conoscenza e critica della conoscenza

Aperto da davintro, 15 Agosto 2016, 18:26:43 PM

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maral

Citazione di: paul11 il 01 Settembre 2016, 22:11:55 PM
L'utopia di riuscire a costruire un sistema formale esatto, certo, vero è esploso a cavallo fra fine Ottocento e inizi Novecento grazie alla fisica soprattutto. Il risultato è l'implosione della verità nei sistemi formali,esattamente l'opposto di quello che si voleva ottenere.Aporie, antinomie paradossi logici sono solo la punta dell'iceberg dell'ambiguità nel rapporto relazionale fra forma e sostanza e fra forme stesse.
Certo, poiché l'utopia di un sistema formale esatto e logicamente fondato esige la completa autoreferenzialità non contraddittoria ai presupposti (postulati definiti) di quel sistema, ma è proprio questa assoluta autoreferenzialità  definitoria astratta che, interpretata in modo formalmente corretto, rivela la sua inevitabile autocontraddizione formale.

Phil

Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:37:17 AM
Citazione di: Phil il 01 Settembre 2016, 21:49:04 PMse riconosco e definisco qualcosa come "bello" o "duplice" o "astratto" è perché mi è stato precedentemente insegnato e spiegato cosa significa "bello" e "duplice" e "astratto", e come individuare queste caratteristiche nell'esperienza (oppure, in alternativa, creerò dei neologismi...).
[...]Certamente questi significati, come ogni significato, è dato dalla cultura in cui si cresce, ma ogni cultura come lo ottiene? Dove lo trova?
[corsivo mio]
Non a caso accennavo ai neologismi: il "vocabolario" è dinamico, non è un insieme chiuso e statico... e nel "vocabolario" (uso le virgolette perché non mi riferisco solo all'esemplare cartaceo o informatico, ma anche a quello "vivo", culturale, sociologico, etc.) ci sono anche concetti astratti, concetti recenti e tanto spazio (infinito!) per concetti nuovi. 
Come mai oggi possiamo parlare di "virtuale" e due secoli fa non era possibile? Chi ce lo ha insegnato? Qualcuno che ha coniato e definito quel termine in risposta ad un'esigenza comunicativa, quindi il concetto di virtuale è a posteriori, anche se oggi può essere insegnato a priori a chi, come i bambini, non ha ancora avuto esperienza del virtuale.


Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:37:17 AMma nessuno insegna che esiste il bello o che una certa esperienza delle cose è bella come una diversa esperienza. Al massimo si insegna un vocabolo con cui poter comunicare il proprio sentire e non il sentire né il modo di sentire in esso la qualità
Credo invece che la bellezza, come gran parte delle parole-concetti "comuni", venga insegnata/appresa (a seconda della prospettiva) e sia la condizione di possibilità di ogni "esperienza bella" vissuta come tale: prima che la bellezza abbia una sua identità (logica, culturale, semantica...), l'esperienza non viene vissuta come "bella" dal soggetto, proprio perché egli non la può definire tale. Le sensazioni che prova non hanno un nome. Dopo che questo nome gli viene insegnato, le sensazioni sono le medesime ma hanno un'identità concettuale-linguistica, non sono più solo sensazioni (e qui c'è un bivio del discorso che porterebbe a discutere su quanto il linguaggio influenzi, condizioni e predetermini i paradigmi dell'esperienza umana, Korzybski docet... ma restiamo sulla strada principale).
Questa identità (la "bellezza") consente di distinguere il "bello", dal "simpatico", dall'"eccitante", dal "rassicurante", dal "sorprendente", etc. e da tutti quei concetti (di sensazione) che possono altrimenti essere confusi, come semplice "esperienza piacevole", prima che il soggetto in questione non li distingua ciascuno con il suo apposito termine (ben definito e che sarà il criterio delle individuazioni future del "bello", "simpatico", etc.).

Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:10:27 AMtanto assurdo quanto pensare che vi sia prima una bellezza ideale astratta senza le cose diversamente e concretamente belle.
Non sono d'accordo: può esserci un concetto astratto acquisito che non è stato ancora sperimentato estensionalmente (o che forse non lo sarà mai, v. divinità); può esserci, in teoria, bellezza senza il vissuto di "cose belle", così come si può avere il concetto di "amore" senza aver esperito vissuti "amorosi": quando te ne parlano, da bambino, magari non sei mai stato ancora innamorato, ma quando ti capiterà assocerai quella sensazione-esperienza a quella definizione che già ti era stata insegnata (e se questo meccanismo di deduzione funziona con qualcosa di estremamente aleatorio e soggettivo come l'amore, direi che può ben funzionare anche con concetti meno sfuggenti  ;) ).

Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 12:19:23 PM
Citazione di: paul11 il 01 Settembre 2016, 22:11:55 PML'utopia di riuscire a costruire un sistema formale esatto, certo, vero è esploso a cavallo fra fine Ottocento e inizi Novecento grazie alla fisica soprattutto. Il risultato è l'implosione della verità nei sistemi formali,esattamente l'opposto di quello che si voleva ottenere.Aporie, antinomie paradossi logici sono solo la punta dell'iceberg dell'ambiguità nel rapporto relazionale fra forma e sostanza e fra forme stesse.
Certo, poiché l'utopia di un sistema formale esatto e logicamente fondato esige la completa autoreferenzialità non contraddittoria ai presupposti (postulati definiti) di quel sistema, ma è proprio questa assoluta autoreferenzialità definitoria astratta che, interpretata in modo formalmente corretto, rivela la sua inevitabile autocontraddizione formale.
Qui sarei un po' più ottimista, leggendo Godel come "giustificatore" del pluralismo logico e distinguendo la concreta funzionalità della logica dai casi in cui invece
Citazione di: Phil il 03 Settembre 2016, 17:41:17 PMalcune astrazioni creano falsi problemi e paradossi che "concretamente" non sussistono (Zenone docet!)

Sariputra

#32
Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:10:27 AM
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 21:22:06 PM[size=3
Certo, lo avevo già detto, è impossibile un'idea di bellezza senza che vi siano cose belle, ma è ugualmente impossibile che vi sia alcuno che sappia vedere cose belle senza che non senta prima in sé la bellezza. La bellezza non è, come vorrebbe un certo realismo ingenuo, un "a posteriori" rispetto all'esperienza delle cose.
Citazione...

Scusa il "realismo ingenuo" ma come si fa a sentire prima in sè la bellezza? Se non c'è contatto con l'oggetto ritenuto bello non può in alcun modo nascere il senso della bellezza. Tra l'altro la famosa bellezza è un sentimento assai soggettivo ( io potrei trovare un'autentico pezzo di... la famosa Lucia Annunziata). Il fatto che la bellezza sia un sentimento soggettivo dimostra che è riconducibile alle esperienze piacevoli registrate nella nostra mente ( magari la Lucia Annunziata somiglia moltissimo alla mamma del soggetto che la trova bella  :o ). Tutti abbiamo per esempio la sensazione piacevole che ci da il tornare al nostro paese natale ( dove abbiamo vissuto le esperienze piacevoli della nostra infanzia ), mentre per un altro soggetto il medesimo paese non fa nascere alcun senso della bellezza.
Per esempio trovo orribile il David di Michelangelo, universalmente ritenuto un capolavoro e un simbolo di bellezza, perchè le sue mani esagerate rispetto al corpo mi ricordano una spiacevole situazione vissuta nell'infanzia...
Prima c'è il contatto, dal contatto nasce la sensazione, la mente la valuta come piacevole o spiacevole rapportandola all'esperienza vissuta in precedenza , quindi viene valutata soggettivamente e limitatamente come bella oppure brutta.  Il ritenere che ci sia un "qualcosa" che a-priori stabilisce in sè cosa è bello e cosa è brutto mi pare un assunto metafisico indimostrabile.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

sgiombo

#33
Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:10:27 AM
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 21:22:06 PM
Per definizione si conoscono con certezza le sensazioni fenomeniche (esteriori-materiali ed interiori-mentali), se esse si avvertono (accadono) e (si avvertono le sensazioni interiori o mentali costituenti il fatto che) si predica che accadono (definizione di conoscenza = predicazione conforme alla realtà, ovvero predicazione che accade realmente qualcosa accadendo realmente tale qualcosa, o che non accade realmente qualcosa non accadendo realmente tale qualcosa).

Che cosa significa conoscere? Io penso che conoscere sia semplicemente vivere e che non si possa né vivere né conoscere "per definizioni", le definizioni a volte aiutano, ma sempre ingannano. Noi siamo sempre conformi alla realtà e tutto quello che accade comunque realmente accade, esterno e interno insieme. Esterno e interno sono solo definizioni per una catalogazione comoda ai nostri discorsi.


