conoscenza e critica della conoscenza

Aperto da davintro, 15 Agosto 2016, 18:26:43 PM

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maral

Citazione di: Phil il 19 Settembre 2016, 22:57:46 PM
Nel caso specifico dei numeri (e quindi della matematica), il circolo vizioso fra "l'esperienza produce numeri per astrazione" e "i numeri consentono di contare nell'esperienza", circolo dal quale ci sembra non poter uscire, può dissolversi chiedendoci come ci siamo entrati... i numeri non sono innati, sono un'invenzione (non una scoperta), per cui mi pare legittimo che qualcuno, o alcuni, in un epoca pre-matematica, abbiano un giorno convenzionalmente definito i numeri, rendendo possibile il contare. Basandosi su un'esperienza non-numerica, codesti "fondatori della matematica" hanno stabilito la definizione dei numeri, che quindi sono nati da un'astrazione convenzionalizzata di esperienze vaghe (del tipo "tanto"/"poco").
La genealogia del numero dimostra che il rapporto tra calcolo astratto e calcolo empirico non è paradossale: è l'empirico (quantità vaga) che ha fondato l'astratto (numero esatto). Non a caso, talvolta l'astrazione ha dato origine a molteplici sistemi di misurazione (basti pensare alle diverse unità di misurazione per la lunghezza: centimetri vs pollici, entrambe basate sui numeri ma applicati con quantità differenti).

P.s. La considerazione di un atto fondativo, dell'irruzione del nuovo, è ciò che spesso risolve molti circoli viziosi...
Non è affatto un circolo vizioso, al contrario, è l'unica ipotesi ("Abelardica") che può risolvere la questione, giacché il tuo discorso, esattamente come quello di chi sostiene l'opinione opposta, non ha da solo fondamento e quindi la diatriba si presenterà eternamente irrisolvibile come tra gusti contrapposti. Non ha fondamento (pur essendo giusto nella sua affermazione) perché non è comunque possibile numerare le cose senza che ci sia l'idea di numero e questo vale in generale anche per il linguaggio (in fondo anche quello matematico è un linguaggio) in cui non è possibile avere significanti senza significati o viceversa, sono gli uni significanti e significati degli altri, sempre uniti nel loro intreccio originariamente connotativo e non denotativo.
Quando qualcuno definisce un numero (ad esempio come ha fatto Russell in "Principi della matematica") non inventa il numero partendo da qualcosa che non esiste se non nella sua testa o che è altro dal numero, ma appunto semplicemente definisce qualcosa che già c'è e che non è la pura numerazione empirica, se non ci fosse non si sarebbe mai arrivati a numerare empiricamente nulla (come se non ci fosse il rosso non vedremmo mai cose rosse). Dunque il numero non è semplicemente l'effetto dell'esperienza numerante, perché per poter numerare deve già esserci il numero e l'esperienza della numerazione è invece la descrizione del numero, per cui nella numerazione il numero può apparire e quindi essere definito.
Tra l'altro, come ho scritto sopra, il numero come totalità definita di una pluralità è pure percepibile, senza bisogno di contare: il genio autistico che immediatamente ti sa dire quante sono le carte di un mazzo sparpagliato a terra, coglie immediatamente ed esattamente l'entità numerica totale di quelle carte senza contarle, dunque percepisce immediatamente e concretamente il numero come tale, mentre se gli chiedi di fare un'addizione anche semplice può non esserne capace.

CitazioneSe l'idea gli fosse venuta mentre cucinava parleremmo forse di rapporto fra relatività e arte culinaria? O, se stava giocando a calcio, fra relatività e sport?
Se così fosse stato non troverei per nulla sconveniente parlarne, magari ci aiuterebbe pure a capire meglio la relatività. Di sicuro Einstein ne avrebbe parlato.


Citazione
Direi che la "bellezza" della relatività non è affatto estetica, nel vero senso serio del termine... la filosofia di Nietzsche, ad esempio, non è "bella", ma può esser bello lo stile figurato e ardente con cui è stata scritta; così una teoria scientifica può avere "belle" conseguenze o "belle" formule, ma non si parla del "bello" estetico (un po' come quando, nel linguaggio parlato, si dice una "bella sorpresa", non si allude all'estetica...).
Penso invece che possa essere "bella" anche una filosofia, e non in relazione allo stile usato per esprimerla, ma ad esempio alla pregnanza dei suoi significati interconnessi. Certo, la bellezza di una teoria scientifica è diversa da quella di un quadro o di un brano musicale, eppure è sempre legata al significato, alla possibilità di arrivare ad esempio a una formula semplice in cui si trovano condensati in modo appropriato, non banale e  sorprendente un gran numero di aspetti fisici. Ma forse è soprattutto la matematica che può mostrare, a chi sa coglierlo, un valore estetico che va ben al di là della sua utilità. 

davintro

#121
L'astrazione consente di generalizzare, di rendersi conto di proprietà comuni a una molteplicità di enti esperiti, ma non può scoprire queste proprietà, nuove qualità delle cose, le nuove qualità sono sempre apprese con intuizioni orginarie, ed ogni differenza qualitativa tra un ente e un altro presuppone una nuova specie di intuizione. I numeri sono concetti a cui attribuiamo un significato ben distinto da quelli di "tanto" e "poco", anche perchè i numeri sono concetti che utilizziamo per formulare giudizi oggettivi, mentre "tanto" e "poco" sono  concetti corrispondenti a stati psicologici soggettivi, qualcosa è tanto o poco in relazione alle mie aspettative soggettive, ma non posso pretendere in alcun modo che una quantità sia oggettivamente tanta o poca. La modalità di rapporto col mondo che intraprendo quando dico che "ci sono tanti alberi di fronte a me" non è la stessa di quando dico "ci sono 20 alberi di fronte a me".  La prima modalità è estetica-psicologica, di fatto esprimo uno stato d'animo soggettivo seppur legato a una visione di un mondo esterno che me l'ha suscitato, la seconda modalità è scientifica-teoretica, esprimo il giudizio su uno stato di cose oggettivo, valido per tutti, una quantità. Queste due modalità, estetico-soggettiva e scientifica-oggettivante sono tra loro distinte, ognuna può in linea teorica essere percorsa a prescindere dall'altra, quando sono nella prima modalità non sono nella seconda e vicecersa. Ora, l'astrazione è un'attività della mente diretta a uno scopo, cioè è interna ad una stessa forma di relazione coscienza-mondo all'interno della quale quello scopo assume un senso, lo scopo è la formazione dei concetti, il mezzo per giungere a ciò è l'apprensione di dati comuni dell'esperienza. E dunque non ha senso che l'astrazione sia il passaggio tra una modalità e l'altra di rapporto col mondo, perchè nessuna delle due è subordinata e strumentale all'altra. La modalità per cui utilizzo le categorie "tanto"  e "poco" non è strumentale a quella per cui utilizzo numeri e quaindi non c'è alcuna ragione per cui le categorie estetiche "tanto" e poco" siano mezzi per arrivare a concepire "numeri" e viceversa, appartengono a "regioni dell'essere" distinte fra loro e quindi ricavate con forme di apprensioni intuitive distinte, senza necessità di un processo mentale che le colleghi. Quando uso il concetto di "tanto" non mi servono i numeri, quando calcolo non mi serve il concetto di "tanto" (anzi in certi casi è un impiccio soggettivo "sentimentale" che mi distrae dall'oggettività impersonale che la tecnica di calcolo richiede). L'astrazione è un processo mentale valido per attribuire un contenuto sensibile in modo convenzionale a una forma concettuale che altrimenti sarebbe vuota e astratta, ricava concetti dall'esperienza, ma non può far derivare un concetto da un altro concetto, perchè altrimenti il nuovo concetto sarebbe ricavato per via puramente dialettica e speculativa, e mancherebbe il riferimento a un' apprensione passiva dell'esperienza, che è la base dell'astrazione stessa. Per ogni concetto cioè occorre cioè una base intuitiva, che sarà di tipi sensibile nel caso di concetti sensibili, intelligibile nel caso dei concetti intelligibili. I numeri sono innati poichè non essendo oggetti sensibili, mancano di un'esperienza del mondo esterno da cui ricavarli, ovviamente diversa è la questione per quanto riguarda le raffigurazioni simboliche con cui convenzionalmente creiamo un linguaggio matematico, il 2 e il 3 che scrivo sono forme, immagini che acquisisco dagli oggetti esperienza, ma il loro significato resta intelligibile, e dunque non empiricamente fondabile

