di una mera facoltà o capacità potenziale innata –che in molti casi purtroppo non si attua mai: pargoli morti in tenera età- e non di conoscenze di già belle che confezionate a priori; questo per rispondere anche a Davintro) di gruppi variamente numerosi di oggetti simili.

CitazioneChiaramente le lingue, e le rispettive convenzioni, si sono modificate con i secoli, nessuna lingua è nata dalla sera alla mattina o ad opera di un solo uomo... per "convenzione" va inteso un "inventare artificiale" che diventa poi un "affermarsi socialmente"; se le lingue non fossero convenzioni, a cosa servirebbero i dizionari, le grammatiche, etc.?
I dizionari e le grammatiche fissano le lingue esistenti temporaneamente a mezzo di convenzioni, ma non è certo dai dizionari e dalle grammatiche che nascono le lingue. Ossia le lingue possono portare a convenzioni sull'uso dei termini, ma non viceversa. Non mi pare risulti a nessun antropologo che per cominciare a parlare una lingua si sia iniziato con il convenirne un dizionario, scritto o orale che fosse.

La prospettiva diacronica delle lingue sembra indicare il contrario: non c'è necessita del nominare qualcosa con un determinato segno o suono, semplicemente una comunità ha deciso di usare quella combinazione, altre una combinazione differente, ma non c'è nessuna "intrinseca necessità"(cit.) fra l'oggetto e la parola (salvo per le onomatopeiche), solo arbitrarietà convenzionale... 
CitazionePensa anche ai neologismi, che abbondano con il fiorire di nuove dimensioni (come quella attuale dell'informatica), che necessità c'è di chiamare alcune novità tecnologiche proprio con quel nome? Nessuna, semplicemente qualcuno le battezza così e gli altri "condividono" (in tutti i sensi  ;D ) quella parola...

CitazioneNon si è fatta una riunione ufficiale di un apposito "comitato di definizione dei concetti e assegnazione dei simboli verbali", ma spontaneamente, anche  senza pensarlo (senza pensare che lo si stava facendo, senza esserne autocoscienti), si è cominciato ad assegnare convenzionalmente (artificiosamente e di comune accordo) determinati simboli verbali a determinati concetti.

Citazione
Certo a posteriori posso dire che se chiamo quel colore con la parola rosso o red è sempre lo stesso colore e sicuramente è così, ma nessuna comunità fa questa scelta, cioè nessuna comunità si è mai trovata davanti a qualcosa di rosso e ha cominciato a discutere se chiamare quel colore rosso o red, mettendosi d'accordo magari per alzata di mano a maggioranza come suonava meglio. Anche perché se ci fosse mai stata questa discussione le parole avrebbero ben dovuto già esserci e dunque, di nuovo, come per i numeri, per avere le parole, ci vogliono delle parole!   

CitazioneCredo vada distinta la "scrittura" dal "gesto" (e penso lo faccia anche Derrida quando, vado a memoria, distingue il "segno" dal "fare-segno"...), altrimenti "scrivere" e "gesticolare" diventano sinonimi! Non ricordo bene, ma non scommetterei che il concetto di "archiscrittura" di Derrida, al netto di metafore e giochi linguistici, neghi che ci sia stato, come sottolineavo, un momento in cui l'uomo non scriveva ma comunicava solo oralmente...
Premesso che non conosco direttamente Derrida e quindi mi riferisco solo alla lezione di Sini che, per quanto ne so, potrebbe anche averlo interpretato male. Premesso che mi pare che lo scrivere nasce comunque come un gesto (anche se non direttamente rivolto all'interlocutore, ma rivolto all'interlocutore attraverso un mezzo che rende possibile una dilatazione del tempo tra espressione e ricevimento e forse questo è quello che distingue il gesto dello scrivere dal gesto del gesticolare). Non è di una scrittura umana che qui si parla, ma di una scrittura più originaria che nell'uomo si traduce in una ricerca di significati e quindi in suoni vocali, poi questa parola si può tradurre per l'uomo in una scrittura fonetica, come è accaduto in Occidente, ma non necessariamente in Oriente, ove la scrittura intende ancora richiamare direttamente proprio quella scrittura- segno originario e silente. Per questo, in Oriente, la scrittura viene prima della oralità e non è la semplice traduzione grafica di un suono. Questo mi pare si dica nella lezione di Sini.

CitazioneP:s. La convenzione, non la intenderei solo in modo accademico: ad esempio, come accennavo prima, molti neologismi nascono ed entrano nel vocabolario senza che ci sia un convegno di esperti, ma soltanto perché si innesca un "passaparola" fortuito e molto esteso: l'espressione "figlio dei fiori" (con tutti i riferimenti concettuali annessi) è ormai comprensibile a tutti, eppure non è sempre esistita, ma il suo successo sociale ne ha decretato la legittima appartenenza alla comunicazione (pur non sapendo, almeno io, chi sia stato il primo a coniare questa espressione).
Magari mi dirai che anche questa espressione esisteva da sempre, ma attendeva solo di manifestarsi, che "era ma non appariva", ma mi concederai che con questo presupposto di innatismo radicale, perdiamo ogni presa epistemologica sull'argomento, abbandoniamo la ricerca per "accomodarci" in una "fede metafisica" di cui tutto il '900 (con buona pace di Severino?) ci ha insegnato a dubitare...
Figurati, Severino è colui che vuole proprio mettere in dubbio le radici stesse della metafisica dell'Occidente che ritiene basata sulla pretesa assurda di un'assoluta e incontestabile evidenza del divenire. Ma tornando al tema, l'espressione "figlio dei fiori", certamente è apparsa a un certo punto come un composito fatto da espressioni che avevano già significato, è una combinazione di termini che si rivela nell'apparire di una certa figura umana che la richiama, per via metaforica. Tutti i linguaggi non sono altro fondamentalmente che metafore, ossia accoppiamenti tra enti diversi che si richiamano (si fanno segno) l'un l'altro, indipendentemente da qualsiasi scelta. I linguaggi sono sistemi di metafore non scelte, non eterne e tanto meno convenzionate.  
Citazione
 
A parte il mio radicale dissenso da Severino circa la realtà del divenire (che é altra questione), a me pare invece evidente che le lingue siano insiemi di simboli attribuiti a concetti, che accoppino enti (mentali) diversi (simboli e e significati, vocaboli e concetti) che si richiamano (si fanno segno) l'un l'altro (e non viceversa), per scelta arbitraria convenzionalmente condivisa.