CitazioneIo penso che per ragionare correttamente (filosoficamente e non solo; ma soprattutto di filosofia) si debbano definire accuratamente e il più possibile senza ambiguità i concetti. Che le definizioni ben disambiguate aiutino sempre (anche se malgrado esse si può pur sempre sbagliare) mentre i concetti ambigui o non ben definiti non aiutano mai e sempre tendono ad indurre in errore (e di fatto comunque troppo spesso inducono in errore).
E che il concetto di "vivere " sia ben diverso da quello di "conoscere": anche vegetali, protozoi, procarioti e virus vivono, ma non credo sia ragionevole ipotizzare che conoscano alcunché (se non in senso meramente metaforico -tutt' altra cosa!- come quando si dice che la selezione naturale consente al genoma di "acquisire """conoscenze""" " dell' ambiente).

Che noi siamo realtà, se esistiamo) è ovvio (una tautologia), ma il nostro pensiero non sempre è conforme alla realtà (per esempio se pensiamo che esistano gli ippogrifi).

Per (cercare nei limiti del possibile di) ragionare correttamente bisogna "catalogare" con precisione e rigore e senza ambiguità i concetti impiegati (per esempio distinguere correttamente fra interiore ed esteriore e non confonderli).


Noi, in quanto umani, sbagliamo (e tutti sbagliamo) non perché i nostri discorsi, i nostri pensieri, immaginazioni e prassi non sono conformi a una esterna realtà in sé, dato che la realtà solo in questi discorsi, pensieri, immagini e prassi si manifesta comunque si presentino, ma perché non riusciamo a intenderli nel loro contesto, non vogliamo vederli in rapporto a quello sfondo specifico, da noi stessi determinato per come ne veniamo determinati (ciascuno o collettivamente), in cui risiede la validità del loro significato.
Tutto ciò che appare in qualche modo realmente accade e accade significando qualcosa in rapporto a qualcos'altro che è un altro significato di immagini che continuamente si presentano esigendo che un senso possa venire trovato. E questo senso in qualche misura è sempre arbitrario e in qualche misura no e distinguerlo in questi termini non è un atto assoluto ed eterno, ma dipende dai contesti (fisici, biologici, cognitivi e sociali) in cui si manifesta.    


Citazione
Noi, in quanto umani, sbagliamo (e tutti sbagliamo) perché i nostri discorsi, i nostri pensieri, immaginazioni e prassi non sono conformi alla realtà fenomenica della nostra esperienza cosciente, l' unica cui possiamo avere accesso sensibile, l' unica che possiamo sentire (la cosa in sé la possiamo ipotizzare, possiamo anche credere che esista, ma solo per un nostro ragionamento -fra l'altro indimostrabile essere vero- e non per accesso sensibile).

Non riesco ad attribuire alcun senso alle parole " contesto, sfondo specifico, da noi stessi determinato per come ne veniamo determinati (ciascuno o collettivamente), in cui risiede la validità del significato dei nostri discorsi, pensieri, immagini e prassi".

Tutto ciò che appare ovviamente accade in quanto apparenza: tautologia!
Ma non necessariamente tutto ciò che appare è dotato di significato: solo i segni lo sono (per esempio parole, segnali stradali, icone del computer, ecc).
Il monte Cervino appare, ma non significa nulla, è e basta (o credi forse che l' abbia fatto intenzionalmente Dio come segno indicante la sua bontà verso noi uomini o altro?).
Inoltre un segno per essere tale deve avere (per lo meno nelle intenzioni di chi lo allestisce) un unico senso: se può essere interpretato in più modi indefinitamente è un pessimo segno non efficace, o un "tentativo si segnare –di essere segno- fallito".






CitazioneLa cosa in sé o noumeno (se c' è) per definizione non è accessibile alla sensazione, che per definizione è (e non può essere che) apparenza, fenomeno.

E' invece accessibile all' intelletto, che la, può pensare, ne può parlare (come di fatto qui si sta facendo), che essa esista realmente o meno)

Qui non stiamo parlando di cose in sé (anche se si può avere la pretesa di farlo), perché ciò che si può concepire e parlare non è mai la cosa in sé semplicemente per il fatto che nulla si può dire dell' "in sé" del quale si può propriamente solo tacere, anche se continuamente di esso si vuole dire qualcosa facendolo apparire.

CitazioneParlando della cosa in sé non la si fa apparire (si apparire solo il suo concetto, esattamente come parlando degli ippogrifi non si fanno apparire gli ippogrifi ma solo il loro concetto); ma di essa si può ben parlare (che esista o meno) come si può ben parlare degli ippogrifi che non esistono: per definizione non la si può sentire ma la si può pensare (sentire il pensiero di essa, che é cosa diversa da essa come il pensiero dell' ippogrifo e diversa cosa dall' ippogrifo, ma anche il pensiero del cavallo -esistente- e diversa cosa dal cavallo).
Più in generale si può sensatamente parlare anche di ciò che potrebbe non esistere (un pianeta simile alla terra intorno alla stella Aldebaran) o certamente non esiste (gli ippogrifi sulla nostra terra).






CitazioneInnanzitutto faccio una domanda a mia volta: in che modo ci sarebbe già presente nella mente l' idea di una bellezza e di una bontà, prima di esperire cose belle e buone? C' é da qualche parte qualcuno (sano di mente) che ricorda di aver da sempre saputo cosa sia la bellezza anche prima di vedere qualcosa di concreto che gli ha fatto l' impressione della bellezza (che gli é parso bello)?

Certo, lo avevo già detto, è impossibile un'idea di bellezza senza che vi siano cose belle, ma è ugualmente impossibile che vi sia alcuno che sappia vedere cose belle senza che non senta prima in sé la bellezza. La bellezza non è, come vorrebbe un certo realismo ingenuo,  un "a posteriori" rispetto all'esperienza delle cose.


CitazioneBeh, scusa ma la prima volta che un bimbo vede una cosa bella (sua madre?), la vede e avverte una componente di quella sensazione che poi imparerà a chiamare "bellezza" senza avere sentito prima in sé la bellezza.
La bellezza non, é come vorrebbe un certo platonismo ingenuissimo un idea a priori ubicata nell' iperuranio; è invece, come vuole l 'empirismo (ingenuo; e a maggior ragione se sofisticato), a posteriori .






Citazione...Dopo un bel po' di tutte queste esperienze stabilisce di chiamare "esperienza della bellezza" quel certo carattere comune a tutti i sentimenti di cui sopra, e che potrebbe riproporsi indefinitamente di fronte ad altre donne, ad altre opere d' arte, ad altre musiche, ad altri paesaggi, ecc. (e non di fronte alla visione della giornalista Lucia Annunziata, a un opera di Renzo Piano, a un rap, a una discarica di rifiuti, ecc.).
E come fai a sentire quel certo carattere comune senza che ti sia dato come carattere comune? Tu stai dicendo che la bellezza è un tratto comune (che così si "stabilisce di chiamare", come se il suo significato fosse solo una questione arbitraria di nomi!) che si ripete nelle diverse esperienze di cose in diverso modo belle senza accorgerti della "petitio principii": come si possono sentire diverse modalità di bellezza, senza che vi sia il sentimento di quella stessa bellezza che si vorrebbe spiegare a partire da esse?
Pensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali è tanto assurdo quanto pensare che vi sia prima una bellezza ideale astratta senza le cose diversamente e concretamente belle.  
CitazioneSe lo sento, allora "mi é dato come sensazione" (tautologia!).
Ma che c' entra la presunta questione arbitraria di nomi?
I nomi sono ovviamente arbitrari (come tutti i segni; ma esistono anche tantissime cose insignificanti, id est: che non sono segni), ma non puoi attribuire l' arbitrarietà da me ovviamente attribuita ai simboli verbali (i nomi; in particolare al vocabolo "bellezza" ") alle mie considerazioni (in particolare sull' essere a posteriori e non innato del concetto di bellezza!

Ma quale petizione di principio?!?!?!
Che
sentendo diverse modalità di bellezza necessariamente si senta il sentimento di quella stessa bellezza é una banalissima tautologia!

E non si sta parlando della spiegazione della bellezza bensì dell' origine (a posteriori e non innata!) dei concetti in generale, esemplificando con il particolare concetto di "bellezza" (si poteva benissimo farlo con quello di "bruttezza" e con qualsiasi altro): se confondiamo questioni completamente diverse diventa molto difficile, se non impossibile intenderci e dialogare proficuamente.

Pensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali é una contraddizione  che non ho mai affermato.
Sostengo invece tutt' altro: che possono esistere cose belle anche senza che nessuno ne conosca l' esistenza e che prima di vedere cose belle (a meno che non ci venga insegnato da qualcuno che più o meno indirettamente l' ha imparato vedendo cose belle) non si conosce il concetto di "bellezza": lo si conosce a posteriori e non a priori!
Ovvero che non vi é prima una conoscenza della bellezza ideale astratta senza l' esperienza delle cose diversamente e concretamente belle (che mi mi sembra invece proprio quanto affermassi tu).  

davintro

#34
Citazione di: Phil il 03 Settembre 2016, 17:41:17 PM
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMPerchè il principio di corrispondenza per cui il concetto di "albero" e "casa" sono ricavati da realtà che corrispondono al significato del concetto, cioè alberi e case, non varrebbe più per l'universalità che invece andrebbe ricava dall'esperienza di una realtà che universale non è?
Credo che la risposta a questa domanda sia l'"astrazione negativa" a cui accennavo in precedenza (e che, per inciso, non è una mia invenzione!): alcuni concetti non appartengono a realtà esperibili, ma sono stati comunque derivati dalla negazione di ciò che è esperibile. Come posso sapere cos'è l'"assenza", se sperimento solo presenze? E il concetto di "eternità"? E il "nulla"? Sono tutti concetti definiti (oltre che da una tradizione che ce li insegna e da un vocabolario che ce li spiega) logicamente dalla negazione di un'astrazione che possiamo basare sull'esperienza. Per questo alcune astrazioni creano falsi problemi e paradossi che "concretamente" non sussistono (Zenone docet!). L'universalità (una volta acquisita per astrazione dalla particolarità), secondo me, è come l'"esponente" matematico, la "potenza" che moltiplica i risultati della singola astrazione; ad esempio: guardo una cavallo - astraggo alcune caratteristiche - ottengo la "forma astratta di quel cavallo" ("FC") - negando l'individualità (dell'esperienza conoscitiva di quel singolo cavallo), ottengo una non-individualità dell'esperienza, detta universalità (n) - coniugo la "forma astratta" di cavallo (FC) con la congetturata universalità (n) - inizio a pensare quella "forma astratta" valida per un numero infinito di cavalli (FCn). Salvo poi dover verificare se in quella forma ho considerato qualcosa che invece è solo una contingenza particolare di quel singolo cavallo...
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMNon è piuttosto più coerente pensare che l'apprensione dell'universale sia qualcosa dipendente dall'esperienza di qualcosa di realmente universale
[corsivo mio] Se anche esperissimo qualcosa di universale non lo sapremmo mai con certezza, perché non potremmo verificarne l'universalità, quindi non potrebbe essere quella l'esperienza che fonda l'universale come concetto (salvo crederci per fede... ma tale credenza tuttavia presuppone già l'acquisizione del concetto di universalità da una tradizione o da un "vocabolario", per cui tale concetto di universalità sarebbe semplicemente "ricevuto" e presupposto...).

Ma cosa renderebbe possibile la "negazione"? Anche se, ammesso e non concesso, il concetto di universalità fosse ricavato per astrazione negativa da quello di particolarità, senza che esso sia il presupposto formale della possibilità di avere un concetto di "particolarità" come di qualunque altro concetto (come invece ritengo io) tuttavia occorrerebbe che il concetto di "particolarità" comprenda in sè la possibilità di essere negato, così da poterne derivare il concetto opposto, quello di "universalità".  Dunque, la negazione presuppone un rapporto di opposizione e la coscienza dell'opposizione presuppone la coscienza della differenza dei termini che si oppongono. Qui mi è utile ritornare all'esempio che avevo fatto a Sgiombo su "madre" e "figlio". L'essere madre  consiste in una relazione con un altro essere che però non è responsabile dell'esistenza della madre in quanto donna, in quanto sostanza. Cioè, d'accordo con Aristotele, le relazioni non sono sostanze, non determinano l'essere delle cose, ma contribuiscono ad approfondire e ad arricchirne il significato. La relazione non determina l'essere delle cose, è l'essere che fà sì che la cosa sia in un certo tipo di relazione con altre cose. La negazione non è una sostanza, è una relazione logica. L'universalità è negazione dell'individualità ma io ne ho coscienza perchè ho già un'idea intuitiva del significato di "particolarità" e di "universalità". Alla luce dell'intuizione del senso dell'individualità e dell'universalità prendo coscienza della loro opposizione e posso riconoscere che uno è la negazione dell'altro. La negazione è resa possibile dal fatto che colgo l'idea che la "particolarità" non esaurisce il contenuto dell'essere, della totalità del pensabile, ma è potenzialmente, superabile dall'idea di qualcosa di ulteriore ed opposto ad esso, l'idea di universalità, di cui io apprendo il senso. La negazione è relazione, e noi non possiamo avere un'esperienza originaria delle relazioni, ma solo indiretta, a partire dalle cose (idee o realtà concrete) che sono in relazione, e questo perchè le relazioni sono attributi non esistenti autonomamente, per sè, ma solo come appartenenti alle sostanze, alle essenze, di cui invece cogliamo intuitivamente il senso. La negazione di A non porta necessariamente a B, prima devo sapere in cosa consistono A e B per poi dire che una è la negazione dell'altra. Mi rendo conto che questa tesi ha un senso solo nel contesto in cui la formazione delle idee non coincide con la formazioni sintattiche del linguaggio, delle definizioni chi usiamo (per le quali si potrebbe tranquillamente dire che la differenza tra B e non-A è solo convenzionale, dunque non avrebbe senso pensare a un'intuizione di B oggettivamente distinta da non-A), ma è data dal complesso di rapporti non tra parole, ma tra vissuti intuitivi e concreti della nostra esperienza delle cose, considerata in uno stadio originario e diretto, non ancora mediato da un apparato simbolico comunicativo

Per quanto riguarda l'ultima parte, direi che il riconoscimento dell'esperienza del contatto con qualcosa di universale avviene tramite l'astrazione. Attenzione! Non sto smentendo ciò che scrivevo prima dicendo che l'idea di universalità non nasce per astrazione. L'astrazione è ciò a partire da cui deriva non l'idea di universale, ma il riconoscimento a-posteriori della presenza in noi dell'universalità, che però sarebbe presente a prescindere dall'astrazione. Io posso, riflettendo sul processo di astrazione, rendermi conto della necessità per il costituirsi di tale processo dell'intuizione dell'idea di universalità a partire dal quale estendo i concetti astratti dal sensibile a delle applicazione a casi non ancora esperiti sensibilmente, applicazione potenzialmente valida infinitamente. Dunque, l'intuizione dell'universalità prescinde dall'astrazione dal sensibile (anzi, rende possibile quest'ultima), ma alla luce del condizionamento dell'esperienza sensibile sulla nostra conoscenza, noi non possiamo raggiungere uno stadio della conoscenza totalmente intelligibile e dunque dobbiamo trovare nella sensibilità gli aspetti che rendono possibile l'esperienza di questa, e possiamo riconoscere la necessità dell'intuizione dell'univeralità, non in  sè stessa, ma come condizione trascendentale di tale esperienza sensibile. Se si vuole, è un processo di riconoscimento "retroattivo", dagli effetti alle cause.

Phil

Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMMa cosa renderebbe possibile la "negazione"? 
Il ragionamento logico (che non ragiona solo in modo universalistico), basato sull'astrazione formale, basata sull'esperienza.

Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMAnche se, ammesso e non concesso, il concetto di universalità fosse ricavato per astrazione negativa da quello di particolarità, senza che esso sia il presupposto formale della possibilità di avere un concetto di "particolarità" come di qualunque altro concetto (come invece ritengo io) tuttavia occorrerebbe che il concetto di "particolarità" comprenda in sè la possibilità di essere negato, così da poterne derivare il concetto opposto, quello di "universalità".
La "possibilità di essere negato"(cit.) non è in nessun concetto (in sé), ma credo sia tutta nella logica della mente che ci si relaziona... 
Inoltre, secondo me, il concetto di particolarità non ha bisogno di un "presupposto formale"(cit.) che sia a sua volta un altro concetto, poiché può essere esperita, ed esperendola, una mente elucubrativa, dopo averne astratta la forma, può logicamente congetturare il suo opposto. 
[L'idea di universalità è innata? Eppure non mi stupirebbe scoprire che in alcune lingue-culture non esiste una parola per questo concetto (nonostante magari esistano invece parole descrittive, come "sempre", "mai"...).]

Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMDunque, la negazione presuppone un rapporto di opposizione e la coscienza dell'opposizione presuppone la coscienza della differenza dei termini che si oppongono. 
Le negazione non presuppone il rapporto di opposizione, la negazione è il rapporto di opposizione... altrimenti quale sarebbe la differenza fra negazione e opposizione? Se dico che il bello e il brutto sono "opposti", dico anche che uno è la negazione dell'altro...
"La coscienza della differenza dei termini che si oppongono"(cit.) è l'effetto, non la causa, della negazione: negando la bellezza di qualcosa, prendo coscienza della sua bruttezza... la negazione come mancato riscontro di alcune qualità (stando all'esempio della bellezza) viene prima cronologicamente della sua applicazione concreta fra due elementi.

Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMLa negazione di A non porta necessariamente a B, prima devo sapere in cosa consistono A e B per poi dire che una è la negazione dell'altra. Mi rendo conto che questa tesi ha un senso solo nel contesto in cui la formazione delle idee non coincide con la formazioni sintattiche del linguaggio, delle definizioni chi usiamo (per le quali si potrebbe tranquillamente dire che la differenza tra B e non-A è solo convenzionale, dunque non avrebbe senso pensare a un'intuizione di B oggettivamente distinta da non-A), ma è data dal complesso di rapporti non tra parole, ma tra vissuti intuitivi e concreti della nostra esperienza delle cose, considerata in uno stadio originario e diretto, non ancora mediato da un apparato simbolico comunicativo 
Nel momento in cui riflettiamo su quei "vissuti concreti" non possono non entrare in gioco il linguaggio e la logica; se non riflettiamo sui vissuti, non si pone nemmeno il problema della universalità, perché ogni vissuto e individuale hic et nunc.
Credo dunque che non si possa postulare quella "B" (l'universale) senza identificarla prima cronologicamente con "non-A"(non-particolare): la relazione di negazione astrattiva innescata da A (il particolare) non produce certo alcuna "sostanza", ma solo una congettura (non-A, ovvero B) che attende di essere verificata (in questo caso ciò è impossibile, e questo può far riflettere molto...). 
Per questo citavo gli esempi di altri concetti inesperibili (assenza, nulla, eternità...) derivati dalla relazione di astrazione negativa... 


Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMIo posso, riflettendo sul processo di astrazione, rendermi conto della necessità per il costituirsi di tale processo dell'intuizione dell'idea di universalità [...] Dunque, l'intuizione dell'universalità prescinde dall'astrazione dal sensibile (anzi, rende possibile quest'ultima), ma alla luce del condizionamento dell'esperienza sensibile sulla nostra conoscenza, noi non possiamo raggiungere uno stadio della conoscenza totalmente intelligibile e dunque dobbiamo trovare nella sensibilità gli aspetti che rendono possibile l'esperienza di questa, e possiamo riconoscere la necessità dell'intuizione dell'univeralità, non in sè stessa, ma come condizione trascendentale di tale esperienza sensibile. 
[grassetti miei]
Quel "dobbiamo trovare" ciò che rende "necessaria" l'intuizione dell'universalità, è un dovere epistemologico o il sintomo di una petitio principii? Ovvero: se non riuscissimo a trovare qualcosa che fonda l'innatismo dell'universalità, questo verrebbe smentito, e allora (per evitare ciò) postuliamo un circolo (vizioso) fra l'intuizione dell'universale nel particolare e la necessità del particolare di rimandare all'universale... ma ciò non dimostra l'innatismo dell'universalità (solo l'evidente presenza del particolare).
Inoltre. tale intuizione non partirebbe forse dal sensibile, esattamente come l'astrazione? ;) 
Se invece è un'intuizione di origine divina, non posso che azzittirmi di fronte alla fede altrui...


Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMSe si vuole, è un processo di riconoscimento "retroattivo", dagli effetti alle cause.
Soltanto che per me la causa è il particolare, per te l'universalità: percorriamo la stessa strada in due direzioni opposte (per te, l'universalità, innata ed intuitiva, è la condizione di possibilità dell'astrazione; per me l'astrazione formale può anche non essere universale, e l'universale è solo uno dei risultati concettuali del processo di astrazione...); praticamente, io scommetto sull'uovo, creato per "fecondazione eterologa" dal/nel linguaggio, tu sulla gallina  ;D

davintro

#36
Rispondo a Sgiombo

Proprio il fatto che  anche circa un ente non reale e immaginario si possono dare giudizi oggettivi fà sì che qualunque concetto sia formalmente ponibile come "universale". Effettivamente l'espressione "intenzionalità oggettiva" per come l'ho usata, riferita a un concetto rischia di essere fuorviante. Intenzionalità oggettiva non vuol dire presumere che un concetto non sia solo un prodotto della mente ma un esistenza reale (se così fosse certamente il concetto di ippogrifo non sarebbe un concetto oggettivo), vuol dire che il concetto che pongo come elemento di un giudizio lo utilizzo attribuendogli un senso valido per ogni situazione in particolare nel quale l'oggetto può entrare a far parte di uno specifico stato di cose, e che senza tale attribuzione non sarebbe possibile alcun guidizio rivolto a predicare stati di cose oggettivi. Se io giudico che "l'immagine che ho di fronte rappresenta un ippogrifo" questa giudizio è intenzionalmente rivolto a rappresentare uno stato di cose oggettivo e può farlo perchè il concetto di "ippogrifo" ha per me un senso che vale per tutti gli ippogrifi possibili, altrimenti non sarebbe utilizzabile come criterio a-priori per dire che ciò che ho di fronte è un ippogrifo, ho bisogno cioè del concetto generale per giudicare il caso singolo, in questo senso parlavo di "intenzionalità oggettiva" del concetto e sostenevo la corrispondenza tra l'intenzionalità oggettiva del concetto (resa possibile dalla forma universale del concetto) e l'intenzionalità oggettiva del giudizio. La non-oggettività dell'ippogrifo intesa come non-esistenza reale non ha nulla a che fare con l'oggettività che consideravo io in questo contesto, spero di avere charito l'equivoco

Essendo l'universalità il carattere formale e non contenutistico del concetto, ogni concetto è universale a prescindere dall'estensione semantica del contenuto, dell'oggetto a cui il concetto si riferisce, e quindi non ci sono difficoltà a pensare a concetti formalmente universali riferiti a singoli individui e non solo a specie. Come il concetto di "gatto" si riferisce ad OGNI possibile gatto, il concetto del singolo gatto Attila, vale per tutti le differenti situazioni di cui di Attila posso fare esperienza, Attila resta Attila, sia quando dorme, quando è sveglio, quando è fuori casa, quando è in casa, quando è giovane, quando invecchierà... In questo caso il concetto del singolo gatto Attila consisterà nella sua identità individuale, vale per tutti i modi per i quali posso fare la sua esperienza, quindi la sua forma è universale come la forma del concetto "gatto", cambia solo l'estensione semantica del contenuto, non più una specie ma un singolo individuo. La molteplicità da cui si astrae non è per forza una molteplicità quantitativa, può essere una molteplicità di aspetti e situazioni riferibili a un ente numericamente unico. Ecco perchè "concetto" e "specie" sono cose diverse. Il concetto è una struttura mentale che può riferirsi sia a enti collettivi che individuali, la specie è data dal complesso di qualità comuni ad oggetti potenzialmente reali, tutto questo rientra nella fondamentale distinzione tra logica formale che comprende l'utilizzo di concetti, e l'ontologia "materiale" che si occupa di qualità concrete degli oggetti.