Phil

Citazione di: maral il 20 Settembre 2016, 14:14:37 PMil tuo discorso, esattamente come quello di chi sostiene l'opinione opposta, non ha da solo fondamento e quindi la diatriba si presenterà eternamente irrisolvibile come tra gusti contrapposti. Non ha fondamento (pur essendo giusto nella sua affermazione) perché non è comunque possibile numerare le cose senza che ci sia l'idea di numero [...] per poter numerare deve già esserci il numero e l'esperienza della numerazione è invece la descrizione del numero, per cui nella numerazione il numero può apparire e quindi essere definito. 
Non ti seguo: i numeri non sono forse stati inventati? Questo è un discorso opinabile non fondato, oppure è un dato di fatto (che la matematica sia stata inventata)? Se è stata inventata, com'è accaduto? Non si conoscevano già numeri (non ancora inventati!), per cui è lecito sostenere che ci sia stata un'arbitraria decisione di dare nomi e concetti ad un'astrazione quantitativa (che fino a quel momento era solo generica, non numerica...). Solo da quel momento in poi, sembra impossibile "scollegare" la numerazione come attività ed il numero come concetto... ma la consapevolezza di quella genesi, risolve l'enigma (sempre del tipo uovo/gallina: è nato prima il concetto di numero o l'esperienza del numero? Nessuno dei due, o meglio, sono nati assieme dall'atto creatore di qualcuno che ha dato un nome concettuale ad un esperienza...).
Sostenere che i numeri non sono stati inventati comporta o ritenere che l'uomo li conosca da sempre (ma non so se l'antropologia e l'archeologia siano d'accordo), oppure sostenere che esistono da sempre come idee platoniche e che qualche fortunato è riuscito ad attingerle e comunicarle al mondo...
Riprendendo il tuo esempio sul linguaggio: il concetto di "rosso" è derivato dall'esperienza del rosso che, a prescindere dalla lingua in questione, ha spinto qualcuno ha definire quel colore come "rosso". Sembra ovvio sostenere che non si può parlare di qualcosa di rosso, senza avere già il concetto di rosso, eppure almeno qualcuno lo ha fatto: esattamente colui che volendo dare un nome a quel riflesso della luce che esperiva, ha coniato "rosso" (o "red" o "rouge", etc...). 
Pensa ai bambini: imparano a contare e ad usare i colori perché qualcuno glieli insegna... il fondatore della matematica (o dei colori) ha fatto esattamente lo stesso (comunicare agli altri un linguaggio che egli possedeva, avendolo coniato), soltanto che nessuno glieli aveva insegnati, ma i numeri (o i colori) erano appunto un suo vocabolario inventato ad hoc (parlo di fondatore al singolare per praticità...).
Come accennavo, è l'esperienza originaria fondante che istituisce la biunivocità che, oggi, a posteriori, ci sembra inaggirabile...

Citazione di: maral il 20 Settembre 2016, 14:14:37 PMPenso invece che possa essere "bella" anche una filosofia, e non in relazione allo stile usato per esprimerla, ma ad esempio alla pregnanza dei suoi significati interconnessi. Certo, la bellezza di una teoria scientifica è diversa da quella di un quadro o di un brano musicale, eppure è sempre legata al significato, alla possibilità di arrivare ad esempio a una formula semplice in cui si trovano condensati in modo appropriato, non banale e sorprendente un gran numero di aspetti fisici. Ma forse è soprattutto la matematica che può mostrare, a chi sa coglierlo, un valore estetico che va ben al di là della sua utilità.
In fondo, "non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace"... anche se un'"estetica della matematica" o un'"estetica della filosofia" (da non confondere con la filosofia estetica), faccio fatica a pensarle come ambito di ricerca/studio, ma probabilmente è uno dei miei limiti  :)

@Davintro
"I numeri sono innati"(cit.)? Spiegati meglio...
Sul discorso "tanto" e "poco" come punto di partenza per l'invenzione del numero, ho cercato di intuire lo spunto che può aver avuto chi ha fondato i numeri, quindi cercando di ragionare prima dell'avvento della matematica (su come siano intesi dopo, hai già detto tutto tu...). 
Prova a pensare, ancora una volta, ad un bambino o a chi non ha studiato numeri: parlerà di "tanto" e "poco" (o almeno avrà questi due concetti se non parla) riferendosi ad una distinzione base fra, ad esempio, ciò che non è sufficiente a sfamarlo e ciò che invece non riesce a finire di mangiare... poi qualcuno gli insegna i numeri e lui, finalmente, può quantificare, dicendo "voglio 10 biscotti, né uno, né 100..."  ;D