Phil

Sgiombo non deve affatto scusarsi, così come chiunque altro voglia partecipare al dialogo... siamo qui per questo, no?  :)

@paul11
Mi sbilancerei nel sostenere che c'è più fertilità, futuribilità, nei discorsi epistemici degli "analitici" che nelle congetture metafisiche dei "continentali"... la vita come "codice" è una lettura, metaforica, che dà la ragione umana, ma come sempre, c'è il rischio di scambiare il significante che si legge con il significato, ovvero di pensare che la vita sia davvero un codice, mentre è solo il nostro modo di leggerla che la interpreta così (con tutti i rischi di fraintendimento che ogni interpretazione pone...).

@maral
Concordo pienamente con le considerazioni di sgiombo, quindi non voglio dilungarmi per fargli eco; aggiungerei alcune osservazioni:
Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AMla mia domanda introduceva un dubbio a quello che venivo dicendo io stesso, non tu, e, per risolvere il dubbio concludevo che la domanda non ha senso: non può apparire un luogo dove stanno gli essenti prima di apparire, se questo luogo apparisse sarebbero già apparsi. [...] Non è fede ciò che asserisce che ogni essente è, ma non ogni essente solo a un dato momento appare, lo constatiamo continuamente.
Se un essente è (uso il tuo linguaggio, ma condivido con sgiombo la differenza "ente vs essente"), il suo essere dovrebbe logicamente avere una sua "dimensione" (sia essa meta-fisica, inconscia, iperuranica o altro), poiché ciò che è ma non ha "luogo", è solo il nulla in quanto concetto nominato. E non credo si possa parlare, almeno in occidente, di "innatismo dal nulla"...
Quando parliamo del nulla parliamo di un concetto che non si riferisce a qualcosa di esistente in una dimensione, parliamo di qualcosa che non si manifesta, insomma parliamo esattamente di ciò che tu sembri definire come "innato ma non manifesto" riferendoti però a qualcosa che è prima di poter essere nominato... se il nulla è salvato dal paradosso ponendo la sua esistenza solo sul piano linguistico-concettuale, gli essenti innati di cui parli, essendo senza luogo e senza parola, non si salvano dall'aporia...
Per questo la domanda sul "dove", per gli innatisti, è uno scacco insormontabile (per i non-innatisti è invece un falso problema).
Sostenere che "qualcosa è, ma non è da nessuna parte fino a che non accade", non è una machiavellica perifrasi per dire "nasce" o, nel nostro caso, "viene inventato"? ;)

Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AMBè mi pare che di esistenze non manifeste ce ne siano sempre state tante nella storia dell'umanità (e sicuramente ce ne sono tuttora che forse si manifesteranno in futuro), senza che questo pregiudichi alcuna esperienza attendibile. 
Se qualcosa non si manifesta come possiamo essere coscienti della sua esistenza? E come possiamo averne "esperienza attendibile"? Il livello minimo della consapevolezza-di-esistenza presuppone che qualcuno percepisca qualcosa, fossero anche solo i suoni o i segni che rimandano ad altro-da-loro... ma credere che qualcosa esiste solo perché ha un nome ci porta sul piano (legittimo ma non epistemico) della "fede" e della "mistica"...

Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AMI dizionari e le grammatiche fissano le lingue esistenti temporaneamente a mezzo di convenzioni, ma non è certo dai dizionari e dalle grammatiche che nascono le lingue. Ossia le lingue possono portare a convenzioni sull'uso dei termini, ma non viceversa. Non mi pare risulti a nessun antropologo che per cominciare a parlare una lingua si sia iniziato con il convenirne un dizionario, scritto o orale che fosse. 
Ovviamente non riconosco nei dizionari il documento fondante di una lingua, ma solo un "indice" (in tutti i sensi!) di quanto la lingua sia "costruita" non "scoperta", al punto che è necessario archiviare la forma che si è deciso (senza necessità intrinseca) di condividere... 

Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AMnessuna comunità fa questa scelta, cioè nessuna comunità si è mai trovata davanti a qualcosa di rosso e ha cominciato a discutere se chiamare quel colore rosso o red, mettendosi d'accordo magari per alzata di mano a maggioranza come suonava meglio. Anche perché se ci fosse mai stata questa discussione le parole avrebbero ben dovuto già esserci e dunque, di nuovo, come per i numeri, per avere le parole, ci vogliono delle parole!
Sulla non accademicità e sui tempi lunghi della costituzione della lingua, avevo già puntato l'attenzione nel post precedente: che il processo sia lungo, spontaneo, non strutturato e non supervisionato, non implica che non ci sia invenzione (l'esempio dei neologismi mi sembra ancora calzante...). 
Se "per avere parole ci vogliono delle parole"(cit.), "per avere note musicali ci vogliono note musicali"? Lo sforzo è proprio quello di cercare di porsi prima cronologicamente dell'attuale ovvietà del "parlare con parole", o "suonare con le note"...

P.s. Su Severino mi dovrei documentare adeguatamente, ma forse (e magari prendo una grossa cantonata!) resta anche lui dentro una "fede metafisica", seppur parmenidea e non eraclitea...

anthonyi

In paul11 109 si faceva riferimento alla ripartizione Potteriana in tre mondi. Riflettendo sul terzo mondo, "contenuti oggettivi di pensiero", mi veniva da pensare che tale mondo in effetti sintetizza le realtà simboliche. Il simbolo, come oggetto fisico che esprime uno stato, una percezione interiore, non è né parte del mondo fisico, né di quello del pensiero. Le teorie scientifiche sono infatti strutture simboliche che esprimono un'intuizione, ma anche una serie di eventi fisici. Anche le opere d'arte possono essere considerate come simbolo espressivo di quell'emozionalità che l'artista cerca di trasmettere.


Paul11, in 126, diceva che la scelta dell'ambito di interpretazione semantico viene dalle motivazioni individuali, ma da dove vengono le motivazioni. Ad esempio nel caso dei bambini più creativi noi notiamo che loro ne hanno più bisogno perché sanno meno cose e hanno bisogno di costruire delle risposte. Lo stesso ragionamento si può fare per le mitologie antiche, si usava la fantasia per compensare un vuoto  di conoscenza, mentre oggi se ne ha meno bisogno.