Pensare a un contatto cosciente della nostra mente con un "qualcosa" di universale di cui si potrebbe non rendersi conto non è qualcosa di assurdo, il "rendersi conto" di un processo mentale cosciente è un fatto accidentale e ulteriore rispetto al processo mentale cosciente stesso. Ogni atto della coscienza è specificato dall'oggetto a cui si rivolge. Dunque l'atto della coscienza con cui ci rivolgiamo alla nozione di universalità non è lo stesso atto di coscienza con cui penso al primo atto, quest'ultimo è un rivolgersi ulteriore. Del resto molti processi mentali hanno continuato nel tempo a porsi in atto senza che la coscienza riflettente (scientifica) se ne accorgesse. L'attività della coscienza che interviene nell'attività onirica a camuffare ngli elementi libidinosi in quanto sconvenienti socialmente era pressochè sconosciuta prima degli studi di Freud sull'inconscio e sull'interpretazione dei sogni (lasciamo perdere per ora il termine "inconscio", a mio modestissimo avviso fuorviante mentre sarebbe più corretto parlare di "coscienza potenziale", andremmo troppo fuori tema), eppure è sempre stata attuale prima che ce ne rendessimo conto. Inoltre, chi sostiene l'astrattività a-posteriori del concetto di universalità dovrebbe, in base a tale argomento,  sostenendo che ogni processo mentale cosciente non potrebbe essere se non anche auto-cosciente e oggetto di una consapevolezza, negare tale processo all'interno della mente degli innatisti dato che questi non se ne renderebbero conto!

sgiombo

Citazione di: davintro il 05 Settembre 2016, 20:09:53 PM
Rispondo a Sgiombo

Proprio il fatto che  anche circa un ente non reale e immaginario si possono dare giudizi oggettivi fà sì che qualunque concetto sia formalmente ponibile come "universale". Effettivamente l'espressione "intenzionalità oggettiva" per come l'ho usata, riferita a un concetto rischia di essere fuorviante. Intenzionalità oggettiva non vuol dire presumere che un concetto non sia solo un prodotto della mente ma un esistenza reale (se così fosse certamente il concetto di ippogrifo non sarebbe un concetto oggettivo), vuol dire che il concetto che pongo come elemento di un giudizio lo utilizzo attribuendogli un senso valido per ogni situazione in particolare nel quale l'oggetto può entrare a far parte di uno specifico stato di cose, e che senza tale attribuzione non sarebbe possibile alcun guidizio rivolto a predicare stati di cose oggettivi. Se io giudico che "l'immagine che ho di fronte rappresenta un ippogrifo" questa giudizio è intenzionalmente rivolto a rappresentare uno stato di cose oggettivo e può farlo perchè il concetto di "ippogrifo" ha per me un senso che vale per tutti gli ippogrifi possibili, altrimenti non sarebbe utilizzabile come criterio a-priori per dire che ciò che ho di fronte è un ippogrifo, ho bisogno cioè del concetto generale per giudicare il caso singolo, in questo senso parlavo di "intenzionalità oggettiva" del concetto e sostenevo la corrispondenza tra l'intenzionalità oggettiva del concetto (resa possibile dalla forma universale del concetto) e l'intenzionalità oggettiva del giudizio. La non-oggettività dell'ippogrifo intesa come non-esistenza reale non ha nulla a che fare con l'oggettività che consideravo io in questo contesto, spero di avere charito l'equivoco

CitazioneOvviamente circa un ente non reale ma immaginario (esattamente come circa un ente reale) si possono dare giudizi veri (se se ne predica l' inesistenza reale) o falsi (se se ne predica l' esistenza reale); non capisco in che senso potrebbero essere giudizi "oggettivi" o meno ("soggettivi"? Può oggettivamente accadere che si diano tali giudizi o meno e si può soggettivamente pensare che si diano o meno, ma non vedo l' interesse di queste ovvie considerazioni per la nostra discussione).

Che significa che un qualunque concetto (anche non universale o -come dici tu più sotto- "individuale"), per il fatto che -ovviamente- se ne possa predicare sarebbe formalmente ponibile come "universale"?
Intendi forse "concetto predicabile" come sinonimo di "concetto ponibile come universale"? Ma che senso avrebbe mai questo stabilimento arbitrario, per definizione di un' inutile, ridondante sinonimia?
E d' altra parte per il fatto che se ne possa predicare, il concetto del "mio gatto Attila", che ha una denotazione (e una connotazione) particolare non muta la sua natura particolare in quella universale di "gatto" che invece denota (e connota) caratteristiche universalmente presentate da un numero indefinito di animali.

Inoltre che ogni concetto debba avere un certo senso o connotazione stabilmente accettato dai parlanti e valido "per ogni situazione in particolare nella quale l'oggetto può entrare a far parte di uno specifico stato di cose, e che senza tale attribuzione" di una connotazione "non sarebbe possibile alcun giudizio rivolto a predicare stati di cose (oggettivamente reale o anche soggettivamente immaginario) mi sembra una cosa ovvia: un concetto per predicarlo sensatamente deve aver un certo senso; ma non vedo come tutto ciò possa inserirsi nella discussione su innatezza a priori o acquisizione a posteriori dei concetti, in particolare di quelli universali, e più in particolare ancora (toh, che bel gioco di parole!) del concetto di "universale".

Mi sembra ovvio ma non vedo in che senso rilevante che il concetto di "ippogrifo" abbia per te (e per tutti i parlanti la lingua italiana) un senso che vale per tutti gli ippogrifi (immaginari) possibili, altrimenti non sarebbe utilizzabile come criterio stabilito a posteriori (dopo aver visto svariati cavalli ed uccelli, e non prima di tali molteplici esperienze sensibili) per dire che ciò che hai di fronte è l' immagine di un ippogrifo (ben altra cosa che un ippogrifo!), che hai bisogno cioè del concetto generale per giudicare il caso singolo come appartenente a una classe di oggetti (e del concetto particolare di Ippogrifo Pegaso per giudicare, per esempio, che l' immagine che hai davanti rappresenta il particolare ippogrifo –immaginario- Pegaso).


Essendo l'universalità il carattere formale e non contenutistico del concetto, ogni concetto è universale a prescindere dall'estensione semantica del contenuto, dell'oggetto a cui il concetto si riferisce, e quindi non ci sono difficoltà a pensare a concetti formalmente universali riferiti a singoli individui e non solo a specie. Come il concetto di "gatto" si riferisce ad OGNI possibile gatto, il concetto del singolo gatto Attila, vale per tutti le differenti situazioni di cui di Attila posso fare esperienza, Attila resta Attila, sia quando dorme, quando è sveglio, quando è fuori casa, quando è in casa, quando è giovane, quando invecchierà... In questo caso il concetto del singolo gatto Attila consisterà nella sua identità individuale, vale per tutti i modi per i quali posso fare la sua esperienza, quindi la sua forma è universale come la forma del concetto "gatto", cambia solo l'estensione semantica del contenuto, non più una specie ma un singolo individuo. La molteplicità da cui si astrae non è per forza una molteplicità quantitativa, può essere una molteplicità di aspetti e situazioni riferibili a un ente numericamente unico. Ecco perchè "concetto" e "specie" sono cose diverse. Il concetto è una struttura mentale che può riferirsi sia a enti collettivi che individuali, la specie è data dal complesso di qualità comuni ad oggetti potenzialmente reali, tutto questo rientra nella fondamentale distinzione tra logica formale che comprende l'utilizzo di concetti, e l'ontologia "materiale" che si occupa di qualità concrete degli oggetti.

Citazione
Continuo a non capire in che senso l' l'universalità sarebbe "il carattere formale e non contenutistico" del concetto, in che senso ogni concetto sarebbe universale a prescindere dall'estensione semantica del contenuto, dell'oggetto –reale o immaginario, particolare o universale- a cui il concetto si riferisce: "universalità formale come sinonimo di "concettualità" o di "predicabilità"?
E perché mai?

L' ovvia affermazione che << "il concetto del singolo gatto Attila, vale per tutti le differenti situazioni di cui di Attila posso fare esperienza, Attila resta Attila, sia quando dorme, quando è sveglio, quando è fuori casa, quando è in casa, quando è giovane, quando invecchierà... In questo caso il concetto del singolo gatto Attila consisterà nella sua identità individuale, vale per tutti i modi per i quali posso fare la sua esperienza, quindi la sua forma è universale come la forma del concetto "gatto">> mi sembra un sofisma per cercare vanamente di negare che quello del "mio gatto Attila" è un concetto particolare (che ovviamente ha estensione comprendente tutta la vita dell' individuo particolare che denota, istante per istante: il che non ne fa certo una classe di diversi individui accomunati da una caratteristica astratta ad essi universalmente comune); mentre invece il concetto di "gatto" si riferisce ad ogni possibile gatto, a un indefinito numero di gatti passati, presenti e futuri, a una caratteristica (possibile oggetto di astrazione) universalmente posseduta da un insieme indefinitamente numeroso e di animali e non solo dal particolare gatto Attila.
Mi sembra che tu denomini (indebitamente; o per lo meno alquanto, originalmente e "tendenziosamente") come "universale" il fatto ovvio che il senso o denotazione di un concetto sia necessariamente "costante" (una volta che lo si è stabilito convenzionalmente; e fino ad eventuali, non auspicabili, mutamenti convenzionalmente stabiliti) e non "variabile ad libitum".