Sariputra

#123
Citazione di: Phil il 20 Settembre 2016, 15:50:16 PM
Citazione di: maral il 20 Settembre 2016, 14:14:37 PMProva a pensare, ancora una volta, ad un bambino o a chi non ha studiato numeri: parlerà di "tanto" e "poco" (o almeno avrà questi due concetti se non parla) riferendosi ad una distinzione base fra, ad esempio, ciò che non è sufficiente a sfamarlo e ciò che invece non riesce a finire di mangiare... poi qualcuno gli insegna i numeri e lui, finalmente, può quantificare, dicendo "voglio 10 biscotti, né uno, né 100..." ;D

i bambini piccoli, alla scuola materna, imparano i numeri per comparazione di diverse lunghezze. Si usano infatti mattoncini colorati ( regoli?) per evidenziare le differenze. C'è il quadratino base che equivale al numero 1. I piccoli sommano i vari quadratini e poi l'insegnante fa imparare a memoria che , mettendo insieme cinque piccoli quadratini da 1, si ottiene il numero cinque. L'apprendimento è visivo.  L'intelligenza innata è quella di percepire la diversità visiva tra "corto" e "lungo". La base dell'apprendimento dei numeri sta nella prima differenziazione tra ciò che si tocca ( uno) e poi la differenza sensitiva del toccare se stesso (due). Le due sensazioni che il bimbo piccolissimo prova sono diverse. La matematica nasce dal senso del tatto.
Interessante al riguardo studiare il lavoro di Stephane Bonnot abate di Condillac , che riteneva valido il principio che tutta la conoscenza  deriva dall'esperienza e la prima esperienza, quella che lui chiamava sentimento fondamentale, è quella del senso del tatto. La radice-base del processo di conoscere. C'è molto di filosofia buddhista in questo ( anche se l'abate Condillac non sarebbe stato sicuramente d'accordo... :) ). 

Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

davintro

#124
Phil scrive

"I numeri sono innati"(cit.)? Spiegati meglio...
Sul discorso "tanto" e "poco" come punto di partenza per l'invenzione del numero, ho cercato di intuire lo spunto che può aver avuto chi ha fondato i numeri, quindi cercando di ragionare prima dell'avvento della matematica (su come siano intesi dopo, hai già detto tutto tu...).
Prova a pensare, ancora una volta, ad un bambino o a chi non ha studiato numeri: parlerà di "tanto" e "poco" (o almeno avrà questi due concetti se non parla) riferendosi ad una distinzione base fra, ad esempio, ciò che non è sufficiente a sfamarlo e ciò che invece non riesce a finire di mangiare... poi qualcuno gli insegna i numeri e lui, finalmente, può quantificare, dicendo "voglio 10 biscotti, né uno, né 100..."


Ciò che a mio avviso è innato è il significato che si attribuisce ai concetti dei singoli numeri, un significato intelligibile in quanto è costituito non da oggetti sensibili ma da delle loro relazioni intelligibili, mentre la corrispondenza tra il significato intelligibile e un'espressione simbolica sensibile presuppone l'esperienza di oggetti fisici da cui ricavo tali forme simboliche, gli spazi fisici all'interno dei quali posso tracciare delle linee grafiche. In questo senso penso che più che "inventare" i numeri credo che ad essere inventati siano delle strutture linguistiche convenzionali con cui associamo i numeri a delle immagini sensibili con cui le simbolizziamo, visuali (per poterli scrivere) e verbali per poter comunicarli oralmente. Abbiamo il sistema dei numeri arabi che utilizziamo noi comunemente, il sistema dei numeri romani... e apprendiamo in relazione all'ambiente culturale in cui cresciamo con i sistemi linguistici di riferimento per quell'ambiente l'associazione dei significati con l'espressione linguistica, ma non necessariamente i significati in sè

Io direi che il fatto che un bambino impari prima ad esprimersi in termini qualitativi "tanto", "poco" e successivamente impari ad utilizzare quantità, significa che ha col tempo acquisito una nuova funzione linguistica che si aggiunge ad altre senza però che si debba dedurre che le categorie qualitative siano uno stadio primitivo e confuso di un'evoluzione, base che determinerebbe nel futuro lo sviluppo della quantificazione. Se la deduzione fosse corretta allora il bambino potrebbe una volta imparato a padroneggiare i numeri, smettere di utilizzare le categorie qualitative "tanto" "poco", a quel punto inutili perchè valide per uno stadio evolutivo gà superato, categorie che invece continuano ad essere utilizzate per la ragione che la loro funzione si riferisce ad una modalità relazionale distinta ed autonoma rispetto a quella della quantificazione e dunque non strumentale e subordinata a questa. Non si può dedurre dal rilevamento di una mera successione diacronica di stadi evolutivi una derivazione causale di un "precedente" rispetto a un "successivo" all'interno di una linea unica, trovo più convincente l'idea di ricavare dalle distinte forme di attività coscienziali, distinguibili per un differente forma di attribuzione di significato al mondo, una molteplicità di "radici", "punti originari" (chiedo scusa, non trovo per ora una terminologia più elegante...) da cui scaturirebbero una molteplicità di linee evolutive che si svilupperebbero in modo distinto fra loro, senza che una linea sia la causa da cui deriverebbe un'altra. Una sorta di sistema a raggiera... La quantificazione sarebbe una di queste linee, distinta dalla linea corrispondente al processo di giudizio estetico qualitativo nel quale contesto poter utilizzare le categorie "tanto" "poco". Non deve far ingannare il fatto che sia i numeri che tali categorie qualitative si riferiscano  all'idea di quantità. Ciò che è più importante è che quando uso numeri la mia intenzionalità verso le cose sia differente da quando utilizzo le categorie soggettive-estetiche, se dico "voglio 10 biscotti" esprimo l'intenzionalità di volerne mangiare quella precisa quantità e non un'altra inferiore o maggiore, se dico "voglio tanti biscotti" voglio esprimere l'idea che mi farebbe piacere mangiare biscotti a prescindere da una misura precisa. Non è che una richiesta è più confusa e primitiva di un'altra, cambia proprio l'obiettivo della comunicazione, il suo senso ontologico




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Phil

Citazione di: Sariputra il 20 Settembre 2016, 16:40:09 PML'apprendimento è visivo. L'intelligenza innata è quella di percepire la diversità visiva tra "corto" e "lungo". La base dell'apprendimento dei numeri sta nella prima differenziazione tra ciò che si tocca ( uno) e poi la differenza sensitiva del toccare se stesso (due). [...] La matematica nasce dal senso del tatto.
Leggendo questa considerazione (in cui ritrovo l'idea che è l'astrazione dell'empirico a fondare alcuni concetti), mi è tornata in mente la classica scena in cui i bambini, che non sanno ancora scrivere, mimano con la mano la quantità (più che il numero) della loro età usando le dita e pronunciano il suono corrispondente. Altrettanto classica la scena in cui due fratellini mostrano orgogliosi la propria mano-pallottoliere e uno dei due chiede ai genitori, "qual'è più grande?". In questo confronto non è ancora presente realmente il contare (numeri), ma solo il confrontare (quantità).