Sulla questione dell'innatismo dei numeri riflettevo su una situazione per me tipica, cioè la sensazione di avere ancora una cosa da fare, tra quelle programmate, come se il cervello le contasse e, pur non ricordando cosa bisogna fare, sa che rimane una cosa da fare. Il discorso per me si associa a quella ricerca per la quale sembra che i pulcini abbiano una percezione istintiva del numero dei chicchi di mangime a terra, cioè in qualche modo li contano e organizzano i loro movimenti di conseguenza, o alle ricerche antropologiche su non ricordo quale tribù i cui componenti, pur non avendo concetti di numeri, si accorgevano perfettamente della mancanza di qualche capo di bestiame.
:-*  :-*  :-*

anthonyi

Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PM
io credo che in linea generale sia un errore far coincidere la concreta applicazione di un processo mentale con l'apprensione dei contenuti di tale processo. Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo "ex nihilo". Se così non fosse allora si potrebbe, utilizzando tecniche didattiche standard, insegnere a contare, leggere, scrivere, a qualunque essere vivente, indipendentemente dalla struttura interiore mentale del soggetto che si ha di fronte. In realtà nell'uomo (ma non con altri mammiferi, ora non sono uno zoologo e non so se con altri animali come le scimmie si sia arrivati a risultati soddisfcenti da far pensare ad analogie con l'uomo) le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano non con una tabula rasa, ma una mente predisposta ad accoglierla. Questa ovvietà  potrebbe far pensare ad una mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi. Una mera potenzialità astratta non potrebbe mai porsi come fattore concreto nella costituzione di alcunche, resterebbe una pura idea, e l'idea senza attualità reale, è solo una staticità che non può partecipare ad alcuna dinamica

Nel caso dei numeri, ipotizzo che la predisposizione umana alla quantificazione preuspponga un innata, o meglio originaria, apprensione intuitiva del significato intelligibile dei numeri, che però resta impossibilitata ad essere espressa linguisticamente fintanto che non trova dei segni sensibili per comunicarla, e in assenza di un linguaggio adeguato il bambino ripiegherebbe su concetti qualitativi, come giustamente osservato da Phil, "tanto", "poco". L'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)

Per quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo, che per essere adeguato alla nuova società, deve il più possibile essere descritto come realtà fluida e plasmabile da interventi esterni. Quanto più invece l'uomo viene visto come realtà avente in sè dei caratteri stabili e presenti indipendetemente dagli influssi dell'ambiente circostante, tanto più si pone un limite alla possibilità di maniplazione con cui un qualsivoglia potere intenda intervenire per modificare la natura umana in relazione ai suoi fini ideologici. Quindi entrambe le posizioni in campo posso essere viste come convenienti o sconvenienti in relazione alla natura ideologica di un approccio politico, senza che si debba vedere una delle due come un'illusione costruita ad hoc per certe istanze sociali

Io ho l'impressione che questa visione del rapporto tra innatismo e socialità, dipendente da una visione ideologica, sfugga a una domanda di verità di fondo. L'individuo sociale prende le idee da altri individui, tali idee o sono innate negli altri o sono socialmente determinate. Nel secondo caso il discorso diventa ciclico, solo nel primo abbiamo fatto un passo avanti e dobbiamo solo spiegare da dove vengono le idee che sono sempre in origine innate.

sgiombo

#142
Citazione di: anthonyi il 25 Settembre 2016, 13:46:16 PMSulla questione dell'innatismo dei numeri riflettevo su una situazione per me tipica, cioè la sensazione di avere ancora una cosa da fare, tra quelle programmate, come se il cervello le contasse e, pur non ricordando cosa bisogna fare, sa che rimane una cosa da fare. Il discorso per me si associa a quella ricerca per la quale sembra che i pulcini abbiano una percezione istintiva del numero dei chicchi di mangime a terra, cioè in qualche modo li contano e organizzano i loro movimenti di conseguenza, o alle ricerche antropologiche su non ricordo quale tribù i cui componenti, pur non avendo concetti di numeri, si accorgevano perfettamente della mancanza di qualche capo di bestiame.


CitazioneNon vedo che cosa ci sia di problematico nel notare la differenza fra un gruppo di tre vacche e uno di quattro vacche (e con un po' di pratica, di "allenamento" fra un gruppo di 47 e un gruppo di 48) senza avere nozione dei numeri, e dunque come la cosa possa puntellare la pretesa conoscenza innata dei numeri (e la conoscenza innata in generale).

Anche qualsiasi animale che sicuramente non possiede linguaggio e dunque non ha nozione (nè innata, né acquisita a posteriori) dei significati dei vocaboli "largo" e "stretto" sa distinguere benissimo un pertugio stretto in cui non può passare per ripararsi da un predatore da un pertugio largo che può offrirgli l' occasione di scappare al pericolo di essere divorato.
Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PM
io credo che in linea generale sia un errore far coincidere la concreta applicazione di un processo mentale con l'apprensione dei contenuti di tale processo. Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo "ex nihilo". Se così non fosse allora si potrebbe, utilizzando tecniche didattiche standard, insegnere a contare, leggere, scrivere, a qualunque essere vivente, indipendentemente dalla struttura interiore mentale del soggetto che si ha di fronte. In realtà nell'uomo (ma non con altri mammiferi, ora non sono uno zoologo e non so se con altri animali come le scimmie si sia arrivati a risultati soddisfcenti da far pensare ad analogie con l'uomo) le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano non con una tabula rasa, ma una mente predisposta ad accoglierla. Questa ovvietà  potrebbe far pensare ad una mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi. Una mera potenzialità astratta non potrebbe mai porsi come fattore concreto nella costituzione di alcunche, resterebbe una pura idea, e l'idea senza attualità reale, è solo una staticità che non può partecipare ad alcuna dinamica

Nel caso dei numeri, ipotizzo che la predisposizione umana alla quantificazione preuspponga un innata, o meglio originaria, apprensione intuitiva del significato intelligibile dei numeri, che però resta impossibilitata ad essere espressa linguisticamente fintanto che non trova dei segni sensibili per comunicarla, e in assenza di un linguaggio adeguato il bambino ripiegherebbe su concetti qualitativi, come giustamente osservato da Phil, "tanto", "poco". L'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)

Per quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo, che per essere adeguato alla nuova società, deve il più possibile essere descritto come realtà fluida e plasmabile da interventi esterni. Quanto più invece l'uomo viene visto come realtà avente in sè dei caratteri stabili e presenti indipendetemente dagli influssi dell'ambiente circostante, tanto più si pone un limite alla possibilità di maniplazione con cui un qualsivoglia potere intenda intervenire per modificare la natura umana in relazione ai suoi fini ideologici. Quindi entrambe le posizioni in campo posso essere viste come convenienti o sconvenienti in relazione alla natura ideologica di un approccio politico, senza che si debba vedere una delle due come un'illusione costruita ad hoc per certe istanze sociali

Io ho l'impressione che questa visione del rapporto tra innatismo e socialità, dipendente da una visione ideologica, sfugga a una domanda di verità di fondo. L'individuo sociale prende le idee da altri individui, tali idee o sono innate negli altri o sono socialmente determinate. Nel secondo caso il discorso diventa ciclico, solo nel primo abbiamo fatto un passo avanti e dobbiamo solo spiegare da dove vengono le idee che sono sempre in origine innate.