Nemmeno riesco a cogliere l' attinenza con la discussione dell' altra ovvia affermazione che "concetto" (in particolare i concetti universali di specie) e "specie" reale (indipendentemente dall' essere eventualmente anche oggetto di pensiero, senso o connotazione di concetto predicato, o meno) sono cose ben diverse.
E d' altra parte se "la specie è data dal complesso di qualità comuni ad oggetti potenzialmente reali" (le quali possono essere presenti in più oggetti concreti appartenenti all' "ontologia" materiale"), allora si tratta puramente e semplicemente di un sinonimo di "concetto astratto o universale", (il quale può avere denotazioni o referenti reali, presentati da più concreti oggetti reali); per esempio il complesso di caratteristiche comuni ad oggetti potenzialmente reali costituito dall' "essere pesanti" non é che il concetto astratto universale di "presantezza".


Pensare a un contatto cosciente della nostra mente con un "qualcosa" di universale di cui si potrebbe non rendersi conto non è qualcosa di assurdo, il "rendersi conto" di un processo mentale cosciente è un fatto accidentale e ulteriore rispetto al processo mentale cosciente stesso. Ogni atto della coscienza è specificato dall'oggetto a cui si rivolge. Dunque l'atto della coscienza con cui ci rivolgiamo alla nozione di universalità non è lo stesso atto di coscienza con cui penso al primo atto, quest'ultimo è un rivolgersi ulteriore. Del resto molti processi mentali hanno continuato nel tempo a porsi in atto senza che la coscienza riflettente (scientifica) se ne accorgesse. L'attività della coscienza che interviene nell'attività onirica a camuffare ngli elementi libidinosi in quanto sconvenienti socialmente era pressochè sconosciuta prima degli studi di Freud sull'inconscio e sull'interpretazione dei sogni (lasciamo perdere per ora il termine "inconscio", a mio modestissimo avviso fuorviante mentre sarebbe più corretto parlare di "coscienza potenziale", andremmo troppo fuori tema), eppure è sempre stata attuale prima che ce ne rendessimo conto. Inoltre, chi sostiene l'astrattività a-posteriori del concetto di universalità dovrebbe, in base a tale argomento,  sostenendo che ogni processo mentale cosciente non potrebbe essere se non anche auto-cosciente e oggetto di una consapevolezza, negare tale processo all'interno della mente degli innatisti dato che questi non se ne renderebbero conto!

CitazioneNon prendo in considerazione Freud e la psicoanalisi dei quali ho una pessima opinione come di penose, irrazionali superstizioni antiscientifiche.
Per "mente" intendo quella parte di eventi fenomenici coscienti che non è intersoggettiva e misurabile attraverso rapporti numerici (la cartesiana "res cogitans").
Per definizione non può non essere cosciente.
D' altra parte di ciò che non è cosciente (se realmente qualcosa di non cosciente accade) credo ben poco possa dirsi.
L' astrazione a posteriori dei concetti è comunque un processo cosciente; e lo sarebbe anche l' appercezione a priori di essi, ammessa e non concessa.
Qualsiasi processo mentale (per come lo intendo io: da non confondersi con i processi cerebrali che per me sono tutt' altra cosa!) è per definizione cosciente, è il "rendersi conto di qualcosa, che ci si renda anche conto di rendersene conto (cioè che si sia anche autocoscienti, oltre che coscienti) o meno: un "fatto accidentale e ulteriore rispetto al processo mentale cosciente" è casomai la coscienza di tale processo mentale cosciente, cioè l' autocoscienza.
Non vedo pertanto come la tesi dell' innatezza a priori del conetto di "universalità" possa essere corroborata da queste considerazioni per me senza senso (autocontraddittorie, per come intendo io la coscienza)  su pretesi "eventi mentali non fenomenicamente coscienti".

Sostengo l'astrattività a-posteriori del concetto di universalità, in pieno disaccordo dagli innatisti, guardandomi bene dall' affermare che "ogni processo mentale cosciente non potrebbe essere se non anche auto-cosciente e oggetto di una autoconsapevolezza", tesi che mi pare con l'astrattività a-posteriori del concetto di universalità non abbia nulla a che vedere.

maral

Citazione di: sgiomboPensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali é una contraddizione  che non ho mai affermato.
Sostengo invece tutt' altro: che possono esistere cose belle anche senza che nessuno ne conosca l' esistenza e che prima di vedere cose belle (a meno che non ci venga insegnato da qualcuno che più o meno indirettamente l' ha imparato vedendo cose belle) non si conosce il concetto di "bellezza": lo si conosce a posteriori e non a priori!
Ovvero che non vi é prima una conoscenza della bellezza ideale astratta senza l' esperienza delle cose diversamente e concretamente belle (che mi sembra invece proprio quanto affermassi tu)
Bene, sono contento di questa tua precisazione, se per concetto di bellezza intendiamo la sua definizione (o il tentativo a posteriori di definirla astrattamente, ad esempio definendo dei rapporti formali che la stabiliscono come regole estetiche che sono certamente a posteriori). Le definizioni (e le astrazioni a cui conducono) sono estremamente utili e sono utili per manipolare  i significati delle cose di comune accordo pensando di manipolare le cose stesse. Le definizioni si possono insegnare, ma non l'universale in quanto tale (che non è semplicemente una percezione di qualcosa di esterno, noi non percepiamo nulla di esterno), esso è già presente in ogni esperienza, ed è presente come assolutamente indefinibile e assolutamente indicibile. Ma attenzione, non vi è alcun significato universale che non si riveli proprio nelle particolari esperienze e infatti non ho mai detto che debba esservi prima una conoscenza ideale, men che meno di concetti, ma che il significato viene sempre con il segno significante e viceversa, ogni percezione con il senso che la sottende e viceversa. La cosa è sempre con la parola che la manifesta, pur essendo il mondo delle cose e delle parole indipendenti e diversi, sono due mondi legati, sempre connessi, l'uno permette l'altro senza che nessuno preceda l'altro. Noi viviamo sempre e comunque la realtà del mondo fenomenico e lo viviamo sempre soggettivamente: il linguaggio (non solo vocale) non è originariamente uno strumento inventato arbitrariamente da qualcuno per comunicare con gli altri che convengono con lui sugli stessi termini (anche se a posteriori può sembrare tale), nessuno può inventare linguaggi se non per usi molto particolari, ma è un puro strumento di espressione dell'esistenza stessa, è l'umano modo di esistere nella dimensione umana: noi parliamo come gli uccelli volano e i pesci nuotano, nessun uccello e nessun pesce ha mai convenuto con gli altri uccelli o pesci quali movimenti fare per volare o parlare, esattamente come nessun umano ha mai convenuto (se non in linguaggi formali, artificiali e dunque a posteriori) quale significato o significati dovesse indicare un segno o tanti segni anziché un altro o degli altri e in ogni caso, come gli uccelli nell'aria e i pesci nell'acqua, noi siamo sempre nel mondo del linguaggio, sia che si parli del monte Cervino che dell'ippogrifo e ciò che importa è solo il senso contestuale (e non la verità/falsità assoluta) dell'uno o dell'altro.

Propongo a tutti come spunto di riflessione, il link a una splendida lezione di Sini su questo tema, o meglio sul tema della "Differance" di Derrida, che mi pare collegabile anche al discorso sul Noumeno, all'assoluta indefinibilità del Noumeno, come all'assoluta indefinibilità e innominabilità della Differance (che poi è anche un tema profondamente legato al pensiero ebraico alla cui tradizione Derrida, come Husserl, come Levinas, come Freud, appartiene: l'assoluta inconoscibilità del none di Dio). Chiamandola così (Dio, Noumeno, Differance) si è già detto troppo, figuriamoci quanto troppo dice che pretende di parlare in nome di una metafisica definita su concetti religiosi o razionali che siano!
La lezione è piuttosto lunga, ma la complessità della questione rende necessario soffermarcisi sopra, in particolare dal minuto 21 in avanti. Molto pertinente è poi il richiamo a de Saussure sull'inestricabilità senza soluzione del rapporto tra significante e significato, intorno al minuto 40.
https://www.youtube.com/watch?v=LCSzf7Snmmk


   

sgiombo

Citazione di: maral il 06 Settembre 2016, 23:01:58 PM
 Le definizioni (e le astrazioni a cui conducono) sono estremamente utili e sono utili per manipolare  i significati delle cose di comune accordo pensando di manipolare le cose stesse. Le definizioni si possono insegnare, ma non l'universale in quanto tale (che non è semplicemente una percezione di qualcosa di esterno, noi non percepiamo nulla di esterno), esso è già presente in ogni esperienza, ed è presente come assolutamente indefinibile e assolutamente indicibile.