E qui mi ricollego a:
Citazione di: davintro il 20 Settembre 2016, 17:38:37 PMdirei che il fatto che un bambino impari prima ad esprimersi in termini qualitativi "tanto", "poco" e successivamente impari ad utilizzare quantità, significa che ha col tempo acquisito una nuova funzione linguistica che si aggiunge ad altre senza però che si debba dedurre che le categorie qualitative siano uno stadio primitivo e confuso di un'evoluzione, [...] Non deve far ingannare il fatto che sia i numeri che tali categorie qualitative si riferiscano all'idea di quantità. Ciò che è più importante è che quando uso numeri la mia intenzionalità verso le cose sia differente da quando utilizzo le categorie soggettive-estetiche, se dico "voglio 10 biscotti" esprimo l'intenzionalità di volerne mangiare quella precisa quantità e non un'altra inferiore o maggiore, se dico "voglio tanti biscotti" voglio esprimere l'idea che mi farebbe piacere mangiare biscotti a prescindere da una misura precisa. Non è che una richiesta è più confusa e primitiva di un'altra, cambia proprio l'obiettivo della comunicazione, il suo senso ontologico
Non sempre cambia l'obiettivo; se passiamo dall'intenzionale al descrittivo, ad esempio, talvolta l'obiettivo è lo stesso ma sono le conoscenze a non rendere fruibili i numeri, e a quel punto "regredisco" al "tanto/poco", riecheggiando la relazione genealogica fra i due (relazione che è una mia supposizione per spiegare la genesi del concetto di numero, non voglio certo discutere la tua distinzione post-invenzione-matematica fra affermazioni soggettive ed oggettive). 
Se mi chiedi quanto sapone per piatti è rimasto da usare, la mia miglior descrizione (sono un casalingo piuttosto poco scientifico!) conosce tre livelli: "poco", "abbastanza", "tanto". Sono le quantità più precise di cui dispongo per descrivere oggettivamente (nei limiti della mia "scienza") la quantità nella bottiglia, perché in tutta onestà, non so quantificare bene ad occhio i centilitri o le frazioni di litro... mi pare che "l'obiettivo della comunicazione ed il senso ontologico"(cit.) sono gli stessi rispetto alla risposta del casalingo dall'occhio ben calibrato che dirà ad esempio "circa 125 ml".
Questa derivazione dello "specifico" dal "vago", che spesso, come hai ben osservato, relega a posteriori il "vago", ormai desueto, nell'ambito del "soggettivo" (ma nel mio caso, dire "poco detersivo" non è affatto "vago", bensì è l'apice della mia cono-scienza!), la troviamo anche in altri contesti, ad esempio in musica: se ascolto un brano (e la mia cognizione della musica è "primitiva") definirò il suo ritmo "veloce"; qualcuno, un po' più competente, dirà invece "vivacissimo" (termine tecnico, circa 140-150 battiti al minuto, ecco che entrano in gioco i numeri, seppur con un "range"); se lo chiediamo a chi lo ha suonato dirà "esattamente 150". 
Il pezzo ascoltato è il medesimo, ma il mio "veloce" è la mia miglior forma oggettivamente descrittiva (stando alle mie possibilità "ingenue"), proprio come quel "150" lo è per il musicista che si riascolta. 
Tuttavia, se il musicista mi facesse scoprire "la matematica dei battiti al minuto", abbandonerei di certo la definizione "veloce", per convertirmi al "vivacissimo" o al 150 (magari relegando poi la parola a "veloce" ad altri ambiti più indefiniti...).

Su questo, in generale, concordo appieno:
Citazione di: davintro il 20 Settembre 2016, 17:38:37 PMNon si può dedurre dal rilevamento di una mera successione diacronica di stadi evolutivi una derivazione causale di un "precedente" rispetto a un "successivo" all'interno di una linea unica 
Viene chiamata la fallacia "post hoc ergo propter hoc", ovvero quando si confonde la successione cronologica con quella logica.

Citazione di: davintro il 20 Settembre 2016, 17:38:37 PMCiò che a mio avviso è innato è il significato che si attribuisce ai concetti dei singoli numeri, un significato intelligibile in quanto è costituito non da oggetti sensibili ma da delle loro relazioni intelligibili 
Dunque, parafrasando (correggimi pure se fraintendo) è innato "il significato concettuale dei numeri, costituito dalle relazioni intelligibili di oggetti sensibili"? Un'innata idea platonica... l'innatismo spesso non mi convince, tendo a pensare che sia un "rimedio" ad una genealogia troppo problematica (come in questo caso, secondo me) oppure un camuffamento giustificante di una tradizione culturale. Anche se non nego che esistano bisogni innati, potenzialità innate e meccanismi mentali innati (come l'astrazione).

paul11

Negli ultimi post ci sono spunti interessanti.
Sono d'accordo che il bambino impara per astrazione dell'empirico e utilizza in quella fase il tatto, prima ncora il bebè utilizza la bocca, le labbra per istinto.
Ma infatti il modello di insegnamento per i bambini è costruirgli la propedeutica con esempi fisici, empirico-sensoriali perchè ritengo fondamentale la correlazione cervello/mente, ovvero così come i neuroni e le sinapsi costruiscono fisicamente una rete nel cervello così la mente prepara una sintassi, cioè comincia a preparare una rete di relazioni  in cui riceverà i concetti, la semantica- Il bambino quindi prima prepara mentalmente con il passaggio emprico/astrazione quella sintassi che gli permetterà di ricevere le nozioni matematiche.
la sintassi è una sistematizzazione di regole, il concetto poggerà su quella rete dove ogni singolo filo di uqella rete lo relaziona ad altri concetti ( stò metaforizzando in immagini).
Ma è proprio questo che la forma/sostanza a sua volta si correlaziona in analogia alla sintassi/semantica, come alla mente/ cervello. E' la forma ad essere universale, la sintassi, perchè i concetti possono mutare, quello che la scienza chiama modello di rappresentazione.Sono quindi le regole che istituiscono la logica, la matematica, i numeri come contenuto e significazione arrivano se la sintassi che ha le regole ,le accetta come "vere".
Ma io comprendo la matematica se sintatticamente  ho preparato la mente in maniera sintattica a ricevere quei contenuti che si relazionano ad altri precedenti contenuti astratto/empirici
A questo punto mi manca di capire come e cosa preordina la sintassi, quali innatismi od ontoolgie permettono che il cervello acquisica informazioni sensoriali-empirico-astratte costituite da neuroni e sinapsi e quindi permetta alla mente in analogia di formare quella sintassi indispensabile a ricevere i contenuti semantici.