CitazioneChe l' uomo sia un animale sociale (e politico) e dunque di fatto l' apprendimento per lo meno della stragrande maggioranza dei concetti avviene "per insegnamento ricevuto" o "trasmissione culturale" (e non per "scoperta diretta") non mi sembra comporti alcun circolo vizioso (nè regressione all' infinito);  né tantomeno mi sembra che ciò imponga di credere all' innatismo dei concetti in coloro che per primi li hanno pensati e insegnati ad altri.

A Davintro:

Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo assolutamente "ex nihilo" (a mo di creazione divina) bensì dalle mere potenzialità comportamentali innate, attuate ("rese reali", da mere potenzialità che erano. nulla di attualmente reale) dall' occasione dell' esperienza.

Le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano, ma una mente predisposta ad accoglierla, molto ben illustrata dalla metafora della tabula rasa; la quale per essere "rasa", cioé non avere scritto nulla a priori, non é "il nulla": é fatta di un certo o di un cero altro materiale (lavagna, carta, vetro, metallo, marmo, ecc.) e ha determinate caratteristiche fisiche o determinate altre (é liscia, ruvida, grande, piccola, ecc.), dipendentemente dalle quali caratteriostiche può ricevere, comunque sempre necessariamente a posteriori un tipo di scrittura piuttosto che un altro tipo (vernice apposta da un pennello, segni realizzati con gesso, incisi con uno scalpello, vergati con inchiostro; anche molto estesi se sufficientemente grande oppure solo minuscoli se insufficientemente grande, ecc.; fuor di metafora: può imparare meglio grazie a questo o quel metodo didattico, preferibilmente questo genere di nozioni o quest' altro).

La potenzialità fintanto che resta tale non è un mero (assoluto) non-essere, bensì una "predisposizione" reale, che esercita determinati effetti (=attualizza determinate potenzialità) in seguito ad azioni provenienti dall'esterno (esperienza a posteriori); ovviamente qualora -se e quando- queste accadano realmente.
Non solo tutto ciò che è reale è attuale, lo sono anche "potenzialità" (per esempio la fragilità reale del vetro e non reale dell' acciaio): dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'a realtà originaria e interiore, la quale é limitata a mera "predisposizione", come quella ad essere scritta con inchiostro e non con uno scalpello che é propria di una tabula rasa di carta e non di marmo, che converge a posteriori con la causalità esteriore (l' esperienza sensibile) per produrre l' applicazione (non l' applicabilità, che c' è già prima) dei processi (di astrazione).
Una mera potenzialità reale può dunque ben porsi come fattore concreto
nella costituzione (attuazione) delle conseguenze della sua interazione causale (a posteriori) con un "opportuno" fattore ' esterno (nella fattispecie l' esperienza sensibile).
Ecco come
limitarsi ad ammettere una potenzialità (e nulla di attuale)innata equivale a spiegare tutto della conoscenza umana.


paul11

Citazione di: Phil il 25 Settembre 2016, 12:22:53 PM

@paul11
Mi sbilancerei nel sostenere che c'è più fertilità, futuribilità, nei discorsi epistemici degli "analitici" che nelle congetture metafisiche dei "continentali"... la vita come "codice" è una lettura, metaforica, che dà la ragione umana, ma come sempre, c'è il rischio di scambiare il significante che si legge con il significato, ovvero di pensare che la vita sia davvero un codice, mentre è solo il nostro modo di leggerla che la interpreta così (con tutti i rischi di fraintendimento che ogni interpretazione pone...).

Semmai cercano l'epistemico,,,,,ma non lo trovano....girano in giro.
Val la pena leggerli per riflettere, sono una buona lettura anche loro.

Continui a confondere forma e sostanza.Esiste o no il DNA?
Se lo manipolano biogeneticamente  e funziona ,un empirista come te non può metterlo in discussione.

Phil

Citazione di: paul11 il 25 Settembre 2016, 17:39:17 PMContinui a confondere forma e sostanza.
Non posso conoscere una sostanza senza una forma (o meglio, senza "formalizzarla", senza "informarla"), ma sono disposto ad ammettere che ci possa essere una sostanza a prescindere dalla forma... perché la formalizzazione è semplicemente il mio modo di rapportarmi al mondo, ma credo che essa non sia affatto necessaria per la sussistenza della sostanza del/nel mondo...

Citazione di: paul11 il 25 Settembre 2016, 17:39:17 PMEsiste o no il DNA?
Il DNA è sempre una definizione (linguistica-concettuale) umana, che ci consente di operare, magari ottenendo buoni risultati, ma da un punto di vista extra-umano (consentimi di cambiare faticosamente prospettiva per un attimo), il DNA non esiste, così come non esiste "il ramo" che taglio per ottenere "un bastone", sono solo discriminazioni percettive, identità-definizioni concettuali... gli enti esistono concettualmente solo se vengono definiti con identità linguistiche (simboli, segni, suoni...), ma questo è sempre e solo il nostro "sistema operativo" per interfacciarci con il reale, non è mai la realtà (ammettendo che esista), che scommetterei non è affatto linguistica (anche se noi possiamo ragionarci solo "linguistizzandola"...).