CitazioneNoi non percepiamo nulla di esterno alla nostra esperienza fenomenica cosciente, non percepiamo cose in sé (il numeno; se é reale, come personalmente credo, non sento né dimostro).
Mi pare che di ciò che non é assolutamete definibile né dicibile non possa dirsi alcunché, quindi credo che gli aspetti universali astratti delle esperienze fenomeniche di cui parliamo sensatamente, non siano indefinibili né indicibili (infatti nei vocabolari delle varie lingue esistono le definizioni di tutti quelli di essi che si impiegano di fatto).

In una singola esperienza particolare non é presente nulla di universale; solo da una serie di più esperienze particolari possono essere astratte caratteistcihe universalmente in esse presenti.


Ma attenzione, non vi è alcun significato universale che non si riveli proprio nelle particolari esperienze e infatti non ho mai detto che debba esservi prima una conoscenza ideale, men che meno di concetti, ma che il significato viene sempre con il segno significante e viceversa, ogni percezione con il senso che la sottende e viceversa.

CitazioneChe non possa esservi prima delle sperienze particolari concrete alcuna conoscenza ideale, men che meno di concetti, sono perfettamete d' accordo; e anche che il significato viene o sta sempre con il segno significante e viceversa.
Non invece che ogni percezione con il senso che la sottende e viceversa: ribadisco che vi sono percezioni (o insiemi di percezioni) che sono segni significanti e dunque dotate di sinificato, ma anche altre percezioni (o insiemi di percezioni) che non sono segni significanti e dunque non sono dotate di sinificato.


La cosa è sempre con la parola che la manifesta, pur essendo il mondo delle cose e delle parole indipendenti e diversi, sono due mondi legati, sempre connessi, l'uno permette l'altro senza che nessuno preceda l'altro. Noi viviamo sempre e comunque la realtà del mondo fenomenico e lo viviamo sempre soggettivamente: il linguaggio (non solo vocale) non è originariamente uno strumento inventato arbitrariamente da qualcuno per comunicare con gli altri che convengono con lui sugli stessi termini (anche se a posteriori può sembrare tale), nessuno può inventare linguaggi se non per usi molto particolari, ma è un puro strumento di espressione dell'esistenza stessa, è l'umano modo di esistere nella dimensione umana: noi parliamo come gli uccelli volano e i pesci nuotano, nessun uccello e nessun pesce ha mai convenuto con gli altri uccelli o pesci quali movimenti fare per volare o parlare, esattamente come nessun umano ha mai convenuto (se non in linguaggi formali, artificiali e dunque a posteriori) quale significato o significati dovesse indicare un segno o tanti segni anziché un altro o degli altri e in ogni caso, come gli uccelli nell'aria e i pesci nell'acqua, noi siamo sempre nel mondo del linguaggio, sia che si parli del monte Cervino che dell'ippogrifo e ciò che importa è solo il senso contestuale (e non la verità/falsità assoluta) dell'uno o dell'altro.

CitazioneAnche su questo non sono d' accordo.
Il monte Cervino c' era centinaia di migliaia di anni prima che ci fosse alcun uomo che lo vedesse, ci penasasse e ne parlasse.
E d' atra parte vi sono cose artificialmente realizzate dall' uomo (esempio banale: un' automobile) delle quali prima esistono il pensiero (i concetti), i disegni e relativi progetti, le parole con le quali vengono descritti e volendo -e in certi casi di fatto lo si  vuole ed accade- perfino il nome che le viene assegnato), e dopo le cose stesse.
E vi sono perfino "cose" pensate, dette e scritte (e magari dipinte o scolpite), esistenti (realmente) solo in quanto tali (pensiero, concetti, figure) senza che mai esistano realmente in quanto "cose reali" (senza che mai esistano cose reali da essi denotate), come gli ippogrifi e gli altri oggetti di fantasia della letteratura e delle arti figurative.
Dunque é evidente che "il mondo delle parole" e "il modo delle cose" sono sì indipendenti e diversi, ma che non sono affatto necessariamente e universalmente,  sempre e comunque connessi, che gli oggetti appartenenti all'uno possono accadere del tutto indipendentemente da quelli aparteneti all' altro, senza che l' uno abbia bisogno di alcun "permesso da parte dell' altro", potendo benissimo precederlo, succedergli, o anche essere reale senza che mai lo sia l' altro.


Sono (anticonformisticamente) convinto che il linguaggio sia un' "invenzione" umana e non una dote naturale di cui la nostra specie sia geneticamente dotata, bensì una delle prime e certamente la fondamentale, rivoluzionaria manifestazione della cultura o "storia umana", decisiva nel salto di qualità costituito dall' inizio di quest' ultima nel nostro pianeta rispetto alla "storia naturale" fino ad allora unicamente in atto (ma é una mia convnzione in larga misura intuitiva, non certo "saldamente dimostrabile" e inltre la questione sarebbe troppo complessa per affrontarla qui).

Solo i linguaggi tecnici artificiali vengono formalmente ed esplicitamente, "artificiosamente", arbitrariamente stabiliti e "sanciti"; e tuttavia, anche se in maniera più spontanea e "naif", meno formalmente e rigorosamente definita, tutti i linguaggi (anche "naturali") nascono in realtà per la decisione convenzionale dei parlanti di attribuire arbitrariamente determinati significati a determinati vocaboli (e non istintivamente, come il volo degli uccelli e il nuoto dei pesci).

Beh, a me personalmente la verità o falsià di ciò che si dice o si pensa interessa tantissimo.




 

paul11

#40
ho riletto velocemente il thread.
A mio parere siete entrati troppo velocemente negli universali e nei giudizi di bello, brutto, ecc.

Noi non nasciamo con concetti, ma con meccanismi sicuramente sì, perchè sono quest'ultimi che a loro volta costruiscono conoscenze e concetti.
Sono convinto che ad esempio l'inferenza sia innata nell'uomo, il sapere confrontare, differenziare, trovare denominatori comuni.
Ma è proprio questa innatezza logica (non ancora ovviamente formalizzata perchè questa rientra nelle sintassi linguistiche) che crea l'astrazione. la prima relazione è fra mondo sensibile del percettivo rispetto all'idea, concetto che noi abbiamo costruito.
Il secondo problema è come linguisticamente definiamo, separiamo e uniamo fra loro i concetti(tassonomie, categorie).

L'astrazione può benissimo autogovernarsi, ma il problema di una credibilità razionale fuori dal campo della verifica con il mondo sensibile, presuppone che il linguaggio formalizzi allo stesso modo in cui ha costruito le relazioni fra astrazione e realtà(intendo quì il percepibile)
In altre parole il razionale inteso come "fuori" completamente dal mondo sensibile, per potersi reggere  da solo deve necessariamente avere una formulazione formale e linguistica (sintassi e semantica) vera.
Ma è propri quì il problema, l'autoreferenza del sistema e l'ambiguità linguistica  mai esaustiva come non lo è mai il conoscere.
Ma daccapo, se l'uomo fin da bambino fantastica e quel fantasticare diventerà organizzare formalmente l'astrazione dentro il razionale
 noi non possiamo fingere che non vedendo l'altra metà della luna e non sapendola descriverla non esista..
L'universalità nel momento in cui si relazionano fra loro le astrazioni per  ordinarle concetti "salta" fuori" naturalmente.
Come mai la metafisica dei numeri(la matematica) suddivide i numeri naturali, razionali, reali, ecc e costruisce l'insiemistica?
Come ma i la metafisca delle parole (la linguistica formale) comunque definisce ,descrive e rappresenta un mondo, un dominio, un ordine?