Penso che la nostra mente apprenda in totalità con tutte le sue forme di domini: logico/matematico, psichico/emozionale, spirituale/religioso, solo che è l'intenzione a determinare la gerarchia delle forme,
Ogni semantica, ogni concetto ha più significazioni, se dico mela posso assumere mentalmente il concetto come fisico, come emotivo/psichico  come religioso simbolico, per questo il linguaggio è sfuggente.
Il punto di vista quindi potrebbe essere interpretato il modo in cui intenzionalmente vogliamo utilizzare i domini, se sono empirico la mela avrà più significazione come fisictà, ecc. E' altrettanto chiaro che la sopravvivenza spinge comunque l'uomo a dare al dominio fisico/materiale un'importanza fondamentale.
Infatti il bambino è più astratto e fantastico e meno realista/fisico, Il gioco  è la fantasia della metafora della vita.
Si impara a vivere quando quella sintassi è matura ,il linguaggio si è appiattito nella convenzione e la realtà diventa priorità come necessità di sopravvivere.

maral

Citazione di: Phil il 20 Settembre 2016, 15:50:16 PM
Sostenere che i numeri non sono stati inventati comporta o ritenere che l'uomo li conosca da sempre (ma non so se l'antropologia e l'archeologia siano d'accordo), oppure sostenere che esistono da sempre come idee platoniche e che qualche fortunato è riuscito ad attingerle e comunicarle al mondo...
Forse significa solo che a un certo punto qualcuno a imparato a usare i numeri per contare e non che contando ha inventato i numeri: con cosa contava? I numeri (le quantità numericamente espresse), come ho detto, c'è chi riesce a coglierli immediatamente con esattezza anche senza contare: come sarebbe possibile la cosa senza una percezione proprio del numero come tale secondo te?
Ai bambini si insegna a contare, ossia a usare i numeri per contare, come si può insegnare a usare i colori, ma questo non mi pare voglia dire che usando i colori si inventano i colori, ma che usandoli li si scopre. il riflesso di luce rossa non è il rosso, ma una luce che si percepisce rossa perché c'è già il significato di rosso che peraltro non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) se non ci fosse qualcosa rosso, esattamente come non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) i numeri se non ci fosse qualcosa numerabile.


Phil

Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMa un certo punto qualcuno a imparato a usare i numeri per contare
Quindi i numeri c'erano anche prima, ma non erano stati ancora usati? Domanda: come è possibile avere il concetto di numero ma non usarlo?

Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMnon che contando ha inventato i numeri: con cosa contava?
Se avesse già avuto i numeri, non sarebbe stata un'invenzione, e si torna alla domanda precedente...

Mi pare sia come negare l'invenzione di una lingua affermando che "nessuno può avere inventato una lingua parlando, con cosa parlava?". La risposta sta nel precedente esempio di cui parlavo con davintro (passaggio dal "molto/poco" ai numeri) ovvero: passando da espressioni vocali inarticolate (primitive come la quantificazione "poco/tanto"), a forme più strutturate, come le parole (ed i numeri). 
Almeno credo che la storia della lingua sia questa, salvo sostenere che le lingue siano "innate" e attendono solo di essere scoperte  ;)

Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMI numeri (le quantità numericamente espresse), come ho detto, c'è chi riesce a coglierli immediatamente con esattezza anche senza contare: come sarebbe possibile la cosa senza una percezione proprio del numero come tale secondo te?
Per esprimere quel numero percepito senza contare dovranno comunque usare un linguaggio (che rimanda a concetti), e in questo linguaggio, che qualcuno gli ha insegnato, saranno compresi anche i numeri... può essere un virtuosismo cognitivo, ma presuppone sempre che qualcuno gli abbia fornito la definizione di "uno", "due", "tre", etc. altrimenti questi soggetti (eccezione e non regola) cosa dicono per stupirci?

Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMAi bambini si insegna a contare, ossia a usare i numeri per contare, come si può insegnare a usare i colori, ma questo non mi pare voglia dire che usando i colori si inventano i colori, ma che usandoli li si scopre. il riflesso di luce rossa non è il rosso, ma una luce che si percepisce rossa perché c'è già il significato di rosso che peraltro non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) se non ci fosse qualcosa rosso, esattamente come non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) i numeri se non ci fosse qualcosa numerabile.
Questo qualcosa di numerabile è la realtà, o meglio, l'esperienza, ma diventa "numerabile" inevitabilmente solo dopo l'invenzione del numero, prima è solo vagamente quantificabile, come dicevo anche nell'esempio della musica, rispondendo a davintro (ti invito a leggerlo per non ripetermi, non perché sia nulla di eccezionale).
Chiaro che nominando i colori, non si inventano, ma come, perché è possibile nominarli? Secondo me, perché qualcuno ne ha inventato il corrispettivo concetto, e quindi, la parola (che ora tramandiamo di generazione in generazione).
Per me, finché qualcuno non ha inventato il concetto di colore (non certo i colori come riflesso della luce!) e le definizioni delle distinzioni cromatiche, nulla si poteva dire (non esperire) che fosse pertinente al colore... idem per la matematica, finché qualcuno non ha inventato "uno", "due", "tre", etc. (istituendo un linguaggio basato sull'esperienza) non era possibile contare (ma semmai quantificare genericamente).

maral

Citazione di: Phil il 21 Settembre 2016, 21:28:07 PM
Quindi i numeri c'erano anche prima, ma non erano stati ancora usati? Domanda: come è possibile avere il concetto di numero ma non usarlo?
Basta non esserne consci. Ma non sto parlando del concetto di numero, sto parlando dei numeri che si traducono in concetti solo se ne diventiamo coscienti.

CitazioneMi pare sia come negare l'invenzione di una lingua affermando che "nessuno può avere inventato una lingua parlando, con cosa parlava?". La risposta sta nel precedente esempio di cui parlavo con davintro (passaggio dal "molto/poco" ai numeri) ovvero: passando da espressioni vocali inarticolate (primitive come la quantificazione "poco/tanto"), a forme più strutturate, come le parole (ed i numeri).
Almeno credo che la storia della lingua sia questa, salvo sostenere che le lingue siano "innate" e attendono solo di essere scoperte  ;)
Infatti nessuna lingua (naturale) è mai stata inventata. Non è che prima c'erano dei grugniti e dopo questi grugniti per progressiva convenzione sono diventati parole; l'uomo, anche se si esprime a segni o con balbettii, quei segni o balbettii sono già parole significanti. Ciò che si apprende non è il linguaggio (che nelle sue strutture grammaticali fondamentali è già dato a priori, come insegna Noam Chomsky) ma un'espressione significante tra le tante possibili che non è semplicemente inventata, ma culturalmente trasmessa (e trasmettendola i contesti culturali la modificano in continuazione nei rapporti con i significati).