Citazione di: paul11 il 25 Settembre 2016, 17:39:17 PMun empirista come te non può metterlo in discussione.
Le "etichette" sono come i soprannomi, debbono darceli gli altri, non possiamo sceglierceli... ad esempio, personalmente, non mi vedo affatto "empirista", se proprio dovessi mettermi un "distintivo" (e perché mai?) preferirei piuttosto "relativista ermeneuta zen", ma capisco che non è affatto esplicito e funzionale  ;D

davintro

Concordo sull'osservazione di Anthony sul fatto che ricondurre la formazione di idee alla "società" non può essere fattore di un totale superamento della diatriba innatismo-antiinnatismo, a meno di pensare alla "società" come un qualcosa di totalmente astratto e separato dagli uomini che la creano, una struttura che sembra quasi scendere da un altro pianeta ad influenzare la mente delle persone, senza che queste possano avere alcun ruolo attivo nell'essere di tale struttura. Nelle posizioni estreme di tale posizione si cade in certe derive quasi paranoide, l'idea che tutto ciò che pensiamo e facciamo in fondo non abbia nulla a che fare con la nostra soggettività (che sarebbe vuota passività), ma sia solo frutto di un'influenza di qualche entità esteriore che ci manipola togliendoci di fatto il libero e la responsabilità l'idea che siamo tutte marionette mosse da un misterioso burattinaio, la società. Considerando la società invece come un fatto, una produzione umana, allora mi pare evidente che ciò che proviene dalla società dovrebbe avere comunque la sua origine nell'uomo, e la ricerca dell'origine ricade nella ciclicità di due termini "uomo" e "società" nella quale nessuno dei due sembra potersi porre come fondativo dell'altro e dove il dibattito pro-contro l'innatismo sembra protrarsi all'infinito



restando alla metafora del foglio bianco che seppur tabula rasa è predisposto a lasciarsi scrivere, occorrerebbe rendere ragione ciò che ha prodotto la "predisposizione" del foglio a permettere di essere usato per scrivere, la sua potenzialità di porsi come materia per un certo tipo di segnatura. A questo punto la domanda è "cosa ha fatto sì che il foglio sia predisposto a poterci scrivere sopra?" fuor di metafora "cosa rende la mente umana, a differenza della mente di un altro animale a poter essere sviluppata in vista di certe funzionalità?". Il foglio è statto progettato, immagino, per il fine di essere usato come carta per scrivere, quindi potremmo dire che il foglio possiede una sua"innatezza", una sua "originarietà"che corrisponde al progetto ideale con cui è stato fabbricato nella mente dell'artigiano o del progettatore industriale, e nel caso della mente umana occorre chiederci quale sia la causa ragion d'essere del suo essere predisposta così come è, con tutte le sue funzionalità.  Nel momento in cui tale ragion d'essere viene ricondotta a  qualunque processo mentale (compresa l'astrazione, o la didattica) che a sua volta è resa possibile dalla predisposizione stessa, si cade, come avevo già fatto notare, in una sorta di circolo vizioso per cui ciò che devo spiegare (la predisposizione) è tra le ragioni d'essere di ciò che dovrebbe spiegare (tutti i processi mentali che presuppongono tale predisposizione). Se è vero che la potenzialità non è un mero non-essere, ma una condizione necessaria per giustificare qualunque darsi di un evento (il mio camminare sarebbe inspiegabile senza la mia potenzialità di camminare), è anche vero che un essere che ha la potenzialità di svolgere una funzione o contribuire al realizzarsi di un fenomeno, questa potenzialità ce l'ha come conseguenza di qualcosa che potenziale non è, ma attuale e reale, una causalità concretamente agente che interviene sull'essere in questione dandogli una serie limitata di potenzialità. La fragilità del vetro dà al vetro la potenzialità di essere infranto, ma questa potenzialità è la conseguenza della attuale, non potenziale, struttura del vetro, i suoi legami fisici, chimici concretamente reali, così come la predisposizione innata della mente è la conseguenza di una causalità agente che fà sì che la mente sia predisposta a delle funzioni e non ad altre

sgiombo

Citazione di: davintro il 26 Settembre 2016, 01:32:29 AM
restando alla metafora del foglio bianco che seppur tabula rasa è predisposto a lasciarsi scrivere, occorrerebbe rendere ragione ciò che ha prodotto la "predisposizione" del foglio a permettere di essere usato per scrivere, la sua potenzialità di porsi come materia per un certo tipo di segnatura. A questo punto la domanda è "cosa ha fatto sì che il foglio sia predisposto a poterci scrivere sopra?" fuor di metafora "cosa rende la mente umana, a differenza della mente di un altro animale a poter essere sviluppata in vista di certe funzionalità?". Il foglio è statto progettato, immagino, per il fine di essere usato come carta per scrivere, quindi potremmo dire che il foglio possiede una sua"innatezza", una sua "originarietà"che corrisponde al progetto ideale con cui è stato fabbricato nella mente dell'artigiano o del progettatore industriale, e nel caso della mente umana occorre chiederci quale sia la causa ragion d'essere del suo essere predisposta così come è, con tutte le sue funzionalità.  Nel momento in cui tale ragion d'essere viene ricondotta a  qualunque processo mentale (compresa l'astrazione, o la didattica) che a sua volta è resa possibile dalla predisposizione stessa, si cade, come avevo già fatto notare, in una sorta di circolo vizioso per cui ciò che devo spiegare (la predisposizione) è tra le ragioni d'essere di ciò che dovrebbe spiegare (tutti i processi mentali che presuppongono tale predisposizione). Se è vero che la potenzialità non è un mero non-essere, ma una condizione necessaria per giustificare qualunque darsi di un evento (il mio camminare sarebbe inspiegabile senza la mia potenzialità di camminare), è anche vero che un essere che ha la potenzialità di svolgere una funzione o contribuire al realizzarsi di un fenomeno, questa potenzialità ce l'ha come conseguenza di qualcosa che potenziale non è, ma attuale e reale, una causalità concretamente agente che interviene sull'essere in questione dandogli una serie limitata di potenzialità. La fragilità del vetro dà al vetro la potenzialità di essere infranto, ma questa potenzialità è la conseguenza della attuale, non potenziale, struttura del vetro, i suoi legami fisici, chimici concretamente reali, così come la predisposizione innata della mente è la conseguenza di una causalità agente che fà sì che la mente sia predisposta a delle funzioni e non ad altre

Rilevato che la questione qui posta é diversa da quella filosofica (gnoseologica o epistemologica) della natura a priori o a posteriori, innata o acquisita della conoscenza), trovo ad essa una risposta scientifica: la selezione naturale per mutazioni genetiche causali e selezione naturale.