paul11

...e ancora
Gli oggetti del mondo sensibile, una montagna, oppure un'astrazione come un numero che non è in sè e per sè un oggetto fisico, per poter conoscere devono essere operazionati, relazionati.Gli oggetti quindi non sono ancora conosenza ,Se ad esempio dico montagna, tutte le montagne del mondo sono rappresentate, ma se delimito e sottraggo dal "tutto" il monte Cervino, allora lo devo descrivere separare dal concetto totale di montagna.
Il tutto e il particolare, l'universale e le differenze per negazione o sottrazione ( nel senso che estraggo dal concetto monte,  il monte  Cervino per specificarlo, indicarlo, denotarlo, descriverlo,ecc.) sono un insieme in cui i particolari ,le specificità son gli elementi che lo compongono.
La fortuna ,diciamo così, della matematica e della logica predicativa, proposizionale, è la qualità operazionale di coniugare l'astratto con il reale,Ovvero se dico uno, non dico niente, ma se dico una mela, due mela, indico una specificità che funziona, ovvero l'astratto permette di "manipolare" la realtà fisica.
La scienza moderna quindi si avvale della metafisica formale dei numeri e delle parole per la loro capacità di coniugarsi agli oggetti fisici.E' questa e sola corrispondenza che la scienza definisce razionale e costruisce conoscenza.
Ma ribadisco, il problema è che se funziona in se e per sè la matematica ,aritmetica, geometria, se funziona la parola dei segni logici ed  in entrambi i domini applico segni astratti operazionali (+, - and, or o l'inferenza se....allora, ecc.) la razionalità non si fermerebbe al meccanismo logico/matematico applicato al mondo fisico, ma proseguirebbe nel dominio metafisico da cui si sono formalizzati i meccanismi matematici e logici.
Semplicemente perchè...da cosa viene cosa.... detto banalmente.Sono gli stessi meccanismi innati(a mio parere) che formuleranno come un sistema esperto , il sillogismo, i meccanismi logici di identità non-contraddizione, ecc
E' nella nostra natura chiedersi, visto che siamo arrivati ai concetti astratti dei numeri e parole segnici e la loro operazionalità che contribuisce a definire un sistema con delle proprietà postulate come fondativi, che cosa ci faccio al mondo, l'universo ha un principio e finirà, ecc.
Pensare di non poter pensare, ovvero fermarsi alla sola coniugazione fra forma  e sostanza fisica, significa mortificare la propria essenza e potenzialità umana.

Phil

Citazione di: paul11 il 07 Settembre 2016, 18:51:39 PME' nella nostra natura chiedersi, visto che siamo arrivati ai concetti astratti dei numeri e parole segnici e la loro operazionalità che contribuisce a definire un sistema con delle proprietà postulate come fondativi, che cosa ci faccio al mondo, l'universo ha un principio e finirà, ecc. Pensare di non poter pensare, ovvero fermarsi alla sola coniugazione fra forma e sostanza fisica, significa mortificare la propria essenza e potenzialità umana.

Eppure, la constatazione che la matematica, la logica e il linguaggio siano convenzioni arbitrarie ed autoreferenti, non ci insegna anche che alcune delle questioni che esse pongono sono (in buona fede) altrettanto arbitrarie e autoreferenti? 
Se quelle discipline mediano fra il nostro intelletto e ciò che ci circonda (il mondo), tale mediazione non può essere anche mal impostata o distorta e produrre dei falsi problemi? 
La consapevolezza che la razionalità non è la realtà, non è l'unico criterio che abbiamo per individuare gli usi impropri del nostro domandare, ovvero quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere?

Per fare un esempio (a cui già mi sono riferito in precedenza): il problema zenoniano della competizione fra Achille e la tartaruga non è un forse un problema "serio" solo per la logica e per la matematica (ma non lo è affatto per l'esperienza)? Ciò non indica forse che quel problema era mal posto perchè risultava paradossale solo nella chiusura della sua logica narcisistica, ma perdeva di vista il mondo?


P.s. Mi scuso con Paul che, se non erro, ha già avuto la pazienza di discutere con me su questi temi... ma, richiamando il titolo del topic, mi sembrava opportuno ricordare come una "critica della conoscenza" (in entrambi i sensi!) può essere spesso quella di non (ri)conoscere i propri limiti (talvolta limitarsi è opportuno...) e di affrontare qualunque problema (soprattutto quelli ritenuti ormai "classici") con troppo entusiasmo, senza verificarne la legittimità o, visto che Maral ha citato Derrida, senza decostruirli prima di lanciarsi alla ricerca della risposta...

sgiombo

Citazione di: Phil il 08 Settembre 2016, 15:57:47 PM

La consapevolezza che la razionalità non è la realtà, non è l'unico criterio che abbiamo per individuare gli usi impropri del nostro domandare, ovvero quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere?

Per fare un esempio (a cui già mi sono riferito in precedenza): il problema zenoniano della competizione fra Achille e la tartaruga non è un forse un problema "serio" solo per la logica e per la matematica (ma non lo è affatto per l'esperienza)? Ciò non indica forse che quel problema era mal posto perchè risultava paradossale solo nella chiusura della sua logica narcisistica, ma perdeva di vista il mondo?


CitazioneMa chi stabilirebbe la "proprietà" o meno del nostro domandare, ovvero "quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere" e quando no?

Mi pare che i paradossi di Zenone (che ritengo logicamente errati e confutabili, ma questa é un' altra questione) non siano 
chiusi in una loro logica narcisistica e autoreferenziale, ma riguardino il mondo reale.

Cercano di dimostrare (a mio parere erroneamente, e dunque vanamente) che la realtà é fissa e immutabile malgrado l' apparenza del cambiamento (di confermare le tesi sulla realtà del suo maestro Parmenide).

Quello di Zenone era per me un problema ben posto (anzi: ottimamente posto), ma mal risolto (erroneamente).

Le domande importanti per me (chiaramente si tratta di una preferenza del tutto soggettiva e arbitraria che può benissimo non essere condivisa; denomino "filosofi" coloro che le condividono) non sono solo quelle poste dalla pratica immediata del vivere "giorno per giorno", dei mezzi per conseguire scopi acriticamente assunti in determinate circostanze, ma anche quelle "teoriche (più o meno) pure" circa quali scopi porsi nella vita in generale (magari per trovare come risposta che non se ne possono razionalmente dimostrare ma solo se ne possono irrazionalmente avvertire dentro di sé") o com' é la propria vita e la realtà in cui ci si trova anche indipendentemente da qualsiasi eventuale conseguenza pratica che possa o meno derivare da eventuali risposte, per pura e semplice curiosità o desiderio di conoscenza, amore di sapere (letteralmente "filosofia").



Phil

Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PMMa chi stabilirebbe la "proprietà" o meno del nostro domandare, ovvero "quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere" e quando no?
come suggerivo nella domanda citata:

Citazione di: Phil il 08 Settembre 2016, 15:57:47 PMLa consapevolezza che la razionalità non è la realtà, non è l'unico criterio che abbiamo per individuare gli usi impropri del nostro domandare[...]?
questo almeno come prima indicazione; il resto direi che è compito dell'epistemologia.


Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PMMi pare che i paradossi di Zenone (che ritengo logicamente errati e confutabili, ma questa é un' altra questione) non siano chiusi in una loro logica narcisistica e autoreferenziale, ma riguardino il mondo reale.  
Secondo me, sono chiusi nel loro narcisismo proprio perché non guardano (letteralmente) il reale che li circonda: l'osservazione empirica dà un sonante schiaffo a Zenone mostrandogli Achille che surclassa subito la tartaruga, falsificando di fatto l'apparente paradosso, e dimostrando che il problema si pone solo nell'autoreferenza del sofisma zenoniano, ma non nella realtà. 
A che giova allora speculare e confabulare su un problema che sembrerebbe essere reale, ma che in realtà è tale solo sulla carta? Ecco il narcisismo filosofico che, a caccia di problemi (come se non ne avesse già abbastanza!), va in "overdose" di speculazione e perde di vista i fatti, oppure li super-interpreta...

Restando al tema dell'osservare la realtà e parlando ancora di animali asserviti a scopi filosofici, direi che il gatto di Schrodinger, pur nella sua paradossalità, è molto meno "sofistico" della tartaruga zenoniana, perchè non pone una questione smentita palesemente da fatti comunemente osservabili... un maestro zen (che scomodo spesso in questi casi) avrebbe dato una sonora bastonata a Zenone, per riportarlo con i piedi per terra (e per non farlo travolgere da Achille in corsa...), ma probabilmente non avrebbe alzato un dito per Schrodinger (forse perché non avrebbe compreso il meccanismo radioattivo escogitato  ;D).

Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PM Le domande importanti per me [...] non sono solo quelle poste dalla pratica immediata del vivere "giorno per giorno", dei mezzi per conseguire scopi acriticamente assunti in determinate circostanze, ma anche quelle "teoriche (più o meno) pure" circa quali scopi porsi nella vita in generale [...] o com' é la propria vita e la realtà in cui ci si trova
Su questo non vorrei essere frainteso: mettere in guardia dai falsi problemi filosofici, non riduce tutta la ricerca filosofica alla soluzione di questioni pratiche, anzi... interrogarsi sui problemi ("decostruirli" si diceva) significa fare una filosofia critica rivolta proprio al domandare filosofico stesso, cercando di eliminare i "virus" del pensiero, le perdite di solidità nel ragionamento ed evitando che la ragione si incanti di fronte al suo specchio per contemplare i suoi sterili virtuosismi...

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