CitazionePer esprimere quel numero percepito senza contare dovranno comunque usare un linguaggio (che rimanda a concetti), e in questo linguaggio, che qualcuno gli ha insegnato, saranno compresi anche i numeri... può essere un virtuosismo cognitivo, ma presuppone sempre che qualcuno gli abbia fornito la definizione di "uno", "due", "tre", etc. altrimenti questi soggetti (eccezione e non regola) cosa dicono per stupirci?
Non è del tutto vero che sono l'eccezione, pare che fino a quattro tutti siano in grado di cogliere immediatamente il numero senza contare, e non solo gli umani, pure i corvi. Forse è una capacità latente che. imparando a contare si assopisce. Certo, qualcuno ci ha insegnato che quella quaternalità si dice 4 e contando scopriamo gli altri numeri, ma questo non significa che l'idea del numero si crei dal nulla contando a partire da un "tanto".

CitazioneQuesto qualcosa di numerabile è la realtà, o meglio, l'esperienza, ma diventa "numerabile" inevitabilmente solo dopo l'invenzione del numero, prima è solo vagamente quantificabile, come dicevo anche nell'esempio della musica, rispondendo a davintro (ti invito a leggerlo per non ripetermi, non perché sia nulla di eccezionale).
Phil, tu parti dal presupposto che i numeri si inventano e si inventano poiché a monte ci sta il presupposto che non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza, ma questo non esclude il presupposto opposto, ossia che i numeri solo si scoprono. Il punto per cui non riuscirai mai a convincere chi la pensa in modo opposto, né chi considera il numero come una trascendenza originaria potrà mai convincere te, è che entrambi avete ragione ed entrambi torto e ognuno coglie solo l'aspetto positivo della sua idea e negativo di quella altrui. Entrambi non vi rendete conto invece della irriducibile complementarietà che c'è sempre tra segno e significato, che non ci sono significati puri originari e senza segni da cui nascono i segni o viceversa, ma che sono sempre in rapporto, fin dall'inizio dei tempi. Solo se ci sono i numeri possiamo contare e solo se possiamo contare i numeri per noi ci sono e quindi possiamo usarli per contare.
Non si inventa il colore delle cose colorate, proprio come non si creano i colori delle cose colorate dal colore, Perché è quel colore che ci permette di vedere le cose colorate, esattamente come è il vederle colorate che ci permette di esperire (e certamente non di inventare) quel colore. Il concetto con cui poi veniamo a definire quel colore (definito ad esempio nel suo corrispondere a una certa lunghezza d'onda della luce) ha la sua origine nell'a priori del colore e diventa quel concetto a posteriori, attraverso l'esperienza che facciamo del colore originario nelle cose.
All'inizio c'è qualcosa (kantianamente sintesi a priori) che si rivela sensibilmente e immediatamente nelle cose che esperiamo e che, da questa esperienza, attraverso l'analisi di essa, poi concettualizziamo (sintesi a posteriori) e a sua volta il concetto richiama quella sintesi a priori e così via ciclicamente all'infinito.

Phil

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PM
Citazione di: Phil il 21 Settembre 2016, 21:28:07 PMQuindi i numeri c'erano anche prima, ma non erano stati ancora usati? Domanda: come è possibile avere il concetto di numero ma non usarlo?
Basta non esserne consci.
Quindi i numeri sarebbero innati e inconsci? Praticamente si parla di un "platonismo 2.0" in cui l'iperuranio è sostituito dall'inconscio... congettura avvincente, ma mi pare piuttosto ardua (e non dico "indimostrabile"...).

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMMa non sto parlando del concetto di numero, sto parlando dei numeri che si traducono in concetti solo se ne diventiamo coscienti.
"I numeri si traducono in concetti" (cit.), nel senso che i numeri non sono solo concetti?
Ovvero: se non ne diventiamo coscienti, i numeri non si traducono in concetti, ma esistono lo stesso? Intendi nella mente degli altri, coloro a cui sono stati insegnati, oppure nell'iperuranio-inconscio del soggetto che non li ha ancora "scoperti"?

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMNon è che prima c'erano dei grugniti e dopo questi grugniti per progressiva convenzione sono diventati parole; l'uomo, anche se si esprime a segni o con balbettii, quei segni o balbettii sono già parole significanti. Ciò che si apprende non è il linguaggio (che nelle sue strutture grammaticali fondamentali è già dato a priori, come insegna Noam Chomsky) ma un'espressione significante tra le tante possibili che non è semplicemente inventata, ma culturalmente trasmessa (e trasmettendola i contesti culturali la modificano in continuazione nei rapporti con i significati). 
Non confonderei "lingua" e "linguaggio": il linguaggio è l'attuazione di una predisposizione innata (e neurologica) alla comunicazione; la lingua è un insieme convenzionale di segni e suoni finalizzato alla comunicazione; essendo convenzionale come può non essere stata inventata? 

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMInfatti nessuna lingua (naturale) è mai stata inventata.
La lingua italiana è sempre esistita? 
Ovviamente non è stata inventata in un giorno, dal nulla (come ogni altra invenzione), ma il processo è stato lungo e si è basato su ciò che c'era a disposizione (il latino, il greco, etc.) ma credo sia innegabile che le lingue parlate oggi siano convenzionali e non eterne (perciò non innate né inconsce...).

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMPhil, tu parti dal presupposto che i numeri si inventano e si inventano poiché a monte ci sta il presupposto che non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza, ma questo non esclude il presupposto opposto, ossia che i numeri solo si scoprono. 
Perdonami, ma direi che invece le due prospettive si escludono: o si inventa qualcosa o lo si scopre...
Il fatto che i numeri siano stati inventati non è per me un presupposto, ma una (opinabile) conclusione, basata su quel poco che so, che riesco a ragionare e che ho cercato di esplicitare... l'osservazione che "non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza", non la sento affatto mia (se non altro perché fuori dall'esperienza ci sono tutte le predisposizioni e le "impalcature concettuali" del soggetto...).