Le predisposizioni innate della mente sono conseguenza del divenire della mente correlato al divenire del cevello, il quale è la conseguenza di una causalità agente costituita dall' evoluzione biologica (nessun processo mentale reso possibile dalla predisposizione stessa, dunque nessun circolo vizioso!); questa causalità agente ha fatto sì che il cervello umano funzioni in un certo modo; e non conseguentemente al suo funzionamento ma comunque "correlatamente" ad esso funziona la mente umana, esplicando in seguito all' esperienza (che ne determina l' attuazione) le sue potenzialità conoscitive.

maral

Citazione di: sgiombo il 25 Settembre 2016, 10:10:21 AM
Ma se usiamo quelli a me comprensibili di "cosa reale" (indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato, dall' essere inoltre oggetto di pensiero, eventualmente di conoscenza vera) e "concetto pensato" (reale unicamente in quanto pensato; anche se può esistere -o meno- pure una "cosa reale" da esso denotata), allora non mi sembra che non abbia obiettato efficacemente a Phil: gli enti reali esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero, come dimostra l' esempio di "inflazione" intesa come concetto economico (che sul vocabolario ha una definizione diversa, pur sotto lo stesso lemma, di "inflazione" in senso fisico: per lo meno il primo concetto (l' aumento del denaro in circolazione e dei prezzi) con tutta evidenza non è innato, sempre esistito "inconsciamente" nella mente degli uomini in attesa che qualcuno lo conoscesse a priori: è stato "confezionato" dopo che qualcuno ha studiato l' economia capitalistica, e la parola che lo simboleggia é stata adottata da tutti i parlanti convenzionalmente. Se l' umanità si fosse estinta all' età della pietra nessuno avrebbe mai saputo a priori che cosa significa "inflazione" in senso economico.
Sgiombo se parliamo di "cose reali" filosoficamente complichiamo enormemente la faccenda rispetto al termine elementare di essente. Perché la realtà non è semplicemente data, ma si dà a ciascuno nelle sue rappresentazioni e stabilire un senso universalmente valido di questo darsi è impossibile. Richiamo ancora un passo da "Autopoiesi e cognizione" che, lo si condivida o meno, trovo interessante da proporre alla riflessione:
"Dato che la logica della descrizione è la stessa logica del sistema descrivente, possiamo asserire il bisogno epistemologico di un substrato perché avvengano le interazioni, ma non possiamo caratterizzare questo substrato in termini di proprietà indipendenti dall'osservatore. Ne segue che la realtà come un universo di entità indipendenti delle quali possiamo parlare è necessariamente una finzione del dominio puramente descrittivo, e che noi dovremmo infatti applicare la nozione di realtà proprio a questo dominio di descrizioni col quale noi, il sistema descrivente, interagiamo con le nostre descrizioni come se fossero entità indipendenti, dunque la domanda su cosa sia l'oggetto della conoscenza" perde di ogni significato: non vi è alcun oggetto di conoscenza, fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa (p.104).
A proposito del concetto di inflazione, che mi assicuri si riferisca originariamente al denaro (anche se io ne dubito), faccio notare che anche "denaro" è un concetto ed esiste solo come tale, dunque inflazione sarebbe un concetto applicato a un altro concetto, lo stesso vale per "tanto" e per "poco", anche loro concetti, come lo sono i numeri. "Tanto" e "poco" sono termini che risuonano più imprecisi rispetto ad esempio a "125307" o "2", ma non per questo meno astratti. Tanto e poco, come i numeri, si riferiscono a insiemi di oggetti distinguibili considerati astrattamente insieme, ma pure "insieme" e "distinguibile" sono concetti. Quindi è sempre tra concetti che ci si muove e non trovo che ci siano ragioni per fissarne una tipologia più "realistica" rispetto a un'altra, o, se ci fosse, bisognerebbe spiegare perché... ma per  spiegarlo bisognerebbe ancora ricorrere a concetti, quindi la faccenda non si risolverebbe mai.
Citazione di: Phil il 25 Settembre 2016, 12:22:53 PM
Se un essente è (uso il tuo linguaggio, ma condivido con sgiombo la differenza "ente vs essente"), il suo essere dovrebbe logicamente avere una sua "dimensione" (sia essa meta-fisica, inconscia, iperuranica o altro), poiché ciò che è ma non ha "luogo", è solo il nulla in quanto concetto nominato. E non credo si possa parlare, almeno in occidente, di "innatismo dal nulla"...
Perfettamente d'accordo, nemmeno io sostengo l'innatismo dal nulla (e per questo nego che si inventi alcunché, se inventare è costruire gli enti dal loro nulla originario). Quello che nego è che il luogo dell'ente nascosto appaia, in quanto il luogo dell'ente (e lo stesso luogo in cui andarlo a cercare) è determinato dal suo apparire cosicché scopro l'ente insieme al luogo ove ha luogo, non quindi come essente, ma come esistente, ossia non in sé, ma per me.  Prima l'ente non aveva luogo perché, pure essendo, non era per me (o per noi se lo condividiamo). Ma se l'ente non ha luogo, non sono propriamente nemmeno io a scoprirlo nel luogo, ma è esso a scoprire me che ho un luogo in cui poter essere scoperto e scoprendo me scopre se stesso.   
Citazione di: sgiombo il 25 Settembre 2016, 10:10:21 AMMa i gruppi di cose simili diversamente numerosi  (tre mele o tre pere, sette colli o sette laghi, dieci dita delle mani o dieci dita dei piedi, ecc.), esistevano prima dell' invenzione per astrazione da essi dei numeri naturali e della matematica.
E i rispettivi concetti astratti (i numeri naturali) esistono a posteriori, previa astrazione e non priori, nelle menti di chi li pensa.
Ma il problema è esattamente il medesimo: per dire che tre mele o sette colli esistevano prima di 3 e 7, occorre che 3 e 7 esistano; per contare fino a 3 e fino a 7 occorre che quei concetti esistano prima di contare e quindi non è che contando si arriva a definire il numero, ma contando facciamo esperienza del numero e quindi esso si mostra, ha luogo e ha luogo nel nostro contare.
Esattamente come per convenire sul significato delle parole è necessario che le parole ci siano, ossia è necessario che ci sia già un linguaggio comunicativo che abbia dei segni fonetici o gestuali che di fatto sono già parole.
Mi fermo qui per evitare di estendere troppo il discorso o dargli una vena eccessivamente polemica che nuocerebbe alla comprensione effettiva della questione.


sgiombo

Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AM
Citazione di: sgiombo il 25 Settembre 2016, 10:10:21 AM
Sgiombo:
Ma se usiamo quelli a me comprensibili di "cosa reale" (indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato, dall' essere inoltre oggetto di pensiero, eventualmente di conoscenza vera) e "concetto pensato" (reale unicamente in quanto pensato; anche se può esistere -o meno- pure una "cosa reale" da esso denotata), allora non mi sembra che non abbia obiettato efficacemente a Phil: gli enti reali esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero, come dimostra l' esempio di "inflazione" intesa come concetto economico (che sul vocabolario ha una definizione diversa, pur sotto lo stesso lemma, di "inflazione" in senso fisico: per lo meno il primo concetto (l' aumento del denaro in circolazione e dei prezzi) con tutta evidenza non è innato, sempre esistito "inconsciamente" nella mente degli uomini in attesa che qualcuno lo conoscesse a priori: è stato "confezionato" dopo che qualcuno ha studiato l' economia capitalistica, e la parola che lo simboleggia é stata adottata da tutti i parlanti convenzionalmente. Se l' umanità si fosse estinta all' età della pietra nessuno avrebbe mai saputo a priori che cosa significa "inflazione" in senso economico.