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMEntrambi non vi rendete conto invece della irriducibile complementarietà che c'è sempre tra segno e significato, che non ci sono significati puri originari e senza segni da cui nascono i segni o viceversa, ma che sono sempre in rapporto, fin dall'inizio dei tempi. 
Concorderai che i segni non esistono dall'"inizio dei tempi"... la scrittura è stata inventa, giusto? Dall'inizio dei tempi esiste semmai la voce (direbbe Derrida...).
Proprio per questo credo che, il progresso del linguaggio sia avvenuto
Citazione di: Phil il 21 Settembre 2016, 21:28:07 PMpassando da espressioni vocali inarticolate (primitive come la quantificazione "poco/tanto"), a forme più strutturate, come le parole (ed i numeri). Almeno credo che la storia della lingua sia questa, salvo sostenere che le lingue siano "innate" e attendono solo di essere scoperte ;)

Sui colori:
Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMPerché è quel colore che ci permette di vedere le cose colorate esattamente come è il vederle colorate che ci permette di esperire (e certamente non di inventare) quel colore. 
Non mischierei il piano dell'esperienza sensoriale con quello linguistico (forse è questo l'inghippo che evita l'accordo): io posso esperire un colore che non conosco, ma non essere in grado di nominarlo (perché non ho una parola-concetto corrispondente...); nel momento in cui mi si insegna il suo nome, oppure me l'invento, creo un'identità linguistica-concettuale di quel colore che lo rende nominabile e riconoscibile anche in sua assenza... è lo stesso con i numeri: se vedo un cane con un altro cane, li so quantificare ("più di un cane", "meno di un branco"), ma solo nel momento in cui mi viene insegnato che quella quantità è "due", inizia ad esistere per me il numero "due" (che posso applicare ad altri enti). E questo insegnamento presuppone che un giorno qualcuno (ripeto, uso il singolare per semplicità) abbia deciso che quella quantità era segno "2" e suono "due"... come ha fatto? Nello stesso modo con cui un giorno qualcuno ha inventato (non scoperto) i concetti di radici, tronco, rami, foglie... non è che prima gli alberi non esistessero, o non si distinguesse la foglia caduta dal resto dell'albero, ma non c'era ancora una parola-concetto convenzionalmente corrispondente ad una divisione delle sue parti.

davintro

#131
io credo che in linea generale sia un errore far coincidere la concreta applicazione di un processo mentale con l'apprensione dei contenuti di tale processo. Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo "ex nihilo". Se così non fosse allora si potrebbe, utilizzando tecniche didattiche standard, insegnere a contare, leggere, scrivere, a qualunque essere vivente, indipendentemente dalla struttura interiore mentale del soggetto che si ha di fronte. In realtà nell'uomo (ma non con altri mammiferi, ora non sono uno zoologo e non so se con altri animali come le scimmie si sia arrivati a risultati soddisfcenti da far pensare ad analogie con l'uomo) le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano non con una tabula rasa, ma una mente predisposta ad accoglierla. Questa ovvietà  potrebbe far pensare ad una mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi. Una mera potenzialità astratta non potrebbe mai porsi come fattore concreto nella costituzione di alcunche, resterebbe una pura idea, e l'idea senza attualità reale, è solo una staticità che non può partecipare ad alcuna dinamica

Nel caso dei numeri, ipotizzo che la predisposizione umana alla quantificazione preuspponga un innata, o meglio originaria, apprensione intuitiva del significato intelligibile dei numeri, che però resta impossibilitata ad essere espressa linguisticamente fintanto che non trova dei segni sensibili per comunicarla, e in assenza di un linguaggio adeguato il bambino ripiegherebbe su concetti qualitativi, come giustamente osservato da Phil, "tanto", "poco". L'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)

Per quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo, che per essere adeguato alla nuova società, deve il più possibile essere descritto come realtà fluida e plasmabile da interventi esterni. Quanto più invece l'uomo viene visto come realtà avente in sè dei caratteri stabili e presenti indipendetemente dagli influssi dell'ambiente circostante, tanto più si pone un limite alla possibilità di maniplazione con cui un qualsivoglia potere intenda intervenire per modificare la natura umana in relazione ai suoi fini ideologici. Quindi entrambe le posizioni in campo posso essere viste come convenienti o sconvenienti in relazione alla natura ideologica di un approccio politico, senza che si debba vedere una delle due come un'illusione costruita ad hoc per certe istanze sociali

Sariputra

Ma se una cosa , per venire in essere, ha bisogno di qualcos'altro, come si può definire già esistente a priori ? La mente ha bisogno del contatto per essere. Senza contatto non vi è mente, c'è solo una "possibilità" di mente. Ma possibilità non è essere. Un ovulo è una possibilità di un nuovo essere, ma senza contatto con lo spermatozoo non c'è un nuovo essere. Mente e sensi sono inscindibili. E' il pensiero duale che li vede separati. Non può esserci mente senza il contatto dei sensi e non possono esserci sensi senza percezione e possibilità di astrazione della mente. Non c'è " qualcosa" che viene prima  o dopo, è un unico processo. Quando il tatto tocca per la prima volta c'è già mente; ma prima di quel primo tocco dov'è la mente? Il primo tocco poi avviene prima della nascita, durante gli ultimi tre mesi di vita intrauterina, quando già si comincia a sognare: è possibile registrare un'attività REM, attraverso l'elettroencefalogramma sull'addome della madre all'altezza del cervello del feto.
Che cosa sogna? Nessuno lo sa. Si può solo supporre che sogni tonalità di chiaro/scuro,voci, rumori, suoni, musiche e il rumore del battito cardiaco della madre. Questò è già il primo "mondo" che la mente abita.
E' vero che il prendere posizione per una teoria piuttosto che l'altra è funzionale all'ideologia a cui si aderisce. La credenza in una pre-esistenza della mente sostiene la visione spirituale/metafisica, mentre quella incentrata sui sensi sorregge l'idea materialista dell'esistenza. Il superamento di queste due concezioni , a mio avviso, erronee, risolve l'apparente conflitto. Mente e sensi lavorano insieme, sono un'unica cosa ( o essere se si preferisce per non dar l'impressione di cadere nell'estremo materialista), Se tagliamo una mano, un braccio può ancora muoversi e compiere diverse attività, così la mente agisce anche se privata di uno, o più di uno, dei suoi strumenti di senso; ma non può agire se ne viene privata totalmente.
Si può discutere all'infinito su chi viene prima, senza pervenire ad alcunchè, perchè le due cose nascono insieme e questo non è concepibile dal pensiero duale.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Phil

Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PMuna mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi.
Da profano, credo che questa attualità in cui risiede "realmente" la potenzialità della matematica, del linguaggio e della conoscenza in generale, sia una attualità di tipo fisiologico (neurologico? genetico? ancora da scoprire?). Potrebbe essere un tipo di predisposizione biologica come quella che consente ai pipistrelli di utilizzare gli ultrasuoni senza che nessuno glielo insegni, o che consente ad altri animali di comportarsi in modo che per noi non è possibile... potremmo dire che se ogni specie ha i suoi "superpoteri potenziali", quello dell'uomo è ciò che viene chiamato ragione, quindi linguaggio, matematica e altre abilità cognitive...

Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PML'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)
Credo che i significati non debbano essere necessariamente innati, ma possano essere appresi; non a caso citavo la musica: la lettura/scrittura dello spartito musicale (con il suo linguaggio di note, pause, etc) può essere imparato senza che ci sia, secondo me, un "significato intelliggibile interiore" da risvegliare o "attualizzare"; semplicemente, si apprende un linguaggio dedicato alla produzione armonica di suoni, così come la matematica è un linguaggio dedicato alla quantificazione di rapporti e descrizioni... ovviamente, se possiamo apprenderli è perché abbiamo una predisposizione (biologica?) a quel tipo di attività (utilizzo di un linguaggio per interfacciarci con il mondo...). Forse il vero "superpotere" dell'uomo è proprio quello di poter apprendere, potenzialmente, tutte le molteplici produzioni dell'intelletto di chi lo ha preceduto...

Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PMPer quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo
Ammetto candidamente che mi riferivo alla sfera culturale in generale, non ho pensato al caso specifico della politica (a cui non penso mai!), ma condivido le osservazioni che hai saputo trarre: a seconda dei propri fini, un'ideaologia può parlare di "uomo nuovo" o di "uomo autentico", "uomo del futuro" o "uomo di una volta", etc....

Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2016, 21:31:03 PMMente e sensi sono inscindibili. E' il pensiero duale che li vede separati [...] Non c'è " qualcosa" che viene prima o dopo, è un unico processo
Concordo, prendendo in prestito la terminologia teologica direi che sensi e mente sono "distinti ma non separati" (salvo patologie): mentre si formano i sensi, si forma anche la cosiddetta mente, e viceversa, l'"influenza" è biunivoca... quello che si aggiunge, vissuto dopo vissuto, secondo me, sono tutti i concetti, con cui "dialogano" la mente e l'esperienza: la mente pre-condiziona come l'esperienza viene vissuta e l'esperienza vissuta modifica di riflesso come la mente vivrà la prossima esperienza (e anche l'apprendimento è un'esperienza, non solo quelle puramente percettive...).

maral

Citazione di: Phil il 23 Settembre 2016, 16:15:55 PM
Quindi i numeri sarebbero innati e inconsci? Praticamente si parla di un "platonismo 2.0" in cui l'iperuranio è sostituito dall'inconscio... congettura avvincente, ma mi pare piuttosto ardua (e non dico "indimostrabile"...).
Per quanto mi riguarda non mi rifaccio a un pensiero neo platonizzante, quanto piuttosto a una considerazione severiniana: non si inventa nulla se per inventare si intende creare qualcosa (qualsiasi cosa, compreso numeri, colori) facendo essere qualcosa che prima non era. Nella loro qualità di numeri e colori, questi enti in quanto essenti, sono da sempre e per sempre e quindi non sono il risultato dell'esperienza, mentre il loro apparire e quindi i significati di questo apparire è il risultato dell'esperienza. E questa esperienza che li fa apparire rendendocene coscienti a sua volta non nasce dal nulla, non è arbitraria e quindi definibile per convenzione, ma il frutto necessario di un contesto inter relazionale tra gli enti.
Ma se questi numeri e colori pre esistono al loro apparire, altrimenti dovremmo dire che questo numero o questo colore come tali sono fondamentalmente niente, dove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza? Non stanno in un altro mondo, in un iperuranio, semplicemente sono, ma non appaiono. In questi termini parlo di inconscio. Ci sono inconsci e quindi non hanno per la nostra esperienza un luogo "scoperto", perché se lo avessero ci apparirebbero, ma non avere un luogo scoperto alla nostra esperienza non vuole dire che sono niente.
Beninteso, anche dire che prima del loro attuale apparire essi non hanno luogo scoperto è dovuto al loro attuale apparire, è proprio il loro apparirci che, mantenendo fermo che numeri e colori sono e non possono non essere, implica il loro poter non manifestarsi.  
In tal senso non solo non inventiamo nulla (se inventare significa fare essere cose che non sono), ma anche non scopriamo nulla (se scoprire lo si intende come un atto del soggetto), ma viviamo esperienze che in determinati contesti relazionali tra gli enti, ci rendono alcuni enti come manifesti.


CitazioneNon confonderei "lingua" e "linguaggio": il linguaggio è l'attuazione di una predisposizione innata (e neurologica) alla comunicazione; la lingua è un insieme convenzionale di segni e suoni finalizzato alla comunicazione; essendo convenzionale come può non essere stata inventata?
Non trovo nessuna lingua naturale frutto di una convenzione. Non si è mai stipulata alcuna originaria convenzione per stabilire che un segno indicasse questa cosa e non un'altra per mostrarcela. Certo, impariamo questi segni da chi ci ha preceduto, che a sua volta li ha imparati da chi lo ha preceduto e così via e a ogni passaggio i segni che indicano questa cosa variano nei tempi e nei luoghi e variano pure le cose nel modo di apparirci, ma non c'è mai stato un momento originario in cui si è stabilito che il colore rosso dovesse chiamarsi "rosso" potendolo anche dire in modo diverso, il colore e la combinazione fonetica che lo mostra sono tra loro sempre legati secondo un'intrinseca necessità, non è una scelta convenzionalmente stabilita, anche se certamente varia. A ben vedere la cosa e il suo nome sono sì enti diversi, ma strettamente collegati l'uno all'altro da un'esperienza che non è soggettiva e quindi non può essere convenzionata tra soggetti. Nessuno ha mai stabilito o si è mai messo d'accordo con altri di chiamare il rosso rosso, o red, o rojo e via dicendo, comunque lo si dica c'è una necessità che lo fa dire così in quel luogo e in quel tempo consentendone la precisa identificazione e comunicazione.

Citazionel'osservazione che "non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza", non la sento affatto mia (se non altro perché fuori dall'esperienza ci sono tutte le predisposizioni e le "impalcature concettuali" del soggetto...).
Predisposizioni e impalcature che peraltro ci appaiono anch'esse in ragione dell'esperienza che ne facciamo, ma dove la mancanza di questa esperienza non determina il loro esserci o meno.

CitazioneConcorderai che i segni non esistono dall'"inizio dei tempi"... la scrittura è stata inventa, giusto? Dall'inizio dei tempi esiste semmai la voce (direbbe Derrida...).
Veramente Derrida parla di una scrittura che precede l'oralità della comunicazione (e ovviamente non è una scrittura che appartiene al soggetto umano; è segno muto e di per sé insignificante che dà significato a ogni cosa)

Non abbiamo mai conosciuto alcuna cosa senza un segno che ce la connotasse, fosse questo segno anche solo un gesto, e quel gesto, quell'espressione fonetica di un altro soggetto che ci ha mostrato quella cosa nessuno lo ha mai scelto né quindi convenzionato per quella cosa.

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