MARAL:
Sgiombo se parliamo di "cose reali" filosoficamente complichiamo enormemente la faccenda rispetto al termine elementare di essente. Perché la realtà non è semplicemente data, ma si dà a ciascuno nelle sue rappresentazioni e stabilire un senso universalmente valido di questo darsi è impossibile. Richiamo ancora un passo da "Autopoiesi e cognizione" che, lo si condivida o meno, trovo interessante da proporre alla riflessione:
"Dato che la logica della descrizione è la stessa logica del sistema descrivente, possiamo asserire il bisogno epistemologico di un substrato perché avvengano le interazioni,ma non possiamo caratterizzare questo substrato in termini di proprietà indipendenti dall'osservatoreNe segue che la realtà come un universo di entità indipendenti delle quali possiamo parlare è necessariamente una finzione del dominio puramente descrittivo, e che noi dovremmo infatti applicare la nozione di realtà proprio a questo dominio di descrizioni col quale noi, il sistema descrivente, interagiamo con le nostre descrizioni come se fossero entità indipendenti, dunque la domanda su cosa sia l'oggetto della conoscenza" perde di ogni significato: non vi è alcun oggetto di conoscenza, fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa (p.104). 


CitazioneSgiombo:
Maturana e Varela dovrebbero però, prima di affermare che la conoscenza è indipendente dall' osservatore, dimostrare che oltre alla realtà di quanto percepito fenomenicamente esiste anche un' osservatore (evidentemente dai fenomeni percepiti diverso, trattandosi di un' ulteriore ente reale oltre ad essi).

Ma poiché sostengono che non vi è alcun oggetto di conoscenza, non vedo come possano poi (immediatamente di seguito, a mo di conseguenza!) affermare che fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa: di quale "situazione individuale o cooperativa" e di quale "capacità di operare adeguatamente" parlano, se non vi è alcun oggetto di conoscenza (dunque nemmeno è conoscibile –oggetto di conoscenza- alcuna "situazione individuale o cooperativa" né alcun "operatore più o meno adeguato ad essa")?
Se invece intendessero dire (non li ho letti, e trovo oscura la tua citazione, che forse potrebbe essere intesa in questo senso) che ciò che può essere conosciuto è unicamente costituito da sensazioni o insiemi di sensazioni, fenomeni e non "realtà in sé o noumeno sarei perfettamente d' accordo.
 
Ma ciò non toglie che gli enti reali conoscibili e conosciuti (fenomenici, certo!) esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero (percepiti mentalmente come ulteriori fenomeni "cogitans"), e dall' eventuale accadere della loro conoscenza, che avviene a posteriori (se e quando pure avviene), dopo che gli enti reali fenomenici (costituiti da sensazioni: "esse est percipi"!) sono appunto percepiti o sentiti -ovvero appaiono, accadono come fenomeni- e non apriori; in particolare la conoscenza di concetti astratti come "inflazione" (in senso fisico; e in senso economico a maggior ragione), che vengono ricavati dall' astrazione di caratteristiche comuni a più enti o eventi (ovviamente fenomenici) particolari e concreti (nel caso di "inflazione da più processi concreti di rigonfiamento come il lievitare del pane, il gonfiarsi di un palloncino in cui si soffia, il dilatarsi di una bolla di sapone con cui gioca un bambino, il riempirsi di un sacco di farina, il crescere della pancia di una donna incinta, ecc.).

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MARAL:
A proposito del concetto di inflazione, che mi assicuri si riferisca originariamente al denaro (anche se io ne dubito), faccio notare che anche "denaro" è un concetto ed esiste solo come tale, dunque inflazione sarebbe un concetto applicato a un altro concetto, lo stesso vale per "tanto" e per "poco", anche loro concetti, come lo sono i numeri. "Tanto" e "poco" sono termini che risuonano più imprecisi rispetto ad esempio a "125307" o "2", ma non per questo meno astratti. Tanto e poco, come i numeri, si riferiscono a insiemi di oggetti distinguibili considerati astrattamente insieme, ma pure "insieme" e "distinguibile" sono concetti. Quindi è sempre tra concetti che ci si muove e non trovo che ci siano ragioni per fissarne una tipologia più "realistica" rispetto a un'altra, o, se ci fosse, bisognerebbe spiegare perché... ma per  spiegarlo bisognerebbe ancora ricorrere a concetti, quindi la faccenda non si risolverebbe mai. 


CitazioneSgiombo:
Veramente non ti ho assicurato che sia primitivo il concetto di "inflazione" in senso economico e derivato quello in senso fisico, dato che mi pare evidentissimo il contrario!

 
Che "tanto" e "poco", "insieme" e "distinzione" siano concetti astratti mi pare ovvio.
Così come che linguisticamente si ragiona "per concetti", mettendo in determinate relazioni concetti (più meno astratti).
Ma non vedo come queste ovvie considerazioni possano servire come argomenti a sostegno del preteso carattere innato a priori e non acquisito a posteriori, per esperienza (e ragionamenti sull' esperienza) delle conoscenze (in generale e dei concetti astratti in particolare).
 

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Citazione da: sgiombo - 25 Settembre 2016, 10:10:21 am
CitazioneMa i gruppi di cose simili diversamente numerosi  (tre mele o tre pere, sette colli o sette laghi, dieci dita delle mani o dieci dita dei piedi, ecc.), esistevano prima dell' invenzione per astrazione da essi dei numeri naturali e della matematica.
E i rispettivi concetti astratti (i numeri naturali) esistono a posteriori, previa astrazione e non priori, nelle menti di chi li pensa.

MARAL:
Ma il problema è esattamente il medesimo: per dire che tre mele o sette colli esistevano prima di 3 e 7, occorre che 3 e 7 esistano; per contare fino a 3 e fino a 7 occorre che quei concetti esistano prima di contare e quindi non è che contando si arriva a definire il numero, ma contando facciamo esperienza del numero e quindi esso si mostra, ha luogo e ha luogo nel nostro contare. 

Esattamente come per convenire sul significato delle parole è necessario che le parole ci siano, ossia è necessario che ci sia già un linguaggio comunicativo che abbia dei segni fonetici o gestuali che di fatto sono già parole.
Mi fermo qui per evitare di estendere troppo il discorso o dargli una vena eccessivamente polemica che nuocerebbe alla comprensione effettiva della questione.
CitazioneSgiombo:
Per dire che tre mele o sette colli esistevano ovviamente (si tratta di una tautologia!) occorre che esistano, nel bagaglio delle conoscenze di chi lo dice, i concetti di "3" e "7"; così come per contare occorre conoscere i numeri naturali.

Ma le cose reali, per esempio quelle costituite dalle tre mele o dai sette colli, esistono prima dei concetti astratti dei numeri "3" e "7" che eventualmente le denotassero: i sette colli su cui è sorta Roma esistevano anche quando nessun uomo li aveva visti e men che meno contati, anche prima che chiunque pensasse il concetto astratto del numero 7; e sarebbero esistiti anche se nessuno avesse mai saputo (men che meno a priori) della loro esistenza.

Pure un' ovvia tautologia mi pare l' affermazione che contando abbiamo sensazione dei numeri che pronunciamo, scriviamo, oppure pensiamo mentalmente contando.
Che oggi per convenire sul significato delle parole sia necessario che le parole ci siano (altrimenti del significato di che si converrebbe?), e che di fatto oggi ci sia già un linguaggio comunicativo non dimostra che il linguaggio, se non come mera potenzialità, sia sempre esistito.

So bene che Chomsky sostiene essere il linguaggio innato, ma amicus Chomsky, sed magis amica veritas (detto meno pomposamente: la sua autorità non basta a convincermi)

Phil

#149
Provo a riordinare alcuni pezzi (e le idee...).

Per quanto riguarda
Citazione di: davintro il 26 Settembre 2016, 01:32:29 AMun essere che ha la potenzialità di svolgere una funzione o contribuire al realizzarsi di un fenomeno, questa potenzialità ce l'ha come conseguenza di qualcosa che potenziale non è, ma attuale e reale, una causalità concretamente agente che interviene sull'essere in questione dandogli una serie limitata di potenzialità.
essendomi già sbilanciato
Citazione di: Phil il 23 Settembre 2016, 22:39:59 PMDa profano, credo che questa attualità in cui risiede "realmente" la potenzialità della matematica, del linguaggio e della conoscenza in generale, sia una attualità di tipo fisiologico (neurologico? genetico? ancora da scoprire?). Potrebbe essere un tipo di predisposizione biologica
non posso che concordare con sgiombo, anche se probabilmente abbiamo una definizione differente di "mente" (per me è "l'insieme sistemico dei processi cerebrali di pensiero", ma non voglio innestare un discorso off topic già affrontato altrove).

Sui concetti:
Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AMè sempre tra concetti che ci si muove e non trovo che ci siano ragioni per fissarne una tipologia più "realistica" rispetto a un'altra, o, se ci fosse, bisognerebbe spiegare perché... ma per spiegarlo bisognerebbe ancora ricorrere a concetti, quindi la faccenda non si risolverebbe mai.
Mi sembra sia invece proprio la distinzione fra tipi o classi di concetti che rende possibile il ragionare e la conoscenza (su cui condivido il "prospettivismo" della citazione): dire "tanto" è molto più impreciso di dire "10", per cui sono concetti gerarchicamente differenti per affidabilità e precisione (a anche la rispettiva "astrazione" è differente per rigore), così come il concetto di "mio padre" e quello di "mio angelo custode" non sono qualitativamente accostabili perché uno dei due è ancorato alla percezione, alla comunicazione diretta, etc. mentre l'altro è una suggestione o una fede (quindi non sperimentata).
La scala che va dalla percezione/sensazione all'astrazione più sognante è fatta di pioli molto differenti fra loro, sia per utilità che per "solidità" (chi sta troppo in basso non vede molto, chi sta troppo in alto rischia di avere le vertigini e di cadere  :) )

Sull'innatismo:
Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AMnego che si inventi alcunché, se inventare è costruire gli enti dal loro nulla originario
Indubbiamente si inventa sempre partendo da ciò che si ha a disposizione, avevo già premesso che l'invenzione non è ex nihilo...

Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AM Quello che nego è che il luogo dell'ente nascosto appaia, in quanto il luogo dell'ente (e lo stesso luogo in cui andarlo a cercare) è determinato dal suo apparire cosicché scopro l'ente insieme al luogo ove ha luogo, non quindi come essente, ma come esistente, ossia non in sé, ma per me.
Credo che (escludendo iperuranio, inconscio, mondi paralleli, volere divino, etc.) resti aperta la domanda:
Citazione di: Phil il 25 Settembre 2016, 12:22:53 PMSostenere che "qualcosa è, ma non è da nessuna parte fino a che non accade", non è una machiavellica perifrasi per dire "nasce" o, nel nostro caso, "viene inventato"?

Domanda non risolta dalla congettura
Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AM Prima l'ente non aveva luogo perché, pure essendo, non era per me (o per noi se lo condividiamo).
Se non possiamo parlare di "fede metafisica" (giusto?), come possiamo affermare che "l'essente/ente era già, ma solo non era ancora localizzato", ovvero:
Citazione di: Phil il 25 Settembre 2016, 12:22:53 PMSe qualcosa non si manifesta come possiamo essere coscienti della sua esistenza?
Prima di questa manifestazione, fosse anche solo linguistica, se non è "fede metafisica" quella che ci spinge a dire "eppure già esisteva...", in base a cosa possiamo affermarlo? Se qualcosa non ha ancora un nome e non è in un luogo (o meta-luogo "virtuale"), come possiamo, al suo apparire, supporre retroattivamente che esistesse già da prima?


Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AMnon è che contando si arriva a definire il numero, ma contando facciamo esperienza del numero e quindi esso si mostra, ha luogo e ha luogo nel nostro contare. Esattamente come per convenire sul significato delle parole è necessario che le parole ci siano, ossia è necessario che ci sia già un linguaggio comunicativo che abbia dei segni fonetici o gestuali che di fatto sono già parole.
Come suggerivo: le note hanno senso solo nello spartito, ma lo spartito ha senso solo se contiene note... si scrive musica da sempre oppure partendo dal "modulare la voce" qualcuno ha inventato note e spartito?

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